Pietro Pagliardini
Abbandonata sulla poltroncina di un treno, una conoscente l'ha raccolta e mi ha fatto pervenire una pagina de Il Messaggero, giornale non troppo diffuso dalle mie parti. Sapeva che avrebbe potuto interessarmi. E’ ingegnere con un forte interesse per l’architettura e l’arte.
Si tratta dell’anticipazione di un libro del poeta Giorgio Caproni, Prose critiche, Aragno. Non si tratta quindi di poesie in questo caso, anche se la prosa ha il ritmo della poesia. E’ un breve estratto e non ha un titolo e io citerò quello dell’articolo: Se la poesia non è di casa.
Non posso riportare il brano perché c’è la riproduzione riservata. Me ne dolgo perché è peccato sciupare quella prosa riducendola a semplici concetti, ma non ho scelta. Solo brevi brani sono costretto a non omettere, proprio per non travisare il senso del testo originale.
Semplici concetti dicevo, ma non così tanto semplici da essere compresi e soprattutto apprezzati e condivisi da molti architetti e dal modesto circo mediatico, detto anche culturale, che gira loro intorno.
“Se la poesia non è di casa” richiama esattamente il contenuto, la differenza che esiste tra gli edifici moderni e quelli antichi, tra la città contemporanea e la città storica. Nelle prime la poesia non è di casa perché le case sono prive di poesia. Caproni osserva le nuove costruzioni, con i loro intonaci dai colori freschi ma un po’ falsi, e le immagina tra qualche anno, invecchiati precocemente per le colature di pioggia, “annerite e striate le murature dal tempo e dal maltempo” quando “faranno l’effetto, ahimè, degli abiti vecchi, delle automobili vecchie, dei frigoriferi vecchi, insomma di tutte le cose vili e soltanto utilitarie che in pochi anni diventano vecchie senza poter diventare antiche, e quindi senza poter acquistare, sotto la patina del tempo, in bellezza e in valore”.
Immagini poetiche che non escludono un’analisi sociologica e antropologica, con l’essenziale differenza tra il bene di consumo o utilitario, legato al tempo, ai costumi, alle mode, e la casa, bene che racchiude altri significati simbolici legati all’esistenza stessa dell’uomo: il provvisorio rispetto al definitivo, all’eterno. La casa è per sempre. E il tempo, depositando la sua patina, le farà acquistare bellezza e valore, affettivo, di godimento estetico, economico perfino.
La casa del dopoguerra invecchia invece come un qualsiasi bene di consumo, diventa un rottame da buttare via. E più ci avviciniamo ai giorni nostri più questa precarietà, questo senso di provvisorietà della casa aumenta, con l’uso di materiali e di tecnologie meno durevoli, in barba a tutte le prove e certificazioni di durabilità. Chi certificherà la sensazione di disgusto di chi si troverà di fronte a questi ruderi contemporanei?
Il brano si conclude con la constatazione della “bruttezza degli interi quartieri nuovi che a suon di milioni crescono come funghi (…) Credo fermamente che se esistesse un controllo più oculato anche dal lato estetico, sulla base di tale cifra (una delle più modeste, dopotutto) si potrebbe avere una buona architettura media (…) Un minimo, senza pretendere capolavori, sufficiente a creare un paesaggio urbano accogliente e distensivo, capace, anche tra vent’anni, di non mortificare chi non ha ancora finito di pagarlo, e di non diseducare interamente, anziché contribuire a educare, i figli che vi nasceranno, e vi scorrazzeranno”.
Educare i figli alla bellezza con la bellezza dell'ambiente in cui crescono significa il diritto alla bellezza per tutti. Siamo agli antipodi dall'educazione all'abitare di cui parla il tiranno dell'urbanistica, Le Corbusier.
Ma chi glielo dice alle nostre scuole, ai giovani architetti dai docenti stimolati, spinti, costretti e illusi alla superbia creativa, al sublime, all’opera d’arte? Chi glielo dice a quei docenti che dovrebbero insegnare una “architettura media” quando loro stessi probabilmente non sanno cosa sia e risulta molto più facile celare la propria ignoranza dietro grandi fantasticherie cui i giovani, per merito d’età, hanno naturale e comprensibile propensione? Chi seguirebbe, nella scelta, un ciarlatano che offre grandezza, successo e vita eterna rispetto ad un professore che chiedesse solo modestia e mestiere? Il nodo dell’architettura nella società di massa, in fondo è tutto qui.
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SE LA POESIA NON E' DI CASA
9 maggio 2012
CONSIDERAZIONI SUL MODERNO: SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE - 2°
Questa è la mia risposta alla lettera dell'amico Arch. Mario Maschi, pubblicata IN QUESTO POST.
Questa corrispondenza è del febbraio 2006, e aveva tratto lo spunto dalla minacciata demolizione della sede della Camera di Commercio.
Ne è scaturito uno scherzoso e amichevole scontro di opinioni sull'antico e sul moderno. Per una pura coincidenza con l'attualità, in questa mail viene citato Papa Benedetto XVI, che domenica prossima sarà ad Arezzo e la cui visita ha suscitato, come sempre, aspettative e polemiche, e Beppe Grillo, che è il caso del giorno. Ma qui c'è il Grillo comico in un video sugli architetti.
Carissimo Mario
Ho ancora in bocca il retrogusto della tua garbata e divertente canzonatura a mio danno e ciò mi gratifica oltremodo, non tanto, come malignamente si potrebbe credere, perché io mi ritenga superiore e quindi inattaccabile dalle altrui ironie, quanto perché il trovare qualcuno che fa dell’ironia un linguaggio è piacevole e rassicurante scoperta, in un mondo che l’ironia pare aver completamente dimenticata.
Tanto lusinghiero quanto immeritato è il paragone con il nostro illustre concittadino cui tante doti ed esperienze ho da invidiare, senza menomamente reggere il confronto, avendo, ahimè, con lui in comune solo il nome.
Posso tuttavia fare l’auspicio che tu, emulo di Mons. Giberti, non armi la mano di un sicario, per imitare lo stesso scellerato gesto contro Pietro Aretino, documentato anche dalla sottostante rima di tale Francesco Berni il quale, evidentemente, non amava il nostro:
Tu ne dirai e farai tante e tante,
lingua fracida, marcia, senza sale,
che al fin si troverà pur un pugnale
meglior di quel d'Achille e più calzante.
Il papa è papa e tu sei un furfante,
nodrito del pan d'altri e del dir male;
hai un pie' in bordello e l'altro in ospitale,
storpiataccio, ignorante e arrogante.
Osservo anche che mi hai preso molto sul serio e ciò vieppiù mi onora, dato che non credevo di aver scritto cose di importanza così capitale né così strane da meritare una tua così ben argomentata replica. Ma l’aspetto più divertente della tua risposta è il fatto che, stando al giuoco tra modernisti e antichisti cui accenni, mi sembra che tu, modernista (se mi consenti di semplificare collocandoti in questa categoria), senta “il fiato sul collo” dell’onda antichista e, come dire, avverta il terreno delle tue convinzioni franare sotto i piedi, davanti all’assalto di una masnada di architetti e impresari che, succubi del mercato e proni alle richieste dei propri clienti, si lasciano “violentare” per vile denaro facendo, cioè, marchette con l’uso improprio e debordante di archetti sbilenchi su colonne con piano basamentale costituito da terrazze a sbalzo.
Tanto terrore da dove nasce? E’ così debole la tua fede nell’architettura come rappresentazione della modernità da farti temere perfino gli inconsapevoli, incolpevoli e sgangherati assalti di quattro elementi parodistici del repertorio antichista?
Non posso crederlo perché, conoscendoti, so che sai distinguere bene l’effetto dalla causa e il tuo timore deve essere ben più profondo e motivato e ha un nome: fallimento della città moderna, almeno di quella conosciuta, quella reale, costruita, non di quella che è ancora nella mente, nei rotoli di lucido e nelle speranze frustrate di noi architetti.
Le forme che tu tanto aborri e che (fammi credito di un minimo di capacità critica) neanche io accetto supinamente sono solo l’effetto e la reazione a lustri passati da noi architetti a dibattersi tra utopia e realtà, tra la nostra cultura auto-referenziale e i bisogni frustrati della “gente”.
So di essere obbligato, dall’incalzare delle tue argomentazioni e dalla necessaria brevitas, a ricorrere a grandi semplificazioni (quale l’affermazione pesante e impegnativa testè fatta), ma è dalla dialettica degli opposti che si può sprigionare una scintilla di verità, nella disincantata convinzione, tuttavia, che ognuno resterà abbarbicato alle proprie certezze e convinzioni sperando, al più, di convincere gli incerti (tanto per attingere al lessico elettorale di questi giorni).
Tra gli innumerevoli spunti che tu mi offri, ne scelgo due che proverò ad argomentare:
1) Mi sfugge fortemente il nesso esistente tra i nostri figli che navigano nella rete e la presunta necessità di stare al passo coi tempi in architettura. E’ come dire: siamo passati dalla penna d’oca al portatile dunque dobbiamo passare dal mattone al vetro. C’è un salto logico: la casa tradizionale funziona benissimo, basta introdurre i necessari adeguamenti, la penna d’oca non funziona affatto. E’ vera invece l’aspirazione ad una architettura che “sottilmente” interpreti il nostro tempo portando i segni della tradizione: purtroppo questa architettura è per pochi architetti capaci (non certo per me) e potrei citarne, a puro titolo di esempio, due: Gino Valle e Natalini. Ma il mio ragionamento è umile (anche qui nessuna affinità con l’Aretino Pietro) e parte dalla convinzione che a fronte di pochi bravi ve siano molti di meno bravi e che questi (me incluso, sia chiaro) si limitino ad “attingere” al lavoro altrui. Se questo è vero, ed è sicuramente vero, meglio, molto meglio “attingere” a ciò che la tradizione ci ha lasciato, piuttosto che replicare nelle città le stramberie modaiole.
Il mio ragionamento esclude la genialità, che è un dono di pochi, ma riguarda la normalità del nostro fare quotidiano che, guarda caso, è al servizio dei nostri clienti e, soprattutto, dei figli, nipoti e pronipoti. Per tornare alla genialità, cui molti architetti aspirano, vorrei darti del “genio” una bella definizione di un antropologo: “un genio è un catalizzatore della sua cultura, colui che riesce a cogliere nel fiume del continuum culturale tutti i segmenti, i temi che vi interagiscono e ne presenta una sintesi che li oggettiva e li rivela a se stessi”. Non c’è dubbio dunque che tendenzialmente l’interpretazione dell’architettura come sintesi di passato e presente e come prefigurazione del futuro sia quella giusta ma i geni, ripeto, sono merce molto rara.
2) Tu porti, spericolatamente, in architettura una categoria deprecata dal Cardinale Ratzinger e introduci l’espressione di “relativismo architettonico” appiccicandomelo come marchio d’infamia, quasi fossi una strega. Per me che dell’intelligenza di Ratzinger sono un sincero ammiratore (credo che Pietro Aretino propendesse più per le suore!!) è un invito a nozze. Premesso che quella parte del tuo scritto mi sembra lievemente confusa e quindi posso avere equivocato, proverò ad interpretare e immagino che tu volessi dire, usando la categoria di relativismo, che sarebbe grave errore attribuire pari dignità ad ogni tendenza architettonica, perchè l’una ha più dignità dell’altra (inutile spiegare a quale ti riferisci). Penso che il Papa mi perdonerebbe se avesse il piacere di leggere queste nostre facezie, e perciò dichiaro, stando al tuo gioco, di essere relativista in architettura (ma solo in architettura, eh, non scherziamo) con una propensione per l’architettura tradizionale. Il mio collega Giulio Rupi che, in uno dei suoi schizzi goliardici, ha diviso gli architetti aretini tra antichisti e modernisti tracciando una linea verticale in un foglio e collocando ognuno più o meno lontano dalla riga a seconda di quelle che lui ritiene essere il loro orientamento culturale, mi ha collocato tra gli antichisti sì ma vicino alla linea: sarei, cioè, un border line (se vuoi sapere dove ti ha collocato chiediglielo). Ritengo questa collocazione da un canto una debolezza, perché il marketing professionale richiede idee decise, dall’altro una forza perché gli architetti non lavorano per se stessi, come vogliono far credere le riviste, ma per gli altri cioè per il mercato e oggi il mercato chiede cose per te deprecabili (cioè io faccio marchette e tu le rifiuti). Non si tratta di atteggiamento spregiudicato, si tratta di non vivere in un perenne stato di frustrazione e alienazione a sentirsi dire no, no, no: quei no hanno pure un valore e credo sia “da architetti” ascoltarli per capire la realtà e interpretarla. Tutto torna in fondo: la prostituta e l’architetto sono i due più antichi mestieri al mondo e dunque non possono non avere qualche affinità (meno male che il Papa non avrà questa mia).
Concluderò non eludendo la tua curiosità sul perché io faccia un distinguo tra edilizia di base ed edifici specialistici. Potrei affermare, in maniera seriosa, che basta girare per il centro storico di Arezzo per trovare molte abitazioni che, salvo caratteri stilistici lievemente diversi, sono simili se non uguali (perdonami la semplificazione) e trovare invece la Cattedrale e la Santissima Annunziata che sono profondamente diverse tra loro come diverso è il tempo in cui sono state edificate ed entrambe molto diverse dalle abitazioni. Ma preferisco consigliarti (e lo consiglio a tutti) il DVD dello spettacolo di Beppe Grillo a Roma con un brano di 8 minuti dedicato agli architetti. Potrei raccontartelo ma la comicità non si racconta, si gode. Se ti fa piacere ne ho fatto un breve clip che non posso mandarti per e-mail perché troppo pesante, ma te lo farò avere su CD e lo farei avere anche all’Ordine se non temessi una denuncia per pirateria informatica.
8 minuti di spettacolo e ironia, come ironica è questa mia, augurandomi di essere stato all’altezza della tua.
Saluti
Piero
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19 marzo 2010
MA SOLO L'ANTICO E' FALSO?
Pietro Pagliardini
Quell’edificio crollato non deve essere ricostruito com’era perché sarebbe un FALSO!
Quel progetto in campagna non deve imitare una casa colonica perché sarebbe un FALSO!
Quell’edificio è adatto a Disneyland perché è una copia quasi identica ad una villa palladiana, ed è un FALSO!
Tre situazioni diverse che raccolgono la riprovazione della “cultura” architettonica imperante verso il “falso” e la mimesi.
Per il momento non vorrei confutarla ma vorrei portare casi diversi:
Quel progetto è fantastico! Si vede che è un allievo di Ghery.
Quel progetto ha il dinamismo e il senso dello spazio di Zaha Hadid!
Quel progettista fa uso di tecnologia con sensibilità e grazia. Mi ricorda Renzo Piano.
Niente paura, nessuna sparata contro le archistar; i loro nomi servono solo per l’esempio.
Ogni architetto, in specie nella fase giovanile, fa riferimento ad una figura di riferimento. In genere, con il tempo, acquisita sicurezza nei propri mezzi e maturata la capacità di dominare il progetto, tende a distaccarsene, fino all’abbandono, e ad elaborare un linguaggio personale. Voglio immaginare che il nostro architetto riesca a raggiungere un livello professionale alto, tanto che molti riconoscono l’autore negli edifici da lui costruiti.
Ma siamo assolutamente certi che questo bravo architetto non debba niente a qualcuno in particolare o a ciò che osserva viaggiando o alle riviste e ai libri che legge o a tutto quanto ha studiato all’università e, ancor prima, ai suoi stessi ricordi giovanili? Siamo sicuri che esista veramente qualcuno, in qualsiasi campo, che non debba la propria conoscenza e competenza ad altri?
L’apprendimento inizia con l’imitazione. Successivamente non si chiama più imitazione, ma studio, osservazione, esperienza ed elaborazione di informazioni.
Qualsiasi disciplina, intellettuale o manuale, è un accumulo di conoscenza ed esperienza sedimentata nel tempo in opere o libri o trasmissione verbale. Oggi anche in forme più tecnologiche e nuove: immagini, video, audio. Cambia e si evolve il mezzo, ma il contenuto è lo stesso: conoscenza di alcuni, fissata perché possa essere trasmessa ad altri.
Ogni disciplina, intellettuale o manuale, è imitazione, mimesi; quello che si osserva viene elaborato e riproposto in forme e modi diversi e in base alla propria inclinazione.
Ma ecco che interviene la variabile “ricerca”. C’è sempre stata, naturalmente. Chissà se l’anonimo inventore della ruota riconoscerebbe il suo prodotto guardando un gran premio di formula 1 nel momento in cui i meccanici ne cambiano 4 in 4 secondi! Alta tecnologia e specializzazione, ma il principio della ruota è sempre lo stesso: un cerchio rigido che gira intorno al suo centro. Ma la ruota non si è materializzata nella mente del suo inventore da una tabula rasa, anche se la rivoluzione è stata grande. Vai a capire i millenni che ci sono voluti per fare meno fatica a trasportare roba! Certo, il passaggio intermedio di una ruota quadrata non credo ci sia stato, ma molte slitte su rulli sì. Il principio era già a portata di mano, bastava vincolare il rullo. Alla fine è arrivata l’ideuzza giusta. Da quel momento l’evoluzione del mezzo: di materiali, di tecnica per diminuire l’attrito, nel centro e nella circonferenza, e resistere all’usura. Ma il principio è sempre lo stesso: copiare le idee altrui, quelle che si ritengono buone, per andare avanti, aggiungendoci del proprio. Gli scambi di opinione, ad esempio, servono a questo e sono anche un modo per trovare nuovi stimoli.
Torniamo alle esclamazioni iniziali.
I tre campioni di “falso” sono riferiti a tipi architettonici antichi o semplicemente vecchi. Qual è il limite superato il quale non si parla più di “falso” ma, al massimo, di progetto “datato”? Difficile stabilirlo. Approssimando un po’ potremmo dire che il limite è l’introduzione di tecnologie nuove, quale il c.a., naturalmente nella fase di una certa diffusione. Ecco, un progetto anni ’60 di edilizia corrente, con mensole in c.a. a vista e marcapiani in c.a. riproposto oggi, magari con un minimo di “ironia”, verrebbe considerato “datato”, ma “falso” certamente no. Un progetto alla Rietveld, per alcuni datatissimo, per altri potrebbe essere l’inizio di un nuovo neo-ismo.
Fissando una data, credo si possa affermare sia considerato “falso” tutto ciò che non corrisponde ai canoni e alle forme di prima degli anni ’20 del secolo scorso.
C’è una logica. Apparente.
I nostri tre architetti che vengono confrontati con Ghery, Hadid o Piano, hanno, anche inconsapevolmente, “attinto” a quelle fonti; hanno fatto un’operazione mimetica. Hanno copiato, bene, da coloro che più apprezzano. Così come il nostro giovane architetto, venuto su bene, in autonomia e in libertà da banali copie del maestro di riferimento, non si è inventato tutto, né del progetto né, a maggior ragione, delle tecniche costruttive.
Diciamo che, al pari della ruota, hanno sviluppato e interpretato qualcosa che già esiste, aggiungendoci quel tanto di “gesto” individuale che lo rende riconoscibile e di successo.
Queste sono situazioni ideali! Ma se sfogliamo le solite riviste, cartacee oppure on line, si vedono centinaia di autentici “falsi” contemporanei. Hanno plagiato forse? Certamente no, hanno solo sviluppato ciò che ritenevano valido dell’opera altrui. E’ come con la musica: Ennio Moricone dice che il plagio musicale è ormai quasi inevitabile perché le combinazioni sono praticamente esaurite e quando una musica è nell’aria è facilissimo riproporla in buona fede come propria.
E’ normale, è logico persino, perché nessuno può pretendere, anche se vuole, di inventare ogni volta qualcosa di “nuovo”.
Ma i tre esempi iniziali invece vengono condannati senza appello come “falsi”. Solo loro tre, poverini, vengono additati al pubblico ludibrio. Perché?
Ma è chiaro, perché sono “modelli” ante anni ’20 del secolo scorso!
Il concetto di falso, così come viene utilizzato dalla kultura arckitettonica ha esclusivamente una connotazione temporale: è falso tutto ciò che non è moderno o contemporaneo!
Il concetto di moderno o contemporaneo, invece che servire da semplice “datazione” di prima approssimazione, assurge al rango di valore fine a se stesso. E’ una condizione del tutto priva di senso.
Io copio (come tutti, sia chiaro) un progetto che ho visto in internet e sono magari bravo; io copio un tipo di casa colonica della bonifica lorenese, perché devo fare un progetto in campagna, e sono un imbroglione!
Io devo ricostruire una casa nel centro storico e, se la faccio di vetro, copiando da un repertorio infinito di nefandezze attuali, va bene, ma se la rifaccio com’era, o come si può ricavare che fosse, vengo classificato antichista e nostalgico!
Bossi, Bossi! Qui ci vorrebbe la tua lapidaria frase in milanese per chiudere il discorso!
Credits: Le foto sono tratte da Dezeen.
L'idea del post mi è venuta grazie al dibattito seguìto alla conferenza di Ettore Maria Mazzola ieri 18 marzo ad Arezzo. Praticamente ho fatto un "falso".
17 marzo 2008
EQUIVOCI, scritto per il foglio dell'Ordine Architetti Arezzo
Vecchio e Nuovo.
I due aggettivi richiamano alla memoria altri opposti di uso comune:
Riformista - Conservatore
Bello - Brutto
Buono - Cattivo
Giusto - Sbagliato
ecc., ecc.
Questi termini così categorici non servono solo a collocare noi stessi rispetto al mondo e a far capire agli altri cosa e come pensiamo ma servono soprattutto alla nostra mente per semplificare, discernere e catalogare comportamenti, situazioni, oggetti, individui.
La cultura della modernità tende a farci attribuire a Vecchio una valenza prevalentemente negativa e a Nuovo una prevalentemente positiva; per Riformista-Conservatore vige la stessa regola.
Gli altri opposti, invece, non si discutono, rappresentano un valore assoluto, non relativo alle circostanze e il giudizio di valore non è dipendente dal periodo storico, culturale o sociale.
Dunque:
Bello, Buono e Giusto ......... sono termini ....... sempre positivi.
Vecchio e Conservatore ...... sono termini ....... quasi sempre negativi.
Qualche esempio:
-Conservatore, usato come sostantivo, è anche l’iscritto al nostro Ordine che si occupa della Conservazione dei monumenti e dei beni artistici e perciò si suppone abbia valore positivo;
-Vecchio attribuito a certe qualità di vino ha un valore (anche economico) fortemente positivo.
-Muore un anziano politico di “destra” molto stimato in quanto onesto, retto e coerente nelle sue scelte di vita e amici e avversari - in vita - gli rendono omaggio - in morte - definendolo “un esempio di Vecchio conservatore”: usati insieme i due negativi diventano “molto” positivi (tanto è morto e non da noia a nessuno)
-Però “Vecchio conservatore!!!” gridato alla stessa persona in vita durante una discussione politica sarebbe suonata come “molto” negativa anzi dispregiativa.
-Il Riformista è anche il titolo di un giornale: mica avranno dato un titolo negativo ad un giornale!
-Però “Riformista!!!” detto fino agli anni ’70 (e oltre) da un comunista ad un socialista era molto più di un’offesa (a parere del comunista, non del socialista che però s’incazzava lo stesso).
Dopo questo delirio verbale che neanche il Prof. Alberoni (che peraltro non leggo perché il lunedì non compro mai giornali e comunque non compro quasi mai il Corriere della sera) veniamo al dunque: come la mettiamo con l’architettura?
Per capirsi: semplificherò attribuendo a Vecchio il significato di Antico e a Nuovo quello di Moderno e che mi riferirò all’architettura moderna, con significato esclusivamente temporale e non stilistico. In campo architettonico l’ambivalenza nel significato di Vecchio e Nuovo è ancora più in relazione alla fonte di provenienza. Vi sono sostanzialmente due gruppi sociali diversi che utilizzano i due termini con valore diverso:
Gruppo A
E’ quello che ha la voce più forte, è l’establishment dell’architettura, cioè il mondo accademico, che trova sponda nel mondo dell’editoria (per pochi intimi), che dirige senza alcun controllo i concorsi, facendo ben attenzione a non premiare i migliori ma ad alimentare le proprie opinioni e a fare favori che saranno restituiti quando si invertiranno le parti. Se la suonano e se la cantano. Per questa “casta”, Vecchio ha connotazione fortemente negativa; anzi, per una consolidata tecnica egemonica, Vecchio non esiste proprio: ignorare per discriminare; chi lo predica non ha neanche diritto d’asilo culturale, non ha voce, non si discute con questi ignoranti. Solo il Nuovo esiste. E l’altra “casta” che con essa dialoga, quella dei politici, l’ha accontentata, inserendo nella legge Merloni un bel punteggio per premiare la “sperimentazione” nei concorsi. Sperimentazione è sinonimo di Nuovo e poiché, notoriamente, siamo agli albori di una civiltà urbana, dato che viviamo in villaggi decrepiti di capanne e visto che il territorio della selvaggia Italia ed Europa è una tabula rasa in cui architetti d’estro devono inventare città e case, la legge è Riformista e premia le invenzioni.
Gruppo B
E’ il gruppo della massa (che paga) di utenti, cittadini, fruitori dei singoli beni e della città nel complesso, i quali non sono addetti ai lavori, non conoscono tutte le sfumature del linguaggio architettonico, non hanno necessariamente cultura storica o artistica, esprimono più un bisogno di pancia che una riflessione critica consapevole ma chiedono “segni” evocativi di quella civiltà urbana o rurale che viene, dalla contro-parte (che riscuote), ritenuta tanto indegna da essere ignorata con la sperimentazione. E allora per soddisfare chi apprezza (e paga) quei “segni” di Vecchio, ecco che il mercato si attrezza con un repertorio di archetti e capitelli in c.a., tetti di svariata tipologia, timpani, colonne, ecc. insomma quanto di meglio noi tecnici riusciamo a fare per soddisfare quel bisogno, con i pochi mezzi culturali di cui disponiamo, visto che all’università ci hanno insegnato solo forme astratte nello spazio vuoto con cui si vincono i concorsi ma non si mura un metro cubo che uno. E le nostre città diventano le sommatorie di Nuove lottizzazioni, con case che sono un simulacro e una parodia del Vecchio e che finiscono per fare il gioco di coloro che aspirano al Nuovo.
In realtà questo è il solito gioco di potere di una minoranza che riesce a imporre alla maggioranza il proprio punto di vista mediante legami forti di casta e fra caste. Io penso (se non si fosse ancora capito) che il Gruppo A, che predica il Nuovo, sia Vecchio e Conservatore (in senso negativo) e il Gruppo B che aspira al Vecchio sia Nuovo e Riformista (in senso positivo), perché penso che l’architettura Vecchia sia prevalentemente Positiva, mentre quella Nuova prevalentemente Negativa.
L’equivoco sta nel fatto che l’architettura che si professa Nuova è Vecchia, quella Vecchia è Nuova.
Come tema per il prossimo numero di questo foglio consiglierei di prendere in esame una delle seguenti coppie di opposti:
mondo accademico - mondo professionale
disegni - realizzazioni
architettura delle riviste - architetture della gente
che è poi come dire, in altro campo:
stato - mercato
istituzioni - società civile
Sarebbe un modo utile per capire, non rassegnarsi e cominciare, per esempio, a discriminare i falsi cultori del Nuovo.
Lettera di un modernista pentito ad un antichista incallito
Caro Roberto,
ti mando una foto di Ragusa-Ibla, una della Chiesa Madre di Scicli e una di un paesaggio del ragusano . Sul paesaggio della prima foto mi sono affacciato per una settimana almeno due volte al giorno, ed ogni volta non ho potuto fare a meno di constatare quanto ampio sia il solco che divide il vecchio dal nuovo, l'antico dal moderno. La foto della Chiesa di Scicli con accanto la scuola non ha bisogno di commenti. Quella del paesaggio parla di un dialogo corretto con l'ambiente.
Sono considerazione vacanziere, fatte in surplace, con i calzoni corti e le ciabatte.
Giulio dice che la Toscana non ha retto alla modernità ed ha ragione, ma non è un difetto genetico di noi toscani perchè neanche la Sicilia ha retto. In realtà credo che non abbia retto nessun territorio che possedesse una storia e qui la storia trasuda da ogni sasso, da ogni albero, da ogni giardino (gli aranceti), da ogni muro a secco lungo le strade e tra i campi, dalle facce della gente di campagna non ancora segnata dalle rotondità del benessere.
Sarà che nei luoghi non familiari l'occhio è più attento e critico ma a me sembra che qui non vi sia uno, dico uno, esempio di modernità, in sè bello o brutto, che possa reggere il confronto con il vecchio, che abbia una dignità, che si inserisca armonicamente con la natura o con la città. Ogni nuova costruzione o manufatto è uno strappo, un'offesa a ciò che esisteva e questo a prescindere dall'abusivismo o dalla regolarità della costruzione, dalla pianificazione o dalla spontaneità della stessa.
E qui la spontaneità abbonda; mentre da noi si limita a qualche baracchetta di campagna trasformata in residenza domenicale, in Sicilia vi sono intere zone "spontanee", castelli di c.a. abbandonati, case di tre piani con un piano finito e due grezzi, non si sa mai. Gela e Vittoria sono intere città "spontanee", inemendabili (viene voglia di sperare che sfugga qualche missile dalla vicina base di Comiso).
Ma il problema non è l'abusivismo, il problema è che la modernità non ha trovato canoni adeguati ai luoghi che possiedono una storia. Costruzioni normali, di qualità non pessima, sia come progetto che come esecuzione, sono totalmente dissonanti con il contesto naturale e/o urbano. Se fai attenzione potrai notare che il progettista della scuola di Scicli, in fondo, si è anche sforzato di interpretare forme barocche in chiave moderna: forse non era nemmeno uno sprovveduto per essere un progettista di paese negli anni 60!!!
Un territorio come questo, aspro, pietroso, arido, assolato, caratterizzato dalla dominante giallo-dorata delle sterpaglie e dal segno grigio della pietra che riverbera i raggi del sole, con piantagioni rade di olivi misti a carrubi, con i campi segnati non dai fossi (acqua poca) ma dai muri a secco che non hanno, in genere, funzione di retta, come in Toscana, ma di divisione delle proprietà e contenimento delle mandrie e che formano un reticolo fitto in cui questi sembrano vene sporgenti sul corpo rinsecchito di un affamato, non può sopportare né la casetta del geometra con la terrazza a sbalzo torno, torno né il condominio in c.a. verniciato al plastico, con le finestre orizzontali o verticali da cima fondo. La masseria o la villa con gli annessi attaccati sono le tipologie per questo territorio: tertium non datur, o almeno non ho visto altro di adeguato.
Constato tutto ciò con grande rammarico e con un senso di sconfitta, non tanto perchè io ho sbagliato a credere nell'architettura moderna quand'ero più giovane (di questo me ne frego alquanto, perchè è meglio accorgersi dei propri errori che perseverare, anche in politica), ma perchè scopro che la modernità e il progresso che hanno il grande merito di produrre benessere, ricchezza e libertà hanno fallito totalmente proprio nel campo della nostra "disciplina" mentre medici, informatici, agronomi, ecc possono essere orgogliosi delle loro scoperte. Noi architetti invece dovremmo solo vergognarci perchè non abbiamo capito veramente niente, ma in compenso non ci è mancata arroganza e presunzione. Ma queste sono considerazioni "intimistiche" che non hanno rilevanza generale.
Il vero rovello è invece di tipo intellettuale e consiste nel non riuscire a trovare soluzioni ai problemi, nel dover accettare e digerire il PARADOSSO DELLA MODERNITA': la libertà produce una società anti-urbana.
Proprio una società di uomini liberi che dovrebbe esaltare la polis come il luogo di massima espressione di libertà genera invece l'esplosione e la distruzione della città.
In fondo, duole ammetterlo, i ragionamenti di Branzi hanno un fondamento. Una società libera fatta da individui non uniti da forti legami tradizionali non può che portare alla disgregazione della città. Ogni individuo è un universo e ogni universo è un mondo a parte, che ha un suo inizio e una sua fine e non comunica con l'altro: come sperare di trovare valori comuni per la città! Certo la risposta di Branzi è quella di una presa d'atto di questa realtà e dunque la città non può che nascere dalla mente degli architetti creatori o creativi, che trattano l'architettura come un fatto di costume, come la moda o il design, come semplice comunicazione. Fare architettura o urbanistica, in queste condizioni, diventa solo un fatto di potere, come fare pubblicità ad un prodotto, perchè il potere più grande non è quello politico ma quello della comunicazione, del messaggio pubblicitario. L'architetto più bravo è l'architetto più potente, quello che riesce ad affermare il suo prodotto che dura una stagione (non so dire se la stagione dell'architettura sarebbe quello di una collezione autunno-inverno oppure avrebbe tempi più lunghi).
Ma la risposta di Branzi (o Mendini o Fuksas o chi altri) non soddisfa (non tanto per ma la "gente") e allora l'unica alternativa, molto pragmatica e molto poco dogmatica è quella di tornare all'antico nella semplice constatazione che soddisfa di più l'occhio e, forse, anche la coscienza. Se milioni di persone si spostano per visitare i centri storici italiani ed europei vuol dire che certi canoni formali sono duri a morire nel cervello della gente, o forse si adattano più ad esso che non le astrazioni dei suddetti Maestri. E allora ben venga Krier con le sue paradossali, buffe ma evocative architetture, ben vengano i muratoriani con la loro città irriproducibile (distanze, codice della strada, sismica, USL, sicurezza, anti-incendio, barriere architettoniche, ecc): sempre meglio un simulacro di città antica che una non-città.
Adesso avrai capito perchè il buon Giulio, nel suo foglietto in cui traccia una linea tra architetti modernisti e antichisti mi abbia collocato molto vicino al confine: io sono un border-line. Non riesco infatti, ed è un mio limite, a separare la scelta architettonica dalla società che la produce.
La libertà genera solitudine, individui liberi ma isolati l'uno dall'altro, che si riuniscono per lavorare, per grandi "eventi" (concerti, manifestazioni politiche, discoteche, vacanze, acquisti, ecc) ma che, in quanto liberi, sono incapaci di accordarsi insieme in un progetto unitario e condiviso di città. Ognuno ha la propria visione del mondo e aspira a vederla riconosciuta e nessuno è disposto a rinunciarvi. La Prova d'orchestra di Fellini è la miglior descrizione visiva di quanto penso: ogni musicista va per conto suo e il direttore è incapace di tenere unite le individualità.
La solitudine è il prezzo della libertà; solitudine esistenziale e solitudine sociale: il canone urbano e architettonico della solitudine è il vuoto, non il pieno. Nel vuoto non c'è città.
Per me che, nonostante recenti traversie personali, non ho perso l'ottimismo di fondo che mi fa vedere tutti i lati positivi del nostro tempo rispetto a quelli passati è durissimo (intellettualmente e non a livello di conflitto personale) non riuscire a risolvere questa contraddizione.
E allora, CHE FARE?
Sposare la causa degli antichisti, direbbe Danilo; ricreare false condizioni sociali perchè il bello è meglio del brutto (direbbe Catalano) sperando che ci sia più da ristrutturare che da creare ex-novo (ristrutturare vuol dire leggere ciò che c'è già e, oltre che più facile, crea meno problemi di coscienza).
Inoltre vi è, fortissima, la motivazione economica: il nostro territorio è veramente una enorme risorsa da conservare e valorizzare; distruggerlo con i nostri mostri moderni è come dare fuoco ai pozzi di petrolio.
Ma voglio concludere con una nota di ottimismo: la scelta antichista è anche il frutto di una società evoluta economicamente e culturalmente, post-moderna, non industriale ma terziaria avanzata, la quale, esaudito ed esaurito in gran parte il fabbisogno abitativo, si pone il problema di migliorare la qualità della vita e per fare ciò si rivolge a quei modelli più collaudati e che hanno più appeal sul mercato. Risolto il problema dell'essenziale, ricchi e pasciuti ci preoccupiamo del superfluo e il gusto si affina, nelle arti, nella cultura, nella moda, nell'alimentazione, nell'abitare e affrontiamo argomenti di ordine superiore, più evoluti.
Per fare ciò è necessario studiare quei modelli (tornano in campo i muratoriani) e applicarli con serietà altrimenti facciamo come la Fiat, che a furia di sbagliarli (i modelli) rischia l'estinzione.
Il mercato è la nostra salvezza e la nostra guida.
Un'altra proposta in positivo: il prossimo obbiettivo potrebbe essere modificare le brutture esistenti, per esempio, rifare una bella facciata al palazzo della UPIM in piazza San Jacopo: sarebbe un bel manifesto del nostro Centro Studi Rinascimento Urbano (il progetto di ristrutturazione di Krier ad Alessandria è decisamente meglio del nuovo).
Adesso ti lascio, lascio questa splendida terrazza in un palazzo di Ibla (il centro storico di Ragusa), lo sfondo di questo meraviglioso presepe illuminato davanti a me e vado a dormire. Domani mi sposto a Noto, capitale del barocco, dove un grattacielo (dimensioni di quello scongiurato della Margheritone) è lì a ricordarci gli scempi edilizi della modernità.
Affogherò nel mare le mie ansie architettoniche. Madonna, quest'anno ho fatto le vacanze intelligenti!
Un saluto a te e ad Anastasia
Piero