Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 dicembre 2010

UN BUON 2010!

Il titolo non è un errore e nemmeno uno scherzo, ma solo il bilancio di un anno che ho letto oggi sul Sole24Ore, in cui l'economista Alesina scrive che la povertà del mondo nel 2010 è fortemente diminuita, non solo in oriente, ché già lo sapevamo, ma anche in Africa.
Non so quali possano essere le conseguenze per le città ma la notizia è un'ottima notizia a prescindere.
L'augurio è che il trend prosegua e che anche l'anno prossimo sia possibile stilare lo stesso bilancio.
Auguri a tutti di un sereno 2011.
Pietro

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28 dicembre 2010

ECCO I FASTI DELL'URBANISTICA E DELL'ARCHITETTURA CINESE

CLICCARE QUI PER APPREZZARE
Domanda: quale "cultura" c'è dietro?
Ognuno si risponda da solo

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26 dicembre 2010

GRATIS AL MUSEO

Nel 2011 musei gratis per tutti i cittadini italiani e UE nel giorno del loro compleanno. Questa la nuova, lodevole iniziativa promozionale del Ministero dei Beni Culturali in occasione del 150° dell’unità d’Italia.
Galli della Loggia potrebbe dire che la “vita” irrompe nei musei e prevale sulla storia; cosa c’è infatti di più legato alla vita se non il ricordo del proprio giorno genetliaco?
E poi quel giorno, quello del biglietto gratis dico, ognuno di noi potrebbe avere il suo momento di gloria: immagino me che il 10 ottobre, fatta la mia bella coda, arrivo alla cassa e dico con orgoglio mostrando il documento: “Oggi è il mio compleanno”, mi volto indietro e mi prendo il mio attimo di successo mentre tutti, applaudendo, intonano un happy birthday to me, ed io esco dall’anonimato, come in un reality. Sono soddisfazioni, c’è poco da fare!
E poi, in fondo, anche il Ministro Bondi è un poeta, uno che si appella ai sentimenti, uno che ama la narrazione, proprio come Niki. Dunque….


Per il mio turno dovrò aspettare più di 10 mesi. Pazienza, il problema non è questo ché anzi l’attesa alimenta il desiderio; il problema è la scelta.
Penso che andrò a Roma. Ho consultato l’elenco dei musei che rientrano nel programma e avrei stilato la mia check-list:
Museo Mario Praz
Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini
Galleria Borghese
MAXXI

Dato che escludo di poterli visitare tutti, sia per mancanza di tempo, sia per l’incapacità di mantenere a lungo il livello di attenzione, qualcosa dovrò tralasciare, anche per rispettare il senso di una check-list.
Certamente non perderò la Galleria di Palazzo Barberini, per le opere in essa contenute e per l’opera di Maderno, Bernini e Borromini.
Credo di riuscire a farmi anche il Museo Mario Praz, che è relativamente piccolo anche se ricco delle opere accumulate dal padrone di casa e degli arredi che fanno lo sberleffo ai loft di Manhattan.
La Galleria Borghese l’ho già visitata, metterebbe conto tornarvi ma non voglio esagerare con il biglietto a scrocco.

Mi resta il MAXXI! Sarebbe logico sceglierlo. Nella sua scheda riportata nel sito del Ministero c’è scritto:
Il MAXXI, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo è la prima istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea pensata come un grande campus per la cultura.

Non è un invito particolarmente incoraggiante per me. Sì, ho un pre-giudizio, basato però su un post-giudizio: se la stragrande maggioranza delle opere della creatività contemporanea rifiuta per scelta bellezza, figura e quindi comprensibilità ma costringe invece a leggere un catalogo impregnato di discorsi incomprensibili all’uomo comune che io sono, è altamente probabile, per non dire certo, che io mi ritrovi nella situazione di dover fingere di apprezzare e capire opere incomprensibili e di rimpiangere la Galleria Borghese.
A meno che non vi possa trovare opere contemporanee come quelle di Luciano Ventrone della due foto ad inizio post, ma mi sembra arduo che venga considerata dai curatori del Museo un'opera della "creatività contemporanea". Chissà, magari verrà giudicata solo vile tecnica pittorica, roba da operaio specializzato dei pennelli.
Però c’è il MAXXI, che non è solo "istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea" ma opera essa stessa della suddetta creatività, del tutto indipendente dal contenuto.
Ma oramai l’ho visto in tutte le salse: dal plastico ai rendering del concorso, dalle foto sui giornali e in rete, più numerose di quelle di Belen Rodriguez – che è certamente una bellezza contemporanea - ai post satirici e irriverenti su Archiwatch.
Certo, come scriveva Bruno Zevi, l’architettura non è rappresentabile attraverso la fotografia perché:
Lo spazio interno, quello spazio che.… non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta, è il protagonista del fatto architettonico. Impossessarsi dello spazio, saperlo «vedere», costituisce la chiave d'ingresso alla comprensione degli edifici. Fino a che non avremo imparato non solo a comprenderlo in sede teorica, ma ad applicarlo come elemento sostanziale nella critica architettonica, una storia e perciò un godimento dell'architettura non ci saranno che vagamente concessi. Ci dibatteremo in un linguaggio critico che giudica gli edifici in termini propri della pittura e della scultura, e tutt'al più elogeremo lo spazio astrattamente immaginato e non concretamente sentito (1)”.

Qui Zevi ha ragione. Ma forse quando ha scritto questo testo non poteva ancora immaginare a quale livello sarebbe potuta arrivare l’interpretazione dell’architettura e dello spazio da parte dell’architetto e soprattutto dal computer dei suoi collaboratori. Una interpretazione talmente individuale e personale, fuori da ogni schema, regola e da ogni linguaggio comprensibile e condivisibile, in senso letterale, che sembra costruita solo per il suo autore, come un diario privato, con la non piccola differenza che l’opera di architettura, quella pubblica a maggior ragione, appartiene a tutti e dovrebbe parlare una lingua nota a tutta la comunità.
Invece ai più non può restare che accettarla o rifiutarla, non per specifiche qualità dell’opera, difficili da trovare e ancor più da descrivere e comunicare, quanto per la maggiore o minore attenzione divistica attribuita al progettista dai media, corroborati dalle così dette scuole di architettura. Difficile anche comprenderlo in sede teorica, come auspica Zevi.
E allora farò a meno del MAXXI che non ha alcun segreto da svelare e su cui nemmeno Saper vedere l'architettura può essere di aiuto. Mi spiace solo dover rinunciare al terzo happy-birthday to me.

AGGIORNAMENTO: CONSIGLIO QUESTO LINK PER GODERE LE BELLEZZE DI UNA MOSTRA DI AVANGUARDIA. POTREBBE ESSERE IL MAXXI UNA SEDE ADEGUATA O SARA' UN EVENTO UNICO E IRRIPETIBILE?

Nota 1: Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura, Einuadi, 1964

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23 dicembre 2010

TECHNOLOGY MAY CHANGE BUT THE HISTORY REMAINS THE SAME

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10 dicembre 2010

IL DUOMO DI MILANO COME LUMINARIA NATALIZIA

L’amico Enrico Delfini, non architetto, mi ha inviato una mail con un commento ad alcune foto di architettura, come fa di tanto in tanto.
In genere mi manda foto curiose di stranissimi edifici oppure commenta architetture contemporanee non famose ma ugualmente strane e di tendenza. Enrico non è pregiudizialmente ostile all’architettura contemporanea, tutt’altro.
Questa volta mi ha offerto un punto di vista originale e profondo sull’illuminazione delle vetrate del Duomo di Milano. Non so se questa scelta rientri nel progetto natalizio delle luminarie, presentato anche al TG, ma so che il Duomo, in questo caso, è assimilato ad una luminaria di Natale, ad arredo urbano, il Duomo diventa anch’esso spettacolo occasionale ed “evento”, al pari di qualsiasi altra manifestazione pubblicitaria con al centro oggetti architettonici. Enrico spiega le motivazioni che non lo convincono, legando l’architettura, in questo caso l’architettura sacra, alla sua autentica funzione di luogo di culto per i fedeli e non a semplice involucro letteralmente “svuotato” di significato e di spazio interno e ridotto a gigantesca luminaria per “eventi” particolari.
Le foto sono visibili qui, nel sito del Corriere della Sera, il testo che segue è, naturalmente, di Enrico Delfini.

*****

Quando si dice che il mondo va alla rovescia.
Avevo sempre creduto che le finestre servissero per far entrare la luce dentro gli edifici, e che le vetrate gotiche (le RollsRoyce delle finestre) aggiungessero alla luce il colore, la forma, le immagini, le storie....
Ribaltare uso e funzione è buffo, ma soprattutto stupido.
Da parte della Curia ambrosiana (già nota per usi e abusi di spazi sacri) un autogol: non fosse mai che qualche turista potesse essere invogliato ad entrare in duomo, a respirarne lo spazio, a percorrerne le navate; magari trovarsi smarrito nella foresta di colonne, captare un certo vago sentore di una essenza superiore....
Le forme gotiche del duomo di Milano possono piacere, o essere di difficile digestione; ma resta un colosso dell'ingegneria e dell'architettura.

Mi ha sempre affascinato il suo essere "fuori scala" (senza riferimenti al vicino teatro!). Se ancor oggi giganteggia nel centro storico meneghino tra palazzi e costruzioni posteriori di secoli, ma che nemmeno si avvicinano alle sue dimensioni, mi chiedo che effetto deve aver fatto sui popolani del XIV secolo... quando le dimensioni degli edifici circostanti dovevano essere irrisorie.
Immagino quel che potrebbe aver pensato il buon Renzo Tramaglino, avvistando da chilometri di distanza quell'enorme montagna bianca artificiale, svettante su un mare di casupole e di campanili pigmei.
Qualcosa del genere, è possibile forse (era?) a chi arrivava a Manhattan via mare nei primi decenni del '900.....
Anche i grattacieli vengono illuminati (l'Empire State Building. ha colori diversi alle diverse cornici; tutto verde per San Patrizio!), ma sempre si tratta di luce proiettata da fuori sui muri e sulle pareti. Non mi risultano esempi di illuminazione "verso l'esterno" ! 

Enrico Delfini

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8 dicembre 2010

STRADE 10° : BERNARDO SECCHI

E' la volta di una concezione della strada completamente diversa da quella dei post precedenti. Un punto di vista a mio avviso sbagliato e allo stesso tempo sfuggente, nello stile personale di Bernardo Secchi, piuttosto involuto e prolisso, pur se immaginifico, ma anche nello stile di Casabella, direzione Gregotti. Nel testo ci sono però lo stile e i contenuti del tempo, con la percezione che qualcosa stava cambiando, che niente andava più bene, ma senza saper individuare una direzione da prendere, a parte la ormai abusata formula del così detto progetto di suolo, che ha informato di sè tutto un periodo di leggi e di piani urbanistici. Il progetto di suolo, un metodo assurto a merito, privo di contenuti se non si stabilisce "come", in base a quali criteri, con quale scopo il "suolo" debba essere progettato. Alla fine il progetto di suolo è diventato la presa d'atto di ciò che già esiste, una formula per congelare la realtà, molto spesso sbagliata. Quando invece diventa progetto, si esplicita in una occhiuta attenzione ad ogni dettaglio del territorio, tanto insopportabile e invasiva della sfera privata quanto irrealizzabile e iper-burocratica. Nel testo vi è una parte di analisi corretta e condivisibile, un insieme di suggestive narrazioni ma la sintesi è assente o, almeno, scarsamente comprensibile.
Bernardo Secchi è un urbanista che ha davvero influenzato l'urbanistica italiana di fine millennio, ma i suoi effetti si allungano fino ai nostri giorni.
Persona amabile e gentile, ha purtroppo dato vita ad una serie di allievi pessimi imitatori dell'originale, che hanno esasperato gli aspetti peggiori, più astratti e burocratici, del suo già abbastanza astratto insegnamento.
Il testo è tratto da un articolo di Casabella n° 553-554 del 1989, numero monografico dal titolo "Sulla strada".


Lo spessore della strada
Casabella n° 553-554

"Gli edifici sono uno accanto all'altro. Sono allineati. E previsto siano allineati, per loro è una grave colpa non essere allineati: si dice allora che sono fuori allrneamento, ciò vuol dire che si può demolirli per ricostruirli allineati con gli altri.
L'allineamento parallelo di due serie di edifici determina ciò che si chiama una strada: la strada è uno spazio bordato, generalmente lungo i suoi lati più lunghi. da case; la strada è ciò che separa le case le une dalle altre ed anche ciò che permette di andare da una casa all'altra, sia lungo la strada che attraversandola...

Contrariamente agli edifici che sono quasi tutti di proprietà di qualcuno, le strade non sono di alcuno. Esse sono suddivise. abbastanza giustamente, in una zona riservata alle automobili, che si chiama carreggiata, e in due zone, ovviamente più strette, riservate ai pedoni, che si chiamano marciapiedi. Un certo numero di strade sono riservate ai pedoni, in via permanente o in occasioni particolari. Le zone di contatto tra la carreggiata e i marciapiedi permettono agli automobilisti che non desiderano più circolare di parcheggiare. Essendo il numero dei veicoli che non desiderano più circolare molto maggiore del numero di posti disponibili, le possibilità di parcheggio sono state limitate...
Non è molto frequente vi siano alberi nelle strade... La maggior parte delle strade, invece, è fornita di attrezzature specifiche corrispondenti ai diversi servizi: vi sono così dei lampadari che si accendono automa¬ticamente... delle fermate di autobus... delle cabine telefoniche... delle buche per la posta... dei parchimetri... dei cestini per la carta... dei semafori... delle indicazioni stradali..."
Al suo esercizio di descrizione elementare George Perec fa seguire una "esercitazione": "Osservare ogni tanto la strada, magari con intenti sistematici. Applicarsi. Prendersi il tempo necessario. Notare il luogo... l'ora... la data... che tempo fa... Notare tutto ciò che si vede. Ciò che avviene e che sia degno di nota. Cosa è degno di nota? lo sappiamo? C'è qualcosa che ci colpisca? Niente ci colpisce. Non sappiamo vedere".

1. Non si può che essere insoddisfatti delle strade che abbiamo: inadeguate a risolvere i problemi del traffico e della sosta, luogo della massima concentrazione dell'inquinamento acustico, aereo e paesistico, suddividono incongruamente lo spazio urbano ed il territorio, ne esaltano le potenzialità e possibilità edificatorie, ne moltiplicano indefinitamente il carattere frammentario, la dispersione delle origini, delle destinazioni e delle motivazioni dello spostamento e con ciò aggravano lo stesso problema che sono state “ridotte” a risolvere.
La strada è oggi “luogo” cruciale per una riflessione sulla città ed il territorio: manufatto e spazio fondamentalmente ambiguo, destinato contemporaneamente a svolgere funzioni assai precise, solitamente interpretate in termini di meccanica dei fluidi, ed assai vaghe, interpretate solitamente in termini di meccanica dell'interazione sociale; destinato a svolgere ruoli palesi, di collegamento, ed impliciti, di redistribuzione della ricchezza, la strada impone un ritorno a visioni d'assieme che esplorino nuovamente, attraversando numerosi strati di riflessione, territori vasti e tempi lunghi.

La strada ci costringe ad abbandonare due grandi “miti d'oggi”: aiutati dall'orgoglio inconsapevole di una cattiva ingegneria e di un'urbanistica troppo adattativa, essi hanno cumulativamente riempito tutto l'immaginario collettivo dei paesi occidentali nell'ultimo mezzo secolo. Con conseguenze nefaste.

2. Nel nostro paese si potrebbe iniziare dall'alta valle del Chienti, nei pressi di Piastra, dove la nuova superstrada in costruzione ha aperto nei fianchi della montagna incisioni enormi, distruggendo, alterando, modificando interamente un paesaggio, senza porsi il problema di quello che avrebbe costruito e che pur avrebbe potuto essere progettato.
Si potrebbe proseguire lungo 1'Autosole nel tratto appenninico, o lungo l'autostrada della Cisa, o in molti altri luoghi analoghi, laddove il nuovo manufatto stradale già sovrasta alcuni strati di sue recentissime rovine: tratti di autostrada franati ed abbandonati. La vecchia statale e la più antica vicinale passano sinuosamente ai loro piedi ed insinuano il dubbio: che non si sappia abbastanza dei materiali, della loro durata, dei terreni e della loro stabilità, delle nostre stesse tecniche di costruzione: che si voglia andare troppo in fretta.
Si potrebbe entrare in città con la sopraelevata, correndo all'altezza delle finestre di appartamenti che un tempo guardavano il mare e ora si affacciano su rumori, gas di scarico e polvere. Oppure scendere per attraversare il traffico al passaggio pedonale non protetto, sull'esiguo marciapiede occupato dalle autovetture in sosta, prendere il sottopasso scuro, maleodorante; camminare in fretta lungo la strada periferica deserta, o tra la folla che non riesce a stare in marciapiedi così stretti, con le macchine parcheggiate in doppia fila.
Si potrebbe riconoscere in tutto ciò i caratteri del paesaggio metropolitano, rendersi conto che ciò è il portato di un cambiamento radicale che ha investito negli ultimi decenni la nostra società, la sua cultura e la sua città, dire a cosa tutto ciò si associa. Oppure pensare che tutto ciò derivi da errori evitabili: non si è previsto ciò che pur si poteva, non si sono mobilitate risorse adeguate, non si sono riservati i terreni necessari, non si sono valutate le conseguenze di ogni intervento. Tutto ciò ho l'impressione racconti solo una parte della storia. L'altra parte riguarda più da vicino il progetto urbanistico e di architettura.

3. Quando sta facendo un piano, qualunque sia la dimensione dell'area o del centro urbano investito, la questione delle strade diviene per l'urbanista un rompicapo ed un incubo.
Attorno ad essa, nei testi e discorsi degli amministratori, dei rappresentanti dei di versi gruppi sociali e di interesse, nella stampa, nella pubblicità, nelle analisi e nei progetti di altri tecnici e studiosi, nella loro stessa fraseologia, nelle metafore ed analogie cui essi ricorrono con maggior frequenza e che si riversano poi sulla società divenendone buon senso e senso comune, si viene quasi inevitabilmente ad addensare un nugolo di enunciati “anonimi, contorti, frammentari, chiacchieroni”, che, nel loro insieme, costruiscono il problema della strada in modo pressoché insolubile.
Alcuni pretendono di avere un carattere eminentemente inferenziale che possa essere sottoposto alla verifica o falsificazione. Nella maggior parte di questi enunciati Roland Barthes e Alfred Sauvy avrebbero riconosciuto alcuni dei principali “miti d'oggi”. Altri tendono a rinviare l'urbanista ad una visione d'assieme e ad un tempo lungo, a ramificati ed estesi sistemi di relazioni tra soggetti, attività, luoghi e saperi tra loro fisicamente o concettualmente distanti. Molti, all'opposto, gli propongono visioni limitate a situazioni contingenti, a soggetti, luoghi e saperi particolari ed ai loro specifici caratteri e ruoli. Alcuni enun¬ciati costruiscono il problema al di fuori dello specifico campo d'indagine dell'urba-nistica e dell'ingegneria ed architettura della strada, ma altri propongono e disegnano soluzioni di emergenza per problemi non ancora correttamente costruiti. Nessuno appare proprio di uno specifico soggetto parlante, deposito di uno specifico sapere; ma il loro insieme dà luogo ad una “rappresentazione collettiva” internamente contraddittoria che attraversa obliquamente i diversi gruppi sociali e di interesse e che tende a permanere con grande stabilità nel tempo; difficile da rimuovere e che peraltro si oppone con forza ad altre ed altrettanto importanti rappresentazioni: è da questa opposizione che nasce il rompicapo e l'incubo.
Ciò che domina la rappresentazione è un'immagine idraulica “banale”, solitamente utilizzata nelle due flessioni organica ed alluvionale per ridurre ed esaltare il ruolo della strada, ridurlo ad un unico scopo ed esaltarne l'importanza: si tratta di incanalare flussi; smaltire, evacuare, far circolare; evitare la formazione di ingorghi, allargare, dare nuovi sbocchi, impedire che il flusso rompa gli argini, straripi e sommerga la città. Nello spesso linguaggio, “intessuto di abitudini, di ripetizioni di stereotipi, di clausole obbligate e di parole-chiave” dell'odierna rappresentazione collettiva dei problemi del traffico e della viabilità le strade divengono “gronde”, “scolmatori”, “arterie” e “capillari”, "infrastrutture semplici", nel disegno delle quali si vorrebbe rappresentata un'idea pervasiva del movimento, della sua continuità e velocità; dalle quali si vorrebbe togliere nascondendola ed occultandola ogni incrostazione, ogni scopo diverso, come il fermarsi, lo stare, il voltarsi indietro e guardare.
Il frammento, l'eterogeneo, l'incongruo, il molteplice, la differenza hanno costruito un'altra grande e forse ancor più importante rappresentazione collettiva, un altro “mito d'oggi”; esso invade ogni aspetto del mondo fisico e delle idee opponendosi con forza ad ogni sguardo, ad ogni discorso e ad ogni pratica che aspiri a farsi generale. Siamo talmente immersi in questa nuova rappresentazione del mondo che vi riferiamo ogni incoerenza riscontrabile nei fatti o nei discorsi; l'usiamo in modo acquietante per trasgredire le regole linguistiche, le sintassi argomentative, le procedure d'interazione che ci siamo dati; per accettare la frequenza dell'imprevisto, per disfarci del peso della regola che si fa norma, per giustificare ogni progetto, forse ogni sua motivazione. Ad esempio per non rilevare le aporie contenute nell'idraulica della precedente rappresentazione collettiva. Per accettare che entrambi i miti rendano la strada, confinata allo svolgimento di una sola mansione tecnica, sempre più estranea alla costruzione del territorio, dello spazio urbano e del loro senso. La strada è divenuta oggetto di uno specialismo che la sottrae al campo dell'urbanista.

4. Per lungo tempo, invece, la strada è stata ineludibilmente costitutiva dell'oggetto di studio e del progetto dell'urbanista. Attraverso le strade l'urbanista ha letto ed interpretato la città, il territorio e la loro storia; attraverso le strade ha cercato di dare loro nuovi sensi e ruoli. Mi sembra persino difficile pensare il problema urbanistico od una sua qualsivoglia articolazione senza riconoscervi il ruolo assolutamente cruciale della strada.
L'urbanista ha usato le strade per misurare il territorio, per suddividerlo, per significare le differenze tra le sue parti ed il carattere di ognuna, per porre della distanza tra le cose, tra gli oggetti architettonici, le attività ed i loro soggetti, per definire allineamenti, regole d'ordine e loro eccezioni, per rappresentare il potere e la gerarchia, per separare, stabilire limiti e mediazioni, tra l'interno e l'esterno, il sopra ed il sotto, il privato ed il pubblico, ciò che si può o vuole mostrare e ciò che si nasconde; oppure per collegare, per mettere in comu¬nicazione tra loro territori, popolazioni e società, per attivare od imporre scambi, per rendere accessibili risorse umane e materiali, sfruttare loro giacimenti, rendere edificabile e valorizzare uno specifico luogo o terreno, deviare un flusso di traffico, attirarlo, consentire la sosta e la circolazione, delle persone e delle merci, lo scambio delle cose e delle idee. La strada, nella inesauribile serie delle sue specifiche varianti tecniche, funzionali, formali e simboliche, solo pallidamente ripetuta dalla varietà dei nomi mediante i quali vi facciamo riferimento, è sicuramente uno dei principali materiali con i quali l'urbanista si è da sempre trovato a lavorare; di volta in volta per affermare il valore della “regolarità”, della “continuità”, della “permanenza”, del “visibile”, dell'”organico”, della “tecnica”, della “velocità” entro differenti concezioni ed immagini dello spazio.
Alla strada, metafora del vivere, del conoscere e dei diversi percorsi della storia, nel progetto dell'urbanista è stato da sempre affidato un ruolo collettivo; non solo nel senso di costituire lo spazio dove per eccellenza la collettività si vede e riconosce sé stessa, la propria cultura ed i propri "miti", ma anche in quello di divenire segno di ciò che rende discreto, non omogeneo, articolato e cionondimeno coeso lo spazio sociale. Con il suo ambiguo carattere di traccia che collega e di limite che separa la strada, spazio tra le cose, si è fatta struttura cui gli altri spazi urbani, edificati e non, si riferiscono per acquisire significato: individualmente, come parti dotate di una propria riconoscibile identità, od insieme, come dettagli di una forma comprensibile e più generale. In questo senso la strada può rendere tra loro non incompatibili le due rappresentazioni collettive che dominano Io spazio urbano ed il territorio contemporaneo.

5. La cultura diffusa dei paesi occidentali è oggi percorsa da una ambigua nostalgia per la città antica in tutte le sue diverse declinazioni, ivi compresa la città del secolo scorso, e da un ingiusto rifiuto della città moderna; quasi una nuova rappresentazione collettiva in via di formazione che si esprime, per ora, in modo implicito ed inconsapevole come insieme disordinato di pratiche sociali, di procedure amministrative e di atteggiamenti progettuali. Della città antica non vengono rimpianti e riproposti per la conservazione e ripetizione i caratteri dello spazio privato, individuale, quanto piuttosto quelli dello spazio collettivo: la strada e gli gli spazi urbani, aperti o coperti, pubblici e privati, che ad essa si articolano. È mia impressione che di tutto ciò non si stia capendo molto: che si scambi il nuovo atteggiamento per una maggiore consapevolezza storica, per una più gelosa cura delle testimonianze storiche del passato, per una nuova specie di “antiquariato”, per uno snobismo di gruppi emergenti, soprattutto per un programma di ricerca dell’urbanistica e dell’architettura moderna.
Al contrario il nuovo atteggiamento mi sembra riveli “solo” l’emergere vago, cioè ancora aperto alle più diverse interpretazioni interpretazioni, di una domanda di spazio collettivo; di uno spazio, altrettanto vago, nel quale la collettività possa rappresentarsi, osservarsi e comprendersi nelle sue articolazioni e nel suo insieme, nel suo passato e nel suo divenire.
Il compito che sta oggi di fronte all’urbanista è appunto quello di restringere la vaghezza di questa domanda fornendole interpretazioni adeguate al carattere delle società contemporanee, che si rappresentino attraverso un “progetto di suolo”, inizialmente un progetto dello spazio stradale e di quelli che ad esso si articolano. Che si incominci conservando ed imitando, rivolgendo psi con qualche nostalgia al passato, osservando i caratteri “elementari” delle maggiori interpretazioni che ci hanno preceduto, cercando di descriverle, di classificarle, di ordinarle in differenti strati di senso, mi sembra normale, ma ancora insufficiente.
Ciò che occorre è ridare alla strada il suo spessore funzionale e semantico, farla divenire ancora elemento costitutivo del progetto urbano e territoriale, materiale resistente che, con la propria forma, si opponga al prorompere frammentario degli eventi e degli interessi, al fluidificarsi e mescolarsi delle idee, all’annullarsi di ogni riconoscibile identità, di ogni differenza tra progetti alternativi, di ogni criterio atto a stabilire la loro legittimità.
Ciò non si ottiene attraverso affrettate e burocratiche classificazioni e separazioni, risolvendo la questione per parti distinte: ad un estremo le strade destinate a smaltire il flusso informe del traffico con attaccati i loro parcheggi, all’altro, dietro il muro del parcheggio, la piazza commerciale riempita dei piccoli segni dell’arredo urbano. Non vi è niente oggi di più destinato all’insuccesso del piano di settore. Neppure si ottiene solo aumentando le dotazioni di superficie per la circolazione e la sosta delle nostre città. Le stime più ragionevoli ci portano a dire che non abbiamo le risorse fisiche, monetarie e temporali per ottenere significativi risultati risultati lungo questa strada. Ciò implica invece che i temi proposti alla politica urbanistica vengano di nuovo formulati, soprattutto che ne venga ripensata l’importanza e la priorità: la sintassi. In particolare, ciò implica che il problema del traffico venga per un momento de-drammatizzato, fatto uscire dall’emergenza “alluvionale” e ricollocato entro un progetto che aspiri ad una propria coerenza e legittimità nel tempo lungo. Si vedrà che questo è di nuovo un progetto complessivo: al centro vi saranno gli assetti morfologici, i principi insediativi e le loro mutue relazioni, le architetture urbane; dettagli che comporranno e trarranno significato da un insieme, da un piano urbanistico.


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4 dicembre 2010

POST A QUATTRO MANI SU CITYLIFE

Siamo in crisi? A Milano c’è Citylife, la mostra d'arte moderna che ci conduce nella casa-modello di 220 mq di Libeskind
di Ettore Maria Mazzola

Il Corriere della Sera del 3 dicembre 2010, con un articolo sul web supportato da immagini ci informa dell’evento milanese con la “casa-modello” dell’archistar, e ci annuncia che nella primavera del 2012 saranno pronte le case disegnate da Zaha Hadid.
La società dello spettacolo ha avuto la sua degna passerella, così gli organizzatori Maurizio Dallocchio, presidente della società CityLife, e Martina Mondadori, direttrice di Tar Mag si sono affrettati a far sapere che «Abbiamo dedicato una parte del quarto numero a CityLife proprio perché il cuore della nostra rivista è anche a Milano. Questo progetto porta tre archistar internazionali in città, ed è un evento straordinario». Il successo apparentemente sarebbe dovuto al fatto che sono arrivati come ospiti nientemeno che “Ambra Angiolini ad Arturo Artom, passando per Costantino della Gherardesca e Alberta Ferretti”.
Sulle pareti dell’edificio di Libeskind è stata organizzata una mostra di giovani artisti organizzata dalla galleria di Giò Marconi, il risultato è nelle immagini che il Corriere ha messo sul web.
Di tutte ce n’è una che mi ha colpito, ed è quella inserita anche nel corpo del testo dell’articolo.

Come si può vedere, trattasi di una stanza minuscola, (che in una casa da 220 mq costruiti ex-novo ci sta sempre bene), dove due visitatrici – che non sono né Ambra, né Alberta Ferretti – si trovano a dover aggirare un fantoccio riverso a terra con un imbuto conficcato in bocca.
Che vorrà dire?
Penso che il messaggio non sia tanto nascosto: nonostante la necessità dell’arte moderna di non svelare mai il significato ultimo dell’opera, in questo caso l’artista ci ha voluto rappresentare il padrone di casa a cui gli architetti vogliono fare ingurgitare a forza le loro schifezze! … quel pupazzo non è casuale.

La vita non è un party
di Pietro Pagliardini

Primo:
guardare le foto di questo link.
Secondo:
Che cazzo vuol, dire Citylife?
Dovrebbe voler dire, se ricordo la regola inglese per cui l’oggetto principale si scrive alla fine, la vita della città, oppure la vita di città, insomma la vita.
Certamente è così, perché la città della vita potrebbe essere il titolo di un film, troppo impegnativo, troppo filosofico, escatologico quasi e anche un po’ presuntuoso, tipo la città celeste. Oddio, visto il progetto, il tono delle foto pubblicitarie e le opere d’arte esposte, ci sta anche che abbiano voluto aspirare a questi livelli.
Comunque diamo per buono il primo significato.

Ma, ironia della sorte, “Back to city life” è anche il titolo di un workshop romano sul recupero delle periferie degradate. Ad essere malpensanti si potrebbe ipotizzare un’unica regia, un’operazione di lobbying, una pubblicità occulta, sarebbe a dire un’operazione orchestrata dal Grande Vecchio per veicolare il messaggio che la soluzione al problema delle periferie e della città sia Citylife, quella delle foto. Ad avvalorare l’oscuro intrigo almeno un paio di grattacieli presentati al workshop, uno da Portoghesi e l’altro da Purini. Ma quello di Portoghesi era un grattacielo formato famiglia, forme accattivanti, un grattacielo nazional-popolare. Quello di Purini aveva più pretese, in verità, più metropolitano, con tanto di pannelli fotovoltaici, addirittura.


Potrebbe essere proprio lui il tramite del complotto, se non proprio il Grande Vecchio? Tenderei ad escluderlo perché, nonostante tutto, anche questo aveva qualcosa di più ordinario, più provinciale di quello milanese. Senza offesa, anzi per complimento, ma era più ruspante, vagamente borgataro, relativamente a quello schiettamente metropolitano delle foto.
Insomma, niente complotto, solo una pura coincidenza temporale.


Ma vogliamo mettere quei bordi esterni spezzati delle terrazze, quelle linee sincopate e nervose, a scatti, quei cambi di direzione improvvisi proprie di chi va di fretta, di chi non può permettersi di perdere tempo. Nemmeno per mettersi a sedere, né per mangiare o per soggiornare davanti alla TV o a leggersi un giornale, almeno a giudicare dalle foto. Opere d’arte ai muri e anche per terra. Tavolo da giocatore NBA, pupazzo steso a terra con imbuto in bocca, molto elegante devo dire, colore bianco ovunque. Nessun letto, quindi niente riposo, niente amore e di conseguenza niente figli. No, questo non è vero, i figli si fanno anche in laboratorio. D’altra parte, avete visto forse una stanza per bambini? L’armadio? Abiti e scarpe attaccate al chiodo.
C’è gente che gira, che guarda un po' attonita. Donne in costume etno-religioso, donne statuarie, praticamente statue.

Una casa da party. Una casa metropolitana. Unica stanza riconoscibile è il cesso, unico richiamo alla nostra misera umanità. Meno male, anche se si poteva valorizzare di più anche qualche altra funzione umana.
No, la vita non è un party. E la metropoli, la vita metropolitana, non rappresenta gli insediamenti umani e la vita che vi svolge in Italia e nel mondo intero. E invece il messaggio che passa è questo, il modello di abitare che viene veicolato come giusto e auspicabile è proprio questo. L'architettura che sembra contare e che fa scuola è questa. Potenza della pubblicità cui il così detto mondo della cultura si è piegato e si piega passivamente.
Ma le borgate abusive romane sono migliori, molto migliori e i grattacieli non sono stati apprezzati. Se ci fosse stato complotto, direi che sarebbe fallito.




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2 dicembre 2010

ROMA WORKSHOP: PRIME IMPRESSIONI

Di ritorno dal workshop sulle periferie romane “Ritorno alla città”, organizzato dal Comune di Roma, una prima impressione, rimandando considerazioni più articolate a dopo la conclusione dell’incontro del 2 dicembre.
Oggi, sotto la guida del responsabile del Dipartimento del Dipartimento per la riqualificazione delle periferie di Roma, prof. arch. Francesco Coccia, sono intervenuti, Lèon Krier, Paolo Portoghesi, Marco Romano, Franco Purini, Galina Tachieva, Cristiano Rosponi e Nikos Salìngaros, chi presentando lo studio di una o più aree, chi, come Galina Tachieva, dello studo DPZ (Duany, Plater-Zyberk) illustrando il suo libro, Sprawl Repair Manual, una sorta di “libretto d’istruzioni” su come intervenire per riparare ai guasti dello sprawl negli USA, con una casistica ampia e varia di situazioni e soluzioni.

Le parole chiave, i tags, si direbbe nel gergo di Internet, dettate dagli organizzatori erano: densificazione, microchirurgia urbanistica, pedonalità, centralità alle periferie, e sono state espresse in maniera molto diversa da ciascuno degli intervenuti, sia come livello di approfondimento, sia come qualità delle presentazioni, sia come scelta della scala di intervento; da Lèon Krier che ha affrontato tutta la gamma possibile, da quella territoriale della rete infrastrutturale fino allo studio abbastanza dettagliato degli isolati e delle tipologie edilizie, a quello quasi esclusivamente architettonico di Portoghesi e Purini; ma in tutti, ad eccezione di Purini, almeno così a me è sembrato, c’è stata la consapevolezza che una pagina sembra essersi finalmente chiusa, quella del gesto architettonico totalmente estraneo al contesto e al tessuto esistente, della zonizzazione selvaggia, della segregazione della periferia, e un’altra se ne sta aprendo, quella in cui la città deve essere interpretata come un unico organismo e, in quanto tale, non possono esservi parti sane e parti malate.
I tags che escono invece dalle varie soluzioni sono: la strada, come protagonista assoluta del processo di risanamento, intesa come vera e propria arteria vitale che consenta il massimo di permeabilità, di relazioni e di comunicazione tra le varie parti; e poi l’isolato, studiato in modi diversi e con diversi rapporti tra pubblico e privato; le piazze come luoghi speciali e nodali risultanti dalle connessioni stradali e non come spazi astratti collocati casualmente secondo la volontà del progettista piuttosto che seguendo la “vena” della rete stradale.
Esprimendo un giudizio sintetico e necessariamente affrettato, oggi ho colto molto realismo e un atteggiamento di grande attenzione alla lettura di tutte le aree già fortemente urbanizzate oggetto di studio.
Una volta tanto l’abusato termine riqualificazione ha trovato un riscontro nei progetti e, guarda caso, proprio l’unica volta che non compare mai nei manifesti dell’incontro.
Una volta tanto non c’è stata la rappresentazione logora del pensiero unico, ma posizioni diverse si sono potute confrontare.
E oggi sarà la volta di Peter Calthorpe, Lucien Kroll, Francesco Cellini e altri.
A margine una nota sul luogo dell’incontro, l’Ara Pacis. Mi domando chi abbia avuto la geniale idea di realizzare quella barriera bianca che separa completamente chiese e Mausoleo di Augusto dal fiume per quattro stanzette in più.
Possibile che a Roma non ci fosse un altro posto dove fare una sala conferenze e uno spazio mostra?


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30 novembre 2010

ROMA: PROGETTI PER LA PERIFERIA

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23 novembre 2010

L'ISTINTO E LA RAGIONE

Io ho una gatta scontrosa. Anzi, avevo una gatta scontrosa. L’ho persa, in effetti, quando i miei hanno deciso a maggioranza, io all’opposizione, di prendere un altro cucciolo di gatto. Simpaticissimo questo, e ormai completamente umanizzato. Dorme nel lettone, come un figlio piccolo, ci segue ovunque andiamo, in casa o in giardino, ha i nostri stessi orari. Si sveglia con la sveglia e ci aspetta per la colazione. Cena con noi.
Però ho perso la gatta, che non ha retto al dolore di essere usurpata, o meglio, che non ha tollerato l’intrusione nel suo territorio di un estraneo. Prima dormiva spesso sopra la borsa del mio portatile lasciata per terra. Si vede che le risultava comoda, ma io mi illudevo che lo facesse perché era mia.
In realtà non l’ho persa del tutto, perché è andata a vivere dal mio vicino di casa e a cena viene spesso da noi, sempre con grande sospetto, guardandosi continuamente alle spalle temendo che arrivi l’intruso a disturbarla. Mangia e chiede subito di uscire. Come lo chiede? Lo chiede e basta.
Ieri sera sono andato a trovare il mio vicino e amico e collega. Vedo un nuovo gattino in casa sua. Domando come l’abbia presa la gatta. La risposta è arrivata prima che finissi la domanda: ha lasciato una chiara traccia nel divano, e non l’aveva mai fatto. Ben gli sta, al vicino dico.


E’ una gatta identitaria. Fortemente identitaria, ed ha uno smisurato senso della proprietà o meglio del suo territorio.
Ma lei segue il suo istinto, non la ragione, tanto meno la cultura. Noi esseri umani, fortunatamente, seguiamo, o dovremmo seguire, ragione e cultura e dunque siamo animali, sì, ma di tipo diverso e superiore.

Eppure non possiamo dimenticare del tutto certi istinti che sono latenti ma pronti a riemergere quando c’è una situazione di pericolo o di disagio o anche di benessere; non possiamo, e penso non dovremmo neanche desiderarlo, metterli a tacere una volta per tutte e fare finta che non ci siano. Anche questo è uno degli aspetti della nostra complicata umanità.
Abbiamo il dovere, però, di non comportarci come la mia gatta nei rapporti con i nostri simili. Non ci sono dubbi: in questi casi dobbiamo usare ragione, cultura, tolleranza, etica, morale. Il senso iper-identitario può andare a finire male.

Ma nel giudicare l’arte, la nostra casa, lo spazio in cui viviamo, la nostra città, non esiste obbligo morale a non giudicare anche con il nostro istinto. Non procuriamo danno a nessuno nel pensare e nel dire che un quadro di Fontana è solo un taglio su una tela, che la Merda d’artista è solo stomachevole, anche se ipotetica, merda di un artista, che un progetto della Hadid ci può disgustare e procurarci ansia e non appartiene al mondo dell’architettura ma solo a quello della vanità, pagata talora con denaro pubblico. Anzi, sono loro che procurano danni a noi, a quella parte di noi che appartiene anche alla mia gatta e che la fa scappare di casa, e quindi l’immoralità, se c’è, non è la nostra.

Non c’è motivo di vergognarsi se la scatoletta che non si sa cosa contenga davvero - e che se uno si vuole cavare lo sfizio di saperlo deve buttare una cifra variabile da 15.000 a 130.000 euro (non so se dipende dall’annata) - non solo non ci piace ma ci sembra anche una bella presa in giro. Non c’è motivo di vergognarsene perché l’istinto ci suggerisce che è una presa in giro e non c’è una vera ragione perché prevalga una cultura concettuale e astratta che confligge con un aspetto non secondario della nostra umanità, perché il prodotto contenuto nel barattolo non ci stimola propriamente il senso estetico ma quello di nausea, anche se è solo evocato.

Certo, il senso estetico appartiene all’uomo e basta, ma anche questo ha a che fare con i sensi e con la natura che è in noi; quel senso estetico che ci fa apprezzare paesaggi naturali splendidi, nel cui giudizio siamo tutti alla pari a prescindere dal grado d’istruzione e di intelligenza, se non per lo scrittore o il poeta o il pittore che riescono ad esprimere meglio di altri le proprie emozioni attraverso la loro arte; ma si tratta di comunicazione di emozioni, appunto, non di maggiore o minore capacità di emozionarsi. Nessuno può infatti supporre, e tanto meno affermare, che l’analfabeta abbia emozioni inferiori al premio Nobel.

Se un quadro di quello stesso paesaggio che tutti ammiriamo è composto da tre macchie di colore informi ecco che ci si divide e i più vedranno tre macchie di colore informi, gli altri un’opera d’arte. Entrambe i giudizi hanno diritto d’asilo, anche se il secondo richiede argomentazioni e non fuffa e non deve prevalere con la prepotenza.
Libertà vuole che ci siano persone che apprezzano la Merda d’artista o la Hadid o Libeskind e nessuno deve loro negare questo diritto (apprezzare le squallide periferie, invece, è un diritto solo per chi ci abita, gli altri non hanno titolo perché non sono credibili), ma vale anche la reciprocità e chi non le apprezza o le detesta ha il diritto di dirlo senza dover essere additato come un cavernicolo illetterato e primordiale. Libertà vuole che nessuno ha il diritto di importi ciò che ti deve piacere.
Vale per i progetti della Hadid, o per un film di Godard, o per la musica classica contemporanea (che non esiste quasi più) o per gli incubi urbani di Le Corbusier o per gli edifici storti e spigolosi di Libeskind (già, che fine ha fatto anche lui?) o per le tristi periferie che sono tristi perché intristiscono coloro che ci vivono, checché ne dicano architetti e critici e sociologi (che però non ci vivono).
Chissà che fine farà la mia gatta, senza più casa? Stasera è tornata a mangiare da me ma ha chiesto di uscire subito dopo, come sempre.
Speriamo che il mio vicino abbia capito e rinunci al nuovo gatto, che tra l’altro pare abbia già un padrone, perché fuori piove.

Pietro Pagliardini

Credits:
L'immagine Excremental Value è tratta dal blog angel's Blog

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19 novembre 2010

IL PERICOLO DI UNA CULTURA MONODIREZIONALE

Un approfondimento del tema svolto svolto in un precedente post sul crollo a Pompei, sempre del prof. Ettore Maria Mazzola.

Sui danni al patrimonio artistico derivanti da una cultura monodirezionale
di Ettore Maria Mazzola

Premessa
E così è venuto giù un altro pezzo del nostro patrimonio: la Schola Armaturarum di Pompei, una costruzione dal volume semplice, costruita in opus mixtum di tufo e laterizio, che grazie agli scavi di Vittorio Spinazzola (1910-23), era stata restituita all’umanità dopo quasi 2000 anni di oblio conseguente l’eruzione del 79 d.C.
L'edificio, che si ergeva su via dell'Abbondanza – la strada principale della città – fino alla settimana scorsa era, per motivi di sicurezza, visitabile solamente dall'esterno.
Subito dopo il crollo, l’ANSA aveva battuto la notizia dicendo: “secondo quanto si apprende dalla Sovrintendenza le cause del crollo possono essere attribuite al peso del tetto in cemento armato della palestra stessa. La casa, infatti, fu bombardata durante la Seconda guerra mondiale e la copertura è stata rifatta tra gli anni '40 e gli anni '50. È probabile - fanno sapere dalla Sovrintendenza - che le mura antiche, dopo anni, non abbiano più retto al peso del tetto".

Nella mia lettera aperta – pubblicata su una decina di blog italiani all’indomani del crollo – avevo stupidamente sperato che il crollo della chiesa delle Anime Sante di L'Aquila e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio, avessero aperto gli occhi a chi “sovrintende”, e che quindi non si sarebbe più dovuto rimpiangere i nostri monumenti a causa di crolli generati da restauri sbagliati, ovviamente mi sbagliavo … e ovviamente il caso della Schola Armaturarum non può ritenersi l’ultima di queste tragedie.
Dà rabbia leggere quanto è stato pubblicato sui giornali, ed è stato dibattuto in televisione, a proposito del crollo pompeiano. Gli italiani hanno dovuto assistere inermi ad un vergognoso battibecco da pollaio, in cui i politici dei diversi schieramenti hanno menato il can per l’aia, nel vano tentativo di farsi belli davanti all’elettorato: “è colpa del ministro attuale!” “No è colpa dei ministri della sinistra che hanno operato male facendo incancrenire la situazione!
Ciò che è sfuggito ai nostri politici, e ai loro “scriba”, è che, mentre loro approfittano cinicamente di queste situazioni per fare la loro campagna elettorale, la cricca, che è la reale responsabile di questa situazione preoccupante, continua imperterrita per la sua strada!
Come infatti ha ammesso anche la Soprintendenza Archeologica di Pompei, la “responsabilità va fatta ricadere sull’errato restauro in cemento armato che aveva sovraccaricato la struttura!” Il problema è ben noto a tutti da anni, è non è neppure il primo caso visto che il Prof. Marconi racconta, spesso e malvolentieri, della sua triste esperienza Pompeiana relativa alla Casa delle Nozze d'Argento, ove l'Oecus Tetrastilo venne a subire una sorte simile a quella della Schola Armaturarum, grazie all'ottusità della sovrintendenza che si rifiutò di far realizzare (con soldi stranieri per giunta) la sostituzione, con una struttura lignea, di quella in c.a. eseguita negli anni '50... motivo del diniego? Sarebbe stato un falso storico!

Il dibattito sano
In questi giorni, sul suo blog De-Architectura, Pietro Pagliardini ha denunciato l’ennesimo scempio in corso nella sua Arezzo, dove la Fortezza Sangallesca è oggetto di “restauro creativo” da parte di professionisti locali che, sotto l’egida della Soprintendenza, stanno provvedendo a ricostruire con una struttura posticcia (“curtain-wall”) la porzione di un bastione: evidentemente, per questi “tecnici illuminati” l’uso del mattone, nella città le cui mura furono menzionate da Vitruvio come il primo esempio romano di utilizzo della muratura piena di mattoni, probabilmente era troppo scontato!
Già all’indomani del crollo di Pompei tutti i blog sull’architettura in Italia si erano scatenati, raccogliendo centinaia di post e commenti, pro e contro, un determinato modo di approcciare il cantiere di restauro.
Succede che, quando si dibatte sui blog, chiunque sia legittimato a dire la propria, e questo nella maggioranza dei casi è un bene! Tuttavia, quando il discorso si fa tecnico, chi partecipa al dibattito animato dall’ideologia, raramente accetta il parere di chi invece possa essere motivato dalla sua esperienza pratica di cantiere.
Del resto, viviamo nel Paese dove tutti si credono ingegneri e allenatori della Nazionale di calcio e, diceva Pirandello, così è se vi pare!
Questa situazione fa sì che i discorsi divengano infiniti, nessuna delle parti in gioco riesce ad ammettere “ok, mi ero sbagliato!” E allora si gira e rigira la frittata, pur di dimostrare di aver ragione anche davanti all’evidenza del contrario; finché, per sfinimento, una della due parti (spesso quella nel giusto) abbandona il ring … ma agli ignari lettori il dubbio rimane.
Il rischio di questa “resa” è che essa possa venir letta come la conferma del fatto che il “restauratore filologico” – quello vuole ripristinare tutto com’era e dov’era, e con gli stessi materiali adoperati all’origine – sia mosso semplicemente dalla sua ideologia, mentre il “restauratore creativo” – o il suo sostenitore – sia invece colui che, per onestà intellettuale e storicista, vorrebbe attualizzare il monumento.
Alimentare questo dubbio, in un’epoca in cui il livello di ignoranza in materia di restauro è ai massimi storici, è quanto di più sbagliato possa avvenire.
Sarebbe invece il caso di ammettere che i vari Brandi e Pane si sbagliavano, e che aveva ragione Ceschi quando a proposito dei palazzi genovesi e del campanile di Venezia difendeva la “falsificazione della storia” a vantaggio del bene e del bello comune, e soprattutto aveva ragione quando sosteneva che il restauro debba essere sempre affrontato “caso per caso”.
In vista di una vera campagna di salvaguardia del nostro patrimonio, sarebbe doveroso un “mea culpa” da parte delle Soprintendenze e, prima di loro, da parte delle eminenze grigie che dalle cattedre universitarie impongono i loro dogmi. Spesso, tra l’altro, molti dei docenti che pretendono di insegnare come restaurare, non hanno alcuna conoscenza della pratica, e devono le loro conoscenze ai soli libri sulla Teoria del Restauro, spesso datati!
Se poi pensiamo che, la maggioranza di chi detiene il bastone del comando all’interno delle Soprintendenze, possiede una laurea in Lettere Classiche e/o Beni Culturali, ignorando in toto il processo costruttivo e la tecnologia dei materiali da costruzione, appare ridicolo che lo Stato riponga fiducia assoluta in un Ente ignorante in materia tecnica.
Ebbene, penso che si debba necessariamente dare qualche chiarimento.

Il cemento … se lo conosci lo eviti!
Il cemento è un pessimo materiale per il restauro, chi lo ha inventato non poteva conoscere i suoi effetti collaterali nel medio-lungo termine, tuttavia la Carta di Atene del '31 ne impose il suo utilizzo, e quello dei materiali sperimentali, nel restauro dei monumenti ... si ritenevano utili perché più resistenti … inoltre consentivano di riconoscere l'antico dal nuovo.
Prima di addentrarmi in discorsi chimici – ovviamente semplificati per essere accessibili a chiunque – voglio ricordare un dato fisico, ben noto sin dagli albori di questo materiale, che riguarda il suo peso rapportato a quello delle murature tradizionali.
Mentre una muratura tradizionale pesa in media 1700-1800 Kg/mc, una muratura in cemento armato ne pesa 2500! Va da sé che, se una muratura venne dimensionata (anche gli antichi facevano le loro valutazioni, pur su basi geometriche e proporzionali) per reggere un solaio ligneo, il cui peso va dai 32 ai 50 kg/mq, è ben difficile che oggi possa reggere un solaio latero-cementizio, il cui peso oscilla tra i 250 e i 300 kg/mq!
Il cemento si ottiene per cottura di marne, oppure di miscele artificiali di calcare e argilla. La caratteristica fondamentale del prodotto di cottura (clinker) è che – a differenza delle calci idrauliche – la calce vi è interamente combinata come silicati, alluminati e ferriti di calcio. Il meccanismo di indurimento di questo legante riguarda pertanto sostanzialmente l’idratazione dei composti formantisi durante la cottura.
Per prevenire fenomeni indesiderati in fase di esercizio, dei quali dirò, occorre controllare molteplici parametri (modulo idraulico, modulo silicico, modulo dei fondenti e modulo calcareo) che potrebbero inficiare la qualità del prodotto finale.
In particolare, se il livello ammissibile di “calce libera” venisse superato, si potrebbero avere seri problemi, mentre se risultasse inferiore al minimo, il cemento si polverizzerebbe spontaneamente all’aria!
Durante la cottura, la calce che si forma dalla dissociazione termica del carbonato di calcio (CaCO3) reagisce con l’allumina e con l’ossido ferrico; la parte residua (calce restante) si combina chimicamente con la silice per formare silicato bicalcico (2 CaO SiO2) e silicato tricalcico (3 CaO SiO2): questi due silicati sono i più attivi costituenti idraulici del cemento.
Il silicato tricalcico, nella sua reazione con l’acqua d’impasto, sviluppa un’elevata quantità di calore (che nelle murature antiche è molto pericolosa), inoltre presenta un’accentuata attitudine al ritiro, accompagnata da un’elevata velocità di indurimento: quest’ultima proprietà è importante ai fini della resistenza alle brevi stagionature. Esso perciò si tiene abbondante nei cementi (supercementi) che devono servire per strutture non molto spesse da disarmarsi rapidamente. Dal punto di vista chimico le sue proprietà, come vedremo, sono poco soddisfacenti. In ogni modo questa velocità fa sì che molte imprese usino questo tipo di cementi per velocizzare il lavoro!
Il silicato bicalcico, invece, sviluppa pochissimo calore durante la reazione con l’acqua, ha scarsa attitudine al ritiro, ed ovviamente una lenta velocità di indurimento: affinché raggiunga una resistenza meccanica accettabile occorrono mesi, anche se la resistenza finale è simile a quella del silicato tricalcico. È ovvio che questo tipo di cemento, nella società del mordi e fuggi non nutra le simpatie delle imprese che vogliono accelerare i cantieri. In ogni modo, considerato che il silicato bicalcico è il costituente che consente l’aumento della resistenza meccanica alle lunghe stagionature, esso viene mantenuto abbondante nei cementi utilizzati per costruzioni di grosso spessore, e per quelli che devono avere una certa resistenza chimica.
Tuttavia, nei corsi di Tecnologia dei Materiali da Costruzione, (il mio professore è stato Francesco Romanelli, già collaboratore del grande Pier Luigi Nervi) ci insegnano che “con la sostituzione del silicato tricalcico con il silicato bicalcico, entro i limiti accettabili per le resistenze meccaniche, si realizza il duplice vantaggio di ridurre il calore d’idratazione e migliorare la resistenza chimica del materiale. I cementi ricchi in C3S sviluppano, infatti, una notevole quantità di calce di idrolisi (cementi ad alta basicità) che, dal punto di vista chimico, rappresenta il “tallone di Achille” del cemento”.
Ci si dovrebbe dilungare nel raccontare i problemi collegati con la necessità di accelerare i tempi di realizzazione cercando di mantenere delle buone resistenze meccaniche, cosa che però comporta grossi problemi di fessurazioni, dovute al rapido ritiro, e con esse un indebolimento strutturale e un’elevata permeabilità. Sarebbe utile far conoscere i vari “trucchi del mestiere” escogitati dai costruttori per ottenere questi obiettivi; trucchi che però non portano a nulla di buono: per esempio, per ripristinare le caratteristiche di lavorabilità del cemento, si usa aggiungere acqua in betoniera, ma questo trucco diminuisce gravemente la resistenza meccanica ed aumenta la permeabilità del manufatto indurito!
Ciò che non viene raccontato del cemento è il perché esso tenda a deteriorarsi in tempi molto brevi se raffrontati a quelli delle malte tradizionali.
La causa di disgregazione di una pasta di cemento può essere provocata da cause sia interne che esterne: nel primo caso la disgregazione si produce in tutta la massa, che si altera profondamente in tutte le sue parti; nel secondo l’alterazione si manifesta inizialmente solo in alcuni punti della superficie, e procede poi verso l’interno. La calce libera (CaO) e la magnesia (MgO), ed un eventuale eccesso di gesso, sono le cause intrinseche di alterazione. Si noti che, anche piccoli tenori di calce non combinata chimicamente nei clinker creano enormi problemi. Questa calce, cotta all’elevata temperatura del cemento, risulta bruciata per cui si idrata molto lentamente, quando il cemento ha già fatto presa, provocando rigonfiamenti e screpolature: il cemento risulta espansivo a causa dell’espansione della calce.
La magnesia presenta fenomeni simili a quelli della calce, ovvero l’espansione si manifesta in tempi molto lunghi, anche 1 – 2 anni dopo la messa in opera!
Nel caso del gesso in eccedenza, si hanno forti fenomeni di espansione a causa della formazione di solfoalluminato di calcio successivamente alla presa, che provoca un forte aumento di volume.
Altre volte, il deterioramento è causato dall’impurità del cemento che presenta degli alcali.
Ovviamente, occorre prendere in considerazione anche le ragioni del deterioramento causato da un attacco esterno, cosa anche questa ben nota, ragion per cui risulta ridicolo che si sia teorizzato, e si continui ad adoperare il cemento a faccia vista della cosiddetta “architettura brutalista”.
Una certa influenza su deterioramento è data da fattori di origine fisica (calore eccessivo, gelo) e chimica (azioni di acque aggressive, capaci di provocare fenomeni di dilavamento e di rigonfiamento) … non volendo annoiare con discorsi troppo tecnici, lascio al lettore la possibilità di comprendere da sé per quale motivo la soprintendenza e i politici, per il crollo di Pompei abbiano accusato le piogge!
Finora ho descritto il problema limitandomi al cemento; il discorso però andrebbe fatto per quello che è il materiale che viene adoperato nei cantieri: il calcestruzzo armato, ovvero un composto di cemento e inerti, rinforzato con barre di acciaio, cui spesso e volentieri vengono addizionate sostanze chimiche, (molto tossiche), che servono a ritardare o accelerare il processo di presa e indurimento e/o altro.
Ovviamente, per renderle solidali con le preesistenze, le strutture in c.a. vengono opportunamente “ammorsate” nelle murature originarie, ragion per cui, nel caso dell’uso del c.a. nei cantieri di restauro, risulta necessario fare delle piccole (o grandi) demolizioni per realizzare gli ancoraggi tra le vecchie e le nuove strutture. C’è da dire che, mentre le strutture antiche hanno la capacità di adattarsi gradualmente ai vari cedimenti, assestandosi e mai collassando, le strutture in c.a. risultano estremamente rigide e indipendenti dalle strutture originarie, sicché, come si è visto a L’Aquila, in caso di sisma queste strutture tendono a partire per la tangente, schiantando a terra ciò che le sosteneva!
Non occorre avere una laurea in chimica per sapere che il carbonato di calcio, CaCO3, è il peggior nemico del ferro, va da sé che qualche problema all’interno di una struttura in c.a. poteva essere immaginato da chi la teorizzò.
Per quanto riguarda il calcestruzzo, un problema molto serio è quello della carbonatazione, il fenomeno consiste nella reazione dell’anidride carbonica CO2 dell’aria con l’idrossido di calcio Ca(OH)2 della pasta di cemento, con la formazione di CaCO3. In determinate condizioni tale processo si manifesta con una diminuzione di volume. L’influenza della carbonatazione non è però limitata al ritiro. Ma anche alle notevoli conseguenze per quanto riguarda la corrosione delle armature in acciaio. Infatti nelle zone carbonatate il calcestruzzo non è più alcalino, o lo è poco, e quindi non è più sufficiente ad assicurare la passività dell’acciaio. Pertanto, ai fini della durevolezza, si richiede che il copriferro esposto all’aria risulti di spessore adeguato, e l’impasto abbia bassa porosità … ma spesso e volentieri chi costruisce lo fa e basta, e se ne frega di tutte queste precauzioni.
Vanno considerati poi gli effetti collaterali dell’acqua sul calcestruzzo.
Quando una struttura di calcestruzzo è in contatto con acqua, o altri liquidi, le cause di degradazione possono essere suddivise in cause di natura chimica, fisica o meccanica. Le prime ovviamente sono le più importanti
I tipi più comuni di agenti chimici aggressivi naturali sono i sali solfatici, quelli magnesiaci, le acque ricche in anidride carbonica, le acque pure e i cloruri; l'azione corrosiva di questi ultimi riguarda più i ferri del calcestruzzo armato che non il calcestruzzo stesso. Sono esclusi da queste considerazioni i liquidi di scarico industriale, acidi alcalini o contenenti composti organici ed inorganici, i quali per la loro azione specifica nei confronti del calcestruzzo andrebbero considerati caso per caso.
L'azione di questi agenti chimici si esplica sostanzialmente in tre modi:
l) per solubilizzazione della calce d'idrolisi (dilavamento); 2) per trasformazione dell'alluminato tricalcico ad opera dei solfati in un prodotto di volume maggiore, il solfoalluminato di calcio, da cui deriva la disgregazione della massa; 3) per attacco dell'idrossido e dei silicati di calcio da parte dei sali di magnesio, con formazione di prodotti ancora espansivi o incoerenti.
L'azione dei sali di magnesio è diversa a seconda del tipo di sale; per es.: il solfato di magnesio attacca l'alluminato tricalcico con formazione del solfoalluminato, ma questo in presenza di solfato di magnesio forma solfato di calcio, allumina idrata e idrossido di magnesio. Il solfato di magnesio attacca anche i silicati con formazione di solfato di calcio, idrossido di magnesio e silice. La silice e l'idrossido di magnesio tendono ad ostruire i pori, ma col tempo formano silicato di magnesio idrato privo di coesione. In modo analogo si comporta il cloruro di magnesio.
In aggiunta ai fenomeni descritti, e ormai ben noti, ce n’è un altro silente e terribilmente dannoso per il calcestruzzo armato, si tratta di un fenomeno quasi sconosciuto e poco studiato: l’inquinamento acustico!
La costante vibrazione delle strutture in c.a. sollecitate al rumore crea un lento ed inarrestabile processo disgregativo all’interno delle strutture che, nel tempo, tendono a perdere del tutto le loro capacità meccaniche!
Concludo questo paragrafo ricordando che, peggio del calcestruzzo si comportano i materiali chimici adoperati nei cantieri di restauro, per esempio le resine epossidiche le quali, benché finalmente bandite, continuano imperterrite ad essere adoperate dai restauratori senza cultura!

Riflessioni sullo stato attuale
La maggioranza della classe docente, dei responsabili delle Soprintendenze, e dei professionisti che operano nel settore del restauro sono “cresciuti a pane e cemento armato”, sicché non conoscono altra possibilità che quella. A questo limite culturale va aggiunto il problema, prettamente italiano, generato dalla teoria del Falso Storico.
Questo presunto “reato” induce – chi interviene e/o sovrintende ai lavori – a mettere alla base dell’intervento un approccio ideologico, fondato sui contenuti delle Carta di Atene e Venezia, così si dà per giusta la necessità di differenziare il nuovo dal vecchio, e opta per la“conservazione” del bene piuttosto che per il suo “restauro” … anche se poi, lo abbiamo visto, questa conservazione dura molto poco.
I crolli di Pompei e L’Aquila, e quello della Torre Medicea di Santo Stefano in Sessanio – tutti edifici mal restaurati (addirittura consolidati!) ad opera delle soprintendenze – lasciano supporre che, presto o tardi, verranno seguiti da altri eventi simili, a meno che non si provveda sollecitamente a rimuovere le strutture “moderne” insistenti su quelle antiche. Ma per far questo risulta necessario rivedere al più presto il modo di affrontare, ed insegnare, il restauro dei monumenti, a partire dalla necessità di abbandonare il “falso” problema della “falsificazione” che ci ha indotto all’uso di materiali e soluzioni aliene ai monumenti stessi.
La situazione non è dissimile da quella che lamentava, alla metà dell’800 nelle sue Conversazioni sull’Architettura, Viollet-Le-Duc; epoca in cui l’Academie des Beaux-Arts imponeva il solo studio del linguaggio Classico e Neoclassico. Il suo dubbio può essere riassunto in questa frase: se non diamo la possibilità ai nostri architetti di conoscere l’architettura gotica, chi potrà prendersi cura del patrimonio architettonico francese?
La differenza sostanziale è che, i fin dei conti, gli “accademici” francesi producevano edifici duraturi, benché lontani dall’architettura francese, mentre noi oggi non facciamo più nemmeno quello!
Chiudo citando alcune frasi illuminanti, tratte dalle “Conversazioni” di Viollet-Le-Duc, poiché esse sono da considerarsi una sorta di “testamento morale”, testamento sul quale occorre ancora oggi riflettere a fondo. Queste frasi, infatti, potrebbero essere state scritte in questi tristi giorni, durante i quali piangiamo la perdita della Schola Armaturarum, e assistiamo inermi allo scempio della Fortezza di Arezzo.

Sulla libertà dell’Arte: “le arti si sviluppano in modo attivo quando sono, per così dire, solidamente legate ai costumi di un popolo e ne costituiscono il linguaggio sincero. Esse declinano allorquando diventano una specie di cultura privata; allora gradualmente si rinchiudono nelle scuole e si isolano; ben presto adottano un linguaggio che non è più quello della massa. L’arte allora diventa un estraneo che talvolta viene accolto senza che si associ alla vita quotidiana. Si finisce con il farne a meno perché più di impiccio che d’aiuto; pretende di governare e non ha più sudditi. L’arte può vivere solo se libera nella sua espressione, ma sottomessa nel suo principio; perisce quando, al contrario, il suo principio è misconosciuto e la sua espressione ridotta alla schiavitù”.

Sul rischio di perdere la capacità di intervenire sul patrimonio a causa di un insegnamento distorto e limitato: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze”.

Sulla necessità di conoscere la tradizione per progredire: “è necessario riunire la più grande quantità di materiale possibile, per conoscere quanto è stato fatto e approfittare dell’esperienza acquisita; poiché è importante non passare il tempo ricercando la soluzione di problemi già risolti, e partire sempre dal livello raggiunto” […]. Esaminiamo quindi a fondo i nostri procedimenti e le forme solite della nostra architettura; confrontiamoli con i procedimenti e con le forme dell’architettura antica, e vediamo se non ci siamo sbagliati, se non occorre rifare tutto, per trovare quest’architettura del nostro tempo reclamata ad alta voce proprio da coloro che ci privano degli unici mezzi atti a crearla”.

Sull’esterofilia degli architetti: ”se ci teniamo a possedere un’architettura della nostra epoca, facciamo innanzitutto in modo che tale architettura sia nostra, e che non vada a cercare le sue forme e le sue disposizioni ovunque fuorché in seno alla nostra società. Che i nostri architetti conoscano gli esempi migliori di ciò che è stato compiuto prima di noi e in condizioni analoghe; niente di meglio se a tali conoscenze associano un metodo valido e uno spirito critico. Che sappiano come le arti anteriori hanno costituito l’immagine fedele delle società nel cui ambito si andavano sviluppando”.

Sulla perdita dei principi dell’unità e dell’uniformità: “tutti i nostri antenati sono rimasti degli osservatori fedeli di questi principi primitivi, derivanti dal semplice buon senso, solo noi li abbiamo messi da parte. ... gli antichi, al pari degli artisti medievali, hanno sottomesso le loro opere ai principi dell’unità, senza mai cadere nell’uniformità”.

Sul fallimento dell’architettura alla moda: “in definitiva, per il pubblico, questa architettura ha prodotto edifici scomodi, dove i servizi non sono né posti in risalto, né tanto meno soddisfatti; che non parlano alla sua mente, né ai suoi gusti; spese enormi che lo stupiscono talvolta senza commuoverlo mai”.

Del controllo assoluto: “il corpo, ricordo di istituzioni estranee alle idee della nostra epoca, è, nonostante tutto, padrone dell’insegnamento delle belle arti, padrone della maggioranza delle amministrazioni che dispongono dei capitoli di bilancio statale e delle grandi città destinate alle belle arti; padrone, quindi, delle sorti degli artisti e in modo più particolare degli architetti che, per manifestare il loro talento, hanno solo i lavori che dipendono da queste amministrazioni”.

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15 novembre 2010

IL RESTAURO CREATIVO DELLA FORTEZZA DI AREZZO

Ecco un caso in atto di restauro diverso da quello di Pompei ma più in linea con i tempi e non meno distruttivo di quello: il restauro creativo.
Il caso: Fortezza Medicea di Arezzo. Autori: Giuliano e Antonio da Sangallo, mentre Antonio da Sangallo il Giovane ha seguito i lavori. Per altre notizie storiche rimando al link.
E' in corso l’esecuzione di un progetto generale di restauro e riuso della Fortezza. Sorvolo sul riuso perché occorrerebbe spiegare tutte le condizioni urbanistiche e sarebbe troppo lungo. Basti dire che non è affatto facile l’utilizzo continuativo di una fortezza, per natura inaccessibile, posta sulla sommità della città e separata da questa da un grande parco; dunque un’operazione difficile e una scommessa. Comunque il restauro delle mura, quello vero, cioè la manutenzione delle stesse, era senz’altro necessario e da quello che è dato vedere sembra essere stato fatto piuttosto bene.
Il problema si pone laddove l’architetto ha voluto lasciare il suo segno indelebile e trasformare un’operazione di restauro in un’occasione di “sperimentazione” architettonica e creativa. Posso dirlo senza rimorsi perché non so chi sia l’autore reale del “gesto”, dato che l’incarico è stato dato all’Università di Firenze che credo abbia lavorato di concerto con l’Ufficio Tecnico Comunale.
Cosa c’entra l’immagine in alto? E’ solo l'ideogramma del progetto.

In uno dei bastioni a nord, quello più inaccessibile dalla città, chiamato il Bastione del Soccorso, un orecchione era da lungo tempo parzialmente crollato. A terra c’era ancora molto, se non tutto, del materiale originario. In questo bastione è previsto uno dei due ascensori, e relativa scala, per accedere al complesso.
Il bastione è perfettamente simmetrico e non esisteva alcuna possibilità di “interpretare” come avrebbe dovuto essere ricostruito, almeno nella sua forma esterna. E infatti anche il progetto conserva la simmetria planimetrica originaria, ma lo fa a modo suo, cioè in vetro. Questo almeno nella prima versione.
Non sfuggirà a nessuno la esiguità del progetto, anche prescindendo dal tema principale, cioè dal fatto che si dovrebbe restaurare un’opera unitaria e di assoluto valore e non inventare, e non aggiungerò quindi inutili spiegazioni.
Evidentemente qualcuno deve essersi accorto che la soluzione era, diciamo, discutibile, non foss’altro perché la presunta unità planimetrica sarebbe stata del tutto assente nella visione reale, che sarebbe apparsa frantumata e tale che l’opera nuova avrebbe sovrastato, per la sua “originalità”, ciò che esiste, o almeno che ci sarebbe stata una certa esagerata dissonanza e deve aver pensato bene di trovare un compromesso: ricostruire la forma esterna del bastione, riportandolo dunque ad unità, ma in acciaio cortèn con tagli che servissero da appiglio per piante rampicanti!!!!

Mi spiace non disporre di un progetto più dettagliato di questo qui:
ma non è difficile poterlo immaginare.
Il tutto con il parere favorevole della Soprintendenza. Lo dico per semplice logica deduttiva dato che non potrebbe essere diversamente, anche se non sono al corrente (ma non è difficile immaginare) delle motivazioni che hanno portato ad approvare questa scelta. E’ perfino possibile ipotizzare le discussioni che vi sono state.
E infatti mi divertirò a farlo in un gioco di immaginazione di tutto il “processo creativo”.

Mi pare di sentirlo il travaglio profondo nel passare dal primo progetto, quello del grande gesto, dell’interpretazione architettonica e del dialogo tra il vecchio e il nuovo, tra la storia e la contemporaneità, tra l’originaria funzione di dominio militare da parte dei fiorentini sugli aretini con la conseguente architettura chiusa nella forma e possente nella materia e, di contro, l’apertura alla città (dei morti, perché il bastione è proprio sopra il cimitero) ben rappresentata dalla scelta del vetro, espressione simbolica di democratica trasparenza; e il secondo progetto, quello in corso di esecuzione, più misurato, rispettoso della forma ma che tuttavia non rinuncia alla, non fa un passo indietro rispetto alla, non teme la (non sia mai) contemporaneità.

Il cortèn è la soluzione giusta: materiale inattaccabile dalla ruggine perché già arrugginito, materiale post-moderno, post-industriale, post-nazionale e dunque globale.
Ha il fascino del vecchio ma denuncia chiaramente il suo essere nuovo, è adatto ad ogni circostanza, al bagno di tendenza, al ristorante del grande chef, all’arredo urbano (sedute come se piovesse), se attaccato ad una parete in forma rettangolare potrebbe sembrare perfino un quadro di arte concettuale, molto materico e dialogante con la pietra, insomma perfetto.
Di più: i tagli orizzontali (o verticali, non saprei) creano da dentro giochi di luce e di suggestive trasparenze e quindi, oltre alla suggestione emotiva, rimane anche la suggestione democratica della trasparenza del vetro.
Una pensata migliore non si poteva fare!

Last, but not least, la ciliegina sulla torta, il fascino del pittoresco e del rudere, John Ruskin, la forte tempra morale nel restauro: il rampicante, segno della natura che prevale sul manufatto e si riappropria dell’opera dell’uomo, dunque espressione della caducità di un’opera nata invece per essere aggressiva ed eterna. E poi, il ricordo, il memento della ferita che rimane come ulteriore monito all’uomo di non pensare all’eternità. Contrasti e sapori forti.

Cari Sangallo, non pensiate di essere ricordati solo voi, pur bravi ma terribilmente antichi! Adesso i posteri diranno che anche noi contemporanei abbiamo saputo "dialogare" e "confrontarci" con voi, con la storia, con la memoria, anche senza consultarvi (cioè nell’unico modo possibile, leggendo la vostra opera e rifacendola come voi l'avevate ideata).
Ci siamo confrontati sì, ma con la sensibilità di uomini del nostro tempo, con la nostra "cultura", non abbiamo ingannato gli ignari visitatori rifacendo un falso storico, noooo, come Piazza Grande o come la guglia del campanile del Duomo che sono tutti falsi degli anni '30, questi zotici, e non li costringiamo a dire "quanto è bella questa fortezza", perché se è falsa non può essere bella, per definzione, anche se a loro sembra il contrario, al pari di Piazza Grande e della guglia del campanile. Ma lo dicevano perché non lo sapevano. Ma adesso sanno e potranno e dovranno così dire "guarda l'architetto come è stato originale"!
Adesso anche noi abbiamo, finalmente, lasciato il segno, adesso anche noi esistiamo.
Forse.

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13 novembre 2010

LANGONE SUL CROLLO DI POMPEI

Un'altra Preghiera di Camillo Langone sul crollo della Casa dei Gladiatori a Pompei.
Langone ha ragione su tutto, salvo il fatto che ha trascurato (ma ne è consapevole) nel suo elenco di coloro che puntano il dito contro il cemento armato nel restauro molti nomi, tra cui Ettore Maria Mazzola, che lo afferma da sempre e l'ultima volta l'ha fatto su questo blog con il suo post del 7 novembre, PERCHE' IL CROLLO DI POMPEI, ed anche gli ingegneri più attenti che hanno fatto tesoro dei vari disastri causati dal c.a. nei terremoti che hanno martoriato la penisola.

del 9 novembre 2010
di Camillo Langone

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12 novembre 2010

STRADE- 9° : DANILO GRIFONI

Ripropongo un testo già pubblicato un paio di anni fa su IL COVILE e scritto dall'Arch. Danilo Grifoni. Il tema non si limita alla strada in ambito urbano ma è una sintesi, scritta per un incontro pubblico, della cultura dei luoghi in cui Grifoni racconta il modo in cui l'uomo, storicamente, ha preso possesso dei luoghi, dalle origini ad oggi e in cui la strada gioca un ruolo decisivo sia a livello territoriale che urbano. Ma forte è anche lo spirito civile che attraversa tutto questo scritto, con l'invito alle varie comunità a diventare "proprietari" della cultura dei luoghi in cui vivono. Uno scritto tutto sommato breve per la qualità e quantità di contenuti che riesce ad esprimere.
Danilo Grifoni è architetto e urbanista in Arezzo, vive a Castiglion Fiorentino ed è autore, insieme, alternativamente, ad altri colleghi che cito di seguito, di numerosi Piani Regolatori in Val di Chiana: Roberto Verdelli, Enrico Lavagnino, Gabriele Corsi, Santo Maria Praticò, salvo altri di cui non sono a conoscenza e con i quali mi scuso preventivamente.

LA CULTURA DEI LUOGHI
di Danilo Grifoni

L'uomo, nelle diverse fasi storiche e nei diversi luoghi da lui occupati, ha sempre cercato di utilizzare al meglio le risorse territoriali piegandosi ed adattandosi alle caratteristiche, alle specificità, alle unicità dei luoghi stessi.

L'organizzazione o, più propriamente, la strutturazione del territorio, cosi come la formazione degli insediamenti ha dovuto confrontarsi con gli assetti morfologici e più in particolare con il sistema orografico e con il sistema idrografico, in sostanza con quella che può definirsi la vena, il verso del territorio e sono proprio il verso, la vena del territorio che hanno dettato le regole che stanno alla base dei comportamenti che l'uomo ha assunto rispetto all'insieme degli interventi effettuati durante le fasi di occupazione ed utilizzazione de! territorio.

Se la vena, il verso del territorio segnati dai corsi d'acqua, dai sistemi collinari, dalle pendenze, ha di fatto stabilito quella che sarà la sua orditura, in sostanza l'orditura e la forma dei campi, il reticolo dei fossi, il reticolo viario minore, la disposizione delle alberature, la direzione dei solchi, l'orientamento dei casolari sparsi (più legati al fondo che non ai percorsi fondamentali), ecco che rispetto alla scelta del sito, del luogo degli insediamenti ha influito quasi esclusivamente il sistema dei percorsi, quelli preesistenti, utilizzati dall'uomo per i continui spostamenti durante il periodo in cui si procacciava cibo raccogliendo bacche e cacciando.

L'uomo era nomade, ma non meravigli e non ci meravigli il fatto che il nomadismo tipico di molte specie animali, sia ancora oggi nel terzo millennio patrimonio di molte popolazioni che, dedite alla pastorizia, si spostano alla continua ricerca d'acqua e di nuovi pascoli (Tuareg, Beduini, Aborigeni dell'Australia, Samoiedi ecc).

Ma ritorniamo al tema: una volta apprese le tecniche della coltivazione, con la nascita dell'agricoltura l'uomo diviene stanziale.
E' questa nuova condizione che determina la necessità di provvedere alla formazione di insediamenti ed ancor prima alla scelta del sito.
Con le pianure ancora impaludate o ridotte alla condizione di deserto, quindi non utilizzabili ai fini produttivi; con le valli poco sicure per la loro difficile difendibilità, i primi nuclei vengono collocati lungo i percorsi di crinale secondari, alla quota delle sorgive, cosa che garantisce l'approvvigionamento idrico.

I centri si uniscono attraverso le vie di mezza costa che sostituendo i crinali quali percorsi territoriali fondamentali, favoriscono rapporti tra le diverse comunità, scambi e più in generale una soddisfacente mobilità territoriale.
Per necessità legate a problemi di difesa, i nuclei vengono fondati di norma sulla testa del promontorio con la sella a monte e vanno a disporsi privilegiando o la direzione del crinale o quella della mezza costa.
Insediamenti quali Bibbiena, Poppi, Monte San Savino, Lucignano, Castiglion Fiorentino e molti altri, adagiati a cavallo del crinale privilegiano questa direttrice quasi a stabilire il loro rapporto particolare con le attività silvo-pastorali e quindi con tutto il mondo della montagna.
In queste realtà i rapporti, gli scambi sono ancora prevalentemente interni e favoriscono un rafforzamento dei comportamenti dell'area culturale che risulta poco interessata da contaminazioni esterne.

A mano a mano che vengono meno le necessità di difesa, che i territori di pianura vengono utilizzati e sottratti all'impaludamento, che vengono bonificati (l'uomo ha già appreso la tecnica della regimazione delle acque) si sviluppa contemporaneamente un vasto sistema di relazioni commerciali e culturali.
Si assiste ad un progressivo slittamento a valle degli insediamenti che nel loro procedere verso i percorsi territoriali di lungo fiume o pedecolllinari, seguono sempre il crinale che garantisce rapporti tra le diverse aree (montagna, collina, pianura) tra di loro diverse per il diverso assetto morfologico e quindi per ildiverso tipo di strutturazione determinatosi nelle diverse fasi di occupazione del territorio.
Se in questa fase i crinali tengono insieme parti dello stesso territorio, le mezzecoste ed i percorsi di valle relazionano tra di loro parti omogenee e centri creando un sistema insediativo ancora efficiente.
L'importanza dei percorsi di fondovalle, pedecollinari, quali veri percorsi territoriali fondamentali, favorisce la formazione di nuovi centri che vanno a collocarsi là dove si incontrano i crinali con i percorsi di lungo fiume o di fondovalle.
Questo è il caso di Soci, Subbiano, Capolona che occupano, come di norma, aree poste vicino
al guado(ponte) che favorisce il rapporto tra due aree culturali e quindi facilita gli scambi.

Nasce il luogo del mercato.
I centri urbani si dispongono lungo i percorsi principali che favoriscono il massimo dei rapporti possibili con gli altri insediamenti e con il territorio.
Le direzioni della crescita sono l'indicatore delle relazioni che si sono instaurate nel tempo con le aree contermini e con i centri più forti. Se quindi così il percorso territoriale diviene elemento fondativo dell'insediamento di fatto esso si connota anche per il suo essere elemento ordinatore nel senso che regola tutto il sistema insediativo che viene strutturato attraverso un reticolo viario coordinato con il percorso territoriale stesso.

Alcuni centri dove in pratica una sola strada svolge un ruolo significativo, l'insediamento si snoda a borgo quando invece il nucleo nasce dove due o più percorsi vanno a confluire, là si forma la piazza come slargo e con forme irregolari.
Sul borgo vanno a collocarsi gli edifici specialistici, l'insediamento si struttura per isolati che contengono edilizia di base costituita da edifici singoli a schiera o a corte gli uni addossati agli altri a creare cortine edilizie poste sul bordo della strada. II nuovo reticolo viario, la piazza, il disegno della città spesso lasciano leggere gli antichi segni dei precedenti tracciati, dell'orditura del territorio e ad essi si adattano strutturandosi per isolati irregolari.

Nei periodi in cui la volontà pianificatoria è forte (si pensi all'epoca romana, all'ottocento, al periodo fascista) la città si struttura secondo regole stabilite, sancite una volta per tutte, che danno ordine e regolarità che d'altra parte ritroviamo anche nel territorio.
Si pensi agli atti di pianificazione dell'epoca romana che vedono il territorio agricolo suddiviso in centurie di forma quadrata di 710 m, suddivise a loro volta in cento parti da destinare a coloni o centurioni.
Si pensi alla città costituita e strutturata attraverso un reticolo viario gerarchizzato che individua insulae (isolati) di 35,5 m x 17,75 m.
Nei centri urbani l'edilizia di base è caratterizzata dal tipo edilizio a schiera o a corte, dove si svolgono le diverse attività commerciali e produttive al piano terra direttamente relazionate con l'abitazione ai piani sovrastanti. Si sviluppa sul bordo strada con la pertinenza orto, giardino sul retro. Le diverse attività convivono all'interno dello stesso edificio e questo rapporto permane fino all'avvento della rivoluzione industriale quando la città allenta i rapporti, si spappola, nasce lo zoning.

Nelle zone agricole la casa rurale, una sorta di edificio aperto, quasi un'incompiuta, si adatta alla morfologia dei luoghi, si articola attraverso volumi semplici variamente disposti con al piano terra il ricovero degli animali ed al piano primo la zona destinata all'abitare.
La casa con gli annessi staccati, la pertinenza cortiliva (l'aia) si presenta come una variante della casa corte, che pur collocata all'interno dell'azienda, ritaglia uno spazio per le attività all'aperto, spazio verso il quale è disposta la facciata principale.
I tipi edilizi, la disposizione lungo il percorso nei centri, la scelta del sito per le case rurali che in prevalenza privilegiano il versante esposto a sud-est, i materiali quali la pietra per le murature, il legname per le coperture ed i solai, l'architrave in legno o pietra che lavorano per dimensione e non per forma, le bucature di dimensioni contenute, la pendenza dei tetti: sono la cultura.

Si pensi per un momento alle aree dove difficile era il reperimento della pietra e dove si era sviluppata la produzione e quindi l'uso del mattone.
Ecco in queste aree (Siena ) si è sviluppato in modo quasi esclusivo l'uso dell'arco alla cui forma facilmente si adatta il mattone senza che in ogni caso questo abbia comportato l'allineamento alla cultura europea.
Piace qui segnalare il grande valore della cultura ereditata, che nella nostra toscana si è dimostrata resistente alle influenze esterne, capace di piegare gli stili imperanti nei vari periodi, capace di accettare contaminazioni ma senza accogliere e tanto meno subire in modo acritico le mode del tempo.
Vorrei far presente che con il gotico imperante le nostre cattedrali adattavano le pendenze delle coperture a quelle delle tradizione, sostituivano gli archi acuti con quelli a tutto sesto, arricchivano sì i paramenti murari ma limitavano significativamente le parti vetrate operando così più in continuità che in dissonanza.
Si pensi che il barocco, la massima espressione dell'architettura, non ebbe nella terra toscana diritto di cittadinanza.

Se quindi è vero, come è vero, che esiste una cultura dei luoghi, se è vero, come è vero, che i valori che ci sono stati trasferiti quale grande lascito del passato sono ancora riconosciuti tali, credo che noi tutti dobbiamo stabilire strategie capaci di mantenere e valorizzare le nostre matrici storiche e culturali.

A fronte del rischio di una omogeneizzazione acritica ai modelli culturali, sociali ed economici che vengono quotidianamente proposti da una non ben definita cultura internazionale, una sorta di esperanto senza radici, il nostro obiettivo è quello di individuare le diversità insite nel territorio, ricercare le nostre origini, divenire in sostanza proprietari della cultura dei luoghi per poterci confrontare con pari dignità con le culture altrui.

Occorre capire le regole non scritte, i comportamenti confermati e consolidati che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita degli insediamenti, capire le diverse forme di strutturazione del territorio che hanno interessato le diverse aree culturali nelle diverse fasi di occupazione del territorio, capire il valore del tessuto e delle forme edilizie tradizionali che si sono dimostrati in grado di accogliere nel tempo mutamenti sociali ed economici e di incorporare un accumulo di saggezza costruita che rischia di andare irrimediabilmente perduta quando viene rimpiazzata da altri assetti tipologici.
Ecco tutto questo significa capire in sostanza che l'unica scelta possibile rispetto al grande rischio della omologazione che farebbe, della nostra provincia, della toscana tutta una terra qualsiasi che non sarebbe certamente apprezzata dai turisti ma che soprattutto resterebbe per noi estranea, ecco l'unica scelta possibile è quella di recuperare la cultura dei luoghi per recuperare la nostra identità.
In questo senso sembra che l'unica qualità stia nella continuità che significa ripensare ad una città e ad un territorio dove pezzi di città e pezzi di territorio siano tra loro rapportati quali elementi collaboranti di un unico organismo.

Una città e un territorio permeabili dove le strade finiscano su altre strade, dove venga recuperata l'antica dialettica tra emergenza e tessuto, tra edilizia specialistica ed edilizia di base, dove i percorsi siano tra di loro gerarchizzati, dove le strade non siano demonizzate, ma al contrario viste come elementi ordinatori e fondativi dello sviluppo, dove vi sia continuità di tessuto costruito, commistione di funzione al suo interno, coincidenza tra facciate e limite dello spazio stradale.
Una cultura che riconosca al territorio, alla città un suo verso una sua orditura rispetto ai quali produrre interventi coordinati e non mai controvena, una cultura che vada ad individuare e valorizzare le polarità urbane e territoriali per far corrispondere a queste attività specialistiche, oggi collocate e disperse in modo casuale sul territorio.
Una cultura che strutturi la città per isolati visti quali cellule elementari di un intero aggregato, capaci di dare ordine al costruito, di rendere la città fruibile, di garantire rapporti fra le diverse parti, di gerarchizzare i percorsi e quindi i diversi pezzi della città.

Da quanto detto, credo che si evidenzi la necessità di un fare urbanistica che, esaltando le specificità culturali, i comportamenti consolidati, le regole non scritte che stanno alla base dei processi di formazione e di crescita, riconosca il ruolo che hanno svolto e possono ancora svolgere, le diverse parti della città e del territorio, da una parte rimetta insieme vecchio e nuovo eliminando conflittualità dissonanze e situazioni di separatezza e dall'altra si fondi sulla valorizzazione delle tradizioni e delle culture dei luoghi.
Cultura e tradizioni che sono manifestate e si manifestano anche attraverso l'uso dei materiali, l'uso di tecniche costruttive, l'uso di tipi edilizi di modi di rapportare gli edifici al territorio e ai percorsi, di aggregarli tra loro.

Infine un fare urbanistica che sia su misura rispetto ad una realtà ricca di storia, di cultura, di tradizioni che sulla città e sul territorio ha lasciato segni che non possono essere cancellati, ma al contrario tutelati e valorizzati, convinti tra l'altro che, troppo spesso, abbiamo dimenticato che il nostro territorio, con i suoi viali alberati, con i suoi canali, con le sue case sparse, con le sue ville, con i suoi aggregati rurali così come la città con i suoi muri, con le sue vie, le sue piazze, i suoi monumenti è ancora oggi scuola dove si forma e si affina la società civile.

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