Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 febbraio 2012

CONSIDERAZIONI SUL MODERNO:SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE- 1°

A corto di tempo causa prolungati impegni legati a vicende di tipo urbanistico-sindacale-ordinistico e quindi a corto di idee, queste essendo tutte orientate all'azione e alla scrittura di testi degni più di un politico che non di un architetto, mi arrangio facendo ricorso ad uno scambio epistolare del 2006 con un amico e collega, l'Architetto Mario Maschi, su un argomento allora alle origini e che proprio in questo periodo sta venendo a maturazione: la vendita di un edificio degli anni 70 sede della Camera di Commercio e il relativo dibattito sulla sua trasformazione.



L'Architetto Maschi mandò una lettera-appello per salvare l'edificio, molto circostanziata  e documentata, ma ben presto il discorso si spostò, in uno scambio via mail a più voci, sull'eterno tema del "moderno".
Riporto solo l'ultimo scambio tra me e Maschi, anche perchè con il passare del tempo si trasformò in uno scherzoso e ironico dibattito tra amici che non si trovano d'accordo sull'architettura ma riescono, tuttavia, a prenderla con leggerezza.
Questa la prima mail, di Mario Maschi che introduce appunto l'aspetto ironico:


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26 febbraio 2012

RIFLESSIONE SUL METODO

Questa è una riflessione sul metodo, suscitata da diversi giorni di intenso dibattito e scontro su questioni urbanistiche cittadine, ma che sono estendibili anche al dibattito urbanistico e architettonico. Non scopro niente di nuovo, ovviamente, ma una rinfrescatina alla memoria è utile.

Nella vita pubblica degli individui e dei gruppi di individui riuniti in forme di qualsiasi tipo (associazioni, partiti, sindacati, mondo del lavoro, aziende private, ecc.), e quindi nella politica intesa in senso ampio, esistono due livelli di comportamento che devono guidare l’azione utile a conseguire un determinato fine: quello strategico e quello tattico.

La strategia è l’insieme dei principi generali che rappresentano l’obiettivo da raggiungere, il fine, il cui tempo è variabile in base al soggetto che se lo pone e in base alle condizioni che ne determinano la possibilità o meno di poterlo raggiungere. Alcuni principi, infatti, non hanno tempo, sono o possono essere assoluti e addirittura eterni, è il caso della libertà e della religione, altri sono più  limitati nel tempo, quali ad esempio quelli di un partito politico che deve conseguire il risultato di riuscire a rendere vincente la propria visione di società nell’arco di un certo numero di anni. Determinate dottrine politiche invece durano da e per secoli.


La strategia fissa gli obiettivi nobili, che sono la carta di identità di ciascuno individuo o gruppo. Gli obiettivi possono perciò subire aggiustamenti e modificazioni in base alle mutate condizioni ma, in linea di principio, alcuni punti debbono rimanere fissi e immutabili. Per fare qualche esempio, perfino la religione è soggetta a interpretazioni diverse, e la teologia esiste apposta, l’importante è che la base fondante di ognuna non si stravolga, altrimenti diventa una religione diversa e si va nell’eresia. Per quanto riguarda la politica, esiste la dottrina filosofica e politica cui ispirarsi e che avrà certi punti cardine non “negoziabili” e se si considera il liberalismo, ad esempio, esso non potrà trasformarsi mai nella prevaricazione dello Stato sull’individuo, pena la morte della dottrina stessa.

La tattica, invece, è il metodo che permette di conseguire gli obiettivi, di raggiungere il fine; è l’azione che consente, nel tempo, l’avveramento della strategia finale.
La tattica dunque è e deve essere necessariamente variabile in funzione delle condizioni al contorno in quel determinato momento. La tattica è flessibile. La tattica non deve esprimere verità che chiamiamo assolute per comodità, ma verità relative ad un particolare caso o momento, tenendo sempre a mente però la strategia finale.
Dunque possiamo dire, semplificando, che la strategia è assoluta, la tattica è relativa. La strategia richiede una maggiore elaborazione del pensiero astratto ma la tattica richiede una grande capacità e intelligenza nel saper valutare una serie numerosa di variabili in gioco perché richiede scelte veloci e in sequenza continua. La lotta politica ne è l’esempio più conosciuto da tutti.

Veniamo ora al caso, anzi ai casi.
In questi giorni, dicevo, ad Arezzo è in corso un ampio dibattito sul vigente PRG approvato da pochi mesi e, come ampiamente previsto dai più, inutilizzabile. Senza parlare dei contenuti, che sono del tutto assenti, è proprio la lettura e l’interpretazione ad essere difficile, astrusa e contraddittoria. L’obiettivo è dunque cambiarlo per ottenere un primo scopo: poterlo utilizzare con relativa semplicità.
Poi esiste un altro scopo, quello strategico, cioè avere un PRG che risponda ad una idea di città, attualmente assente. Per fare questo non è sufficiente rifare tutto il PRG, anche se sarebbe già un gran risultato che oggi, per una serie di fattori, è però difficilmente perseguibile, ma è necessario cambiare il modello culturale di riferimento che è la legge urbanistica regionale. Arezzo è una città in emergenza, tutto è paralizzato dalla crisi economica ma, quelle poche iniziative che ci sono, anche piccole da parte dei cittadini per la propria casa, vengono frustrate da norme inesplicabili.

Cosa è opportuno fare dunque in una situazione come questa? Immaginare di trasformare radicalmente la legge regionale, che richiede il concorso non di una sola città, tra l’altro marginale rispetto alle altre della Toscana, oppure prendere atto che la legge esiste e intervenire laddove è possibile, vale a dire sullo strumento di “governo del territorio” che è nelle attribuzioni proprie del Comune?
Mi pare evidente la risposta. E invece, in questi giorni in cui si è fatta insistente la richiesta dal basso di modificare il PRG (o meglio quella parte di PRG che si chiama Regolamento Urbanistico, ecco una complicazione della legge regionale) spuntano coloro che si rifanno alla strategia: la responsabilità è della legge regionale, bisogna cambiare quella. E’ chiaro che parlare in termini strategici significa parlare in termini di lustri se non di decenni, visti i tempi della politica e di quella regionale in particolare. Se si scegliesse questa direzione, tutto rimarrebbe com’è e, quando accadesse il miracolo della nascita della meravigliosa nuova legge urbanistica questa troverebbe una città morta e sepolta.
Quindi coloro che oggi privilegiano la visione strategica, di fatto difendono la conservazione dello status quo perché mancano di visione tattica. Il richiamo al “ci vuole ben altro”, tipico della cultura italiana, è un modo per non cambiare niente passando però da persone colte e intelligenti oppure per politici capaci.
La soluzione semmai, sta nel doppio binario, che non è affatto impedito, vale a dire nella doppia azione di modifica dello strumento che non funziona e in quella parallela, e del tutto coerente con la prima, di agire per la revisione profonda della legge regionale, basata sull’urbanistica e non sulla somma di astratte procedure urbanistiche.

In campo architettonico e urbanistico avviene la medesima cosa. Nello scontro tra i così detti antichisti e i modernisti (questi non sono così detti, sono e basta), spunta sempre quello bravo che fa riferimento alla strategia, cioè all’architettura tout court, senza se e senza ma, all’esistenza di principi che prescindono dagli opposti ismi e da valori fondanti che devono essere applicati. Ebbene, affermando questo si favorisce, nei fatti, la tendenza dominante, cioè il modernismo nelle sue varie manifestazioni di moda, la creatività, l’architettura-spettacolo, la città zonizzata ed esplosa. La tattica invece prevede l’opposizione forte ad un pensiero forte perché consolidato nella prassi, nella mente degli architetti perché dominante ormai per abitudine e, sempre per abitudine condita da opportunismo, trasmesso dalle università.
Stare a disquisire quanto sia fuori della storia Tor Bella Monaca di Lèon Krier significa, willy nilly, apprezzare la squallide Tor bella Monaca attuale. Tor Bella Monaca di Lèon Krier non sarà l'obiettivo strategico da raggiungere, ma senza "questa" Tor Bella Monaca tutto rimarrebbe come oggi.

Architettura ed urbanistica sono arti civiche, cioè sociali, i cui soggetti preminenti non sono gli architetti, se non nella fase di soluzione tecnica del problema alle risposte della società e degli individui, hanno a che fare con la politica, sono politica nel senso che la politica ne è il brodo di coltura perché interessa tutti indistintamente i cittadini, quindi le modalità di azione sono esattamente le stesse di qualsiasi azione politica. Il luogo di scontro non sono le accademie o le riviste di critica, ovviamente necessarie e importanti se non sono solo luoghi di potere, il luogo di scontro e di decisione è la città.
Solo con un corretto rapporto conflittuale si può giungere ad una sintesi, non essendo l’architettura arte o scienza, le quali invece possono essere per una buona parte demandate ai soli esperti.
Perché il conflitto? Perché non esiste armonia nella società democratica, esiste affermazione delle proprie idee con metodi specifici della democrazia. L’armonia esiste solo nelle società non democratiche. In Cina, ad esempio, c’è molta armonia, ma la democrazia è assente. Il metodo occidentale è altro.

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20 febbraio 2012

VITRUVIO, L'URBANISTICA E IL PRINCIPIO DI REALTA'

Nel corso di una manifestazione di partito svoltasi nei giorni scorsi avente come tema il Regolamento Urbanistico di Arezzo, alquanto problematico, un consigliere comunale, il Prof. Ing. Alessandro Ghinelli, oltre ad avere brevemente riassunto la lunga storia dell’approvazione del PRG, un percorso a ostacoli di circa 10 anni, ha concluso con un richiamo alla triade vitruviana: firmitas, utilitas , venustas, cioè solidità, utilità e bellezza.

All’inizio non capivo il motivo per tirare in ballo il buon Vitruvio in un incontro dedicato all’urbanistica, anche se nel De Architectura vi è un riferimento positivo alle mura di Arezzo. Soprattutto non capivo quale relazione potesse esserci tra la sua famosa triade, attributi propri di una costruzione, con l’urbanistica e a maggior ragione con un Piano Regolatore.


Per un attimo ho avuto l’impressione che Ghinelli, che è conosciuto come persona intelligente e colta e stimato oltre i confini del suo partito, volesse fare mostra di diversità rispetto ai soliti discorsi dei politici, quando va bene generici, intercambiabili ed utilizzabili in qualsiasi circostanza. Un modo per distinguersi insomma, lecito senz’altro ma probabilmente fuori tema. Certo, sempre meglio sentire parlare di Vitruvio che di legge urbanistica toscana e dei suoi futuri, improbabili miglioramenti, ma un minimo di coerenza con l’argomento sembrava necessario.

Poi ho capito invece che Vitruvio c’entrava eccome. Il richiamo alla sua triade è un richiamo alto alla realtà delle cose, dato che l’urbanistica come prodotto di leggi è ridotta a puro formalismo giuridico, rispetto di procedure contorte senza alcuna relazione con il territorio, invenzione nominalistica per descrivere il nulla, retorica ambientalista e verde che sembra però fatta apposta per favorire i grossi interventi immobiliari a scapito di quelli ben più utili e modesti quantitativamente dei singoli cittadini. Una accozzaglia di classificazioni del territorio con nomi altisonanti e pretese pseudo-scientifiche, una quantità di verifiche e valutazioni strategiche, ambientali, integrate e chi più ne ha più ne metta. Sigle ed acronimi come se piovesse, ovviamente diversi da regione a regione talchè ognuno di noi è condannato a restare confinato entro un “regionalismo giuridico”, se anche si presentasse l’opportunità di allargare l’orizzonte oltre i propri confini amministrativi. Altro che accordi di Shengen , siamo invece in presenza di dogane invisibili ma ben più impermeabili di quelle con sbarre e guardie di frontiera.

Vitruvio invece riporta il discorso alla sostanza del progetto, alle regole che non sono fini a se stesse ma finalizzate ad un risultato preciso che si vuole ottenere. In Vitruvio vige il principio di causa-effetto. E Ghinelli cita il caso dell’altezza massima e dell’importanza che la gerarchia dei piani ha nella progettazione di un edificio. Come Léon Krier parla di massimo tre, quattro piani, ma senza porre limiti prestabiliti all’altezza d’interpiano di ciascuno, così Ghinelli osserva che imporre un’altezza massima per ciascun piano esclude a priori la possibilità di poter costruire edifici analoghi a Palazzo Strozzi o al Portico di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo, perché sarebbero difformi dalle Norme Tecniche di Attuazione del Piano.

Certo, l’urbanistica è anche altro, ma il richiamo fatto a norme di tipo “prestazionale” e non norme “prescrittive” è un richiamo all’essenza dell’architettura e dell’urbanistica: avere un’idea della città che attraverso il Piano si vuole realizzare, poche norme per ottenere il risultato e il resto demandarlo alla responsabilità e alla cultura dei progettisti e a quella di chi è addetto al controllo. Un ritorno ad un modo più umano ed umanistico di affrontare il tema ed anche di svolgere la nostra professione. Un abbandono della minuziosa e parcellare analisi settoriale a vantaggio della lettura del territorio nella sua unità e organicità seguita dalla sintesi da cui scaturisce il progetto.

Richiamo che probabilmente cadrà nel vuoto ma che ben ha fatto Ghinelli a ricordare, anche per cercare di interrompere il perverso vortice leguleio che ci sta trascinando, non solo ad Arezzo ma in Italia, sempre più in basso e che fa il gioco della politica e della burocrazia, non quello della città e dei cittadini.

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18 febbraio 2012

LA CIVILTA' DELL'IGNORANZA

di Ettore Maria Mazzola

Antonio Salvadori, nel suo capolavoro in tre volumi “Civiltà di Venezia”, ricordava come la formula di approvazione di un progetto architettonico per la città lagunare – fino all’avvento dell’era moderna – fosse “che el sia fato che el staga ben”, ovvero che si realizzi in modo che risulti appropriata al contesto!

Immaginare il rispetto del “decorum” oggi sembra quasi fantascienza. Nell’era del mordi e fuggi e dell’egoismo più sfrenato, sembra non esserci più alcuna speranza di vagheggiare un’amministrazione politica che possa ancora tenere a cuore il bene e il bello comune. Se a questo aggiungiamo lo stato di indigenza in cui versano le casse comunali di tutta Italia, allora non c’è da meravigliarsi se qualche furbacchione abbia trovato il sistema per prendere per la gola un sindaco incapace di mettere al primo posto della sua scala di valori l’estetica e la vivibilità della sua città.

Sto parlando dell’incredibile notizia pubblicata su Repubblica del 13 febbraio 2012 nell’articolo di Salvatore Settis “Megastore con vista su Rialto – il progetto che divide Venezia”.

Esterno ed interno del Fondaco dei Tedeschi nei renderings di Rem Koolhaas
Nell’articolo, si legge: “il Fondaco (dei Tedeschi n.d.r.) è stato acquistato dal gruppo Benetton nel 2008 per 53 milioni, per trasformarlo in un "megastore di forte impatto simbolico". Il progetto prevede non solo l’inserimento di incongrue scale mobili, ma anche la sostituzione del tetto con una terrazza panoramica: l'equivalente, appunto, di una mega-nave piombata nel cuore di Venezia. Lo firma Rem Koolhaas: come ha scritto Giancarlo De Carlo, le operazioni speculative cercano spesso la copertura professionale di grandi architetti (per esempio Norman Foster progettò a Milano il quartiere di Santa Giulia, che doveva sorgere sopra un immenso deposito illegale di scorie nocive)”.
Così, dietro una “convincente” regalia di 6.000.000 di Euro il Comune ha firmato una convenzione che, si legge nell’articolo, consentirà al gruppo Benetton di “realizzare nel Fondaco una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800, e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso "con la massima diligenza e celerità", e in modo da "non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto".

Lo choc e l’indignazione che la notizia mi ha provocato mi avevano inizialmente indirizzato a scrivere questo pezzo intitolandolo "come ti legalizzo la tangente!", poi però ho pensato che fosse più giusto evidenziare come, nonostante i proclami culturali, la società contemporanea sarà molto più semplicemente ricordata come quella più ignorante ed arrogante che la storia dell’umanità potrà mai annoverare.
Non si tratta di attribuire al nihilismo, che caratterizza tutte le manifestazioni d’arte contemporanea, le ragioni del degrado e della pochezza di contenuti che la nostra società sarà in grado di tramandare ai posteri, bensì di riconoscere il fatto che il livello di ignoranza che il sistema consumistico-capitalista ha prodotto non trova precedenti nemmeno nei secoli più bui della nostra travagliata storia.

In quei secoli “bui” almeno, alcuni valori come la spiritualità, il senso civico e il senso artistico non hanno mai cessato di esistere; nonostante le difficoltà economiche del momento infatti, la società medievale ha saputo concepire delle città efficienti e vitali che dovevano celebrare i nascenti Comuni. Così si sono sviluppate città che in primo luogo miravano alla realizzazione di spazi ed edifici pubblici, città dove l’attività edilizia privata era regolata da statuti illuminanti votati alla celebrazione dell’immagine d’insieme in nome del bene e del bello comune. Quelle città erano caratterizzate da luoghi per la socializzazione dimensionati sulla scala umana, luoghi ed edifici che ancora oggi il mondo ci invidia e, si badi, non si sta parlando delle città ideali del Rinascimento, bensì di quelle che tra l’XI e il XIII secolo hanno definito il proprio carattere, un carattere così forte e deciso che ha generato negli abitanti quell’orgoglioso senso di appartenenza che, nonostante le vicissitudini storiche, ha fatto sì che certe realtà ci venissero tramandate quasi integralmente.

Diversamente da quell’infaticabile ricerca di sviluppo, salvaguardia e promozione del bene collettivo che chiamiamo “città”, l’individuo di oggi – appartenente alla “società dello spettacolo” – sembra avere come unico scopo di vita quello di far parlare di sé, nel bene o nel male, purché possa godere dei suoi “5 minuti di notorietà”.

Uno che ha capito molto bene questo è stato Oliviero Toscani e, con lui, i suoi principali mecenati a partire dal 1982: La famiglia Benetton!
Da quando è iniziato questo “matrimonio culturale”, le città italiane sono state tappezzate di foto che, spesso e volentieri, hanno mostrato una carrellata di esempi di pessimo gusto che hanno portato Toscani, la Benetton e tante altre aziende, a pensare che tutto si potesse mostrare. Tutti gli italiani ricordano un paio di anni fa l’orribile campagna antianoressia di Toscani che mostrava l’immagine agghiacciante della modella anoressica Isabel Caro nuda.

Recentemente la United Colors of Benetton si è tirata addosso le peggiori critiche per la campagna pubblicitaria che ritraeva una serie di baci omosessuali tra i principali capi di governo mondiale, incluso il bacio tra il Papa e l’Imam del Cairo: una campagna pubblicitaria per la quale perfino Toscani ha espresso il suo disappunto.

Il Papa e l'Imam del Cairo nel fotomontaggio della campagna "anti-odio" della Benettoni

Alla base delle campagne della Benetton c’è principio secondo il quale per apparire bisogna trasgredire! Ecco quindi che la Benetton risulta più famosa per le immagini delle sue pubblicità che non per uno specifico capo d’abbigliamento che ha fatto storia.

In quest’ottica però accade che, così come un ragazzino viziato rischia di perdere la capacità di accontentarsi di ciò che possiede, spingendosi a ricercare esperienze sempre più stimolanti che finiranno per mettere a rischio la sua vita, altrettanto la Benetton arriva a necessitare di un “salto di qualità” rispetto alla trovata pubblicitaria immortalata su di un cartellone stradale.

Probabilmente la ragione di questo atteggiamento va ricercata in quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:

«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

La Benetton necessita quindi di affermare la propria immagine trasgressiva in maniera più impattante e, la storia ci insegna, l’uso retorico dell’architettura può tornare utile.
Ecco quindi che, al pari del premio dato a Richard Meier da Rutelli prima di conferirgli l’incarico per il Museo dell’Ara Pacis, potremmo trovare una spiegazione logica all’assurdo Leone d’Oro alla carriera conferito a Rem Koolhaas dalla giuria dell’ultima Biennale veneziana, premio che, si leggeva nella motivazione, veniva dato all’architetto olandese perché avrebbe
“allargato le possibilità dell’architettura. Si è focalizzato sull’interazione tra le persone nello spazio. Egli crea edifici che fanno socializzare la gente, e in questo modo forma degli obiettivi ambiziosi per l’architettura. La sua influenza sul mondo è andata oltre l’architettura. Gente appartenente ad ambiti assolutamente diversi sente la grande libertà del suo lavoro”

… peccato che, nella realtà dei fatti, Koolhaas abbia svolto la sua opera intorno ad una frase che lo rese famoso negli anni ‘80: “Fuck the context”, ovvero “fanculo il contesto!” … altro che “che el sia fato che el staga ben!

A dimostrazione del fatto che la Benetton ricerchi l’archistar di turno per fare breccia nella società dello spettacolo, c’è il fatto che quest’estate si è divulgata la notizia che il Gruppo Benetton ha conferito l’incarico a Massimiliano Fuksas per realizzare, nel cuore di Roma, un altro megastore. Nello storico edificio dell’Unione Militare, posto all’angolo tra via Tomacelli e via del Corso, di fronte a via dei Condotti, è oggi in corso di realizzazione un folle sventramento necessario ad installare una informe torre di vetro, il cui scopo è evidentemente quello di affermare, con tutta la violenza del caso, la presenza del gruppo Benetton nel punto più centrale della capitale.
L'Edificio dell'Unione Militare in via Tomacelli a Roma, prima e dopo la "cura" Fuksas
Possiamo quindi avviare un sondaggio per scoprire quale sarà il prossimo stupro urbanistico che questo gruppo vorrà infliggere al nostro territorio, approfittando della fame di soldi che attanaglia i vari sindaci.
Una riflessione: recentemente lo stato italiano ha sostenuto che gli scandalosi stipendi accordati ai “manager pubblici” siano dovuti all’esigenza di prevenire una loro possibile corruzione … se questo è vero, allora ritengo sia giunto il momento di ricominciare a rifocillare le esangui casse dei comuni prima che i sindaci, presi per la gola, finiscano per devastare i nostri centri storici che, a conti fatti, dovrebbero risultare la nostra principale fonte di reddito.

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14 febbraio 2012

IL "FARE ARCHITETTURA" DI SCHIATTARELLA

Non era sufficiente il retorico, anacronistico e inutile manifesto dell’Ordine di Roma dal contorto e supponente titolo “Il diritto all’Architettura è un diritto di tutti”, ci voleva anche l’intervista dell’architetto Schiattarella, Presidente dell’Ordine di Roma, rilasciata a RaiNews e che ho visto solo oggi, a completare il quadro dell’ordine-pensiero.
Cosa ha detto Schiattarella? Ha stabilito la priorità assoluta per le nostre città. E di cosa hanno bisogno queste nostre città? Ecco quanto afferma Schiattarella:

Il delta che c’è tra la nostra capacità di fare architettura e quella degli altri paesi europei sta aumentando in modo vertiginoso. Le nostre città non riescono più a esprimere il linguaggio contemporaneo mentre altre città sono diventate addirittura degli archetipi della modernità quindi sono molto più avanti rispetto al nostro”.

Dunque sarebbe questa l’emergenza che i promotori e i firmatari del manifesto rilevano per le città italiane! Non molte le adesioni in verità, poco più di 5000, nonostante una pagina intera del Corriere della Sera comprata dall’ordine e la grande pubblicità data dagli ordini provinciali in un momento “caldo” per la professione nell’attesa delle decisioni sulle liberalizzazioni di tariffe.


Il problema delle città italiane sarebbe la mancanza di “espressione del linguaggio contemporaneo”. Con un’idea di questo genere Schiattarella potrebbe candidarsi a sindaco, prendendo di sicuro un migliaio di voti dai suoi iscritti romani, perchè ha colto la vera emergenza urbana. I cittadini non pensano ad altro che al linguaggio contemporaneo dell’architettura e a Roma specie sono davvero preoccupati per il “delta tra la nostra capacità di fare architettura” e quella degli altri paesi europei che, ovvio corollario, sono più avanti. Ricordo, a titolo di esempio, le opere olimpiche di Atene e le metto a confronto con la situazione attuale della Grecia, non certo per speculare su quel popolo e quella terra che hanno partorito la civiltà occidentale ma per smentire palesemente l’esistenza di una relazione possibile tra “l’essere più avanti” e la capacità di “fare architettura” come la intende Schiattarella. Ricordo anche la fascinazione esercitata sugli architetti italiani dalla Spagna che “fa architettura”, secondo la provinciale vulgata architettonica a fronte dell’attuale situazione in quel paese.

Non il degrado delle nostre periferie, eccetto quella di Roma ovviamente, dove infatti il linguaggio della contemporaneità si annuncia finalmente con i grattacieli a riqualificarle e rigenerale, non la scomparsa della forma urbana perpetrata da cinquant’anni a questa parte, non lo sforzo di immaginare forme e modalità di ricomposizione dello spazio urbano da attuare mediante un ricompattamento, o densificazione, basato sulla ristrutturazione del tessuto stradale, sul ritorno alla strada, piuttosto che sull’espansione incontrollata e informe nelle aree extra urbane, non l’abbandono della zonizzazione selvaggia. No, non sono queste le priorità da segnalare da parte di un ordine importante a quegli iscritti che eventualmente non se ne fossero accorti, non sono questi obiettivi tali da giustificare un vero manifesto capace di dare un segno di svolta culturale, ma l’emergenza per gli architetti italiani è, secondo l’ordine di Roma, apparire nelle riviste e nei video TV con immagini patinate di linguaggio contemporaneo, è appiattirsi nella pigra costruzione mentale dell’effetto Bilbao che Schiattarella e molti altri si sono costruiti, grazie alla campagna mediatica non filtrata da un minimo di senso critico, quella cioè che si identifica con il museo di Gerhy e che non corrisponde affatto alla realtà di una città rinata grazie ad una sapiente operazione globale di tipo economico e di ristrutturazione urbanistica supportata da notevoli investimenti resi possibili dal vero federalismo fiscale.

Possibile essere ancora così abbagliati dal conformismo architettese, dall’essere così attratti dal proprio ombelico da non vedere che Roma è un po’ diversa da Bilbao ed esprime valori culturali universali di caratura non confrontabile con quelli della città Basca? Possibile che gli architetti, una parte degli architetti spero, abbiano perso del tutto la capacità di leggere e interpretare la realtà, di sapersi guardare intorno quando il primo compito dell'architetto è proprio questo, necessario punto di partenza per qualsivoglia progetto?
Dimenticare la città che si ha davanti - e mi riferisco a Roma perché Schiattarella è di Roma – sia quella antica, unica per cultura, storia, emozione e ammirazione che riesce a comunicare al mondo intero, sia quella moderna e contemporanea che, salvo rarissime eccezioni, è il simbolo stesso del sacco edilizio che continua ininterrotto dal dopoguerra ad oggi, supportato da una incultura urbana e architettonica perpetrata con l'ausilio di coloro ai quali è rivolto proprio quel manifesto e lanciare un appello per passare da una grassa abbuffata di edifici ad una elegante, cool e geometrica portata nouvelle cuisine, dove la pietanza si colloca pretestuosamente dentro un enorme piatto quadrato, bianco o nero, gemella alimentare degli edifici-oggetto posti al centro del lotto, ciascuno disposto lungo una carreggiata stradale (non una strada) così come i piatti sono messi in fila sul tavolo per una cena!
Continuare nel sommare oggetti ad altri oggetti, quasi sempre inguardabili, come negli scaffali di un negozio di casalinghi e regali: questa è la città contemporanea sulla quale il manifesto rileva la necessità di “esprimere il linguaggio contemporaneo”! L’unico linguaggio contemporaneo italiano è proprio quello del vuoto urbano che c’è adesso e che invece va cambiato profondamente.

Dimenticare una città, patrimonio autentico dell’umanità, con o senza l’UNESCO, insieme alle altre mille città italiane, pagine di storia dell’uomo scritte con la pietra ed esempio vitale di spazio urbano, e riuscire a dimenticare allo stesso tempo le mille periferie desertificate e prive di relazioni sociali e interpersonali, dimenticare di essere architetti al solo scopo di rimasticare ancora sui “concorsi”, massimo obiettivo professionale innalzato quasi ad aspirazione di ordine etico, mantra ripetuto all’infinito dagli ordini per raccogliere facili consensi e visibilità specie in un momento difficile per gli ordini stessi, oltre che per la professione!
Vorrei consigliare a chi la pensa come Schiattarella di non guardare solo le riviste dal dentista o quelle all'Ordine o le news letter che arrivano dai vari siti internet dedicati allo star-system dell'architettura e che quando si guarda all'Europa si dovrebbe tenere conto che esistono altre realtà che non il "fare architettura" ma anche il "fare città", trasformando periferie infami in luoghi urbani, come nel caso dell'immagine in testa al post.
Ma forse ho sbagliato a scrivere questo post, perché in fondo di quel manifesto non è rimasto niente, solo la fattura della Divisione pubblicità del Corriere della Sera.

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3 febbraio 2012

UN'ESEMPLARE LEZIONE DI ANTONIO PAOLUCCI

Rubo letteralmente dal sito Archiwatch un video in cui Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, storico dell'arte nochè grande e seducente comunicatore e divulgatore, oltre a raccontarci come il consumo di cultura e di arte segua direttamente la crescita o la decrescita economica del paese - con questo mettendo un punto fermo sul luogo comune che i "servizi" o gli "eventi" producano reddito quasi fossero indipendenti da tutto il resto - fa una impietosa e veritiera analisi delle condizioni in cui versano le città e il paesaggio italiano, a far data dalla seconda guerra mondiale.

Paolucci ha ben chiaro il fatto che è stato dissipato un vero patrimonio di "bellezza" che costituiva un patrimonio economico alla voce "turismo", oltre ad un grande patrimonio alla voce "cultura di un popolo", a causa del combinato disposto della enorme quantità del costruito degli ultimi 60 anni con la pessima qualità dello stesso.
Paolucci non attribuisce le responsabilità a questo o quel soggetto ma, per restare in casa nostra, gli architetti devono fare i conti con se stessi e riflettere sulle loro responsabilità, che sono enormi, non cercando di nascondersi dietro quelle della politica, della speculazione, delle varie mafie, che sono gigantesche, ma che sono state le scuderie che hanno fornito l'auto, il motore che ha corso, e di cui gli architetti sono stati, in buona parte, i piloti, coloro che hanno determinato la condotta di gara, che hanno fatto la scelta delle gomme.

Non abbiamo determinato noi architetti le quantità, di certo, ma buona parte della scadentissima qualità certamente sì.
Noi abbiamo fatto i piani urbanistici, poi peggiorati ulteriormente dagli interessi e dai decisori, noi abbiamo costruito edifici pessimi, poi ulteriormente peggiorati per lucrare. Ma noi, da soli, abbiamo determinato il fallimento dell'edilizia residenziale pubblica, cullati e accarezzati da una classe politica in cerca di consenso e potere.
Noi architetti ci esaltiamo per il MAXXI e i grattacieli a Roma, ed elucubriamo sulle magnifiche sorti e progressive della contemporaneità architettonica, semmai lamentandoci che è troppo poco per entrare in gara con i corrispondenti MAXXI e grattacieli del mondo.
Noi ci siamo inventati di sana pianta l'esistenza dell'effetto Bilbao, come se Bilbao vivesse del museo, come se Bilbao fosse Firenze.
Sempre noi ci riempiamo la bocca, girandoci il dito nell'ombellico, sulla necessità di lasciare i segni architettonici della nostra contemporaneità in paesaggi e in città da "camera con vista", come dice Paolucci, consegnateci belle dai nostri nonni, senza nemmeno sforzarci di capire che la nostra contemporaneità è proprio quella delle nostre brutte periferie, dei nostri brutti casermoni, delle nostre brutte architetture di cui noi siamo in buona parte gli autori.
E quello che è peggio, senza ancora aver preso atto che è necessario invertire la rotta, anche se ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

Adesso godetevi questa intervista, non prima però di farvi notare che effettuando su Google la ricerca "Paolucci", il primo nome che appare è quello di un calciatore, il secondo è il nostro. Questo fa parte della nostra contemporaneità. Come in architettura.

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PREMIO INTERNAZIONALE A E.M. MAZZOLA PER IL SUO "BORGO CORVIALE"

Il prof. arch. Ettore Maria Mazzola ci ha comunicato oggi di aver ricevuto dall'IMCL International Makink Cities Livabale Committee il premio International Urban Design Award, da una giuria composta tra l'altro da molti sociologi e di cui fa parte anche Edoardo Salzano.

Questo il testo della lettera pervenuta all'amico Ettore:

PRESS RELEASE
February 1, 2012

Contact: Suzanne H. Crowhurst Lennard, Ph.D.(Arch.)
Director, International Making Cities Livable Council
Suzanne.Lennard@LivableCities.org


Arch. Ettore Maria Mazzola

to receive the IMCL International Urban Design Award


Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola, The University of Notre Dame, School of Architecture, Rome Studies Program, will be the recipient of the 2012 IMCL International Urban Design Award, to be presented at the 49th IMCL Conference in Portland, OR, May 20-24.
Professor Mazzola’s work has consistently led the way in creating urban environments that celebrate community, and lift the spirit. His designs are hospitable for all, and show special concern for more vulnerable population groups, children, elders and the poor.
His project to replace a monolithic, low income housing block near Rome (Corviale) with a genuinely livable urban fabric, without disrupting the community, provides an exemplary model for urban renewal throughout the world. For more information, please see Regenerate suburban districts – proposal for the “ground-scraper” Corviale in Rome.
Professor Mazzola’s books include: The Sustainable City is Possible (2009); and Architecture and Town Planning, Operating Instructions, introduction by Léon Krier (2006). Please visit Professor Mazzola’s Profile.
The theme of the 49th IMCL Conference is Planning Healthy Communities for All, a theme that Professor Mazzola’s work perfectly exemplifies.


*****
Al progetto del Prof. Arch. E.M. MAzzola è dedicato un numero speciale de Il Covile, Speciale Corviale 1°

A Ettore vanno le mie congratulazioni per il suo successo internazionale. Una breve considerazione sul fatto che mentre a Roma si parla di costruire grattacieli e di inserire il Corviale nel progetto per le Olimpiadi del 2020, forse immaginando che al mondo interessi l'edificio più lungo e sgangherato del mondo, forse ignorando che all'estero in genere quegli edifici li demoliscono senza drammi ideologici, negli USA, dove tutto ciò che accadrà da noi accade prima, si premiano progetti di rigenerazione urbana a scala umana.
Servirà da esempio? C'è materia per dubitarne.

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31 gennaio 2012

INTERVISTE SUL PIANO DI AREZZO

Questo post è dedicato, purtroppo, alla mia città, Arezzo. E' un invito e un suggerimento alla città e agli amministratori a prendere serenamente atto del fatto che abbiamo approvato recentemente un Regolamento Urbanistico da tutti ormai ritenuto scadente culturalmente, privo di qualsiasi indicazione della forma urbana e confuso nella sua formulazione. Dico abbiamo approvato perchè in fondo tutta la città è responsabile di un Piano Regolatore, pur con livelli di responsabilità diversi.
E' un invito almeno ad ascoltare le ragioni dei professionisti. Non cerchiamo "tavoli di concertazione", non chiediamo incrementi volumetrici, non suggeriamo "nuove espansioni", non desideriamo favori. Vogliamo solo un piano serio, comprensibile, che non ci renda dipendenti da interpretazioni bizantine.
Ma è necessario che tutto il Consiglio Comunale si renda veramente conto che la città è completamente ferma, seduta, ripiegata su se stessa, impossibilitata a fare qualunque piccolo intervento, anche il più modesto, dal gazebo al piccolo ampliamento, cioè le uniche cose che pur nella situazione di crisi generale ancora i cittadini vorrebbero fare.
Per non dire poi delle aziende che volessero investire nel miglioramento e ammodernamento (non dico nel nuovo) dei propri impianti.
Una variante ad una parte del Regolamento Urbanistico, quella sul patrimonio edilizio esistente, è assolutamente prioritaria anche per i professionisti, incapaci di assumersi la minima responsabilità con norme incomprensibili senza prima essere costretti a chiedere lumi agli uffici.
Ne fanno fede le già cospicue "interpretazioni" ufficiali e quelle ufficiose.
Il cuore del post non è questa introduzione ma un video che il Sindacato Ingegneri e Architetti Liberi Professionisti, INARSIND Arezzo cui sono iscritto, ha realizzato con quattro interviste, mediamente di tre minuti ciascuna, ad altrettanti architetti.
Ciascuno ha risposto alle stesse due domande, ciascuno ha formulato la sua proposta su come procedere, qualcuno indicando un preciso percorso tecnico. Se quattro professionisti ci mettono la propria faccia qualcosa vorrà pur dire
L'augurio è che serva a sensibilizzare l'amministrazione, che per adesso non sembra oggettivamente molto interessata, forse illudendosi di poter migliorare il piano "in corsa". E' una illusione, e ne è prova che nemmeno 2500 osservazioni sono riuscite nello scopo, nè avrebbero potuto perchè tutto il piano è privo di struttura logica (mettendo del tutto in secondo piano gli inesistenti contenuti strettamente urbanistici).
Ma dopo una gravidanza di oltre 10 anni aver partorito uno strumento di questo genere non è assolutamente tollerabile, nè si può prendere a pretesto la indiscutibile crisi del settore per considerare non dannose le gravi deficienze del Piano.

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22 gennaio 2012

Questa notizia proprio non posso non darla. E' solo un vezzo, naturalmente, però è anche una buona notizia.


dal Corriere della sera.

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21 gennaio 2012

CONTROSTORIA DELL'ARCHITETTURA

"E subito annunciò che, dopo Littoria, ne sarebbero state costruite altre quattro – Sabaudia, Pontinia, Aprilia, Pomezia – e ricostruita Ardea, che era abbandonata da due secoli. La notizia fece fracasso dappertutto. Perfino Le Corbusier scrisse al Duce, e si fece raccomandare dal governo francese, perché gliene facessero progettare almeno una, pure gratis, pure pagando di tasca sua anche i rotoli di carta lucida e le matite. Ha dovuto aspettare Chandigarth, trent’anni dopo.
S’è tuffata a volo d’angelo tutta la congrega degli architetti ed ingegneri d’Italia: “Non passa lo straniero”.
Tutti quelli che parlavano bene hanno cominciato a parlare più forte. Chi aveva avuto a che fare col futurismo, chi era stato marcia su Roma, chi si sentiva Antonio Sant’Elia o Michelangelo reincarnati. E tutti a sputare su Frezzotti. Non gli è riuscito a togliergli Littoria e poi Pontinia – perché oramai la cosa era andata troppo avanti – ma nelle altre città nuove non gli hanno fatto progettare nemmeno una fontanella.
Omissis
Sui manuali di architettura e sui testi ci stanno tutti – Piccinato, Mazzoni, Montuori, Piacentini – chi citato con un paragrafo, chi con un capitoletto a parte. Eccetto lui. Se lo sono scordato tutti. “Era un gregario”, dice Portoghesi".

Questi brani, tratti dal romanzo Palude, Dalai Editrice, di Antonio Pennacchi, sono una efficacissima rappresentazione dell’eterno mondo dell’architettura e degli architetti, con tutte le figure possibili: il “grande” architetto, disposto a tutto pur di soddisfare la propria ambizione e il proprio narcisismo, i protezionisti autarchici, convinti di essere grandi quanto il grande, il gregario dell’architettura, cui è toccata in sorte la fortuna di realizzare ben due città e che sa tirare fuori gli attributi al momento giusto e infine il mondo della critica, sempre molto equanime e soprattutto non ideologizzato, proprio come oggi insomma.

Ma, in tempi di dibattito sulla professione, vi si ritrovano echi delle odierne, modeste battaglie sull’assegnazione degli incarichi, con l’orologiaio svizzero che fa "concorrenza sleale" pur di raggiungere il fine e con gli indigeni che cercano di non essere scavalcati. La “congrega” degli architetti” è senza tempo, con la non piccola differenza che i Piccinato, i Mazzoni, i Montuori e i Piacentini non nascondevano le loro legittime ambizioni dietro la richiesta di leggi ad hoc, con ciò strumentalizzando istituzione e colleghi per fini propri, si esponevano personalmente e, pur vantando meriti di genere politico oltre che professionale, rischiavano in proprio, non con cortigiane furbizie burocratico-istituzionali ammantate di cultura. Ci mettevano la loro faccia, non quella di una sigla.
Bravissimo Pennacchi nel saper cogliere l’anima dell’architettura e quella degli architetti. Questo sì che è un metodo da vera Controstoria dell’architettura fatta di carne, di lotte, di tradimenti, di errori, di tiri mancini, di capacità, di vittorie e di sconfitte, di umanità.

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14 gennaio 2012

SCELTE URBANISTICHE ROMANE E CENTRI COMMERCIALI

Un nuovo post di Ettore Maria Mazzola dedicato alle scelte urbanistiche di Roma, con principi validi però per ogni città.

Sulle recenti scelte urbanistiche per Roma e sul pericolo derivante dai centri commerciali
di
Ettore Maria Mazzola


Sin dal giorno dopo la sua elezione, l’attuale sindaco di Roma si è distinto – e per questo è stato giustamente criticato su tutti i fronti – per le sue scelte contraddittorie, in totale disaccordo con le promesse della campagna elettorale. L’impressione generale che oggi si ha di Alemanno è quella di un sindaco perfettamente allineato con le scelte dei suoi due predecessori, ma con un’aggravante: mentre Rutelli e Veltroni, accecati da una visione distorta della modernità che si chiama “modernismo”, sono sempre rimasti coerenti nella loro idea di violentare la città, mettendola in mano agli immobiliaristi e alle archistar, Alemanno è invece andato contraddicendosi giorno per giorno, perfino all’interno della stessa giornata, come in occasione della conferenza sul futuro di Roma che si tenne nel 2009 presso l’Auditorium di Renzo Piano.


Inoltre, mentre Rutelli e Veltroni si erano ben organizzati a livello “culturale” per poter mettere in atto gli scempi peggiori che Roma abbia potuto registrare dal fascismo ad oggi, Alemanno, circondatosi di personaggi di dubbia cultura, s’è fatto cogliere con le mani nella marmellata diverse volte, dal parcheggio di Largo Perosi, alla sistemazione di Piazza San Silvestro, dal sottopasso dell’Ara Pacis, al taglio dei platani di Tor di Quinto, per non parlare delle “geniali trovate ambientaliste” sui grattacieli e sulla Formula 1, fino alla recente storia dell’albero di Natale in Piazza Venezia … ma la lista potrebbe estendersi.
Nel frattempo, la politica della giunta Alemanno ha portato la città ad un degrado mai registrato prima: le strade versano nel più totale stato d’incuria, Roma è più sudicia che mai, gli omicidi hanno subito un’impennata, gli autobus, specie nelle giornate festive, sono sempre più scarsi, e i cittadini si sentono abbandonati a se stessi, nonostante le presunte promesse di sicurezza!

Se il sindaco avesse davvero voluto distinguersi dai predecessori, e se davvero avesse avuto a cuore la qualità della vita e la sicurezza dei cittadini, avrebbe potuto evitare la realizzazione di 16 nuovi centri commerciali che, sommati ai 22 già esistenti, faranno quota 38!

Il proliferare dei centri commerciali è un danno gravissimo alla qualità della vita perché, annientando il commercio lungo le strade, toglie sicurezza alle stesse. Queste strutture inoltre, obbligando all’uso dell’automobile, acutizzano quelle emissioni nocive per le quali, paradossalmente, il sindaco finge di preoccuparsi organizzando le giornate a targhe alterne e le domeniche a piedi, che servono solo a portare portano solo disagio tra i cittadini e non migliorano un bel nulla … visto che le auto più inquinanti sono proprio quelle di ultima generazione, e visto che i mezzi pubblici risultano del tutto insufficienti!

Ma come è possibile – nel bel mezzo della più grave crisi finanziaria voluta dal sistema di strozzinaggio manovrato dagli oligarchi delle grandi banche internazionali – che il sindaco e i suoi consiglieri non si accorgano che realizzare queste strutture risulti utile solo a fare aumentare il debito di tutti gli stupidi pesci che abboccheranno all’esca? Tutti i centri commerciali, romani e non, dimostrano l’insufficienza delle reti di trasporto atte a sostenere i volumi di traffico richiamati certe strutture … né, di certo, le infrastrutture (strade, parcheggi, illuminazione, ecc.) vengono realizzate a spese di chi promuova e apra i centri commerciali!

Delle problematiche economiche ed urbanistiche connesse all’apertura dei centri commerciali ho comunque già detto in abbondanza negli ultimi articoli pubblicati su De Architectura e AffariItaliani.it, pertanto in questa sede, nella speranza che il sindaco e il suo entourage leggano la notizia, mi limiterò a ricordare le ragioni per le quali possiamo affermare che un centro commerciale produca un danno serio alla sicurezza delle strade, nonché le ragioni per le quali la vigilanza armata, tanto cara ad Alemanno, non serva a nulla, se non ad aumentare le spese dei contribuenti.

In base a queste ragioni, proporrei al signor sindaco di pensare a reindirizzare quegli investitori che gli mettono pressione per la realizzazione di centri commerciali, verso un programma teso alla realizzazione di un “centro commerciale naturale diffuso”, ovvero lungo le strade dei quartieri meno centrali e periferici. Questo programma potrebbe operarsi in due modi:
1) il primo, di più immediata realizzazione, potrebbe operarsi trasformando tutti i vari “piani pilotis” delle palazzine e palazzoni periferici in negozi e botteghe, eliminando al contempo quegli “spazi di nessuno”, orribilmente recintati, posti tra gli edifici e i marciapiedi, questo potrebbe farsi mediante l’edificazione di strutture ad un piano – possibilmente porticate per agevolare il passeggio e lo shopping in caso di pioggia – che leghino tra di loro gli edifici “puntiformi” ricreando una continuità nelle cortine edilizie;
2) realizzando la stessa cosa in maniera più radicale, ovvero mettendo in pratica quei progetti di “ricompattamento urbano” che ho descritto nei miei libri (1), e che messo in pratica nei progetti sviluppati per il Corviale di Roma e lo ZEN di Palermo.

Come ho detto dunque, volendo spiegare ad Alemanno & co. le ragioni che ci inducono ad affermare il pericolo alla sicurezza causato dalla realizzazione di un centro commerciale, e volendo prevenire quelle stupide accuse di “passatismo” che la maggioranza di architetti ed ingegneri ideologicamente schierati vomiteranno, faccio appello ad un illuminante testo del 1961, in Vita e morte delle grandi città (2) di Jane Jacobs che, nel capitolo “Le funzioni dei marciapiedi”, articolato in “la sicurezza” e “i contatti umani”, diceva:

«Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata […] La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura».

Ed ecco il punto:
«Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve […] essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati ciechi. […] I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata.

[…] Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi, i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi
».

È incredibile quanto matura e attuale sia questa lettura critica della città modernista, nonostante si tratti di un documento pubblicato nel 1961! … Ma non è incredibile il fatto che a scriverlo non sia stato né un architetto, né un sociologo, bensì una giornalista illuminata. L’attualità di queste parole dovrebbe essere un monito per chi continua a pianificare la città in zone monofunzionali dove la vita non è di casa … Ora le è chiaro signor Sindaco?

Link:
Jane Jacobs
Strade 1°: Palladio e Jane Jacobs
Strade 2°: Jane Jacobs
Vita e morte della grandi città

Note:
1) Contro Storia dell’Architettura Moderna, Roma 1900-1940 - A Counter History of Modern Architecture, Rome 1900-1940, (Alinea Edizioni, Florence 2004); Architettura e Urbanistica, Istruzioni per l’uso - Architecture and Town Planning, Operating Instructions, prefazione di Léon Krier (Gangemi Edizioni, Rome 2006); Verso un’Architettura Sostenibile – Toward Sustainable Architecture prefazione di Paolo Portoghesi, (Gangemi Edizioni, Rome 2007); La Città Sostenibile è Possibile – The Sustainable City is Possible, prefazione di Paolo Marconi (Gangemi Edizioni, Rome 2010)
2) Tradotto e pubblicato in Italia nel 1969 a cura di Einaudi.

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7 gennaio 2012

IL CANE CHE SI MORDE LA CODA

Un post di E.M.Mazzola sulla relazione tra forma della città e caro benzina, cioè tra forma della città e sistemi di trasporto.
Pubblico un'immagine trovata tra i vari studi del piano della mia città, Arezzo, che rappresenta il territorio comunale, uno dei più grandi d'Italia, con l'occupazione di suolo dei "centri urbani". Il perchè di questa immagine la si capisce leggendo il post


Caro benzina: cambiare il sistema? O continuare a fare come il cane che si morde la coda?
di
Ettore Maria Mazzola

Un articolo, comparso su Il Corriere della Sera on-line del 5 gennaio 2012, ci informava di un’interessante iniziativa organizzata dal Codacons: a seguito del folle caro benzina, che ormai ha raggiunto gli € 1,80 al litro (facendo segnare dall’inizio del 2011 un aumento pari a circa il 16% della Verde e di circa il 25% del Gasolio! n.d.r.) le associazioni dei consumatori invitano a non fare il pieno nelle giornate del 5 e 6 gennaio.
Per ovvie ragioni, purtroppo, difficilmente chi vive nelle grandi città avrà potuto aderire a questa encomiabile iniziativa, che si spera abbia invece riscosso una grande adesione nelle città più piccole, e nei paesini. Ormai risulta sempre più difficile poter parlare di città, visto che gli esseri umani, a causa dell'urbanistica scriteriata del 20° secolo, vivono sparsi su un territorio così vasto che non può chiamarsi né città, né campagna. Tutto, sin dai progetti di Le Corbusier (sponsorizzati dal produttore di automobili Voisin) è stato fatto per rispondere agli interessi dei costruttori di automobili e dei produttori di petrolio.

Nella sua lucida follia, immortalata nel Plan Voisin e nella Ville Radieuse – follia sposata in pieno dall’urbanistica e dall’architettura modernista – Le Corbusier diceva:

«le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti».

Ma questo sistema, folle e visionario, non aveva fatto i conti con il possibile esaurimento dei combustibili fossili, né col fatto che il sistema consumistico a suo supporto avrebbe finito col portare gli esseri umani a dipendere, in tutto e per tutto, dal sistema di indebitamento pubblico e dalla conseguente vessazione delle banche e delle lobbies.
Questa breve premessa fa sì che si debba pensare al più presto ad un cambiamento del nostro stile di vita totalmente sballato.
Detto ciò, considerato che per gli stati globalizzati e consumisti diviene impossibile riuscire a divincolarsi, almeno nel breve termine, da questo abominevole sistema, l’unica difesa possibile diviene quella di evitare di alimentarlo in maniera dissennata.

Considerando quindi che, nelle attuali condizioni, i nostri politici non sono in grado di venire incontro ai contribuenti, tagliando loro le tasse,una soluzione possibile potrebbe essere quella aiutarli a limare le spese giornaliere di trasporto e di gestione della casa, il che si traduce in una riduzione degli spostamenti e del consumo energetico, operata attraverso un’urbanistica a dimensione umana e un’architettura più rispettosa dell’ambiente.

Diversamente dall’assurdo modello LeCorbuseriano della presunta “Città Funzionale” (Città dispersa, organizzata in maniera monofunzionale e zonizzata), che non funziona affatto, specie in assenza di petrolio, la Città tradizionale, multifunzionale e compatta , funziona molto meglio, risulta più sicura, e costa ai contribuenti molto meno.
Una semplicissima dimostrazione di questa affermazione emerge dal fatto che la città tradizionale, essendo organizzata secondo in principio di “casa e bottega”, consente alla gente di poter fare a meno dell’automobile per fare i propri acquisti; ma una città più compatta si traduce anche in una spesa minore per la costruzione e manutenzione delle strade, marciapiedi, illuminazione, acquedotti, linee elettriche, fogne, linee telefoniche, gas, potatura alberi, ecc. Inoltre, la presenza dei negozi lungo le strade, fa sì che la città tradizionale risulti costantemente “vigilata” spontaneamente dai pedoni e dai negozianti, portando maggiore sicurezza a costo zero. Infine la città tradizionale, utilizzando per le sue costruzioni tecniche e materiali naturali – prevalentemente a chilometri zero – riduce i costi di trasporto di questi ultimi e, soprattutto, quelli di riscaldamento e raffrescamento degli ambienti, fino al 50% di quelli di riscaldamento e fino al 100% di quelli di raffrescamento.

Allora, un modo per poter venire incontro al contribuente da parte della classe politica, potrebbe essere quello di promuovere un ricompattamento del tessuto urbano, piuttosto che promuovere lo sviluppo della città dispersa e il conseguente consumo di territorio.
Ecco perché risulta assurdo e contraddittorio il comportamento di quei sindaci che, mentre da una parte consentono l’allargamento a macchia d’olio della città e la costruzione di centri commerciali, e dall’altra organizzano le “giornate ecologiche” a piedi, causando problemi enormi a chi vive in città impossibili dall’essere vissute a targhe alterne e, peggio ancora, a piedi.

La cosa potrebbe sembrare un’utopia ma, pensandoci bene, potrebbe invece risultare un grande affare per l’economia nazionale e locale.
Se, come diceva Baudrillard, “la modernità è trasformare la crisi in valore”, la crisi attuale ci consente di poter affermare che oggi, più che mai, abbiamo la possibilità di essere moderni trasformando il problema della città dispersa in un enorme valore per tutti.
Giovanni Giolitti, nel 1909, lamentandosi del fallimento del Comune di Roma a causa dei piani urbanistici post unitari disse:
«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione»(1).
Questa riflessione lo aveva già condotto nel 1903, nel suo 3° mandato da Presidente del Consiglio, ad emanare l’illuminata Legge Luzzatti che istituì gli ICP e, dal 1907 in poi, a produrre una serie di norme e strumenti di gestione dell’edilizia pubblica che portarono l’edilizia ad essere la principale fonte di reddito pubblico … finché il Fascismo non impedì all’ICP, all’Unione Edilizia Nazionale e al Comitato Centrale Edilizio di operare in concorrenza con l’imprenditoria privata.

L’aver abdicato a favore della privatizzazione, da quegli anni ad oggi, ha condotto il nostro Paese ad una situazione è drammatica, soprattutto a causa al sistema di indebitamento pubblico. Dunque, in questa drammatica situazione, l’unico modo per rialzare la china è quello di ricominciare a fare ciò che sapevamo fare prima di quella resa.

Del resto, come ha osservato Italo Insolera parlando delle problematiche di inizio Novecento: «in una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti»(2).

Considerando quindi che la città dispersa, ereditata dalla scriteriata urbanistica novecentesca, risulta prevalentemente costituita da vuoti di proprietà demaniale, potremmo ipotizzare una campagna di ricompattamento delle città, dove chi muove i fili è la Pubblica Amministrazione, e non gli speculatori fondiari.

Se l’Amministrazione di dotasse di piani plani-volumetrici che “ridisegnino la città” al fine di ricompattarla, quei terreni potrebbero garantirle un’enorme rendita. Se a questo si aggiunge che, rispolverando i criteri adottati un tempo, l’ATER (ex IACP), potrebbe ricominciare a costruire in proprio – ed anche per conto terzi – l’edilizia pubblica, senza più distinguere tra case popolari e non, questa macchina economica potrebbe servire a creare tantissimi posti di lavoro, e potrebbe portare le città ad esser più compatte e, all’interno di ogni quartiere, ad avere tutti i servizi necessari a ridurre, se non ad eliminare del tutto, gli spostamenti.

Tutto questo, diversamente dall’attuale sistema keynesiano di gestione della spesa pubblica, potrebbe tradursi in un grande beneficio per tutti: riduzione della spesa pubblica, con conseguente emancipazione graduale dal sistema di indebitamento pubblico, creazione di tantissimi posti di lavoro, con conseguente aumento del potere d’acquisto da parte delle famiglie, realizzazione di città più sicure indipendentemente dall’inutile e costosa presenza di forze dell’ordine, riduzione degli spostamenti con conseguente riduzione delle emissioni nocive, riduzione graduale delle tasse, miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della gente, ecc.
L’organizzazione della protesta del Codacons contro il “caro benzina” è un segnale che ci invita a riflettere sulla necessità di cambiamento del nostro modo di spostarci e di vivere… diversamente continueremmo imperterriti a fare come il cane che si morde la coda.

Note:
1) Per l’edilizia della capitale, Camera dei deputati, tornata 16 giugno 1907, Discorsi, vol. III, p. 969.
2) Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 32.

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3 gennaio 2012

RETTIFICA SU CONCORSO "OUTSIDE THE BOX"

Nel mio post La giuria popolare di Prestinenza Puglisi commentavo un concorso privato organizzato dall'Associazione Italiana di Architettura e Critica presS/Tfactory, esponendo dubbi su alcuni aspetti, soprattutto quelli legati al voto on line e alla composizione della giuria.
Stasera mi è arrivata una mail (di seguito) da parte di Prestinenza Puglisi in cui precisa alcuni dettagli tecnici in ordine alla impossibilità di esprimere più voti da parte dello stesso soggetto, e anche in ordine alla giuria.
Mantengo inalterato il mio giudizio sulla sostanziale non rappresentatività di votazioni e sondaggi via internet in genere ma, oltre che pubblicare volentieri la precisazione, prendo atto dei contenuti della stessa.
E comunque preciso, come ho già fatto privatamente via mail a LPP, che io di corruzione o brogli o imbrogli non ho proprio parlato e, devo dire, nemmeno pensato. Sono un rompiballe ma non un malpensante. Non uso mai il termine corruzione, tanto più a sproposito per un concorso privato. E poi l'oggetto del concorso non è di quelli che potrebbe stimolare appetiti economici, come ho anche scritto nel post. Ho parlato di metodo (lecito) per dare maggiore visibilità al concorso e l'ho fatto solo in relazione al fatto che io auspico davvero giurie popolari per i concorsi che riguardino lo spazio pubblico, di giurie popolari fatte di nomi, cognomi e carte d'identità di persone e non di Id, o IP che siano, sparsi nel mare magnum della rete.

Questa la mail di LPP:

Caro Pietro
Ho letto solo oggi le tue critiche al concorso outside the box.
Volevo risponderti ma non so se le mie osservazioni ti sono arrivate via web, quindi te le mando via mail

1) il premio della giuria popolare lo ha voluto Analist, che è il soggetto che ha promosso e finanziato il premio. E' un di più e non un di meno. Nel senso che si aggiunge ai premi tradizionali.
2) Mi hanno assicurato i tecnici che un computer non può dare più di un voto ( o qualcosa del genere: credo che forse non è il computer ma l'id. Ma non mi chiedere di più perché non sono un esperto, ma se ci tieni proprio ti ci metto in contatto). Quindi sono esclusi voti plurimi e a grappolo.
3) E' vero che i giurati sono anche professionisti che partecipano ad altri concorsi. Ma è escluso che possano manipolare il voto. Intanto perché ci sono due giurie: una che seleziona e una che sceglie. E poi perché i giurati di ogni singola giuria votano senza sapere il voto degli altri. Ed è difficile pensare che si mettano d'accordo intanto sia perché sono al di sopra di ogni sospetto, sia perché vivono in paesi diversi, sia perché non si conoscono così bene, sia perché non è ragionevole pensare che abbiano, per quanto riguarda questo concorso, interessi comuni. Tutto, per carità è possibile, ma in questo caso che sia possibile corruzione credo proprio che sia molto, molto, molto improbabile.
Con preghiera di pubblicazione.
Abbracci parametrici ;-)
Luigi (Prestinenza Puglisi)

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31 dicembre 2011

BUON ANNO NUOVO

Come ogni 31 dicembre è il momento degli auguri per il Nuovo Anno.
E’ difficile che riesca a farli meglio di come li abbia fatti in passato, perché in passato li avevo fatti proprio bene.
Quindi non ci proverò nemmeno.
Voglio evitare di parlare di crisi: almeno di questa ne abbiamo piene le tasche.
Il 2012 si presenta incerto, ma non è propriamente una novità: il futuro è incerto per definizione e non c'è motivo per augurarci il contrario.
L’unica certezza sembra ce l’abbia il calendario Maya, per cui possiamo essere certi che tutto è fortunatamente incerto secondo regola.

A tutti gli amici antichisti, modernisti, classicisti, post-moderni, pre-moderni, anti-moderni, razionalisti, tradizionalisti e pure agnostici

Auguro un
FELICE 2012

P.S. Ho aggiunto i fuochi d'artificio per protesta contro quei sindaci bigotti che li hanno proibiti. Non solo ti aumentano le tasse, ma ti vogliono pure imporre uno stile di vita triste e rigoroso. Non sono un fuochista ma spero che i cittadini disobbediscano. Sarebbe un buon inizio d'anno.

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24 dicembre 2011

BUON NATALE

National Gallery, Londra

Lo spirito del periodo non dovrebbe essere polemico, tuttavia una battuta verrà perdonata. Guardando la capanna di questa Natività mi sono concesso una domanda profana: per le norme del mio Comune rientrerà o meno tra gli edifici o manufatti "incongrui"? Mi sono risposto sì, perchè ha "parti strutturali inconsistenti" (tettoia). D'altra parte la risposta è coerente con la realtà, in questo caso, perchè:
"Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perchè non c'era posto per loro nell'albergo".  Luca 2.7
Dunque ho trovato un po' di spirito cristiano anche in queste norme. 
Buon Natale
Pietro

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19 dicembre 2011

CONTRO (E PRO) LA COMMISSIONE EDILIZIA

Sandro Lazier, il curatore di Antithesi, ha scritto quasi un anno  fa un articolo in cui contesta vivacemente l'esistenza della Commissione edilizia, dall'eloquente titolo "Sopprimere le Commissioni edilizie", in quanto vi ravvede, e non è certo il solo, una violazione della libera espressione dell'architetto e quindi della libertà in generale. L'immagine che accompagna l'articolo, e che ho ripreso, è eloquente quasi quanto il suo titolo e semplifica le ragioni dell'autore.

E' un testo piuttosto lungo e certamente ricco di spunti interessanti, che io ho letto solo qualche giorno fa e a cui ho lasciato un altrettanto lungo commento.
L'idea di Lazier è largamente condivisa da moltissimi architetti ed ancor più da politici e amministratori, talvolta, bisogna riconoscerlo, con ragione. Ho provato non tanto a contestare abusi e storture, che tutti sappiamo esistere e talvolta anche molto gravi, ma il principio che sottende l'idea di abolirla.
Discutere di Commissione edilizia è discutere di architettura, di urbanistica, di città, di politica, per questo ringrazio Lazier per averlo affrontato in maniera così lucida e appassionata, anche se i nostri punti di vista sono totalmente divergenti.
Naturalmente chi volesse leggere il mio commento deve necessariamente leggere prima l'articolo.
Da leggere anche il commento di Vilma Torselli che affronta il rapporto architettura-arte.
Gli altri commenti non li cito perché, onestamente, non ho avuto il tempo di leggerli.

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14 dicembre 2011

CITTÀ: LESS AESTHETICS, LESS ETHICS




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11 dicembre 2011

QUANDO IL CATTIVO GUSTO SUPERA OGNI IMMAGINAZIONE

di Ettore Maria MAzzola

È di questi giorni la notizia che a Seoul, nell’area dello Youngsan Dream Hub, un centro per affari progettato da Daniel Libeskind, lo studio olandese MVRDV sta per realizzare due grattacieli gemelli ispirati all’attacco alle Twin Towers. Avete capito bene, le torri non sono ispirate a quelle di Yamasaki, bensì alle torri avvolte dalle nuvole causate dall’attacco kamikaze con gli aerei.


Nelle scorse settimane, l’Italia s’era indignata a causa dell’ultima trovata pubblicitaria della Benetton che vedeva il papa baciarsi sulla bocca con l’Imam, sicuramente una scelta di cattivo gusto, che però mostrava una scena d’amore e di pace, mentre qui ci troviamo davanti ad una scelta intenzionalmente ispirata dalla violenza.

La nostra cultura – ammesso che si possa ancora arrogare il diritto di adoperare questo termine – basandosi esclusivamente sull’edonismo e sul principio della “società dello spettacolo” ha perso del tutto il “comune senso del decoro”, non c’è più alcun senso del pudore che debba rispettarsi, BISOGNA APPARIRE!
Nella perenne competizione del mondo consumista e della Società dello Spettacolo, non c’è possibilità di emergere se si rimane “normali”, è indispensabile intraprendere la via del “famolo strano” se si vuol sperare, come diceva Andy Wahrol, di godere dei propri 15 minuti di notorietà.

Il “famolo strano” è una delle tante sfaccettature di quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:
«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

Ecco quindi che, per godere dei propri 15 minuti di notorietà, non occorre necessariamente che quella ci venga per dei meriti … anche i demeriti vanno bene, purché si possa parlare di noi!
Anni fa, credo fosse il 1995, “enzimi” organizzò un concorso di progettazione per giovani architetti nel cui bando gli organizzatori dicevano che avrebbero premiato il progetto più “irriverente e dissacrante” … un ottimo modo per istigare le nuove leve a produrre opere fini a sé stesse e a fregarsene degli uomini e dell’ambiente.

Ma dove porta tutto questo?
Per il momento mi limito a far notare che, benché il progetto sia stato fatto da MVRDV, il masterplan è stato sviluppato da Daniel Libeskind … e il piano per Seoul ha delle sinistre similitudini con il piano dello stesso Libeskind per Ground Zero. Per la proprietà transitiva si deve supporre che uno zampino dell’architetto polacco debba esserci stato!
Inoltre, non è possibile credere alle parole di Jan Knikker di MVRDV il quale, una volta scoppiato lo scandalo per il progetto, ha dichiarato al quotidiano olandese Algemeen Dagblad, “Non era nostra intenzione creare un'immagine simile agli attacchi, né si vede la somiglianza nel processo progettuale" … tant’è che poi ha dichiarato "Devo ammettere che abbiamo pensato anche agli attacchi del 9 / 11".

Ebbene, alla luce di questa vergogna, ricordo a tutti che Daniel Libeskind è, insieme a Massimiliano Fuksas, uno degli “architetti di fama internazionale” a capo della “Commissione Grattacieli per Roma” … quale futuro dobbiamo aspettarci per la Capitale?
Mi auguro che il sindaco e il suo entourage riflettano a fondo, e blocchino sul nascere l’idiozia dei grattacieli a Roma.

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10 dicembre 2011

L'IDENTITA' DELL'ARCHITETTURA ITALIANA.LA STANNO ANCORA CERCANDO

Ringrazio Luigi Prestinenza Puglisi per aver permesso di postare questo articolo dell'amico Arch. Mauro Andreini, già pubblicato su presS/Tletter n° 29-2011

L’identita’ dell’architettura italiana.
La stanno ancora cercando
di Mauro Andreini

Penserete che voglia dissertare scientificamente di questo tema. Ma nemmeno per idea, non saprei che dire, anzi il problema non me lo sono neppure mai posto. Se invece l’argomento vi appare interessante e divertente eccovi l’annuale ricorrenza del convegno sulla “Identità dell’architettura italiana”, l’appuntamento più importante dopo la commemorazione di Tutti i Santi (che include anche quella dei Morti) e prima di quella dell’Immacolata Concezione.
Mi è difficile trattenere l’ironia ed il sarcasmo. Mi verrebbe di buttarla sul cazzeggio, alla zelig, introducendo il tema con l’elenco di possibili sponsors immaginari, da CukiDent a Prostatin, da ParmaCotto a ErbaLifeTerzaEtà, da Xanax a Viagra, il tutto con l’alto patrocinio dell’INPS. E subito proseguire con una sorta di monologo comico irriverente “ma dopo tutte queste volte non l’hanno ancora trovata l’identità? la stanno ancora cercando e sempre nello stesso luogo, con gli stessi nomi, con lo stesso programma e negli stessi orari?” chissà, verrebbe da aggiungere, se anche con le stesse relazioni. Anche perché cosa vuoi che sia accaduto di nuovo e con questa crisi da un anno ad oggi nel panorama italiano. Specialmente poi a quelli che non sono di certo i principali costruttori contemporanei.
Riesco a malapena a bloccarmi l’ironia, ma per non far pentire sin d’ora questo presS/Tigioso blog per avermi invitato cercherò di ricompormi in un atteggiamento più serioso.

Già dal titolo c’è qualcosa di ambiguo.
Identità dell’Architettura Italiana”, lascerebbe pensare che l’architettura italiana possa aver avuto ed abbia tuttora una sua unica identità omologante ed uniforme invece che infinite identità a seconda del luogo dove si trova. Se più verosimile questa seconda ipotesi allora andrebbe meglio “Identità delle Architetture in Italia”. Però in questo caso dovrebbero essere presenti anche rappresentanti delle altre parrocchie di pensiero e questo, forse, guasterebbe di sicuro la festa. Allora optiamo per un più partigiano “Identità di Parte dell’Architettura Italiana”.

Già dall’elenco dei relatori c’è qualcosa che balza agli occhi.
A vedere dai nomi sembrerebbe che l’architettura italiana si sia fermata venti o trentanni fa e sia stata portata avanti solo e rigorosamente da accademici strutturati appartenenti ad una sola corrente di pensiero. Non per essere contrari all’età senile, prima o poi ci aspetta tutti, né per voler rottamare a tutti i costi, ma trovare completamente esclusa la nuova generazione fa sembrare il tutto più un ritrovo annuale di auguri prenatalizi, come quelli delle congregazioni dove i decoltès contano più dei discorsi, piuttosto che un convegno ad ampio raggio sull’architettura italiana.
Ma che Studiosi dell’Identità sono se non conoscono e valorizzano i tanti giovani di qualità che sparsi per l’Italia, tra mille difficoltà, stanno cercando di ricercare e sperimentare la loro Innovazione. Inoltre non sembra presente alcun nome nuovo rispetto agli anni precedenti tanto da lasciar sospettare che la scelta avvenga per parrocchie o per affinità accademiche. Sembra quasi che in Italia esistano delle squadre di architettura così come quelle di calcio, ognuna a giocare sul proprio campo d’allenamento, ognuna ad autocelebrarsi senza mai affrontarsi nella partita del dialogo e del confronto.

Ognuna, in fondo, persa dentro i cazzi suoi.

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9 dicembre 2011

BRUTTI SIMBOLI PER UNA BRUTTA EUROPA

I simboli con cui le istituzioni si presentano ai propri cittadini e al mondo hanno la loro importanza, nonostante vi siano coloro che non vedono o non vogliono vedere questa relazione.
I simboli dell’Istituzione Europea sono senza tempo, senza luogo, senza identità, senz’anima e rappresentano, appunto, un immenso non-luogo istituzionale e politico. L'annullamento dell'identità dei popoli può essere causa di conflitti tanto quanto l'esasperazione identitaria.
L’architettura fisica con cui l’Europa si celebra, rappresenta al meglio, o al peggio secondo i punti di vista, la sua architettura istituzionale e politica: una pura astrazione avulsa dall’Europa delle nazioni e dei popoli. Per rappresentare tutti si è scelto di non rappresentare nessuno, si è scelta una generica e brutta modernità priva di contenuti che non siano quelli della finanza, che è economia virtuale privata della componente del lavoro e quindi della componente umana. Una finanza delocalizzata per un’istituzione che non ha radici nei territori e nel cuore della gente.
Niente a che vedere con il Palazzo del Parlamento Italiano o con quello del Quirinale o con l’Eliseo o con Il Palazzo di Westmister o con la Casa Bianca.

Le stesse banconote sono le più brutte del mondo, disegnate con architetture ideali e inesistenti in cui nessuno si potesse riconoscere per non dare il senso della primazia, ma sperando, chissà perché, che tutti ci si potessero riconoscere. La statua davanti al Parlamento europeo è una pessima e triste scultura che sostiene il simbolo dell’euro, a fronte della statua della Libertà che sostiene una fiaccola accesa, simbolo di fede e speranza. Quella € potrebbe stare bene sopra il forziere di Paperone, non al Parlamento. La speranza d’Europa è quindi una moneta più artificiale di qualsiasi moneta, già di per se stessa artificiale e convenzionale. Se cade la moneta cade perciò la costruzione politica e istituzionale nel suo complesso.
L’architettura dell’Europa ha rifiutato la bellezza perché non poteva fare diversamente. In questo possiamo riconoscere, amara soddisfazione, che i simboli scelti sono sincera espressione di una misera realtà costruita su un ideale di universalismo politico, economico e culturale di cui, ironia della sorte, l’attuale, anomala situazione politica italiana sembra quasi manifestazione e sottoprodotto.

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