tag:blogger.com,1999:blog-12399160866526246892024-03-05T05:03:53.937+01:00DE ARCHITECTURAARCHITETTURA, URBANISTICA, TRADIZIONEPietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.comBlogger465125tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-311688807149517192014-10-02T17:03:00.002+02:002014-10-03T16:36:07.143+02:00L'architetto Enrico Lavagnino osserva sul PIT della Regione Toscana.Pubblico con piacere questa osservazione di Enrico Lavagnino, colta, ironica, disincantata e anche sofferta, sul PIT della Regione Toscana.<br />
E' un testo lungo ma ne consiglio vivamente la lettura.<br />
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<br />
Spett. REGIONE TOSCANA<br />
ASSESSORATO URBANISTICA,<br />
PIANIFICAZIONE DEL TERRITORIO E PAESAGGIO<br />
<br />
<br />
Cortona, 27 settembre 2014<br />
<br />
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Io sottoscritto Enrico Lavagnino, residente in Cortona (Ar), vista la Deliberazione del Consiglio Regionale del 02/07/2014 N° 58 che adotta l’Integrazione del piano di indirizzo territoriale (PIT) con valenza di Piano Paesaggistico,<br />
tenuto conto di quanto prevede la normativa regionale al comma 2 dell’Art.17 della Legge 01/05<br />
propone che vengano prese in considerazione le osservazioni allo strumento urbanistico adottato così come di seguito riportate.<br />
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<b>Osservazione all’integrazione del piano di indirizzo territoriale (PIT)<br />
con valenza di Piano Paesaggistico adottato con delibera CR n° 58/2014</b><br />
<br />
Fare un’osservazione vuol dire, guardare, leggere e giudicare una proposta, un fatto, una cosa e nel caso del Piano Paesaggistico della Regione Toscana (“Integrazione del PIT con valenza di Piano Paesaggistico”) significa comprendere i contenuti che si è prefissato, gli obiettivi, le azioni che si intendono mettere in atto per raggiungere gli obiettivi, per poi suggerire eventuali modifiche o aggiustamenti, valutando, a parte, quali potranno essere in seguito le reali possibilità di riuscita e di successo.<br />
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E’ giusto dire, prima di tutto, che niente come la crisi economica e sociale che stiamo vivendo è in grado di mettere in luce il senso reale delle cose, è in grado di farci valutare il superfluo, le cose che non servono e quindi, nella fattispecie, come sia agevolato il giudizio di quanto siano sterili e illusorie le proposte fatte col piano citato, prodotto dalla cultura burocratica e ideologica dei politici e dei tecnici del governo fiorentino, che più di altri hanno abusato, senza frutti, del loro potere legislativo.<br />
Dico questo, a scanso di equivoci, da persona di sinistra che ha sempre votato a sinistra e quindi senza particolare avversione per questo tipo di amministrazione.<br />
<span id="fullpost"><br />
Molti sono i giudizi che si rincorrono sui contenuti del Piano Paesaggistico (fonte internet) che, semplificando molto, possono essere sintetizzati dalle seguenti affermazioni: <i>norme vincolistiche che ingessano tutto; norme «sbagliate» e «anacronistiche», dense di inutili complicazioni (il piano contiene più di tremila pagine di testo); contenuti in buona parte indecifrabili (mi dicono che per capire un po’ meglio esistono solo corsi a pagamento); piano non migliorabile; decisioni in antitesi alle proposte governative che vorrebbero togliere le competenze di pianificazione alla regione; proposte prive di spunti per lo sviluppo, ma al contrario prolifiche di nuovi e antistorici vincoli che porteranno altra burocrazia piena di complicazioni e di lungaggini, incrementate da un lessico burocratico privo di concretezza. Strumento che è contro il sistema agricolo delle colture specializzate, quali il vino, l’ortofrutta, il floro-vivaismo, oppure contro al sistema estrattivo, per non parlare del comparto edilizio ancora una volta travolto da una pletora di norme che non faranno che peggiorare, se possibile, la già deprecabile qualità edilizia di recente produzione sul territorio toscano</i> e certamente l’elenco è parziale e non esaustivo.<br />
<br />
In realtà, per mia opinione, leggendo, per quanto possibile, quello che è stato scritto, il suddetto<br />
piano, senza voler offendere nessuno, non è nulla, è una sorta di esercitazione scolastica, fatta con i<br />
soldi pubblici, come sempre lontana dalla realtà dei fatti, da qualsiasi esperienza concreta, incurante<br />
del come stanno realmente le cose.<br />
Al massimo è vero che il nuovo apparato normativo produrrà ancora una volta ostacoli burocratici, pieni di contorti ragionamenti procedurali, che allungheranno i tempi e i costi delle già misere iniziative dei cittadini e delle imprese della regione, ma sono certo che non sarà capace di raggiungere nessuno dei molteplici obiettivi che molto enfaticamente si è prefissato.<br />
<br />
<b>Burocrazia e Legislazione</b><br />
<br />
Non è bastata la triste esperienza delle innumerevoli versioni della legge urbanistica regionale che sono cambiate con l’avvicendarsi degli assessori del “ramo” e che, per un po’ di pubblicità personale, non hanno esitato a scombussolare il già scombussolato apparato burocratico pubblico che le doveva gestire e che ogni volta ha impiegato anni per capire il senso delle nuove proposte,<br />
oppure ha costretto l’apparato tecnico privato a inventare una sorta di “<i>ingegneria procedurale</i>”<br />
artificiosa e inconcludente capace solo di portare lavoro nelle aule dei tribunali, senza parlare dei<br />
risultati pratici, quelli da vedere sul “<i>campo</i>”, nelle realtà costruite, il cui valore qualitativo è<br />
perlomeno discutibile, meritevole di una serena verifica tesa a giudicare con freddezza il valore e<br />
l’efficacia delle disposizioni contenute nella legge.<br />
<br />
E tutto questo come se, ogni cinque anni, cambiasse il modo di vedere e di costruire la città, il comportamento dei tessuti edilizi, il modo di costruire gli edifici, che purtroppo resta, al massimo peggiorando, sempre lo stesso e che si può efficacemente descrivere col significato di una sola parola: “<i>periferia</i>”, sia culturale che reale, della quale periferia tutti quanti siamo artefici e responsabili e ben rappresenta, al di la degli inutili orgogli storicistici, lo stato attuale della nostra civiltà, lo stato attuale dei nostri territori e ovviamente lo stato attuale della cultura urbanistica che produce questo tipo di norme e di piani.<br />
<br />
Forse non è ancora sufficientemente chiaro che dall’enorme apparato normativo, che si occupa solo di procedure e tralascia i veri significati dell’urbanistica che dovrebbero condensarsi in poche ma vere categorie operative, non nasce niente e la periferia che ne scaturisce è purtroppo uguale per tutte le città italiane, sia molto normate che poco normate, inguardabili e inaccettabili sia sul piano pratico che sul piano culturale in netta antitesi con le città storiche italiane, di indubbia qualità, ma sostanzialmente costruite senza apparati burocratici e senza progetti.<br />
<br />
Forse non è ancora abbastanza chiaro che “lo stormo di cervelli” che ruota intorno alle trasformazione edilizie (legislatori, propositori, controllori) non è in grado di garantire nessuna qualità, ma solo complicazioni, confusione, disordine, caos e questo perché è orientato su falsi obiettivi, inventati da politici poco avvezzi con la realtà e consolidati da burocrati lontani dai veri contenuti culturali che l’argomento meriterebbe, tralasciando ogni rapporto concreto con il costruito reale (ciò che viene realmente costruito) che è il vero e unico obiettivo del quale l’urbanistica si dovrebbe occupare.<br />
<br />
Quindi questo piano è ancora una volta un’inutile complessità che serve solo per far sopravvivere quel “drago” che che si alimenta di carta, di progetti, relazioni, domande da depositare su scaffali polverosi, burocrazia che in generale costa molto di più delle opere che si vanno a realizzare, magari costruite da sparuti operai extracomunitari ultimi rimasugli di una vera classe di proletari e solo perché non sanno maneggiare quelle carte che servono solo per tenere occupati sedicenti acculturati, diplomati o laureati - è lo stesso - sostanzialmente inconsci, anche per colpa della scuola, del vero significato delle cose di cui si stanno occupando.<br />
<br />
Cioè una sorta di “battaglia” fatta a parole, sul significato delle parole che i legislatori scrivono e purtroppo restano sollevati dalla responsabilità di averle scritte (accidenti a Bassanini e alla sua riforma), che l’apparato sistematicamente cambia per alimentare questa battaglia di “bla bla bla” sempre lontana dai veri contenuti dell’edificato.<br />
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E così si passa, lasciando sempre “il tempo che si trova”, dal PRG, al RU, al PO (è in arrivo), oppure dalla CE al PdC, dalla DIA, alla SCIA, per non citare altri e più astrusi acronimi capaci di stendere i burocratici più ostinati, e mai fatta sui dati concreti, sull’efficacia reale delle previsioni, attività che potrebbe portare, attraverso il risparmio sulle carte, magari dirottabile sugli oggetti da costruire, una miglioria della qualità del prodotto, e, certamente, una miglioria alla vita dei cittadini coinvolti in questo delirante “effluvio” normativo.<br />
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La città è fatta di tessuti edilizi, polarità, confini, è fatta di strade e sulle strade ci stanno gli edifici, e gli edifici nelle buone città sono allineati ai margini delle strade, le strade sono dritte fino a quando non c’è un valido motivo per farle curvare, sono fatte di edifici speciali e di base i quali rispettano leggi formative storico tipologiche e “linguistiche” e con queste regole e poche altre, in passato, hanno costruito le nostre città e i nostri paesi migliori.<br />
<br />
Al contrario le tarantolate leggi urbanistiche regionali e di conseguenza comunali stabiliscono come si fanno e si approvano i progetti, quanti documenti debbono essere allegati (un delirio), chi è o chi non è competente per farli e approvarli, che iter burocratico debbono seguire, se è o non è un PdC o una SCIA, tralasciando qualsiasi valore reale da tutelare, (ci sarebbe da ragionare molto sul perché in Toscana si fa in SCIA un intervento su un palazzo di un qualsiasi centro storico e in PdC la costruzione di una casetta di periferia), lasciando il costrutto al libero arbitrio, all’incultura urbanistica dei tecnici, che per poter sfoderare colpi di genio, sono disponibili a massacrare qualsiasi realtà storica o minimamente consolidata, che consente ai controllori pubblici, attraverso gli asseveramenti dei privati, di disimpegnarsi e dispensarsi da qualsiasi responsabilità su quello che veramente succede nella costruzione della città reale, comportamento che tra l’altro raddoppia il costo della burocrazia che gli inconsapevoli contribuenti devono pagare. (Vedi ancora Bassanini).<br />
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Prima o poi bisognerà prendere atto che nella burocrazia italiana non c’è democrazia, non c’è uguaglianza, non c’è economia, non c’è ordine, non c’è cultura, ma solo potere da gestire per fini non sempre limpidi (la tangente è multiforme) e gli inermi cittadini di fronte a essa, non la contrastano, ma si adeguano perché la temono, spaventati dalle conseguenze che lo stesso apparato burocratico potrebbero mettere in atto. <br />
<br />
Un potere ambiguo, che tutti vogliono, ma poi nella gestione pratica nessuno vuole decidere perché decidere è pericoloso (sul piano elettorale, sul piano personale), e da li nasce quella politica del “ma anche”, del possibilismo infinito, che infarcisce la cultura ideologica prima accennata e che sta alla base delle scelte del Piano Paesaggistico e che porta al tipico comportamento “<i>vorrei scavare le puane per far contenti i cavatori, ma anche smettere di scavare per far contenti gli ambientalisti</i>” e intanto il marmo bianco di Carrara va in Cina, attraverso traffici non del tutto leciti, tagliando fuori da queste attività il comparto produttivo nazionale.<br />
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Ecco questo è quello che credo sia il nuovo Piano Paesaggistico, uno strumento che sfodera intenzioni ideologiche, parole d’ordine, messaggi in codice, apparati, luoghi comuni, pie illusioni fondate su una generica quanto romantica cultura da “Viaggio in Italia”, che ci inorgoglisce, ma non ci fa capire quanto siamo oggi portatori di “<i>cultura di periferia</i>”, senza un vero metodo scientifico consolidato, dotati di apparati di comprensione della realtà inadeguati che portano a fare proposte ambigue e inconcludenti senza nessuna possibilità di diventare, nel futuro, una nuova qualità.<br />
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Un piano dove non si capisce chi dovrebbe far le cose, la maggioranza sarebbero a carico del “pubblico” e qui mi vien da ridere, oppure a carico del “privato” che dovrebbe immolarsi, per far contenti i politici, gli assessori, gli enti pubblici, in operazioni irragionevoli, antistoriche, privi di qualsiasi ragione economica.<br />
Un piano che dovrebbe far cambiare rotta agli orientamenti attuali ritenuti di tipo speculativo, ma la realtà di un territorio non può essere altrimenti, e passare attraverso gli interventi previsti dal piano dagli attuali elementi di criticità a nuovi elementi di qualità.<br />
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Ma la domanda è d’obbligo, gli amministratori regionali quando si sono accorti di quella mole di criticità, leggesi periferia, che da più di mezzo secolo ha riempito e deturpato il paesaggio toscano, che cosa hanno fatto per contenerla, per migliorarla sul piano qualitativo, è stato fatto un resoconto sui risultati concreti prodotti con la legge urbanistica e chi può garantire che questo nuovo strumento costruito con lo stesso apparato critico e metodologico potrà debellare tale scempio?<br />
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Da quanto tempo siamo consapevoli che le lottizzazioni industriali così come le lottizzazioni edilizie, sono paesaggisticamente inopportune per il “Marchio” Toscana e quindi vanno contenute.<br />
<br />
Ma poi come si intende raccogliere le risorse (imposte) che provengono da tali attività, come si tiene attivo il mercato del lavoro se chiude una azienda al giorno, chi sostiene l’edilizia vista come attività produttiva, chi mette i soldi per l’auspicata riconversione, e come sarà fatta la<br />
riconversione? forse, pensato ma non detto, è in programma un ticket, “<i>un vedutometro</i>”, da far pagare a chi vuol godere le vedute del paesaggio toscano?<br />
<br />
E’ vero, il paesaggio in toscana conta, è riconosciuto di qualità, va mantenuto e curato e in onestà forse poteva andare peggio, ma se la regione Toscana può legittimamente dire di avere parte del suo territorio ancora conservato e di buona qualità probabilmente non dipende dalle politiche regionali o dai suoi strumenti urbanistici, ma bensì dal carattere fortemente conservativo dei toscani che attraverso i loro sapienti atti hanno saputo, in barba alla burocrazia e all’ideologia, mantenere le loro bellezze.<br />
<br />
<b>Gli obiettivi del piano</b><br />
<br />
Il Piano Paesaggistico ovviamente si è posto degli obiettivi e poi si è dato degli strumenti per raggiungerli.<br />
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Tra gli obiettivi principali (meta obiettivi) mette, in sintesi, la migliore conoscenza delle peculiarità identitarie e il ruolo che i paesaggi possono avere nelle politiche di sviluppo, una politica integrata sui temi del paesaggio, un rafforzamento del rapporto tra paesaggio e partecipazione.<br />
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Mentre più articolati sono gli obiettivi strategici e in particolare, sempre semplificando, si legge tra questi: la valorizzazione del patrimonio paesaggistico evitando il rischio di banalizzazione e omologazione della complessità dei paesaggi toscani in pochi stereotipi; il trattamento sinergico dei diversi elementi del paesaggio, (componenti idrogeomorfologiche, ecologiche, insediative, rurali); la coerenza tra la geomorfologia e localizzazione, giacitura, forma e dimensione degli insediamenti; l’importanza paesaggistica delle grandi pianure alluvionali che sono i luoghi della massima concentrazione delle urbanizzazioni; il riconoscimento degli apporti dei diversi paesaggi della Toscana; il tema della misura e delle proporzioni degli insediamenti e la riqualificazione delle urbanizzazioni contemporanee; assicurare coevoluzioni virtuose fra paesaggi rurali e attività agrosilvo-pastorali; garantire il carattere di bene comune del paesaggio toscano e la sua fruizione collettiva; arricchire lo sguardo sul paesaggio attraverso la conoscenza e la tutela dei luoghi del Grand Tour; assicurare che le diverse scelte di trasformazioni del territorio e del paesaggio abbiano come supporto conoscenze, rappresentazioni e regole adeguate.<br />
<br />
Questo è quanto, sono parole senza significato, slogan, impossibili da tradurre in qualche cosa di concreto, di pratico, da spiegare a una persona comune. Come si fa ad assicurare una coevoluzione virtuosa fra paesaggi rurali e attività agro-silvo-pastorali, o garantire il carattere di bene comune del paesaggio toscano? c’è uno che fa una richiesta e un altro che risponde?, oppure siamo solo al paradosso del “rendere difficile il facile attraverso l’inutile per il raggiungimento del nulla”?<br />
<br />
E anche a voler essere collaborativi come si può pensare in concreto e quindi dimostrare che è il richiamo al patrimonio paesaggistico può essere un fattore di crescita economica e sociale, oppure<br />
come si può essere veramente certi che si possono superare gli attuali modelli culturali basati sulla crescita e sul consumo senza fare una vera rivoluzione e non solo culturale, come possiamo essere certi che sarà il paesaggio a tirarci fuori dalla crisi. Chi vivrà vedrà.<br />
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<b>Il metodo dell’invariante</b><br />
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Sulla base degli obiettivi precedenti il piano si è dato una forma metodologica e tecnica per<br />
raggiungerl.<br />
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Il nuovo strumento urbanistico si appoggia per intero sull’instabile concetto di invariante. <br />
Invariante, da vocabolario, significa “<i>che non varia, che rimane invariato” e in linguistica che è “ogni elemento che rimane costante in opposizione alle varianti</i>”.<br />
<br />
Quindi in primis si dovrebbe pensare che è uno strumento finalizzato al mantenimento delle cose come sono, come stanno, contrario e oppositivo ad ogni sorta di cambiamento. Ma questo per i politici è troppo poco, non è sostenibile, perderebbero voti, quindi sono stati costretti, per ragioni strumentali ed elettorali, ad associare al concetto di non cambiamento il concetto di trasformazione, da proiettare comunque, attraverso i soliti astrusi procedimenti, verso una sostanziale immobilità.<br />
<br />
Questo incipit, che oscilla tra il cambiare ma anche il non cambiare, è la prima ambiguità che caratterizza per intero il nuovo piano e che manifesta quel comportamento ideologico che è tipico di chi è nato per mediare, forma mentis sempre meno adatta per gestire con chiarezza fenomeni complessi come il territorio di una regione o peggio di una nazione.<br />
<br />
Infatti nella relazione generale si può leggere che “le invarianti strutturali” sono il riferimento centrale del piano da trattare non come modelli da vincolare e museificare, ma come regola che sta alla base della trasformazione il che vorrebbe dire con altre parole che “la non modifica” è alla base della “modifica” e quindi, in pratica, chi ci capisce è bravo.<br />
<br />
Altrettanto ambigua è la scelta che deriva della scissione metodologica tra il concetto di territorio (parte strutturale) e quello di paesaggio (parte percettiva) se pur riunita in un unico strumento operativo che è il PIT.<br />
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Scissione che, per chi è amante degli aspetti concreti della vita, non è mai esistita nella realtà delle cose, perché chi faceva bene il suo lavoro, non lo ha mai fatto per pure ragioni estetiche, ma lo faceva e basta, possedendo per farlo idee chiare e strumenti appropriati adatti a soddisfare materialmente i suoi bisogni, infischiandosene del risultato formale che è diventato importante solo successivamente e solo per la classe privilegiata degli intellettuali (infatti il viaggio in Italia lo facevano gli intellettuali) che continuano a pontificare sul come si deve fare senza aver mai fatto niente, e ancor peggio, senza essersi mai occuparsi della cultura di base che sta nelle fondamenta di quel fare e che, senza particolari intenzioni, ha prodotto quella qualità che tentiamo di salvare.<br />
<br />
Quindi sul piano metodologico la parte vera, quella reale, che deve stare alla base di uno strumento urbanistico operativo è il territorio (compreso tutte le strutture che lo compongono) visto nelle sue fasi evolutive che sono poi la sua storia, mentre la parte estetica, appunto il paesaggio, è una visione esteriore, fatta dopo, dall’esterno, incapace di inficiare concretamente le strutture perché appunto immaginaria, astratta, di tipo intellettuale, una visione lontana dalla realtà.<br />
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Infatti il citato <b>Saverio Muratori</b> (vedi relazione generale) grande conoscitore della realtà territoriale e urbana italiana, mai sufficientemente studiato, che ha contribuito, insieme alla sua scuola, a mettere in luce i principali concetti della tipologia processuale, parlava di storia operante del territorio, ma si è ben guardato di parlare di paesaggio perché appunto la riteneva una categoria astratta, ideologica, di tipo estetizzante che fa il paio con l’altrettanta cultura ideologica e astratta dell’ambientalismo, utili solo per allontanare il pensiero critico e scientifico dal centro del problema.<br />
<br />
Poi per rendere operativo il piano, già profondamente compromesso dalle ambiguità prima elencate, sono stati inventati i morfotipi, elenchi sterminati di strutture territoriali a varia scala (abachi), che non si capisce come sono state scelte, come dovrebbero diventare oggetto di intervento, chi farà quel tipo d’interventi e come si faranno.<br />
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Sul piano metodologico anche gli abachi delle strutture sono materia di pianificazione territoriale quindi è difficile cogliere la relazione che esiste tra queste strutture e i temi esteriori del paesaggio, forse solo una voglia regolatrice passata sotto mentite spoglie.<br />
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Poi è giusto sottolineare che gli abachi riportati sono semplicemente elenchi, estrapolazione dal contesto di una casistica ripetitiva di strutture simili, che trascura ogni ragione formativa dei casi riportati, del come sono realmente fatti, ma soprattutto, del perché sono fatti così. (Se tale casistica passasse attraverso un’attenta analisi storico processuale resterebbero solo pochi casi).<br />
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Difetto di non poco conto, che illustra bene l’intento esteriore e superficiale della volontà regolatrice, perché per controllare gli effetti delle strutture è necessario conoscerle nella loro sostanza, cioè i tipi, ma soprattutto conoscerle nel loro processo evolutivo (processo tipologico), regola che lega al tempo il passaggio tra un tipo e l’altro, cioè individua le ragione delle varianti diacroniche del tipo, così come delle varianti sincroniche per adattare il tipo alle circostanze particolari dettate dalla condizione locale.<br />
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Togliendoli dal processo i tipi diventano casi (casistica –abaco) e il progetto fatto sulla base di questa casistica invece che legarsi alla storia (al processo evolutivo delle strutture nel tempo e nello spazio), si lega all’occasione, diventa a sua volta un caso e perde ogni legame con la realtà territoriale che si vorrebbe controllare e diventa un atto individuale, spurio rispetto ai contenuti del contesto, normale prassi rispetto all’attuale cultura di periferia.<br />
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Per non parlare poi degli aspetti pratici, delle limitazioni imposte, anch’esse ambigue, perché sul piano teorico si impongono condizioni rigidissime, ma che saranno inevitabilmente smentite ogni qual volta sarà necessario, per ragioni contingenti, tralineare.<br />
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E’ difficile immaginarsi l’invariante dell’aspetto morfologico del territorio toscano associato ai bisogni della ristrutturazione della rete viaria soprattutto autostradale oppure quella ferroviaria, alla messa in sicurezza dei bacini fluviali che con regolarità tracimano e devastano i territori limitrofi, all’esigenza di fare un ponte su un fiume che certamente modificherà l’aspetto esteriore dell’alveo. Oppure si pensa già, che in questi casi, il piano sarà rigidamente applicato, ma forse anche no?<br />
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Altrettanto controverso è il tema della riqualificazione delle urbanizzazioni contemporanee, tema propriamente urbanistico e non paesaggistico comunque di grande rilevanza pratica e sociale. Prima di tutto è giusto dire che questa parte delle città, oggi ritenuta critica e responsabile del degrado paesaggistico, è stata legittimata dalle normative urbanistiche pubbliche, dalla gestione pubblica del territorio, da un apparato sterminato di tecnici, da una infinità di progetti, tutti richiesti e approvati dagli enti pubblici, che spaziano dalla pianificazione territoriale fino al progetto per la posa degli sportelli dei contatori del gas. Il che ci porta a pensare che se il rapporto tra qualità/numero di progetti fosse garante dei risultati, dovremmo avere le periferie più belle del mondo, oppure, nel caso contrario, cioè se non lo sono, bisogna ammettere, senza reticenza, che abbiamo commesso qualche errore di impostazione del problema e che la cultura burocratica che sta alla base della pianificazione urbanistica non è sufficiente per garantire la qualità.<br />
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Poi, tralasciando i criteri metodologici sulle modalità di intervento che sarebbe troppo complicato analizzarli in questa sede, chi farà questi interventi, chi pagherà, su chi ricadono i costi, saranno chiamati in solido i politici che hanno consentito l’errore, i tecnici che hanno sbagliato i progetti, i funzionari dei comuni e della regione perché non hanno saputo valutare gli esiti di quanto progettato, oppure sarà ancora una volta “Pantalone” che con altri e sempre più improbabili sacrifici dovrà intervenire.<br />
Altri dubbi vengono sull’uso produttivo del territorio agricolo. Il concetto di territorio senza speculazione è assurdo. Il territorio agricolo esiste perché è produttivo e su di esso si specula per definizione.<br />
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In questo settore certamente serve una persona di buona volontà che spieghi agli estensori dei piani, ma soprattutto ai politici che ne esprimono l’impostazione culturale e sociale, che il contadino con la gabbanella, il cappello di paglia e il bove non c’è più, è morto e insieme a lui è morta una cultura agricola del passato che non potrà ritornare.<br />
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I poderi che sottendevano tale cultura sono diventati le dimore della media e alta borghesia italiana, ma soprattutto di quella straniera che vende “estero su estero” i migliori pezzi presenti sul territorio toscano (casali, castelli, chiese e quant’altro) e abbandona al “gerbido” i terreni rurali produttivi ad essi collegati.<br />
<br />
L’agricoltura è fatta per la maggioranza di proprietari di terreni che vivono in città e che, svogliatamente, chiedono a terzisti, che vivono anch’essi in città, di seminare, con trattori enormi, i lori campi con del grano, grano che al raccolto costerà 30 € al quintale e che dovranno bastare per tenere in piedi una economia agricola asfittica e senza futuro.<br />
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Oppure seminare tutti gli anni piante oleose che sono utili per alimentare marchingegni, (finanziati dal pubblico), che servono per produrre energie rinnovabili senza la minima di attenzione alle problematiche sulla desertificazione che tale pratica, senza la rotazione colturale, può portare.<br />
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Come si può pensare alla tutela della coltura dell’olivo e quindi dei terrazzamenti se poi l’olio toscano extravergine costa dai “contadini” 8-10 € al Kg o peggio ai supermercati 2 - 3 € al Kg e in aggiunta al momento della raccolta delle olive girano elicotteri pubblici col fine di controllare se un amico, in cambio di un bottiglione d’olio, sta aiutando un altro amico a raccogliere le olive che altrimenti resterebbero sull’albero, per poi multarli entrambi per migliaia di euro ciascuno?<br />
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Oppure penalizzare per ragioni strumentali la coltura della vite, unico rimasuglio della produzione agricola capace di produrre un po’ di reddito, presupponendo che la stessa sia la colpevole del degrado ambientale che ci circonda solo perche non è più coltivata a “ritto chino” o a “giro poggio” oppure perché sta minacciando la maglia agraria minuta.<br />
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<b>Visibilità e caratteri percettivi:</b><br />
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Altro strumento che dovrebbe essere garante della qualità degli interventi è il nuovo metodo sulla valutazione della <i>visibilità dei luoghi, ovvero la valutazione della suscettibilità alle trasformazioni</i> del territorio. In sostanza la Regione ha speso soldi pubblici per dire che chi è in basso vede le cose che stanno in alto, chi è in alto vede le cose che stanno in basso, dimenticandosi peraltro cosa succede a chi sta in piano e vede il piano oppure cosa succede per chi sta sulla mezzacosta, il tutto, ovviamente, al netto degli eventuali ostacoli visivi.<br />
Ma la cosa più paradossale è che per rendere operativi questi principi sono stati disturbati gli algoritmi, (come risaputo famoso metodo usato dai contadini per disegnare il rigoroso panorama rurale della Toscana), il tutto per creare una “carta della intervisibilità ponderata delle reti di fruizione paesaggistica”, per la cui applicazione pratica i tecnici “gestori” probabilmente dovranno fare corsi di formazione professionale presso la NASA. Fate un po’ voi. Sono sincero non ci ho capito un gran che, ma una cosa l’ho capita ed quella che se i fiorentini dell’XI secolo avessero avuto uno strumento simile a quello proposto e teste come la nostra forse avrebbero scientificamente impedito la costruzione del S. Miniato risultato in seguito un capolavoro dell’architettura romanica italiana incastonato nel paesaggio di Firenze visto dal basso.<br />
<br />
<b>Le proposte</b><br />
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Si potrebbe continuare, parlare della visione veloce e lenta del paesaggio, o di altri argomenti<br />
costruiti con la stessa filosofia, ma forse non serve e comunque per prassi un’osservazione deve<br />
concludersi con delle proposte.<br />
Le proposte possono essere di vario ordine e grado, su obiettivi specifici o generali, per interesse personale, di casta o di tipo collettivo, in questo caso sono di carattere generale, prive di ritorni strumentali, fatte con un ordine crescente di complessità.<br />
<br />
1) In primis, se pur in ritardo, una proposta provocatoria, ma non tanto. In tempi di crisi economica, invece che spendere soldi e capitale umano per fare complicati quanto inutili piani che non porteranno a niente, forse sarebbe meglio utilizzare le stesse risorse per riparare qualche struttura degradata del territorio toscano.<br />
2) In secondo luogo, se non si può fare a meno di fare piani (bisognerebbe capire se è un’esigenza dei cittadini o dei politici) si può, quanto meno, rallentarli, cioè avere una visione “lenta” degli apparati normativi, pensarli meglio, farli concreti, limitando al minimo la burocrazia, fissare veri obiettivi, meno teorici, più raggiungibili. Utilizzare poche regole, ma reali e concrete, (i comandamenti della religione cristiana sono dieci) e salvo alcuni (appunto quelli ideologici) sono del tutto comprensibili e raggiungono immediatamente l’obiettivo prefissato, e non sono, come nell’urbanistica toscana, diecimila, perché in questo caso diventano condizionamenti che disperdono il significato delle cose, allontanano le possibilità di essere efficaci, e alla fine, dopo un lungo e tribolato percorso burocratico non si ottiene nessun risultato apprezzabile<br />
La prossima urbanistica dovrà cercare di togliere dalle leggi quell’apparato ideologico che le inquina, quell’apparato sovrastrutturale e autoreferenziale che le rende inapplicabili e comunque in ogni caso si propone, in modo riduttivo ma utile, che prima di approvare nuove leggi le stesse siano fatte leggere da una maestra della scuola elementare che sicuramente potrà dare un buon contributo per renderle comprensibili anche alle persone normali.<br />
<br />
3) Se poi le intenzioni pianificatorie vogliono essere veramente serie e cioè colpire nel segno e non girovagare nei meandri d’ipotetiche teorie personalistiche, è indispensabile fare una “lettura” della realtà con strumenti metodologici adeguati che tentino di capire come sono fatte le cose e perché sono fatte così. Invece di citarlo il Muratori forse sarebbe meglio utilizzarlo, utilizzare la sua sistematica e approfondita capacità di lettura processuale della realtà che è patrimonio della cultura urbanistica italiana, che non si è mai soffermata sul fare inutili casistiche (l’elenco infinito, riportato negli abachi di piano, dei casi simili di tessuto edilizio moderno, o l’elenco dei morfotipi insediativi<br />
che ricadono con forme ellittiche sul territorio toscano), non si è mai soffermata su improbabili teorie assolutistiche della visibilità territoriale la cui ricaduta nel reale è veramente fantasmagorica. E’ realistico legare il progetto alla lettura, alla conoscenza reale e non intellettuale delle cose, il fare alla storia, ma in questo caso è il progetto si deve adeguare al principio della processualità, ai processi di evoluzione delle strutture, ( il concetto di tipo è un concetto processuale e non un elenco della spesa), il progetto deve abbandonare le opinioni singolari, personalistiche dei creativi, e piegarsi “mestamente” al portato della cultura di tutti e in particolar modo a quella cultura di base, dei semplici, cultura che ha fatto diventare importanti gli oggetti realizzati senza progetto.<br />
Se le intenzioni sono serie, è il caso di smettere di fare piani astratti e occuparsi dell’urbanistica vera. I grandi piani sono generici, al massimo sollevano ragioni economiche e non sempre sono<br />
chiare, viceversa il progetto del singolo edificio, senza regole di tessuto, è troppo autonomo, è di<br />
tipo individuale, non è sufficiente a garantire una vera qualità degli aggregati e quindi della città.<br />
Bisogna occuparsi del tessuto edilizio vero (scala non riconosciuta ufficialmente dall’urbanistica attuale), la scala che più inficia le relazioni edilizie, quella che relaziona la strada coi lotti, la strada con gli edifici e le relative pertinenze, le fronti stradali coi retri, ecc.. Decidere una buona volta quali sono le regole che sottendono il costruito, quelle in grado di produrre qualità condivisa che è quella presente nelle nostre strutture storiche e non lasciare alla deprecabile norma sulle distanze tra i fabbricati e tra i fabbricati e le strade l’unica regola per mettere insieme gli edifici, costruire la città.<br />
Oppure dire che in Toscana le case hanno il tetto a spiovente o che hanno facciate con una netta prevalenza dei pieni sui vuoti, (caratteristica basilare del linguaggio edilizio toscano), sarebbe una vera rivoluzione per le periferie che costruiamo, ma significherebbe anche mettere in crisi i “mitici” principi dettati da Le Corbusier e i progettisti dovrebbero rinunciare alle teorie del moderno, il vero tallone di Achille del costruito attuale rispetto alle permanenze del paesaggio storico consolidato.<br />
<br />
4) Ma questo vorrebbe dire andare oltre. Cioè fare un progetto che finalmente possa chiarire il<br />
dualismo storicità modernità. Dualismo che piace molto alla cultura ideologica e di sinistra, la possibilità di immaginarsi nuove strutture che parlano di storia, ma anche (ecco il ma anche) di modernità. Questi purtroppo sono concetti in antitesi, sono inevitabilmente oppositivi perché<br />
oppositivi sono i valori che li sostanziano. Se vogliamo una storia operante dobbiamo accettare la<br />
“continuità” della storia, ma per accettare la continuità della storia dobbiamo rinunciare a tutta la<br />
“filosofia” di rottura col passato che sta alla base e dentro i principi della cultura moderna e in particolare di quella architettonica. E’ difficile essere onesti intellettualmente e farsi piacere allo stesso modo e con la stessa intensità Michelangelo e Picasso. Solo i teorici del “ma anche” ci possono riuscire, perché propensi a dimenticare i valori che sostanziano l’uno e l’altro, perché propensi all’ambiguità.<br />
La modernità ha i suoi valori, ma non è portatrice dei valori che stanno alla base del paesaggio storico. Produce, piaccia o non piaccia, un paesaggio nuovo, appunto moderno, diverso da quello<br />
storico, pieno d’insidie per quello storico.<br />
Quindi bisognerebbe proporre un piano che non accetti il doppio, il dualismo, perché far stare insieme valori contrapposti è ambiguo e quindi serve fare ancora una volta una scelta, credere fino in fondo in una o nell’altra soluzione, ma a questo punto il tema si fa complesso, forse non è più la sede adatta, quella più adeguata e si rischia di uscire dall’urbanistica per entrare, forse, nei temi della civiltà.<br />
Col dovuto rispetto, sperando che mi sia sbagliato, porgo i più distinti saluti e un augurio per un’efficace riuscita del nuovo piano. <br />
Enrico Lavagnino<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-40599053709389943882013-08-27T23:53:00.000+02:002013-08-27T23:54:41.010+02:00PAOLO MARCONI NON C'E' PIU'<b><i>di Ettore Maria Mazzola</i></b><br />
<br />
Quando a Londra ho appreso questa notizia ho provato un’immensa sensazione di vuoto.<br />
E’ una perdita impossibile da sanare.<br />
Paolo era un signore, un maestro, un gentiluomo, un pozzo di scienza.<br />
Ricordo che, quando ero studente, avrei tanto voluto che fosse lui il mio professore di Restauro, invece dovetti accontentarmi d’altro su cui vorrei stendere un pietosissimo velo!<br />
Era l’epoca del “nuovo ordinamento” e, per ragioni che è meglio ignorare, Paolo non era nell’elenco dei professori dell’indirizzo “Tutela e Recupero del Patrimonio Storico Architettonico” cui io mi ero iscritto … sarebbe stato l’unico professore degno di quell’indirizzo, ma non ne faceva parte.<br />
Così, per passione, ho “studiato” ed apprezzato il lavoro di Paolo Marconi a distanza, fin poi ad incontrarlo di persona in occasione del convegno di Venezia organizzato con l’INTBAU per riscrivere la Carta del Restauro.<br />
Fu un incontro bellissimo, parlammo a lungo dei miei libri e della mia passione per il lavoro degli architetti del primo Novecento, tra cui ovviamente suo padre Plinio, ricordo che fu molto sorpreso e commosso per questa mia passione.<br />
<br />
<span id="fullpost"><br />
Di lì in poi abbiamo avuto modo di conoscerci meglio, più volte è venuto a titolo di amicizia a tenere delle splendide lezioni magistrali per i miei studenti della Notre Dame … e ci è venuto gratis e per il solo piacere di condividere le sue conoscenze, solo ed esclusivamente per amore della cultura e dell’architettura con la “A” maiuscola!<br />
<br />
Ricordo, quando lo invitai per la prima volta alla presentazione di un progetto dei miei studenti, che rimase entusiasta del lavoro svolto: si trattava di un progetto per l’area di Trastevere tra via di San Michele a Ripa e via Anicia. Al termine di quell’incontro ci diede dei “futuristi”, perché, disse, “questa ricerca nel recupero delle tecniche e linguaggio tradizionale è l’unico futuro sostenibile possibile”.<br />
<br />
Dopo quell’esperienza, a mia insaputa, lanciò pubblicamente in Campidoglio la proposta di lavorare insieme per proporre la ricostruzione degli isolati di via Giulia che ben conoscete. Per me e per i nostri studenti fu un’esperienza meravigliosa … indipendentemente dal sangue amaro che, con Paolo stesso, ci siamo fatti a posteriori.<br />
Il nuovo sindaco Marino dovrebbe porre fine all’attuale scempio in corso e dovrebbe ribattezzare quell’area Piazza Paolo Marconi!<br />
di Ettore Maria Mazzola<br />
<br />
Una cosa bellissima della sua personalità era quella di condividere sempre i suoi pensieri e la sua esperienza professionale, inclusi i tanti “<i>trucchi del mestiere</i>”, che non erano trucchi, ma vere e proprie soluzioni tecniche geniali imparate grazie alla sua infinita esperienza di cantiere.<br />
<br />
Negli ultimi anni mi ha regalato un paio di DVD preziosissimi che contengono delle presentazioni in PPT dei suoi 40 e passa anni di esperienza … li custodirò come si fa con i libri più importanti di una biblioteca!<br />
<br />
Ricordo, quando lo invitai per la presentazione del progetto che i miei studenti avevano sviluppato per le aree dismesse lungo il Tevere all’Ostiense, che Paolo si dimostrò assolutamente d’accordo con l’idea di rendere navigabile il Tevere … come disse lui, “<i>risolvendo a monte il problema delle alluvioni come avviene in tutti i Paesi civili del mondo</i>” e ancora, criticando gli assurdi muraglioni esistenti, ci spiegò come essi, “<i>oltre a non risultare funzionali perché l’acqua eventualmente entrerebbe a Roma dalla via Flaminia, fungerebbero anche da vasca di contenimento per le acque che volessero rientrare nell’alveo</i>”. A supporto di questa tesi ci raccontò il suo ricordo dell’ultima alluvione seria di Roma quando, diceva, seduto sulle spalle di suo padre Plinio aveva visto l’area presso Largo Argentina interamente allagata.<br />
<br />
Voglio ringraziare ancora Paolo per l’importantissimo dono della sua splendida introduzione al mio libro “<i>La Città Sostenibile è Possibile</i>”.<br />
<br />
Che dire poi della sua disponibilità nel fornirmi la sua copia personale del Manuale del Recupero di Palermo? Quando stavo elaborando il progetto per lo ZEN gli telefonai chiedendogli se sapeva dove avrei potuto trovarne una copia visto che, inspiegabilmente, la Flaccovio l’aveva da tempo messo fuori stampa. Paolo non ci pensò due volte e mi disse di andarlo a trovare per prendermi la sua copia.<br />
Che dire, con Paolo l’Italia e il mondo intero perdono una figura straordinaria che sarà impossibile rimpiazzare.<br />
Ciao Paolo, ti devo moltissimo.<br />
Ettore<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-91458698478079788682013-06-05T19:52:00.000+02:002013-06-05T19:52:15.330+02:00L'ARCHITETTURA SACRA OGGIUn video con Antonio Paolucci, Rodolfo Papa e Ciro Lomonte sull'architettura sacra oggi<br />
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<br />
<iframe allowfullscreen="" frameborder="0" height="300" mozallowfullscreen="" src="http://player.vimeo.com/video/67732959" webkitallowfullscreen="" width="400"></iframe>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-55536321954783988102013-05-21T00:14:00.000+02:002013-05-21T00:14:36.302+02:00Arat_a Isozaki?<b><i>di Ettore Maria Mazzola</i></b><br />
<br />
Dopo un piacevole silenzio durato qualche anno, nei giorni scorsi è stata tirata nuovamente in ballo l’abominevole tettoia di Arata Isozaki per gli Uffizi di Firenze, di qui il titolo ironico che nella mia città d’origine significherebbe “<i>di nuovo Isozaki?</i>”<br />
E già, ci eravamo finalmente quasi dimenticati dell’esistenza di questo problema assurdo, e invece qualche indomito ha pensato bene di riesumarlo!<br />
<br />
In un articolo pubblicato da Repubblica il 18 u.s. si apprende che “<i>gli architetti</i>” avrebbero fatto un appello affinché la “<i>loggia</i>” di Isozaki venga realizzata.<br />
<br />
Andiamo per punti ed iniziamo col chiarire che ci troviamo davanti ad un doppio abuso terminologico:<br />
1. Non è stato l’intero consesso degli architetti fiorentini a firmare la protesta, bensì solo uno sparuto gruppo di architetti i quali, a detta di molti loro colleghi, non si sarebbero minimamente confrontati pubblicamente con l’intera categoria, presentando indebitamente presentato quell’appello a nome dell’intero Ordine Professionale;<br />
<br />
2. La struttura di Isozaki non può definirsi come <i>Loggia</i>, cosa ben più nobile di questa struttura, semmai potrebbe definirsi, in nome del <i>politically correct</i>, una mega-pensilina o mega-tettoia, ma io preferisco essere onesto e diretto e chiamarla uno <i>sgorbio informe</i>. A certi signori chiedo solo come possa esser possibile semplicemente immaginare di poter fare un confronto tra la Loggia dei Lanzi o quella del Bigallo e questa orrenda copertura, degna di un orripilante ed ipertrofico autogrill del pianeta Urano?<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgy5cShaj9miohaH14273L9G4r55LnEQZDUrvBjMwSvbwZ6SYuddokZ79cMu7IJkpuptJFccRWx7Clnm91lC16PCv7afTQjBrSTrPtz332RWKj7GkGLvpxyeWXCWNCPyQNHRXnKE6ehMw/s1600/pensilina+isozaki+3.jpg" imageanchor="1" ><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjgy5cShaj9miohaH14273L9G4r55LnEQZDUrvBjMwSvbwZ6SYuddokZ79cMu7IJkpuptJFccRWx7Clnm91lC16PCv7afTQjBrSTrPtz332RWKj7GkGLvpxyeWXCWNCPyQNHRXnKE6ehMw/s320/pensilina+isozaki+3.jpg" /></a><br />
<span id="fullpost"><br />
Chiariamo:<br />
Sul primo punto, abbiamo potuto apprendere da una polemica lanciata da un architetto fiorentino molto impegnato nelle politiche di riforma degli ordini professionali, che le cose non siano andate proprio come ci è stato raccontato dall’articolo.<br />
<br />
Il commento al veleno che aveva scatenato il dibattito era stato il seguente:<br />
<i>«Ci risiamo!!! Ma chi ha mai delegato qualcuno dell'Ordine a incardinare la rinascita urbanistica del centro storico di Firenze, sul bandone da posto macchina di Isozaki? Ma è tanto difficile promuovere una politica professionale condivisa? In mezzo a tanta arroganza qualche Architetto comincia a muoversi su sé stesso, bruciando in piazza la delega in bianco».</i><br />
<br />
Nell’articolo di Repubblica si leggeva:<br />
<br />
<i>«La Loggia di Isozaki potrebbe essere il simbolo del recupero del centro storico di Firenze. Ma bisognerebbe farla, altrimenti diventa, come ormai sta accadendo, il simbolo del mancato recupero. L'Ordine degli architetti di Firenze lancia un appello alle istituzioni: Che fine ha fatto la Loggia di Isozaki? Facciamola. Non possiamo più aspettare. Da lì parte la credibilità del recupero degli spazi vuoti della città, a cominciare dal tratto che va da San Firenze a piazza dei Giudici […] se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto».</i><br />
<br />
E allora chiediamoci:<br />
Ma davvero il centro storico di Firenze avrebbe bisogno di un recupero di questo tipo??<br />
Arat_a (ci risiamo) con l’abuso terminologico tipico degli architetti.<br />
Certi architetti dovrebbero concentrare la propria attenzione su come migliorare l’abominio che hanno creato intorno ai centri storici … invece continuano ad accanirsi nel tentativo di fare approvare uno scempio urbanistico che, come nel caso dell’Ara Pacis di Meier a Roma, spianerebbe la strada a future mostruosità tanto care ai professionisti diversamente incapaci di dialogare con il contesto in maniera rispettosa.<br />
<br />
Una delle tante assurdità di questo appello/capriccio presentato da questi fantomatici rappresentanti dell’Ordine degli Architetti fiorentino è quella che emerge da questa frase:<br />
<br />
<i>«[…] Uno snodo che potrebbe invece connettere il più importante museo della città con il resto di Firenze. Recuperando un'area del centro ancora vissuta come un «retro» e affollata di ex: ex Capitol, ex tribunale. Troppi ex che invece potrebbero invertire una tendenza liberando verso la città l'enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo con i tempi»</i><br />
<br />
… già, “<i>un enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo coi tempi</i>” … evidentemente l’attuale Museo non sarebbe al passo coi tempi!<br />
<br />
Guardando ai numeri del flusso turistico a me pare che gli Uffizi tirino parecchio … o sono diventato un pazzo visionario?<br />
<br />
Sinceramente non penso affatto che questa orrenda “<i>torta in faccia</i>” dell’archistar giapponese possa generare un rilancio turistico di un qualcosa che non ha alcuna necessità d’esser rilanciata.<br />
Ma, si sa, agli architetti il mondo piace sottosopra, così amano inventare soluzioni per trovarne i problemi!<br />
<br />
Molti anni fa, in viaggio con i miei studenti e colleghi americani, all’interno degli Uffizi ci imbattemmo nell’esposizione di alcuni pannelli esplicativi del progetto che non conoscevamo. Restammo sconcertati, soprattutto restammo sconcertati da una frase che giustificava il progetto: <i>“siccome Firenze e gli Uffizi ospitano ogni anno un gran numero di turisti giapponesi, siamo certi che la realizzazione della nuova entrata di Isozaki ne attirerà ancora di più”</i><br />
<br />
… Un’idiozia che ci ha fatto sorridere per giorni al pensiero che si potesse anche solo immaginare che i giapponesi potessero essere così stupidi da affrontare un costosissimo viaggio transoceanico per venire a vedere questo orribile affronto sgrammaticato del loro compatriota nel cuore del Rinascimento italiano!<br />
<br />
Suvvia, siamo seri!<br />
<br />
Riflettiamo ora su alcune domande sulle quali, a causa del lavaggio del cervello patito nelle facoltà di architettura, troppo spesso gli architetti non riescono riflettere.<br />
<br />
Ma dall’altro lato della barricata cosa pensa la gente di certi progetti?<br />
<br />
E poi, se il problema che si pongono questi architetti fiorentini sarebbe quello della eventuale “figuraccia” e della “mancanza di credibilità” di Firenze e dell’Italia, chiediamoci: cosa pensano gli stranieri del progetto di Isozaki?<br />
<br />
Ebbene, insegnando in una prestigiosissima università americana e collaborando con molti altri programmi internazionali, posso dire di avere centinaia di colleghi sparsi per il pianeta – non necessariamente “tradizionalisti” come qualcuno potrebbe malignare – i quali sono a dir poco indignati dall'approvazione di quel progetto ... e se questo è il parere di molti architetti e docenti di architettura, è facile immaginare quella che possa essere l’opinione dell'enorme massa di terrestri non appartenenti alla “specie contaminata” degli architetti. … signori colleghi fiorentini, ci avevate mai riflettuto?<br />
<br />
Nell’articolo, come si è detto si rivendica: <i>“se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto”</i><br />
<br />
… Ma quale credibilità avrebbero certi concorsi dove i partecipanti sono a turno alterno i giudicanti ed i giudicati?<br />
<br />
Vogliamo dare credibilità ad un concorso?<br />
<br />
Vogliamo dare finalmente il giusto rispetto alla cittadinanza ormai da troppo tempo assoggettata alle imposizioni degli architetti?<br />
Allora rifacciamo il concorso e facciamo in modo che la presenza degli architetti risulti del tutto marginale nella commissione giudicante e vediamo che succede. Peraltro Firenze è Patrimonio dell’Umanità … per quale motivo non dovrebbe essere il mondo intero a dover decidere cosa sia giusto premiare e realizzare all’interno di quello squarcio del tessuto urbano fiorentino?<br />
<br />
Speriamo nel buon senso del Ministro ai Beni Culturali Massimo Bray, chiamato in causa dai presunti rappresentanti degli architetti fiorentini, ed ovviamente nel buon senso del sindaco e dell’intera cittadinanza fiorentina, così da non dover piangere un giorno per aver accontentato un ridicolo ed arrogante capriccio. <br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com11tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-55214368777395186482013-04-25T00:47:00.002+02:002013-04-25T00:47:59.604+02:00COCCODRILLI, "PECORE" E AGNELLI SACRIFICALI<i>Questo il ricordo personale, sincero come sempre e commosso che Ettore Maria Mazzola ha dedicato all'On. Teodoro Buontempo, deceduto il 24 aprile 2013.</i><br />
<br />
<b>Coccodrilli, “Pecore” e agnelli sacrificali</b><br />
<b>di</b><br />
<b>Ettore Maria Mazzol</b>a<br />
<br />
<br />
Nel gergo giornalistico, il <i>coccodrillo </i>è un necrologio scritto in anticipo, per averlo pronto al momento del bisogno; probabilmente molti dei commenti che si leggono oggi ovunque nel web a seguito della dipartita dell’on. <b>Teodoro Buontempo</b> fanno parte di questa categoria.<br />
<br />
Non è quello il “<i>coccodrillo</i>” a cui penso: mi riferisco ai tanti necrologi caratterizzati da “<i>lacrime di coccodrillo</i>”, scritti da personaggi vicini a lui che ben poco hanno a che fare con il reale affetto e stima nei suoi confronti.<br />
Personalmente, lo sanno tutti, sono lontano anni luce dal partito in cui militava l’onorevole Buontempo, e proprio per questa ragione mi sento in dovere di esprimere il mio disinteressato e profondo dolore per la morte di un personaggio che, nel bene e nel male, faceva politica perché credeva realmente in ciò che portava avanti – anche quando si trattava di scelte impopolari come la vicenda dei fondi per la regolarizzazione del 4° piano di Corviale – perché credeva fino in fondo nell’obbligo di rispettare le promesse elettorali e, soprattutto, credeva nella necessità di lavorare per il bene comune e per le classi disagiate, tutte, senza distinzioni!<br />
<span id="fullpost"><br />
La ragione per la quale parlo di lacrime di coccodrillo da parte dei politici a lui vicini è dovuta ad una mia brevissima esperienza diretta col personaggio.<br />
<br />
Qualche anno fa, al termine di una lunga ricerca sull’edilizia popolare riportata nel mio libro “<i>La Città Sostenibile è Possibile</i>” (Gangemi 2010), volli elaborare un progetto di Rigenerazione Urbana del quartiere Corviale di Roma, un progetto nel quale mettevo in pratica i miei studi, suggerendo la riscoperta di una serie di norme e strumenti in vigore nell’Italia degli anni ’10 del secolo scorso, norme e strumenti che avevano consentito all’ICP di costruire in proprio e per conto terzi l’edilizia pubblica facendolo divenire l’azienda più florida dell’epoca a Roma. Quelle norme, soprattutto strumenti, furono riposti in cantina con le leggi fasciste che istituirono i Governatorati, “degradarono” l’ente ed eliminarono l’Unione Edilizia Nazionale.<br />
<br />
Di quel progetto, che venne pubblicato su alcuni giornali e nel web, se ne innamorò l’onorevole Buontempo, Assessore alle Politiche della Casa della Regione Lazio, sicché mi volle conoscere per cercare di organizzare insieme un convegno a tema. Egli aveva molto a cuore la situazione delle periferie e degli alloggi popolari ed avrebbe voluto porre fine alle ingiustizie sociali ed urbanistiche che caratterizzano le periferie italiane. In particolare aveva a cuore l’indegna situazione del Corviale di Roma. L’idea partiva dal fatto che, oltre al mio progetto, ce ne fossero degli altri, come per esempio quello di Gabriele Tagliaventi e Alessandro Bucci, tutti votati a sostituire l’attuale ecomostro in un quartiere autonomo a dimensione umana, caratterizzato da edilizia tradizionale, piazze e giardini.<br />
<br />
Ci chiarimmo subito sul fatto che non avrei mai accettato strumentalizzazioni politiche su di un tema che per me viaggiava ad un livello culturale, sociale ed economico molto più alto dei patetici battibecchi politici dai quali rifuggo.<br />
<br />
Lui si mostrò d’accordo: l’impegno sociale era più importante di tutto, e anche persone come me, <i>allergiche </i>a certi partiti, avevano diritto a dare una mano per migliorare le cose, indipendentemente dalla tessera del partito!<br />
Ricordo come commentai l’incontro ad amici e colleghi che scherzavano sull’incontro col “<i>Pecora</i>”, come veniva chiamato l’onorevole. A questi amici e colleghi dissi che, indipendentemente dalle cose che si dicevano su di lui, a me era sembrata una persona corretta, eventualmente di un altro pianeta rispetto ai politici italiani: non riuscivo a quasi a credere alla sua apertura al dialogo, così mi documentai sulla sua biografia, scoprendo che, in effetti, sembrava più stimato dall’opposizione che dal suo partito!<br />
<br />
Nel tempo, con sorpresa, mi resi conto, che l’onorevole mi seguiva, leggeva i miei scritti, sedeva tra il pubblico delle mie conferenze (Ferrara, Latina, Roma), alcune volte mi ha perfino telefonato per chiedere consigli su ciò che sarebbe andato a dire a degli incontri e conferenze sull’ambiente e sulla sostenibilità dove si accingeva a partecipare … ricordo ancora una lunga telefonata durante la quale parlammo di energie alternative e della mia idea di far riconoscere il diritto agli sgravi fiscali del 55% non solo a chi usi prodotti industriali coibentanti, pannelli fotovoltaici, ecc, ma anche a chi utilizzi materiali e murature tradizionali a chilometri zero che non richiedono sforzi energetici per riscaldamento e raffrescamento.<br />
<br />
Ricordo come una volta cercai di fargli cambiare modo di esprimersi circa l’edilizia del Corviale per evitare di cadere nel tranello dell’inquadramento politico di quel genere di architettura che lui definiva “Sovietica”, così gli dimostrai come fosse figlia delle folli teorie di Le Corbusier che nulla aveva a che fare col comunismo, sebbene quelle tipologie abbiano fatto presa presso le giunte e i Paesi sinistrorsi.<br />
<br />
Di lì a poco intraprendemmo un lungo e faticoso lavoro per organizzare il convegno. L’onorevole mise a disposizione il suo team interno alla Regione, collaborando con noi (me, Gabriele Tagliaventi, Alessandro Bucci, Stefano Serafini, il Gruppo Salìngaros) alla pianificazione di un convegno che avrebbe potuto lasciare il segno sul futuro delle periferie romane e italiane.<br />
Il convegno era pronto e si sarebbe dovuto svolgere alla fine di giugno 2011, poi si preferì evitare la concomitanza con la festività sei SS. Pietro e Paolo e si riprogrammò, nei minimi particolari, il convegno che avrebbe dovuto aver luogo il 23 e 24 settembre 2011 presso l’Auditorium dell’Ara Pacis: 20000 mega-posters a colori stampati, 2000 brochures da 16 pagine a colori stampate, 3000 inviti a colori stampati e spediti, un video ed un’intervista radiofonica registrate dall’onorevole per pubblicizzare l’evento, alberghi e aerei prenotati per ospitare Philippe Pemezec, sindaco di Plessis Robinson, Bernard Durand Rival, Direttore dell’Uff. Urbanistico di Val d’Europe, il prof. Nikos Salìngaros, e il dr. Stefano Chiavalon, direttore generale della General Smontaggi esperto di demolizioni.<br />
<br />
… Tutto procedeva a meraviglia fino a meno di una settimana dal convegno, quando la Governatrice del Lazio impedì che il convegno avesse luogo motivando il fatto con presunti motivi di bilancio … tuttavia, nonostante quei presunti motivi, al posto del nostro convegno se ne svolsero altri due per la promozione del Piano Casa … il nostro convegno e le idee dell’assessore, effettivamente, risultavano troppo in contrasto con le strategie urbanistiche della Regione Lazio!<br />
Inutile raccontare quanto l’onorevole abbia sofferto di questo schiaffo morale, inutile dire come “er Pecora” possa essersi sentito un “agnello sacrificale”, ricordo il suo imbarazzo nei nostri confronti, ricordo lo sfogo dettato dall’incredulità.<br />
<br />
Tre mesi dopo ci incontrammo nuovamente, voleva comunque provare a ritornare alla carica sul tema della sua vita, poi più nulla, anch’egli dovette arrendersi alla condanna del silenzio!<br />
<br />
Oggi sarebbe dunque utile evitare la retorica e l’ipocrisia, rispettando la memoria di chi non c’è più!<br />
<br />
Addio onorevole, nonostante la divergenza politica, ho stimato moltissimo la sua incrollabile coerenza.<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-60861918275386883392013-04-13T09:53:00.001+02:002013-04-13T09:53:07.783+02:00PIAZZE 1 - LUDWIG HILBERSEIMER<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Comincio questa mini-serie sulle piazze in negativo, con un autore, <b>Ludwig Hilberseimer</b>, che è l’antitesi stessa dell’idea di piazza e che ha dato il suo contributo alla dissoluzione della città.<br />
<br />
Leggere i suoi testi di analisi storica della città e confrontarli con la sua produzione urbanistica, i disegni, i progetti realizzati e la sua teoria per la città contemporanea è come leggere la storia di una dissociazione mentale, di una schizofrenia. Poi, riflettendo e rileggendo alcuni passi de <i>La natura della città</i>, 1955, l’idea della dissociazione non si annulla ma si stempera nella consapevolezza che ad un certo punto della storia del novecento appare come ineluttabile la ricerca di dominare la <i>modernità </i>con gli strumenti propri della <i>modernità </i>stessa E’ come se un velo fosse entrato nella mente di ognuno e avesse fatto da filtro tra la realtà e le aspettative del futuro, non riuscendo a mettere a fuoco insieme e a collegare le due diverse fasi temporali.<br />
La forza della realtà presente al momento, con un atteggiamento certamente influenzato anche dalle categorie della struttura e della sovrastruttura, sembra avere impedito di riuscire perfino ad immaginare di opporsi ad una organizzazione tecnologica della società ritenuta inesorabilmente vincente, probabilmente a ragione, e di dedurne che la città coerentemente avrebbe dunque dovuto adattarsi ad essa attraverso lo strumento e il simbolo primo della <i>modernità</i>, cioè l’automobile. Questa viene considerata allo stesso tempo un pericolo (per la salute e la vita in Hilberseimer) ma anche, per massimo paradosso, la generatrice stessa del disegno della città che si piega a quell’oggetto malefico. Si noterà leggendo l’inizio del brano riportato di seguito, la straordinaria analogia di temi e di linguaggio, a distanza di 60 anni, con quelli che potremmo avere letto in un quotidiano di oggi.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhc5m8yUvRRT9EaQ-BuGDAnSMBblIzdv-tZxcw28C80PHosKkleDN8j7pTxSzFtTbzonc6wrcBpNdl9ivCZhwwAZ47l9Y8JyhdW7mQ5fgXnvGQ_YD_uvqniLOfXZ4ze0CXxtd_BLv2rXtA/s1600/Piano+Chicago+Hilberseimer.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="395" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhc5m8yUvRRT9EaQ-BuGDAnSMBblIzdv-tZxcw28C80PHosKkleDN8j7pTxSzFtTbzonc6wrcBpNdl9ivCZhwwAZ47l9Y8JyhdW7mQ5fgXnvGQ_YD_uvqniLOfXZ4ze0CXxtd_BLv2rXtA/s400/Piano+Chicago+Hilberseimer.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Hilberseimer: particolare del piano di ristrutturazione dell'area commerciale di Chicago</td></tr>
</tbody></table><span id="fullpost"><br />
A questo proposito, una breve digressione dal tema: mi sembra che lo stesso errore, in maniera simmetricamente ribaltata, venga compiuto oggi, con l’idea largamente prevalente di chiudere tutti i centri storici, e anche oltre, alle auto. C’è un problema irrisolto con l’auto, non solo dal punto di vista strettamente tecnico, ma direi a livello inconscio, la quale, in entrambe i casi, riesce a diventare il carnefice della città. Una città <i>senz’auto</i> è un’utopia e un errore pari ad una città disegnata <i>per l’auto</i>, una fuga dalla realtà che rischia di accentuare le differenze tra le parti di città e l’artificialità dei nostri centri storici. L’auto è un problema da risolvere non un nemico da combattere e per risolverlo, o attenuarne gli indiscutibili problemi che crea, occorre liberarsi da quella specie di riflesso condizionato di negazione che finisce per produrre ideologie sbagliate qualitativamente simili a quelle di Hilberseimer.<br />
<br />
Riporto alcuni brani tratti da <i>La natura della città</i>, scritto nel 1955 da Hilberseimer e che illustra principi e criteri del suo piano per Chicago, che porterà tra l’altro al suo progetto realizzato più conosciuto, Lafayette Park.<br />
<br />
Il capitolo finale, <i>Problemi di pianificazione</i>, quello delle proposte e del progetto, ci mostra tutto il senso della fiducia nel progetto e nelle proprie idee di una nuova visione di città. Ci indica anche una buona dose di ottusità e di infinita distanza tra le proposte progettuali e gli esiti che, con un minimo di senso critico e di dubbio, si sarebbe potuto prevedere sfociare nella creazione di un ambiente totalmente artificiale e astratto. In pochi come in questo, proprio perchè non ha l'aspetto dell'utopia ma quello della fattibilità di piano, si misura la separazione dell'uomo dalla natura, in quel processo di astrazione cominciato in maniera sistematica con le il razionalismo dei primi anni del 900 ma le cui radici sono evidentemente ben più lontane. Ottusità tanto più grave in chi, come l’autore, nelle pagine precedenti dimostra invece sensibilità e conoscenza dei processi che hanno determinato la nascita o lo sviluppo delle città nel corso della storia. E’ questo il velo di cui parlavo prima. Certo dobbiamo tenere conto che si parla di Chicago, una città dominata e probabilmente sopraffatta dal traffico già negli anni 50, che, risulta bene dal testo, era probabilmente tale e tanto da mettere in secondo piano altri aspetti.<br />
Ma qui non si parla di aggiustamenti, qui si disegna una sorta di “<i>città ideale</i>” che ha aspetti a dir poco allucinati, tutti trattati con uno spirito razionalistico e positivista che prevede effetti sicuri, che non ammette dubbi o incertezze, con descrizioni anche di dettaglio che oggi fanno perfino sorridere per la loro mediocre ingenuità.<br />
<br />
Eppure, anche se non al livello ossessivo in cui Hilberseimer sembra aderire e indulgere in modo del tutto acritico, quei criteri hanno fatto scuola e sono diventati cultura dominante. Basti pensare alle strade a <i>cul de sac</i>, o alla ossessione delle <i>funzioni </i>con la loro rigida divisione.<br />
L’unico aspetto positivo, per assurdo, è che la parola “<i>piazza</i>” non viene citata nemmeno una volta. Di questo Hilberseimer era evidentemente consapevole: niente rete urbana, niente piazze.<br />
<br />
“<i>La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo così abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico, il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale della nostra attuale condizione è l’incapacità di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico. La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.<br />
Le limitazioni di traffico, e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale richiede l’intera città. La sua soluzione richiede la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa, e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede inoltrel’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.<br />
Il sistema di strade e di lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altre parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituire quet’impianto con uno che elimini, per quanto è possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita. […] Le arre residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano queste due condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minaima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale.<br />
<br />
L’unità che noi proponiamo soddisfa queste necessità e contiene, al suo interno, tutte le parti essenziali di una piccola comunità. La sua dimensione sarà determinata da distanze percorribili a piedi che, per essere tali, non dovranno mai superare i 15 o 20 minuti di cammino. Il nuemro di abitanti sarà determinato dal numero di posti di lavoro negli uffici e nelle fabbriche che fanno parte dell’unità; la densità varierà in modo analogo.</i>”<br />
<br />
Seguono sezioni che affrontano l’inquinamento, i diagrammi del vento, i valori architettonici, i problemi del traffico. Passa poi a simulare l’applicazione di quei principi espressi ad alcune città campione:<br />
“ <i>Questa rete di strade secondarie dovrebbe collegare tutte le strade residenziali le quali, verso la città, dovrebbero essere a fondo cieco</i>”.<br />
<br />
Si passa infine a Chicago:<br />
“<i>L’eliminazione del traffico di attraversamento nelle zone residenziali e della possibilità di accesso diretto a ogni casa, è un problema importante e difficile. Qui potrebbe essere risolto semplicemente chiudendo le strade. E’ possibile ottenere che soltanto le strade centrali delle unità future consentano ancora il traffico di attraversamento; mentre tutte le altre son chiuse, come, eliminando alcuni blocchi tra le unità future, si può creare un parco, una area libera naturale in cui potrebbero essere localizzate le scuole e gli edifici pubblici che dovrebbero essere accessibili senza attraversare strade di traffico: in tal maniera, pertanto,i bambini potrebbero andare a scuola senza risultare in nessuna maniera esposti ad alcun pericolo</i>”.<br />
<br />
Queste ultime righe sono la descrizione efficace e quasi pittorica della fine della città, attraversata da autostrade a livello inferiore, una distesa di verde su cui si ergono edifici pubblici staccati l’uno dall’altro e poi una scuola, staccata anch’essa, più lontano gli edifici, ognuno rigorosamente separato dall’altro.<br />
Distanza e separazione sono le cifre di questo schema, prossimità e connessione sono quelle della città tradizionale .<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-80687843788221731062013-04-11T00:23:00.003+02:002013-04-11T00:29:26.591+02:00EFFETTI COLLATERALI DELLA "SMART GENERATION", RIFLESSIONI SULL'ULTIMA TROVATA DI ARUP ASS.<i><b>di<br />
Ettore Maria Mazzola</b></i><br />
<br />
Conoscevamo le previsioni di Nostradamus, quelle di Cassandra, quelle dei Maya, tutti i giorni abbiamo a che fare con le previsioni del tempo, Ci mancavano solo quelle sull’evoluzione degli edifici!<br />
Ma ora abbiamo anche quelle! Infatti, grazie al gruppo di ricerca <i>Foresight + Innovation del Gruppo Arup Associates</i>, che ha prodotto una mostruosità definita “<i>It’s Alive</i>”, possiamo sapere quello che sarà il costruito dei prossimi 50 anni.<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3T_lza_qSMISDvoBVYrFePYTGztQEPYTOvyT1iz-qoRaukDiBW9hGxdUfNDPq8uh2EzAE5Zkhe8nxGbqvuowciJP5I6S2Xjh_GWoUduOr5qdEgVMdM_8cd3osXlviKC2FeuFhy37F88s/s1600/Arup+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="207" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj3T_lza_qSMISDvoBVYrFePYTGztQEPYTOvyT1iz-qoRaukDiBW9hGxdUfNDPq8uh2EzAE5Zkhe8nxGbqvuowciJP5I6S2Xjh_GWoUduOr5qdEgVMdM_8cd3osXlviKC2FeuFhy37F88s/s400/Arup+1.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><div align="center" class="MsoNormal"><i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 9.0pt; line-height: 115%;">It’s Alive – ovvero una torre dalle facciate curvilinee vista come un organismo vivente (da cui il nome It’s Alive), nel quale materiali intelligenti, sensori per gli scambi di informazioni e un sistema automatizzato collaboreranno al suo funzionamento virtuale, come un “sintetico ed altamente sensibile sistema nervoso” in base al criterio secondo il quale “nell’era ecologica, gli edifici non creano più semplicemente lo spazio, bensì fanno l’ambiente”<o:p></o:p></span></i></div></td></tr>
</tbody></table><span id="fullpost"><br />
Bè diciamolo forte, sentivamo davvero il bisogno di questa <i>“previsione basata su dati certi</i>” perché rigorosamente stabiliti dallo stesso gruppo di ricerca!<br />
<br />
Peccato però che quei dati ignorino una serie di ricerche di matrice sociologica, antropologica, neurofisiologica, economica e ambientale. Includo l’ambiente in questo elenco perché quest’ultimo andrebbe letto nel vero senso del termine e non in quello di comodo che certi studi di matrice consumistica adottano!<br />
Potremmo ironizzare dicendo: <i>data una soluzione se ne crei il problema</i>.<br />
<br />
È il principio che muove l’economia moderna iper-consumista. Non si fa a tempo a comprare l’ultimo tipo di <i>I-Phone</i> o <i>Smart-Phone</i> che ne esce subito uno nuovo dotato di “<i>funzioni indispensabili</i>” per risolvere problematiche delle quali fino a ieri sera non conoscevamo neppure l’esistenza, però è così che va il mondo (degli stupidi), e quindi tutti in fila al megastore per acquistare per primi l’ultimo ritrovato tecnologico!<br />
<br />
… Ma perché tanta fretta ad essere i primi? Forse perché sappiamo che il giorno dopo quello straordinario ritrovato tecnologico sarà già vecchio? … gli uomini, che specie strana!<br />
Sembra un discorso fuori luogo, ma a conti fatto siamo lì.<br />
<br />
L’urbanistica, così come la conosciamo oggi, è una disciplina non più mirante a “<i>disegnare la città</i>”, essa infatti si limita all’organizzazione “<i>funzionale</i>” del costruito e, se si è fortunati, alla realizzazione delle infrastrutture necessarie per i collegamenti.<br />
<br />
Peccato però che l’urbanistica della presunta <i>città funzionale</i> abbia prodotto, a livello planetario, luoghi perennemente congestionati, pericolosi e invivibili, a differenza dell’urbanistica delle città storiche – quelle che i convenuti del IV CIAM liquidarono come “<i>non funzionali</i>” – che continua a funzionare alla perfezione nonostante le violenze della “civiltà” moderna. L’urbanistica moderna si è basata e si basa su “<i>previsioni di piano</i>”, previsioni che, nella totalità dei casi, non rispondono mai alla realtà dei fatti ma solo agli interessi fondiari di qualcuno, generando un consumo di suolo inimmaginabile prima degli anni ’30, ovvero prima delle visioni folli di Le Corbusier e Wright.<br />
<br />
Non se ne può ovviamente parlare tra colleghi, i danni ideologici e l’assuefazione al modernismo/funzionalismo, nonché gli interessi speculativi, sono tali che se si mette in dubbio la normativa urbanistica e il nostro stile di vita si viene condannati in ogni possibile modo da parte degli “<i>esperti</i>”.<br />
<br />
Cosa c’entra tutta questa premessa? C’entra col fatto che, se un tempo certe previsioni riguardavano il modo di sviluppare la città, oggi Arup Associates ha deciso di fare un salto di qualità. Così, per poter conquistare una fetta di mercato edilizio del quale già detiene una grossa parte a causa di un sistema assurdo secondo il quale le cosiddette <i>archistars </i>(sotto forma di “<i>società di ingegneria</i>” e i “<i>gruppi</i>”) vengono considerate sinonimo di “garanzia” … indipendentemente dai ripetuti fallimenti e cause giudiziarie che hanno visto nel mondo coinvolti tanti nomi famosi.<br />
<br />
Ecco quindi che la Arup Associates, per tramite del suo gruppo di ricerca <i>Foresight + Innovation</i>, si auto proclama “<i>esperta</i>” del settore – da lei stessa creato – dettando i tempi e i modi del futuro sostenibile dell’architettura e decidendo il modo in cui gli esseri umani dovrebbero vivere nei prossimi 50 anni.<br />
In realtà non è proprio un settore creato dalla Arup, bensì l’esasperazione di uno slogan gran moda negli ultimi anni, la <i>Smart City</i>.<br />
<br />
Sarebbe ora che gli umani prendessero coscienza del fatto che le grandi multinazionali “<i>tech</i>” stiano creando a tavolino un presunto <i>futuro ipertecnologico</i> del quale non solo possiamo fare a meno, ma che addirittura probabilmente mai vedremo a causa dell’esaurimento delle fonti non rinnovabili e della dipendenza di quelle rinnovabili dalle prime.<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZ9mTDSiixsw7bM2yOmboqR3VupFL4PlSl7xdGEYzBL6KuEyq2R572EIvt35mCKygSc_yT_CgOTk5o7imsmhAobwuSyC0ngUSbXhBQKTucF8Xp2D5DXN-JYmi5H99ixTwlWtkDMUFGeJY/s1600/Arup+2.jpg" imageanchor="1"><img border="0" height="347" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjZ9mTDSiixsw7bM2yOmboqR3VupFL4PlSl7xdGEYzBL6KuEyq2R572EIvt35mCKygSc_yT_CgOTk5o7imsmhAobwuSyC0ngUSbXhBQKTucF8Xp2D5DXN-JYmi5H99ixTwlWtkDMUFGeJY/s400/Arup+2.jpg" width="400" /></a><br />
Sarebbe ora di smetterla di prendere per i fondelli la gente con descrizioni come quella che segue relativamente alla “<i>Net-Native Generation</i>”, termine coniato da Arup Associates per giustificare “<i>It’s Alive</i>”:<br />
<br />
“<i>La generazione di individui che popolerà la terra sarà nata nell’”era della rete”, perciò sarà molto probabile una tecnologia basata sempre di più sulla produzione di soluzioni individuali</i>”.<br />
<br />
Ragion per cui la ricerca della Arup mira alla possibilità/necessità di una progettazione architettonica basata su:<br />
• “<i>componenti flessibili per una continua adattabilità</i>” … ma che senso ha parlare di continua adattabilità se stiamo parlando di una concezione usa e getta? (ndr)<br />
• “<i>produzione di più risorse di quelle che si consumano</i>” … l’architetto diviene Dio e, per magia produce risorse energetiche dal nulla! (ndr)<br />
• “<i>presenza di una pelle sensibile e multifunzionale</i>” lo slogan è “<i>puoi immaginare un edificio che abbia una pelle sensibile e multifunzionale?</i>” … le immagini allegato legittimano il dubbio relativo ai materiali proposti: quali costi, economici ed energetici si prevedono per questa pelle? E quale è il suo reale ciclo di vita? (ndr) <br />
• “<i>ipotesi di una città in cui gli edifici sono pienamente integrati con le infrastrutture urbane circostanti</i>” … in pratica un modello di città intimamente dipendente dai trasporti a grandi distanze, piuttosto che un ambiente dimensionato sull’uomo. Come potrà una realtà di questo tipo sopravvivere alla fine dell’era del petrolio a buon mercato? (ndr)<br />
• “<i>Smartness che consiste in un sistema connettivo paragonabile al sistema nervoso umano, una mente insomma, capace di rispondere efficacemente e (quasi) autonomamente alle necessità del singolo</i>” … interessante quel “<i>quasi</i>” messo tra parentesi, come a voler ammettere l’impossibilità di autonomia paventata nei primi tre punti! (ndr)<br />
<br />
In un articolo dedicato a <i>It’s Alive</i> firmato da Giulia Custodi per il sito <b><a href="http://www.architetturaecosostenibile.it/architettura/in-europa/it-s-alive-ricerca-arup-costruito-275.html">www.architetturaecosostenibile.it</a></b> si apprende che lo studio di Arup Associates vuole prefigurare ciò che succederà nel 2050 a causa di “<i>14 motori di cambiamento</i>” dell’esistenza degli umani.<br />
<br />
Nell’articolo si legge che <i>nello studio di Arup la consapevolezza delle cause del cambiamento assume grande rilevanza, proprio perché si tratta della classica e preliminare indagine sull’identificazione del problema, senza cui non sapremmo dove andare a cercare le risposte. Tra queste abbiamo la crescita della popolazione e la relativa urbanizzazione, i cambiamenti climatici, il riconoscimento della scarsità delle risorse naturali, la coscienza ambientale e infine la consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza</i>”.<br />
<br />
Viene quindi spontaneo chiedersi come mai, davanti a tanta consapevolezza, il <i>prodotto </i>sembra essere l’esatto opposto della risposta alle problematiche delle quali si era consapevoli?<br />
<br />
Mi spiego meglio: se si è coscienti del problema dell’<i>aumento della popolazione</i> e, conseguentemente della <i>crescita dell’urbanizzazione</i>, si dovrebbe tendere a proporre delle tipologie urbanistiche ed edilizie che portino a ricompattare il tessuto urbano, piuttosto che proporre edifici puntiformi isolati che tendono a consumare un’immane quantità di territorio; quest’ultimo infatti risulterebbe indispensabile per risolvere i problemi relativi all’inquinamento e ai cambiamenti climatici … ma ciò non conta, evidentemente.<br />
<br />
Inoltre, i ricercatori della Arup Associates raccontano della loro <i>presa di coscienza della scarsità delle risorse naturali</i>, tuttavia propongono un’edilizia che, oltre a danneggiare le falde freatiche per le ragioni che ho testé elencato, richiede anche un’immane consumo energetico! Si dovrebbe costruire artigianalmente e con materiali durevoli, naturali e a chilometri zero, materiali ottimamente performanti a livello termo-igrometrico, piuttosto che proporre edilizia industriale che impiega materiali dalla vita breve, prodotti a migliaia di chilometri di distanza, materiali che necessitano di artifici chimico-fisici per poter difendere gli edifici dagli agenti atmosferici … ma anche questo non conta!<br />
<br />
Infine la Arup Associates sbandiera la triste <i>consapevolezza di una società fondata sulla difesa e sulla sorveglianza</i>, ciò nonostante propone un’edilizia frammentaria all’interno della quale il pedone non è il benvenuto e ci si muove solo grazie a grandi infrastrutture in uno scenario degno di <i>Blade Runner</i>, dove le relazioni sociali sembrano irrealizzabili. Nel tipo di città del futuro proposto da Arup non v’è possibilità di avere strade caratterizzate da fronti compatti ospitanti attività commerciali e/o artigianali al piano terreno, conseguentemente non v’è possibilità di ottenere quella “<i>sorveglianza spontanea</i>”, operata da negozianti e passanti, della quale Jane Jacobs parlava nel lontano 1961 criticando le città americane ormai disegnate in funzione delle automobili … dove sarebbe dunque tutta questa consapevolezza?<br />
<br />
Lo studio di Arup è un inno alle nuove tecnologie e nulla più. Nell’articolo summenzionato infatti si legge:<br />
<br />
“<i>Nuovi modelli di produzione del cibo, città ed edifici intelligenti, nanotecnologie e biotecnologie, robotica e automazione. Tutti questi concetti rappresentano, nell’immaginario collettivo ma anche e soprattutto nei laboratori tecnici che ne preparano versioni sempre più sofisticate, ciò da cui oggi ci aspettiamo sarà popolato il mondo del futuro</i>”.<br />
<br />
In pratica siamo tornati al punto di partenza. Amiamo complicarci la vita con tecnologie sempre più sofisticate che rendono obsolete la sera ciò che era stato prodotto al mattino … di questo passo non sarà possibile costruire edifici che richiedano più di 24 ore, perché al mattino seguente saranno passati. E’ questo il futuro sostenibile che vogliamo?<br />
<br />
Ma poi chiediamoci, è questo il futuro? È questa la novità? A me sembra che con 100 anni di ritardo si stia proponendo ciò che vaneggiava Antonio Sant’Elia nell’8° punto del suo Manifesto dell’Architettura Futurista del 1914: «[…] <i>i caratteri fondamentali dell’Architettura Futurista saranno la caducità e la transitorietà. “le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo</i>”, […] <i>pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista</i>».<br />
<br />
Personalmente penso che l’unico futuro possibile per l’architettura, l’urbanistica e l’ambiente possa essere solo quello di un ritorno al buon senso, cosa che prevede la necessità di liberarsi al più presto dagli stupidi pregiudizi ideologici e dall’idea dell’architetto demiurgo.<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-84104668366186186112013-04-07T22:25:00.000+02:002013-04-07T23:10:16.573+02:00SUL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO "LIBERI DI COSTRUIRE"<i><b>di Ettore Maria Mazzola</b></i><br />
<br />
Sebbene sia ben felice delle provocazioni di Romano (<a href="http://www.de-architectura.com/2013/04/liberi-di-costruire.html">vedi post precedente</a>), devo necessariamente esprimere i miei dubbi – o suggerimenti – atti a dare più credibilità a certe argomentazioni.<br />
Chi mi conosce sa benissimo quanto io sia dalla parte di chi sostenga la necessità di ridare ai cittadini comuni la possibilità di esprimersi sulle realizzazioni urbanistico-architettoniche entro cui dovranno vivere; tutti sanno quanto io possa essere contrario alle presunte <i>élite </i>colte degli architetti che, parlandosi addosso ed autocompiacendosi, impongono la loro ideologia testandola su delle ignare cavie umane, quindi spero che capirete come queste mie critiche non vogliano essere distruttive del testo di Romano, ma piuttosto un suo completamento.<br />
<br />
Il motivo principale della critica è che ritengo pericolosa la proposta di una sorta di tabula rasa della normativa edilizia e delle procedure vigenti in nome di una sorta di istigazione al “<i>fai da te ciò che vuoi</i>” … un modus operandi che, ritengo, piuttosto che presagire un miglioramento delle nostre città, sembra prefigurare un far west urbanistico architettonico degno delle peggiori periferie abusive.<br />
<span id="fullpost"><br />
Un grosso limite in questo approccio lo vedo anche nella sua difesa basata su discutibili indicazioni storiche questa pratica costruttiva libertaria.<br />
<br />
Gli storici dell’architettura, e di conseguenza gli architetti di palato fino, tendono a considerare la formazione della città a partire dall’opera di Alberti e Rossellino a Pienza, mentre la vera coscienza urbanistica italiana si è sviluppata e consolidata molto prima, per celebrare la nuova istituzione dei Comuni all’indomani del feudalesimo, epoca in cui i “signori” realizzavano all’interno delle città dei castellari che nulla avevano a che fare col senso di città degli spazi condivisi, ma piuttosto si configuravano simboli arroccati della propria arrogante presenza bellicosa.<br />
<br />
A testimonianza di ciò che dico, sottolineo come gli archivi storici italiani risultino stracolmi di Statuti, Regolamenti, Codici, Trattati, ecc. a partire dal tardo XII secolo (Siena, Vicenza, Città di Castello, Gubbio, Bologna, Perugia, Orvieto, Nocera Umbra, Verona, Pistoia, Parma, Viterbo, Ravenna, ecc.), documenti che dimostrano l’altissima concezione urbanistica degli italiani del medioevo, capaci di concepire e scrivere regole del vivere civile e del costruire nel rispetto degli altri. Se però andiamo a ritroso – sono anni che ci sto lavorando – troviamo che quelle regole, alcune delle quali sono riportate anche nel nostro Codice di Procedura Civile, sono riscontrabili in codici altomedievali e medievali arabi e bizantini [Trattato di Giuliano di Ascalone, sotto Giustiniano I (531-533), Trattato di Ibn Abd al-Hakam (767–829) al Cairo, Trattato di Ibn Dinar (827) a Cordoba, Trattato di Ibn al-Rami a Tunisi (circa 1350)] trattati che a loro volta si rifacevano ai codici costantiniani; ebbene quei codici e trattati, tramite la dominazione bizantina e araba si sono diffusi in tutto il Bacino Mediterraneo, completando un viaggio di andata e ritorno dall’Italia e restando in vigore, anche se non ne abbiamo tracce scritte, nel modo di costruire la città e relazionarsi urbanisticamente tra i suoi cittadini fino all’alba del Rinascimento.<br />
<br />
Ciò vuol dire che le città sono – SEMPRE – state costruite in base a delle regole, sicuramente più snelle e logiche di quelle post-lecorbusieriane, e mai in nome del fai da te; o meglio, il fai da te è sempre stato ammesso, ma nel rispetto degli altri, perché un tempo vigevano le <i>regole del vivere civile</i>, del <i>rispetto del bene comune</i>, del <i>rispetto del decoro urbano</i>, ecc., tutte regole che la presunta “<i>civiltà</i>” contemporanea ha perduto.<br />
<br />
Se vogliamo quindi riportare le città ad essere più armoniose, e i cittadini a realizzare in maniera più libera (nel rispetto altrui), bisogna prima risvegliare il senso civico … ed oggi non mi sembra affatto che ce ne siano le condizioni! Occorrerebbero anni di insegnamento dell’Educazione Civica (vergognosamente eliminata dall’insegnamento scolastico), occorrerebbe rivedere il modo di insegnare la storia dell’arte e dell’architettura, imponendo anche quello della Storia dell’Urbanistica (oggi inesistente nelle scuole superiori), occorrerebbe imporre l’insegnamento della Sociologia Urbana, affiancato a quello dell’Urbanistica, per far comprendere a chiunque, e non solo a pochi eletti che andranno a studiare architettura ed urbanistica (peraltro con tutti i limiti dell’ideologia), quelli che sono gli effetti collaterali dell’urbanistica e dell’architettura … solo allora potrebbe rendersi possibile operare come Romano suggerisce.<br />
<br />
Potrei andare avanti moltissimo … ma rischierei di essere prolisso, quindi rimando ai miei tanti articoli sparsi nel web ed ai miei libri per far capire meglio ciò che intendo, però devo fare un’ultima annotazione, questa volta profondamente critica.<br />
<br />
Romano dice: <br />
«<i>E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto – o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina.</i> (…)»<br />
<br />
Ebbene questa libertà non è percorribile, né può esserlo l’idea che si possa fare a meno, in nome di una presunta libertà, di conquiste scientifiche come quelle derivanti dall’eziologia e dalla fisiologia e neurofisiologia!<br />
<br />
Consentire di costruire ambienti dimensionati in quel modo, o addirittura non ventilati significa buttare nel cesso anni di studi che hanno portato a ridurre la mortalità delle persone grazie anche al miglioramento delle condizioni di vita delle abitazioni … cosa che Le Corbusier, dall’alto della sua presunzione ed ignoranza, volle fingere di non sapere, per il comodo degli speculatori suoi sponsors.<br />
<br />
Il risultato di quell’ignoranza portò gli architetti, gli urbanisti, e prima di loro i docenti universitari a fare una grandissima confusione, sempre negli interessi degli speculatori (fondiari ed edilizi), tra “<i>densità urbana</i>” e “<i>densità abitativa</i>”, portando le città ad espandersi a macchia d’olio in nome di una errata criminalizzazione dei centri storici – densi e compatti – che nulla aveva a che fare con le condizioni di vita all’interno degli edifici.<br />
<br />
Inutile quindi far notare l’ossimoro delle stanze senza finestre per prevenire <i>crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina</i>: stanze senza finestre = dipendenza dall’aria condizionata = aumento dell’inquinamento = aumento delle polveri sottili!<br />
<br />
Detto ciò chiudo con la speranza che questo scritto aiuti tutti, Romano incluso, a riflettere sulla frase “<i>est modus in rebus</i>”: … così come fu un grande errore quello di spazzare tutto il passato in nome dell’ideologia modernista (Carta di Atene e Le Corbusier), altrettanto e peggio ancora potrebbe succedere nel caso si facesse repentinamente, e senza nuove regole, piazza pulita, in nome della demagogia, di tutto ciò che abbiamo conquistato in materia di ecologia e salute pubblica!<br />
<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com10tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-12184255386308553562013-04-07T01:47:00.001+02:002013-04-07T01:49:04.526+02:00LIBERI DI COSTRUIRE<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Il titolo non è mio ma è quello del <a href="http://www.ibs.it/code/9788833923857/romano-marco/liberi-costruire.html">nuovo libro</a> di <b><a href="http://www.esteticadellacitta.it/">Marco Romano</a></b> che consiglio vivamente di leggere con animo sgombro da pregiudizi. E’ un libro dis<a href="http://www.ibs.it/code/9788833923857/romano-marco/liberi-costruire.html"></a>inibito, dissacrante, libertario, liberatorio e perfino libertino, tanto è anti-moralista e quindi controcorrente in questa fase della nostra storia così grevemente moralista e giacobina, e lo è con spirito leggero e divertito. Leggendolo viene da immaginarsi la sottile e irridente perfidia dell’autore nello scrivere quelle parti più politicamente scorrette, col gusto per la provocazione intellettuale che ci ha messo, ben sapendo che sarebbe stato sottoposto alle critiche più feroci. Probabilmente andando volontariamente a sollecitarle.<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhwY9AZdVVPyLIisHPM6TYNt1Ng7RshuHgc7muMvvaPRr8yRuqfxajbxRw4zTFtvPLbCd2reKHranGOBswRPHrBvcXS4XvpjBeo1JXTn7wMLPxrahsbaSRHHotXb7eVY_HQ03Ef9XwQWMk/s1600/20100822_2130_3.JPG" imageanchor="1"><img border="0" height="280" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhwY9AZdVVPyLIisHPM6TYNt1Ng7RshuHgc7muMvvaPRr8yRuqfxajbxRw4zTFtvPLbCd2reKHranGOBswRPHrBvcXS4XvpjBeo1JXTn7wMLPxrahsbaSRHHotXb7eVY_HQ03Ef9XwQWMk/s400/20100822_2130_3.JPG" width="400" /></a><br />
Ma detto questo, il libro è serio, anzi serissimo, fondato sulla profonda conoscenza non solo delle città ma della storia e delle sue pieghe più nascoste, quasi da erudito topo di biblioteca.<br />
Il contenuto è letteralmente politico perché affronta il tema città dal punto di vista della civitas, cioè dei cittadini, ribaltando completamente la visuale rispetto a quella che è la regola generale da sempre: la città europea come noi la conosciamo e come a noi è giunta, è il frutto dell’opera dell’uomo da mille anni a questa parte ed è cresciuta e si è trasformata guidata da una precisa volontà estetica non imposta dall’alto bensì cresciuta in un clima di democrazia e libertà, e quindi il metro con cui leggerla e giudicarla è l’uomo stesso in quanto cittadino, senza divinizzare i manufatti se non in funzione del soddisfacimento dei desideri, oltre che dei bisogni, dell’uomo in quanto appartenente alla <i>civitas</i>. Il valore simbolico dei temi collettivi e dei temi individuali trova la sua ragion d’essere nell’essere stati scelti come tali dai cittadini con l’intento di rendere più bella l’<i>urbs</i>.<br />
<span id="fullpost"><br />
Da questo assunto storico, che fa perno sul diritto di cittadinanza garantito dal possesso di una casa, le cui origini <b>Romano </b>spiega con dovizia di particolari, nasce <i>Liberi di costruire</i>, che va preso proprio in senso letterale, almeno di primo acchito, per entrare dentro l’argomento, salvo poi riportarlo entro l’alveo delle regole le quali però hanno sempre come faro il rispetto del diritto dei cittadini a costruirsi una casa secondo le aspettative e le possibilità di ciascuno.<br />
Le regole infatti sono informate, riprendendo quello che sempre l’autore ha sostenuto, dal principio di garantire un godimento della città il più possibile egualitario, a prescindere dalle possibilità economiche dei singoli. Ciò può avvenire, secondo <i>Romano</i>, disegnando piani regolatori che non pongano limiti quantitativi al “<i>dimensionamento</i>” del piano (immagino i funzionari-urbanisti della Regione Toscana saltare sulla seggiola alla lettura di questa parte, ammesso che non sia già messo all’indice e che tutti i dipendenti non vengano perquisiti per evitare che il virus si diffonda), strutturati con rete stradale costituita da <i>boulevard </i>e <i>viali </i>che partano dal centro della città o comunque da luoghi centrali, affinchè la città sia una presenza per tutti gli isolati che affacciano su di essi e per tutte le case allineate lungo le strade, creando così una condizione tale per cui, anche chi non può permettersi di abitare in centro, abbia la percezione fisica di essere comunque parte integrante di quella <i>civitas</i>. E’ la visione tradizionale che <i>Marco Romano</i> ha del disegno della città, che in questo libro si evolve e si arricchisce di indicazioni politiche più ampie.<br />
Leggiamo i titoli dei capitoli che lo compongono:<br />
-Il cittadino europeo e la sua casa<br />
- Limiti alla libertà di costruire<br />
- La democrazia della civitas e la bellezza dell’urbs<br />
- Che fare?<br />
- Liberarsi dalle commissioni edilizie<br />
- Liberarsi dalle norme edilizie<br />
- Una libera casa di vacanza<br />
- Liberiamoci dallo Stato.<br />
<br />
Come si capisce, questo è un libro sulla libertà, che non va considerata in alcun modo anarchia o scambiata, ancora peggio, per una bieca visione speculativa, perché <b>Romano </b>non solo non rifiuta l’idea di progetto della città, ma anzi auspica un ritorno al piano disegnato, al piano all’antica, contro la pratica della <i>pianificazione </i>come fonte di corruzione:<br />
<br />
“<i>E su questo terreno incerto</i> [cioè sulle infinite regole scritte da presunti esperti, Ndr] <i>serpeggia un’endemica corruzione, che non va fatta risalire alla disonestà dei singoli – spesso coperti dai partiti – ma alle stesse procedure della pianificazione: una corruzione che i piani regolatori correnti fino a mezzo secolo fa, con le loro strade tracciate seguendo un’indiscutibile coerenza d’insieme e con una semplice norma regolativa dell’edificabilità, rendevano minima (...)</i><br />
<br />
<i>E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto –o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…) La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos’altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella <b>spending review</b> ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati – gli architetti e i loro clienti – ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili</i>”.<br />
<br />
Come si capisce bene, il gusto del paradosso, accompagnato da osservazioni assolutamente vere e a tutti note, serve a provocare una reazione forte nel lettore, a dare una scossa al torpore, al massimo all’indignazione, con cui oramai subiamo ogni tipo di assurde e inutili vessazioni.<br />
<br />
Ma allora, c’è un limite alla libertà del cittadino? Il limite c’è e “<i>la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà”</i>. La sfera simbolica è, secondo <i>Romano</i>, lo spazio pubblico con i suoi temi collettivi.<br />
<br />
Sull’architettura, sulla forma che le abitazioni potrebbero avere, <i>Romano </i>pensa che: “<i>E’ vero che la tradizione moderna pretende che l’architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di <b>Gropius </b>e di <b>Le Corbusier</b>, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch’essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che soddisfare i bisogni degli uomini in carne e ossa; e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo – speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet , un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo – ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità</i>”.<br />
<br />
Molti altri sono i temi di grande interesse affrontati da <b>Marco Romano</b>, che conclude il suo libro con una intrigante, anche se di difficile architettura istituzionale, proposta di una Europa delle città, anziché quella di una <i>Europa delle nazioni</i>, sempre fondata su argomentazioni e interpretazioni storiche non certo estemporanee. Questo è il senso del titolo dell’ultimo capitolo, <i>Liberiamoci dallo Stato</i>, non quello di un grido anarchico o di un becero lassismo come qualcuno certamente penserà.<br />
Un libro i cui assunti non tutti possono essere condivisi e tanto meno che se ne ritenga possibile la facile attuazione, ma che tuttavia riporta tutta la materia della città e dell’architettura alla sua fonte originaria, cioè l’uomo come cittadino parte della <i>civitas </i>con i suoi desideri e i suoi bisogni, sottraendo l’<i>urbs</i> alle grinfie dei presunti esperti. Chi mi ha letto un po’ sul blog sa che ho sempre sostenuto che per ridare legittimità all’architettura non c’è altra strada che rimetterla al giudizio dei cittadini. Forse è questa l’unica vera “<i>terza via</i>”, vale a dire quella di tornare alla prima.<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-59781401432630783992013-04-01T16:11:00.002+02:002013-04-06T08:32:16.291+02:00PIAZZE<i>POST CORRELATI:</i><br />
<i><a href="http://www.de-architectura.com/2010/09/strade-5-ettore-maria-mazzola.html">Strade 5 - di Ettore Maria Mazzola</a></i><br />
<i><a href="http://www.de-architectura.com/2010/09/sequenze-urbane-un-esempio-concreto.html">Sequenze urbane: un esempio concreto - di Ettore Maria Mazzola</a></i><br />
<i><a href="http://www.de-architectura.com/2010/01/strade-piazze-funzioni-eventi.html">Strade, piazze, funzioni, eventi</a></i><br />
<i><a href="http://www.de-architectura.com/2009/10/eleogio-dellimperfezione-urbana.html">Elogio dell'imprefezione urbana</a></i><br />
<i><br />
</i> <i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Piazza pulita, mettere i propri affari in piazza, fare una piazzata, piazza telematica, scontri di piazza, mi sono messo sulla piazza, Piazza Italia, scendere in piazza, processi di piazza, riempire le piazze, Piazza Affari: il linguaggio comune e quello politico e giornalistico ci racconta che la piazza è rimasta nell’immaginario collettivo, anche con valenze negative, il luogo pubblico per eccellenza, il luogo in cui si condensano i rapporti sociali tra gli individui e si esprime l’appartenenza di ciascun individuo ad una civitas. Piazza è il simbolo di comunità, locale il più delle volte ma anche nazionale, in occasione di grandi manifestazioni pubbliche e addirittura universali nel caso di Piazza San Pietro, luogo di riferimento per milioni di persone di ogni continente.<br />
<br />
In piazza si commercia, si discute, si manifesta, ci si mette in gioco, più nelle intenzioni e nei ricordi che nei fatti però. Nel linguaggio comune, ma anche nella pratica urbanistica, la piazza è mitizzata oltre ogni misura e quasi trasfigurata fino a perdere ogni connotazione fisica, ogni aggancio con la realtà urbana. Il significato metaforico prevale largamente su quello di luogo fisico e storico della città.<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhW_CUbvC4s0xu0OWJDr4oOU3bZOgucZXj1t9Rf24JLmVEqOe3uBiWB8DjzYY8OUdU-QiM5gKSVECD4QkrO9YXd9d2bwNyHQbpmay72voenM2l2s8ALo-8nXTXrXraqYaW1Wu1jttEKfDQ/s1600/Sistema-di-piazze-a-Rionero-in-Vulture-PZ.jpg" imageanchor="1"><img border="0" height="207" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhW_CUbvC4s0xu0OWJDr4oOU3bZOgucZXj1t9Rf24JLmVEqOe3uBiWB8DjzYY8OUdU-QiM5gKSVECD4QkrO9YXd9d2bwNyHQbpmay72voenM2l2s8ALo-8nXTXrXraqYaW1Wu1jttEKfDQ/s400/Sistema-di-piazze-a-Rionero-in-Vulture-PZ.jpg" width="400" /></a><br />
Questa frase di Baricco è sintomatica in questo senso:<br />
<span id="fullpost"><br />
"<i>Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi lì, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada? Sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto</i>".<br />
<br />
Il posto per eccellenza è la piazza, anche se poi in piazza non ci sta quasi mai nessuno, se non in particolari eventi e circostanze. Un collega, <b>Danilo Grifoni</b>, osservava che le piazze sono affollate ai bordi, quasi mai al centro. Si prenda Piazza del Campo a Siena: chi sta al centro, a parte i turisti? La vita si svolge ai margini, cioè lungo la strada, laddove ci sono attività o edifici pubblici importanti. E Baricco sembra non tenere conto del fatto che le piazze senza le strade non esistono. Se è lecito in letteratura, non è invece lecito nella lettura della città, che esiste anche in assenza di piazza, e non solo nei paesi extra-europei, come spiega <b>Marco Romano</b> che attribuisce alla storia urbana europea “<i>l’invenzione</i>” della piazza, ma anche da noi, dove esistono borghi lineari che non hanno piazza. Ma non solo borghi lineari: Arezzo, la mia città, spiegava con gusto del paradosso il prof. Piero Ricci “è quella città che ha come unica piazza un semaforo”, per il fatto che la gente si concentrava e si concentra tutt’ora, nell’incrocio tra le due strade più importanti, una pedonalizzata, la strada del passeggio, dello struscio, e l’altra carrabile, dove c’è un semaforo ma, incredibilmente, non c’è una piazza.<br />
<br />
La piazza risiede più che mai nella mente: in quella di sindaci che dichiarano di volerne 50 o 100 ad ogni campagna elettorale, e in quella degli architetti, che ad ogni concorso attribuiscono il nome di piazza ai luoghi più improbabili: interni di edifici, edifici senza interni, vuoti destrutturati, ma molto ben renderizzati, residuali tra edifici messi a caso secondo un “gusto” geometrico-astratto, spiazzi marginali aperti delimitati dal vuoto intorno.<br />
<br />
Non esiste invece, dicevo prima, una città senza strade e infatti le nostre periferie post-belliche non sono città proprio per la programmatica prima, abitudinaria adesso, mancanza di strade, nell’accezione tradizionale del termine. E se non esistono le strade non possono esistere nemmeno le piazze, quindi è inutile fare concorsi per piazze che non possono esserci laddove non esiste un organismo urbano con un sistema circolatorio strutturato in grado di alimentare i vari organi vitali. Inutile anche, anzi dannoso, laddove le piazze già esistono, proporre interventi di così detta <i>riqualificazione</i>, la quale si risolve in vacuo arredamento d’esterni generalmente estraneo e dissociato dai caratteri del luogo, esercizi di fantasie grafiche con supponenti ambizioni artistico-decorative, sempre ben renderizzate, che fanno perdere il sapore originario senza riuscire a sostituirlo con uno nuovo che non sia di astratto design da stand fieristico: segni di pura grafica nella pavimentazione del tutto priva di significato, accostamento di materiali da pavimentazione diversi, immancabile fontana e panchine e poi le scale affollatissime, nei rendering, di giovani, qualche stento alberello perché il verde arreda e scaccia l’horror vacui.<br />
<br />
Se qualcuno volesse riconoscere in questa descrizione una piazza a lui nota si metta in pace, non è così. E’ che sono tutte eguali e non c’è bisogno di pensare a qualcuna in particolare. Ne vedi una, le hai viste tutte. Le piazze storiche invece sono tutte diverse tra loro e tutte riconoscibili perché diversa è la loro conformazione spaziale rispetto alla città, diversa è la forma, diverse le cortine degli edifici che le circondano.<br />
<br />
Il verbo della piazza è <i>stare</i>, quello della strada <i>andare</i>. La vita è <i>andare </i>(in poesia e in letteratura è <i>stare</i>) e andando lungo una strada si può capitare in una piazza dove eventualmente <i>stare</i>. La piazza è per i giorni di festa o per le occasioni speciali, la strada è per la quotidianità, per i giorni feriali. Con molte eccezioni, come la piazza del mercato. Ma la piazza non può essere in un luogo qualsiasi, in base alla volontà di arredare un vuoto o di destinarvi una funzione. Le funzioni passano ma la piazza resta e se non è nel posto giusto tornerà rapidamente ad essere solo un vuoto.<br />
<br />
Scrive <b>Marco Romano</b> nel suo libro appena uscito <i><a href="http://www.ibs.it/code/9788833923857/romano-marco/liberi-costruire.html">Liberi di costruire</a></i>, Bollati Boringhieri:<br />
“<i>I sostenitori dei principi sui quali riposa la pianificazione rimarranno sconcertati dal fatto che il piano di una nuova città non abbia nulla a che vedere con la destinazione d’uso degli isolati tracciati dalla nuova rete di strade e di piazze, dove tuttavia non sussistono motivi per stabilire le famose prescrizioni funzionali che sono il loro pane quotidiano. Che la città possa venire immaginata come un complesso di funzioni, alla guisa del corpo umano, è precisamente la metafora organicista che ha legittimato la pianificazione moderna, ma le cose non stanno con ogni evidenza così, perché la consistenza materiale dell’urbs – quella che ne incorpora la sfera simbolica e il significato civile – viene disegnata e costruita con la pretesa di durare per sempre, proprio perché alla sicurezza della nostra appartenenza alla civitas e alla presunzione della sua durata nel tempo noi ancoriamo la speranza di sopravvivere nella memoria dei nostri discendenti (…) mentre l’utilizzazione dei fabbricati che oggi ne occupano le aree intercluse tra strada e strada, tra una sequanza e l’altra, è destinata a durare molto meno, sostituita nel tempo da altre utilizzazioni, com’è stato in questi ultimi mille anni…</i>”.<br />
<br />
Per inciso, credo che la metafora che Romano chiama <i>organicista </i>riferita alla pianificazione moderna, sia in verità una metafora <i>meccanicista</i>, in pieno accordo con il dettato del capo, Le Corbusier. Ma è solo una questione nominalistica.<br />
Per cercare di ripassare l’essenza e il significato del luogo piazza, cercherò di mettere insieme, in post successivi, brani significativi di vari autori, senza la minima pretesa sistematica tanto meno didattica, ma come pro-memoria. Spero anche di fare ricorso ad autori e architetti moderni e contemporanei, per cercare di capire <i>cosa </i>essi intendano per piazza ma soprattutto <i>come</i>, su quali presupposti, essi arrivino a collocarla nello spazio urbano.<br />
<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com7tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-43113368977692865542013-03-25T23:16:00.003+01:002013-03-26T11:33:39.303+01:00SE LA POESIA NON E' DI CASA<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Abbandonata sulla poltroncina di un treno, una conoscente l'ha raccolta e mi ha fatto pervenire una pagina de Il Messaggero, giornale non troppo diffuso dalle mie parti. Sapeva che avrebbe potuto interessarmi. E’ ingegnere con un forte interesse per l’architettura e l’arte.<br />
Si tratta dell’anticipazione di un libro del poeta <b>Giorgio Caproni</b>, <i>Prose critiche</i>, <i>Aragno</i>. Non si tratta quindi di poesie in questo caso, anche se la prosa ha il ritmo della poesia. E’ un breve estratto e non ha un titolo e io citerò quello dell’articolo: Se la poesia non è di casa.<br />
<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqHJvB0iZ7mt1iFn30Ucya-ZKXERR1aaU3ghhd-WW7tk3unDU2t9HmJAX96dyc0zPecaLQPx6sPtsjGj0P3PnUA2iY4fR0L6_o30gLJzLo7Y4Ja1HpNNAc6A3vYZFLfFV1xEfM5H6peas/s1600/Verdelli+2-Viale+Gramsci+(1).JPG" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjqHJvB0iZ7mt1iFn30Ucya-ZKXERR1aaU3ghhd-WW7tk3unDU2t9HmJAX96dyc0zPecaLQPx6sPtsjGj0P3PnUA2iY4fR0L6_o30gLJzLo7Y4Ja1HpNNAc6A3vYZFLfFV1xEfM5H6peas/s320/Verdelli+2-Viale+Gramsci+(1).JPG" /></a>Non posso riportare il brano perché c’è la riproduzione riservata. Me ne dolgo perché è peccato sciupare quella prosa riducendola a semplici concetti, ma non ho scelta. Solo brevi brani sono costretto a non omettere, proprio per non travisare il senso del testo originale.<br />
<br />
Semplici concetti dicevo, ma non così tanto semplici da essere compresi e soprattutto apprezzati e condivisi da molti architetti e dal modesto circo mediatico, detto anche culturale, che gira loro intorno.<br />
<span id="fullpost"><br />
“Se la poesia non è di casa” richiama esattamente il contenuto, la differenza che esiste tra gli edifici moderni e quelli antichi, tra la città contemporanea e la città storica. Nelle prime la poesia non è di casa perché le case sono prive di poesia. Caproni osserva le nuove costruzioni, con i loro intonaci dai colori freschi ma un po’ falsi, e le immagina tra qualche anno, invecchiati precocemente per le colature di pioggia, “<i>annerite e striate le murature dal tempo e dal maltempo</i>” quando “<i>faranno l’effetto, ahimè, degli abiti vecchi, delle automobili vecchie, dei frigoriferi vecchi, insomma di tutte le cose vili e soltanto utilitarie che in pochi anni diventano vecchie senza poter diventare antiche, e quindi senza poter acquistare, sotto la patina del tempo, in bellezza e in valore</i>”.<br />
<br />
Immagini poetiche che non escludono un’analisi sociologica e antropologica, con l’essenziale differenza tra il bene di consumo o utilitario, legato al tempo, ai costumi, alle mode, e la casa, bene che racchiude altri significati simbolici legati all’esistenza stessa dell’uomo: il provvisorio rispetto al definitivo, all’eterno. La casa è per sempre. E il tempo, depositando la sua patina, le farà acquistare bellezza e valore, affettivo, di godimento estetico, economico perfino.<br />
<br />
La casa del dopoguerra invecchia invece come un qualsiasi bene di consumo, diventa un rottame da buttare via. E più ci avviciniamo ai giorni nostri più questa precarietà, questo senso di provvisorietà della casa aumenta, con l’uso di materiali e di tecnologie meno durevoli, in barba a tutte le prove e certificazioni di durabilità. Chi certificherà la sensazione di disgusto di chi si troverà di fronte a questi ruderi contemporanei?<br />
<br />
Il brano si conclude con la constatazione della “<i>bruttezza degli interi quartieri nuovi che a suon di milioni crescono come funghi (…) Credo fermamente che se esistesse un controllo più oculato anche dal lato estetico, sulla base di tale cifra (una delle più modeste, dopotutto) si potrebbe avere una buona architettura media (…) Un minimo, senza pretendere capolavori, sufficiente a creare un paesaggio urbano accogliente e distensivo, capace, anche tra vent’anni, di non mortificare chi non ha ancora finito di pagarlo, e di non diseducare interamente, anziché contribuire a educare, i figli che vi nasceranno, e vi scorrazzeranno</i>”.<br />
<br />
Educare i figli alla bellezza con la bellezza dell'ambiente in cui crescono significa il diritto alla bellezza per tutti. Siamo agli antipodi dall'educazione all'abitare di cui parla il tiranno dell'urbanistica, Le Corbusier. <br />
<br />
Ma chi glielo dice alle nostre scuole, ai giovani architetti dai docenti stimolati, spinti, costretti e illusi alla superbia creativa, al sublime, all’opera d’arte? Chi glielo dice a quei docenti che dovrebbero insegnare una “<i>architettura media</i>” quando loro stessi probabilmente non sanno cosa sia e risulta molto più facile celare la propria ignoranza dietro grandi fantasticherie cui i giovani, per merito d’età, hanno naturale e comprensibile propensione? Chi seguirebbe, nella scelta, un ciarlatano che offre grandezza, successo e vita eterna rispetto ad un professore che chiedesse solo modestia e mestiere? Il nodo dell’architettura nella società di massa, in fondo è tutto qui.<br />
<br />
<br />
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<b><a href="http://www.de-architectura.com/2010/02/auge-e-il-fascino-della-storia.html">Augè e il fascino della storia</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2011/05/interviste-eisenman-e-gregotti.html">Interviste ad Eisenmann e Gregotti</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2008/09/elogio-della-casalinga-di-voghera.html">Elogio della casalinga di Voghera</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2008/03/una-lettera-di-roberto-verdelli.html">Una lettera di Roberto Verdelli</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2010/05/democrazia-e-bellezza-nel-nuovo-libro.html">Democrazia e bellezza nel nuovo libero di Marco Romano</a></b><br />
<b><a href="http://www.blogger.com/DE%20CORRUPTA%20AEDIFICANDI%20RATIONE%20ovvero%20COME%20PROGETTARE%20%E2%80%9CFALSI%E2%80%9D%20E%20VIVERE%20FELICI">>De corrupta aedificandi ratione ovvero come progettare falsi e vivere felici</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2011/05/enrico-lavagninoprogetto-sulla-collina.html">Enrico Lavagnino: Progetto sulla collina cortonese</a></b><br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-88488968804094686242013-03-10T00:54:00.001+01:002013-03-10T00:55:11.731+01:00URBANISTICA DA STATO ETICO<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Ma è compito di una legge urbanistica stabilire i principi, qualunque essi siano, che devono guidare la disciplina urbanistica oppure dovrebbe limitarsi a fissare le regole e le procedure che permettano una gestione limpida, efficiente, rispettosa dei diritti di tutte le parti, democratica nella sua approvazione, chiara nel fissare ruoli e responsabilità e il meno interpretabile possibile?<br />
<br />
Me lo domando ben sapendo la difficoltà di dare una risposta univoca. Non è un caso se <b>Francesco Finotto</b>, che ho già citato altre volte (1), scrive: "<i>In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in età moderna</i>" (2).<br />
Me lo domando perché leggendo quella della mia regione, la Toscana, ma anche le varie proposte nazionali o le varie idee che circolano, non posso fare a meno di pensare che se lo stesso metodo fosse applicato ad altre leggi potremmo dire, con certezza, di appartenere ad uno stato di tipo etico. Uno stato cioè che determina una morale, un comportamento da seguire, uno stato che decide cosa è buono o cattivo per i cittadini, che non lascia spazio alla libertà dei singoli e delle comunità locali, pur nel rispetto, è ovvio, di poche priorità sovraordinate cui tutti devono necessariamente soggiacere.<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrfcjyJS04LQnLn_TIM2-NE2cPHQws6YsyA0ntbEeNpBSMqyuTW087YiRs2vea9Ajk7_GeT43ycaNR_2iy5ATDZrfXRZa4vgrxigd6-jwptXD0CcL3OpvVpB9JMsIs9lYWXHkuRUyvddU/s1600/Hegel.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; float: right; margin-bottom: 1em; margin-left: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjrfcjyJS04LQnLn_TIM2-NE2cPHQws6YsyA0ntbEeNpBSMqyuTW087YiRs2vea9Ajk7_GeT43ycaNR_2iy5ATDZrfXRZa4vgrxigd6-jwptXD0CcL3OpvVpB9JMsIs9lYWXHkuRUyvddU/s320/Hegel.jpg" /></a><br />
Se immagino una legge per il cinema che dicesse che i film devono essere ispirati alla rappresentazione di una nazione felice, di un popolo italiano dedito al bene comune, di sentimenti che possano ispirare i giovani ad una sana visione della vita e che li porti ad atti di generosità verso il prossimo, pur potendo esser anche d’accordo su alcuni di questi principi mi preoccuperei molto e non credo che sarei l’unico a farlo. Ebbene la legge urbanistica toscana indica, e in misura sempre crescente con le numerose varianti, principi analoghi a quelli da me portati ad esempio, naturalmente trasferiti dal corpo sociale al territorio.<br />
<span id="fullpost"><br />
E’ davvero inevitabile che, almeno in parte, debba essere questa la forma e la sostanza di una legge urbanistica per il fatto che il nostro ambiente naturale e artificiale è quello che si chiama con retorica espressione “<i>bene comune</i>” e quindi, appartenendo a tutti, richiede una normativa con regole stringenti e con inevitabili indirizzi comuni tali da limitare in vario grado la libertà di ognuno, per garantirne il libero godimento da parte di ciascuno? In fondo, anche il Codice Civile fissa, nel campo delle costruzioni, regole limitative della libertà dei singoli per questo medesimo scopo.<br />
La difficoltà consiste nel saper determinare il giusto punto di equilibrio per non scavalcare il confine del soffocamento della libertà, individuale e collettiva, cioè delle varie comunità locali, e trasformarsi quindi in leggi che configurano uno stato etico e illiberale.<br />
<br />
Volendo immaginare una situazione ideale, che in quanto tale rischia di essere irrealistica se non utopica, le scelte su città e territorio dovrebbero essere lasciate al “libero mercato” della cultura, al contradditorio tra idee diverse tra le quali poi una potrebbe o dovrebbe prevalere, non necessariamente in modo omogeneo ovunque ma comunque a carattere dominante, lasciando alla legge, eventualmente, il compito di assecondare e seguire, non imporre e precedere, le scelte maturate dal dibattito culturale e politico della società. Se questa è una visione ideale probabilmente irraggiungibile se non in astratto, credo che dovrebbe essere tuttavia una traccia di percorso cui ispirarsi.<br />
<br />
Ma, come ci ricorda <b>Marco Romano</b> in un libro che uscirà alla fine del mese e recensito in un articolo de <b>Il Giornale</b> dal significativo titolo <i><a href="http://www.ilgiornale.it/news/cultura/vogliamo-libera-casa-libero-stato-893552.html"><b>Vogliamo libera casa in libero stato</b></a></i>: <i>“tanto più i cittadini sono lasciati liberi di costruire quanto più esprimono il loro essere cittadini; il possesso della casa, la possibilità di trasformarla, ampliarla, decorarla, cambiarla del tutto, di averne anche altre per le vacanze, è la base della nostra cittadinanza, che si sviluppa nella città; se invece lo Stato, come ha fatto nel '900 e come fa oggi, reprime questa libertà di costruire con forzose norme edilizie, pianificazioni urbanistiche, costrizioni estetiche, estenuanti procedure e controlli, i cittadini sono come sospinti a trasgredire la legge</i>”.<br />
<br />
Questa semplice verità rivoluzionaria, sicuramente contestata dai più dell’establishment urbanistico, ma anche dal corpo degli architetti che si ritengono dispensatori di cultura a quegli ignoranti dei cittadini, sposta però il discorso dal mondo della cultura a quello ben più reale e corposo dei cittadini stessi, che dovrebbero essere i veri soggetti delle trasformazioni della città. Questa verità rivoluzionaria mette alle corde il modo che noi architetti abbiamo di considerare la nostra professione. Ci prende a schiaffi, non perché siamo inutili ma perché ci riteniamo essenziali. E non lo siamo. Siamo utilissimi al servizio dei bisogni espressi dai cittadini. A maggior ragione, come possono un consiglio regionale e un pletorico dipartimento di burocrati regionali arroccati ai piani alti di brutte torri fiorentine, stabilire cosa sia giusto o sbagliato per tutto il territorio e quindi per tutti i cittadini, visto che non esiste territorio o città senza di essi?<br />
<br />
Eppure il “<i>bene comune</i>” richiede qualche regola. Esattamente come un condominio non può andare avanti senza norme che diano certezza su ciò che è possibile fare e con quali procedure e a quali condizioni sia possibile farlo.<br />
Ma anche le leggi sul condominio non dicono che è necessaria la solidarietà tra condomini, o che incontrando un vicino di pianerottolo lo si debba salutare con un sorriso. Non ci insegnano insomma comportamenti che non superino la soglia oltre la quale creiamo un danno ai condomini.<br />
Le leggi della mia regione ci vogliono insegnare invece proprio questo e anche molto di più e di peggio di questo. Sono infarcite di retorica ambientale e sono scritte con linguaggio indecifrabile ai più e soprattutto agli attori principali del processo, cioè i cittadini.<br />
E’ necessario che il di più, il molto di più sia eliminato, oltre che il tutto sia semplificato, di molto semplificato. E’ necessario che chi pensa le leggi e chi le scrive immagini, ogni tanto, che esse sono scritte per persone e non per politici o burocrati affinchè le possano poi portare ai convegni con lo stesso orgoglio con cui un cacciatore mostra la sua preda. E’ necessario ridurre l’influenza delle idee di pochi sulla vita di tutti.<br />
<br />
Note:<br />
1) <a href="http://www.de-architectura.com/2009/05/pratiche-pre-moderne-dellurbanistica.html">Pratiche premoderne nell'urbanistica</a>, blog De Architectura<br />
2) Francesco Finotto, <i>La città aperta</i>, Saggi Marsilio 2001<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-16148091576138154042013-03-08T00:57:00.001+01:002013-03-08T01:05:43.881+01:00PALAZZO FARNESE A CAPRAROLA CADE A PEZZI<b><i>di Ettore Maria Mazzola</i></b><br />
<br />
Martedì scorso, come ogni anno, ci siamo recati a Caprarola e Bagnaia per visitare Palazzo Farnese e Villa Lante con i nostri studenti.<br />
<br />
Per la prima volta ho sentito l’esigenze di parlare di questa esperienza, non per la bellezza di questi luoghi, ma per ciò che abbiamo riscontrato a Caprarola.<br />
<br />
A Caprarola abbiamo infatti avuto modo di visitare gli interni (non tutti quest’anno) e i giardini di Palazzo Farnese, per apprezzare dal vivo questi gioielli che il mondo ci invidia. Quest’anno il <i>Salone dei Fasti Farnesiani</i> affrescato da Taddeo Zuccari, e la <i>Camera della Torre</i> con i fregi di Bartholomaeus Spranger non erano accessibili perché in restauro … peccato per la visita dei nostri studenti ho pensato, ma che fortuna per l’edificio che possa aver ottenuto dei fondi per il restauro!<br />
<br />
Ma sarà poi una fortuna??<br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBITnTMZ1iF3k_vQPdArB1XDmSg4e1mR8bh086CxU5DBMW0KI3367wtPY_pIKvh4uv3S8p0VTEQKDgPmPUEviFGV1MrqqrCw-CA0hJa_7cNp7_BGs8W41eN2zffTVjU9S9Q0iKHTkSN9g/s1600/Caprarola.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="297" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjBITnTMZ1iF3k_vQPdArB1XDmSg4e1mR8bh086CxU5DBMW0KI3367wtPY_pIKvh4uv3S8p0VTEQKDgPmPUEviFGV1MrqqrCw-CA0hJa_7cNp7_BGs8W41eN2zffTVjU9S9Q0iKHTkSN9g/s400/Caprarola.jpg" width="400" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;"><span style="font-size: x-small;"><span style="text-align: start;">Uno dei muri ormai privo di rivestimento: si noti la notevole fessura tra muro e rivestimento che indica un distacco pressoché totale dei sassi di rivestimento, soprattutto si noti l’assenza totale dell’intonaco sbruffato e i sassi bianchi al suolo. </span><span style="text-align: start;">Foto di Steven Semens</span></span></td></tr>
</tbody></table><span id fullpost><br />
A giudicare da quello che poi abbiamo visto e sentito c’è infatti da rimanere sconcertati. In merito alle due stanze chiuse ci è stato detto che i lavori sono fermi da tempo per ragioni economiche. Inoltre, la persona (esperta di restauro) che ci ha informati lamentandosi degli sprechi e dei metodi adottati nei lavori in corso, si è sbilanciata ed ha voluto raccontarci dello scandalo relativo alla realizzazione di un bagno per disabili, dove il contratto prevede una spesa di 15 mila euro solo per le misure di sicurezza!<br />
Ma restaurare è giusto mi sono detto, quindi, dubbi legittimi a parte, ben vengano i lavori.<br />
<br />
Al termine della visita, purtroppo molto frettolosa perché tra Palazzo e giardini non è più consentito fermarsi per più di un’ora e un quarto – ormai lo studio deve adeguarsi alle tempistiche del consumismo applicato alla cultura sicché non si fa più distinzione tra visita di studio e turismo di massa – abbiamo dovuto ricrederci sul pensiero positivo relativo al restauro.<br />
<br />
Lo stato di abbandono dei giardini è ormai da anni noto a tutti, sicché la passeggiata dal <i>Palazzo </i>alla <i>Palazzina del Piacere</i> risulta essere un susseguirsi di squallore. Muri scrostati, terreno dissestato, gradini dove è facile inciampare, sterpaglie, rami e alberi schiantati al suolo … non è certo una bella immagine del nostro Paese, a chi giova tutto questo?<br />
<br />
Arrivati poi alla <i>Fontana del Giglio</i>, quando ci apprestavamo a passare i due padiglioni che precedono le due scale affiancate separate dalla “<i>catena d’acqu</i>a” che conducono al piazzale con la <i>Fontana dei Fiumi</i>, siamo stati presi dallo sconforto.<br />
<br />
Ampie superfici di rivestimento delle facciate sono rovinati al suolo; i crolli più recenti risultano recintati con la banda bianca e rossa di pericolo, il materiale dei crolli più vecchi (qualche mese!) è stato rimosso, e i muri sono stati lasciati tristemente nudi. Tuttavia i crolli vanno più veloci delle recinzioni, sicché molti sassi del rivestimento murario risultano caduti e lasciati lungo le pareti.<br />
<br />
Ma come è possibile tutto ciò?<br />
<br />
Eppure ricordo che l’area sottostante la <i>Palazzina del Piacere</i> sia stata recentemente oggetto di restauro ad opera di ditte accreditate presso la Soprintendenza, ditte che, si suppone, meritando l’accredito dovrebbero saper restaurare in maniera ineccepibile, altrimenti a cosa servirebbe la selezione?<br />
<br />
Un primo sguardo a quelle pareti scrostate lascia supporre che chi ha operato nei recenti restauri, piuttosto che applicare i vari strati di intonacatura e rivestimento, adoperando intonaci a base di calce e pozzolana e facendo un’adeguata preparazione della parete con una energica sbruffatura, si sia limitato ad incollare il rivestimento mediante l’uso di malta cementizia, o comunque “<i>bastarda</i>”, probabilmente partendo da uno strato di malta dato direttamente alla pezza, previa applicazione di un aggrappante chimico. Diversamente è strano comprendere le ragioni per le quali nelle aree lacunose non vi sia alcuna traccia dell’intonaco di supporto, né che lungo l’intero margine del rivestimento superstite risulti leggibile profondo distacco che preannuncia ulteriori crolli.<br />
<br />
Ma chi le fa le selezioni delle ditte accreditate? E in base a quali credenziali? Chi li fa i controlli sui materiali e sulle metodologie di restauro? E in base a quali esperienze? E, a questo punto, chi li nomina i tecnici della Soprintendenza? E in base a quali titoli?<br />
<br />
Purtroppo il nostro patrimonio va in pezzi, e non solo perché non ci sono soldi a causa del dirottamento di fondi necessario a realizzare e tenere in vita di capricci modernisti come il MAXXI di Roma, ma anche a causa della perdita di conoscenza delle tecniche e dei materiali da costruzione tradizionali. Finché si continuerà ad insegnare, a progettare e costruire esclusivamente in maniera antitradizionale, saranno sempre meno le ditte e gli artigiani in grado di intonacare e/o rivestire una parete in maniera corretta, e i tecnici in grado di dirigere i lavori. Chi ne pagherà le conseguenze sarà quel patrimonio storico-architettonico che dovrebbe darci da campare.<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-57631345416738388702013-02-15T23:33:00.000+01:002013-02-15T23:33:13.134+01:00NOVITA'<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<br />
Ieri al TG il garrulo Mollica, nei rituali servizi da San Remo, esaltava la “novità” di una canzone, non so quale. Quel poco di canzoni che ho sentito mi hanno fatto dormire, però pare siano portatrici di “novità”.<br />
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6b6-3mk2_1Pql-n-8vyy8t3PTr3DK5HpSh7DbT-NdvT-pe7LPUDUfptdhh16FTZhcPUF-0zPUqkGHvJPRGrqJVK5IvEBfRpNcCpWFuZoN01hIdHu-hHR75sgWSPA92yLamnZpQRsGaeA/s1600/Novit%C3%A0.jpg" imageanchor="1" style="clear: left; float: left; margin-bottom: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEi6b6-3mk2_1Pql-n-8vyy8t3PTr3DK5HpSh7DbT-NdvT-pe7LPUDUfptdhh16FTZhcPUF-0zPUqkGHvJPRGrqJVK5IvEBfRpNcCpWFuZoN01hIdHu-hHR75sgWSPA92yLamnZpQRsGaeA/s320/Novit%C3%A0.jpg" /></a>Novità, modernità, contemporaneità, creatività, innovazione, questi tag passano nei media e nella cultura diffusa come valori assoluti, esclusivi e indipendenti da ogni ulteriore attributo di qualità e di merito per ogni ambito in cui si esprime l’attività umana. La canzone è una novità e tanto basta a definirla una buona canzone. Ovviamente è anche contemporanea, e non potrebbe essere diversamente dato che è stata creata in questi giorni, e anche questo basta a renderla degna di nota. Però deve essere anche moderna, che non è proprio uguale a contemporanea. Infatti contemporanea ha un significato meno durevole, più di moda ma più soggetta al logorio del tempo, mentre moderna fissa definitivamente il carattere di positività in un arco temporale più vasto, un’epoca direi, e la consegna definitivamente all’olimpo delle cose da ricordare e da esporre al MOMA. Come si faccia ad esporre una canzone al MOMA non saprei dire, però credo che qualcuno ne sarebbe capace, se non l'ha già fatto. Se una canzone o un’opera è moderna, diventa icona di un’epoca, quella della modernità ovviamente.<br />
<span id="fullpost"><br />
Parlo di canzoni come semplice incidente di percorso ma il ragionamento vale per qualsiasi altra opera. Anche per l’architettura. Qui le novità si sprecano da decenni ma al momento attuale hanno raggiunto un ritmo veramente incalzante, da mozzare il fiato. I futuristi, poveretti, non reggerebbero il passo.<br />
<br />
Le novità migliori sono quelle che viaggiano con la tecnologia. <b>Zaha Hadid</b>, grazie a <b>Patrik Shumacher</b>, fa due schizzi di autostrade che si incrociano, si sovrappongono, si allineano, arriva <b>Shumacher </b>e con il sapiente uso del software dà loro forma nello spazio virtuale. Il tutto passa poi a qualche disgraziato di ingegnere che deve ingegnerizzarlo per farne qualcosa che assomigli ad un edificio, che magari non serve a niente ma che comunque deve, ahimè, contenere persone in carne ed ossa senza cadere loro addosso. E’ decisamente una novità, su questo non si possono nutrire dubbi di sorta. Sarebbe l'architettura a prescindere.<br />
<br />
Prima c’era, ormai sembra superato, quell’altro, Gehry, che nasce come scultore. Poi ha capito che tutto sommato scultura e architettura sono quasi la stessa cosa, solo che questa, oltre ad essere vuota dentro per farci entrare le solite persone, è molto più grande e costa molto di più e allora ha cominciato ad accartocciare dei fogli. Con una telecamera riprende da vicino i vari scorci creati dalla casualità delle pieghe e, con un processo decisamente più complicato e più artigianale (d’altronde siamo ai primordi, è pioneristico), sempre al computer, restituisce il modello cartaceo, arricchendolo e modificandolo per dargli una forma se non compiuta, che sarebbe esagerato dire, almeno più coerente. Tutto sommato l’impegno e lo studio, dal punto di vista plastico e compositivo è superiore. Superiore a quello di <b>Hadid</b>. Anche questa è stata una novità, a questo punto direi archiviata, certamente contemporanea quando è stata fatta e forse anche moderna. Non è andata al MOMA, perché non sapevano come infilarcela, ma è stata immortalata in un film di un famoso regista. E poi è andata a finire in diverse parti del mondo, con diversa fortuna e qualche problema di infiltrazioni d’acqua (certo nelle sculture questo problema non si poneva) ma l’apoteosi è stata Bilbao. Almeno per noi europei, soprattutto italiani. A Bilbao però non sembra vi siano problemi di acqua.<br />
<br />
Quell’altro, decisamente in disarmo, ha fatto un ponte a Venezia in acciaio e vetro. E’ certamente una novità, e che novità. Camminare sull’acqua come Gesù nel lago di Tiberiade! Se non è una novità questa! L’altra novità è quella che sul vetro si scivola, specie quando piove e se non piove, a Venezia, quando non tira vento di tramontana c’è l’umidità che è come se piovesse e anche peggio perché uno non se lo aspetta. E allora si scivola anche quando non piove. E anche questa è una novità. E poi c’è l’altra novità, che se il ponte ad arco è spingente, vuol dire che spinge là dove appoggia e allora le spalle del ponte tendono ad allontanarsi l’una dall’altra e bisogna fare in modo che invece questo non avvenga. Questo fatto, in verità, tanto nuovo non è. Lo sapevano già gli antichi, che il vetro lo usavano poco, ma che se c’era un arco spingente rimediavano con un contrafforte. Ora Calatrava avrà pensato che le spalle avrebbero retto la spinta ma si vede che non devono avere retto se si muovono. La sfortuna ci sta nella novità.<br />
Ma la sfortuna è anche delle casse pubbliche che pare abbiano sborsato 3 milioni di euro per la scivolosità e non so quanti per la spinta. Anche per la compagnia assicurativa del Comune deve essere stata una novità. Una novità un po’ dispendiosa, riconosciamolo, ma pur sempre una novità.<br />
<br />
Adesso c’è l’ultima novità, almeno fino a qualche giorno fa che nel frattempo è capace ne abbiano trovata un’altra. E’alla portata di molti architetti e questo fa prevedere, crisi permettendo, che potrebbero esserci moltissimi prodotti nuovi. Si parla del laser-scanner. Si crea una forma con qualsiasi materiale duttile e modellabile - e qui si esercita anche la creatività nella scelta dello stesso - la macchinetta lo “legge” e crea una nuvola di punti che, trattata al computer, restituisce un modello 3D bello e precotto. Cartocci di carta, pongo, plastilina, creta, lamiere tagliate e sagomate, stoffa, reti di acciaio, quello che si vuole. A quel punto, trovato il cliente giusto, non resta anche qui che passarlo agli ingegneri per la ingegnerizzazione. Tutti gli architetti potranno sentirsi <b>Gehry</b>, <b>Hadid</b>, <b>Calatrava </b>no perché lui è più tradizionale nel metodo, a parte il vetro che però non credo riuserà un’altra volta, per i ponti almeno.<br />
<br />
A questo punto come non osservare che, a dispetto di chi afferma che la modernità è caratterizzata dalla frammentazione, decostruzione, individualismo, disordine, caos addirittura, siamo in vero tornati all’unità dell’arte e fra le arti! Musica, architettura, scultura, tutte unite dall’essere novità.<br />
E il merito, la qualità dell’opera? Non conta, un dettaglio superato. D’altronde la novità è un concetto e l’arte moderna e contemporanea è concettuale. Questa però non è una novità, ma un discorso piuttosto vecchio.<br />
<br />
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</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com4tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-89536026772277917082013-01-27T20:05:00.000+01:002013-01-27T20:05:28.940+01:00RIGENERAZIONE URBANA: MODELLI ASSURDI E MODELLI VIRTUOSI<b><i>di Ettore Maria Mazzola</i></b><br />
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In questi giorni è circolata la notizia (Matt Robinson su Daily Mail del 24 gennaio 2013) che in Gran Bretagna, una megastruttura residenziale (2700 alloggi) – erroneamente definita “torri” – realizzata tra il 1967 e il ’79 sta per essere “<i>rasa al suolo e sostituita con un quartiere di case a schiera tradizionali, per ridurre la criminalità e migliorare gli standard di vita dei più poveri nella società britannica</i>”. <br />
La scelta non è stata, come qualche malizioso potrebbe accusare, basata sull’ideologia, oppure sulla visione “nostalgica” del Principe Carlo, bensì è stata suggerita da un lungo studio dei ricercatori di “<i>Think-tank Policy Exchange</i>” che ha dimostrato le seguenti cose:<br />
1. La concentrazione di esseri umani all’interno di palazzoni multipiano esclusivamente residenziali tende ad aumentare la criminalità, facendo sì che queste strutture e quartieri divengano “<i>no-go zone</i>” (luoghi da evitare);<br />
2. Chi vive in queste strutture ha maggiori probabilità di soffrire gravemente di stress, problemi di salute mentale; inoltre, tra queste persone, si registra un’impennata dei divorzi;<br />
3. Considerato invece che vive in quartieri tradizionali di case a schiera è meno esposto a queste patologie e/o dinamiche, la sostituzione di certe realtà con quartieri di tradizionali di questo tipo può migliorare drasticamente le condizioni dei residenti.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYHX1jenSKLTegdUwAMv1oqhUKtl5iyJceiG7HLl2ppa3OErqLuyVSyNLPY28qscFrYcx92XFYl8NFhwU4VCFn6Ry40IRhH38kjhOgikVXZsZ4CKXRV9w0f3_tUHe06eZsuUR1IeBz4zM/s1600/Immagine+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="170" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjYHX1jenSKLTegdUwAMv1oqhUKtl5iyJceiG7HLl2ppa3OErqLuyVSyNLPY28qscFrYcx92XFYl8NFhwU4VCFn6Ry40IRhH38kjhOgikVXZsZ4CKXRV9w0f3_tUHe06eZsuUR1IeBz4zM/s400/Immagine+1.jpg" /></a></div><span id="fullpost"> <br />
Lo studio ha fatto emergere il desiderio dei cittadini, i quali hanno concordemente ammesso di “<i>voler vivere in case realizzate sul modello di quelle costruite per secoli in tutto il Regno Unito, non solo per combattere la criminalità, ma anche per ridurre lo stress e salvare il proprio matrimonio!</i>”<br />
Lo studio riporta come, nonostante l’evidenza di certi dati allarmanti, tutt’oggi oltre 140 mila famiglie inglesi vivano in realtà spersonalizzanti multipiano.<br />
Il rapporto porta gli autori a suggerire che non solo questo quartiere degradato, ma tutti i quartieri similari realizzati nel Regno Unito negli ultimi 70 anni, essendo divenuti “no-go zones” debbano essere sostituiti al più presto!<br />
In base ai dati del rapporto, è stato stimato che, nella sola Londra, potrebbero realizzarsi 260.000 nuove case nei prossimi 7 anni sostituendo i “<i>grattacieli</i>” e “<i>casermoni</i>” esistenti.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgN7ateukt_53Gmpq5QGXe4bP3jG86L6Duhmka2Rz44SpBCW7dY3NP73NEAb14_jIbVuN0259sMJsddxmTNs4VgtWIcr8OPuqydmz_2Mj4oXSBF2zbr4j9YJ7ysW4ExBEBErDwWfiP5HDA/s1600/Immagine+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="225" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgN7ateukt_53Gmpq5QGXe4bP3jG86L6Duhmka2Rz44SpBCW7dY3NP73NEAb14_jIbVuN0259sMJsddxmTNs4VgtWIcr8OPuqydmz_2Mj4oXSBF2zbr4j9YJ7ysW4ExBEBErDwWfiP5HDA/s400/Immagine+2.jpg" /></a></div>Boys Smith va oltre, ed elenca le problematiche relative ad un certo tipo di edilizia, auspicando che la si smetta di compiere gli errori del recente passato, ricominciando a “<i>costruire strade lungo le quali la gente vorrebbe vivere per evitare di rendere la vita delle persone miserabile</i>”.<br />
Da alcuni anni, effettivamente, in Inghilterra si sta procedendo con interventi di questo genere, per esempio a partire dal 1997 come primo discorso da Primo Ministro, Tony Blair visitò un quartiere degradato proponendo la sua sostituzione con qualcosa di più umano e rispettoso dei residenti, e oggi quel quartiere è oggetto di un intervento di Rigenerazione Urbana di 1,5 mld di Sterline!<br />
Stiamo parlando di dimostrazioni di civiltà, stiamo parlando di persone che, al di là dell’ideologia, riescono ancora a mettere in primo piano le esigenze della collettività.<br />
Ma perché in Inghilterra certe cose avvengono, mentre da noi in Italia si viene condannati solo se si osi proporre qualcosa di simile?<br />
Forse è il Regno Unito ad essere un Paese speciale? Forse perché lì c’è la monarchia e, conseguentemente, si è in grado di fare programmi a lunga scadenza cui i politici locali “<i>a tempo determinato</i>” debbono uniformarsi indipendentemente dal colore dei loro predecessori?<br />
Non credo.<br />
Infatti, se ci avviciniamo all’Italia, possiamo documentare il caso della Francia, dove a seguito dei fenomeni rivoluzionari delle <i>banlieuses</i>, lo Stato ha approvato e messo in pratica una legge che ha consentito di investire 60 mld di Euro per la sostituzione edilizia di quartieri degradati e degradanti, ma la cosa era già in atto da prima se, basti pensare al “fenomeno” di Plessis Robinson … fenomeno del quale in Italia, specie tra gli architetti e docenti di architettura, ci si guarda bene dal parlare!<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGml4IQeAK8FoaYglT0m1_V7by05gzRcOUZPKESse2jDBp21t4jvnFWNvA9bggKFeT2NxpwG1IeOKGD7fE7aWe2P9G2dWxoCjyWJkfRrHpt3pkYjhyphenhyphenB5Wr1aDh8SaheG6tHS2BJIlRjCE/s1600/Immagine+3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="183" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEgGml4IQeAK8FoaYglT0m1_V7by05gzRcOUZPKESse2jDBp21t4jvnFWNvA9bggKFeT2NxpwG1IeOKGD7fE7aWe2P9G2dWxoCjyWJkfRrHpt3pkYjhyphenhyphenB5Wr1aDh8SaheG6tHS2BJIlRjCE/s400/Immagine+3.jpg" /></a></div>Da noi è difficile che certe iniziative possano mai avvenire, probabilmente per ragioni di ignoranza, o forse per un assurdo e ingiustificato complesso di inferiorità culturale verso quei Paesi più votati al modernismo estremo, o anche e soprattutto per un vergognoso servilismo nei confronti di alcuni mostri sacri italiani.<br />
Tutto ciò porta la stragrande maggioranza degli architetti italiani comportarsi in maniera ottusa, accusando di <i>passatismo nostalgico, populismo, qualunquismo</i> e quant’altro chi osi proporre certe cose.<br />
Si rifletta però sul fatto che, proprio coloro i quali accusano di “<i>passatismo</i>” i sostenitori della sostituzione di quartieri degradati con esempi di urbanistica tradizionale, si comportano come i peggiori <i>fondamentalisti-iperprotezionisti</i> quando si tratti di dover buttare giù delle brutture del genere che, a loro dire, rappresenterebbero degli importanti "<i>segni</i>" o "<i>memorie</i>" storiche del tempo in cui sono sorti … costoro sono perfino arrivati a chiedere di porre un vincolo artistico sulle <i>Vele </i>di Scampia e il <i>Corviale </i>di Roma!.<br />
E' ovvia la ragione, e l'ho già scritta tempo fa: gli architetti, per la maggior parte i "<i>grandi luminari</i>" 60-70enni, identificandosi con gli edifici che hanno realizzato, non accetterebbero mai di vedersi privare di <i>un pezzo</i> di se stessi … sarebbe come farsi amputare un braccio o qualcos'altro, sicché combattono anche con argomentazioni patetiche, qualsivoglia demolizione del "<i>moderno</i>" ... hai visto mai che prima o poi possa toccare ad un proprio edificio?<br />
Costoro, piuttosto che pensare alla presunta importanza dell’appartenenza di un edificio al suo progettista, avrebbero dovuto – e dovrebbero – pensare a come concepire edifici che stimolino il senso di appartenenza dei cittadini a quel luogo, ma significherebbe mettere da parte la propria autoreferenzialità!<br />
Così, in queste ultime settimane, abbiamo tristemente assistito alla patetica celebrazione, in vari modi, di personaggi come Pietro Barucci (autore di mostruosità come Tor Bella Monaca, Torrevecchia, Laurentino ’38, Quartaccio) e Michele Valori (co-progettista del Corviale con Mario Fiorentino) , personaggi che si sono resi responsabili di alcune delle più disumane progettazioni dello scorso secolo, e il prossimo 7 febbraio assisteremo alla celebrazione di un altro personaggio che ha fatto il bello e cattivo tempo dell’architettura e dell’urbanistica italiana, dirigendo Casabella e costruendo abomini come lo ZEN di Palermo: Vittorio Gregotti, il quale riceverà la sua passerella in occasione di una manifestazione organizzata presso l’Accademia di San Luca dedicata alle “<i>Rigenerazioni Urbane in Italia</i>”. Durante questa manifestazione verrà presentato il progetto di “<i>rigenerazione del quartiere Acilia Madonnetta a Roma</i>” … per chi non lo conoscesse, si tratta di un surrogato del suo ZEN di Palermo!<br />
Ma come è possibile che in Italia si continuino a cantare le lodi di certi personaggi?<br />
Lo ZEN è probabilmente il peggior esempio di progettazione di Case Popolari Italiano, primato tristemente condiviso con le Vele di Scampia di Franz Di Salvo, altro personaggio al quale è stato recentemente dato un tributo su alcuni blog!<br />
Servilismo? Sudditanza psicologica nei confronti di personaggi (quelli in vita) ancora influenti per mettere una buona parola per diventare famosi? Davvero una cosa indegna!<br />
Inutile dire che, in occasione della manifestazione dedicata a Gregotti ed alle “<i>Rigenerazioni Urbane</i>”, non è stato minimamente ipotizzato di presentare quei progetti di Rigenerazione elaborati da coloro i quali hanno per primi portato avanti questo discorso in Italia, professionisti che hanno elaborato progetti che dimostrano non solo come risulti possibile fare architettura e urbanistica a dimensione umana, ma che la cosa possa farsi in maniera totalmente pubblica, e a costo zero, rifocillando, piuttosto che dissanguando le finanze pubbliche, generando altresì centinaia e centinaia di posti di lavoro, migliorando fattivamente l’esistenza di tantissimi individui; i loro studi hanno inoltre dimostrato come certi progetti porterebbero delle ricadute economiche positive sull’intera collettività, anche grazie all’eliminazione di quelle problematiche elencate dallo studio inglese.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNzO_GoBXkr_w31BtnNcNMmPLuJxVxfbZadJd9uUVkVDi0if3fKtxktz4QiQwYaO_01daQUbcFmdBB8LlsPp3aRtfAOAjSQ__wmCrYg8iQ9wXwjTYhZ01Bz9qrJvi0SiaZ1gyNaFOgQiI/s1600/Immagine+4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="140" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiNzO_GoBXkr_w31BtnNcNMmPLuJxVxfbZadJd9uUVkVDi0if3fKtxktz4QiQwYaO_01daQUbcFmdBB8LlsPp3aRtfAOAjSQ__wmCrYg8iQ9wXwjTYhZ01Bz9qrJvi0SiaZ1gyNaFOgQiI/s400/Immagine+4.jpg" /></a></div>A tal proposito vorrei fare un paio di progetti che ho sviluppato di recente, non solo per spiegare come potrebbero funzionare, ma perché non vorrei recitare la parte di colui che critica gli altri senza mostrare delle alternative.<br />
Nel caso di Corviale a Roma, se si procedesse alla sostituzione dell’abominevole complesso residenziale attuale, non solo si potrebbero insediare circa 2000 abitanti in più, per favorire l’integrazione sociale, ma si potrebbero portare una serie di attività quali una scuola materna ed elementare, una scuola media, una scuola superiore, alcune strutture sportive, una chiesa, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Cinema-Teatro, un Centro Culturale con Biblioteca di quartiere, un Edificio Postale, una Loggia per il Mercato, circa 58500 mq di negozi al piano terra degli edifici della spina centrale, circa 30000 mq di laboratori artigianali lungo le strade a margine, nonché un enorme parco di quartiere, inoltre l’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani; tutto questo potrebbe addirittura realizzarsi restituendo al territorio circa 12 ettari di terreno e, alla fine dei conti, semplicemente applicando dei prezzi calmierati e non facendo speculazione, potrebbero restare nelle casse dell’ATER circa 413 mln di euro da reinvestire per risanare altri quartieri degradati!<br />
Stessa cosa è emersa dalla progettazione per la rigenerazione urbana del quartiere ZEN di Palermo, dove gli abitanti potrebbero crescere di 5125 unità, si potrebbe creare un enorme parco cittadino, all’interno del quale sorgerebbero anche due grandi centri polisportivi per un totale di 122750 mq, collegati a 360° da un percorso per jogging e pista ciclabile, una Clinica specializzata di 67573 mc, una Stazione di Polizia, un Comando dei Carabinieri, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Ufficio Postale, una Scuola Materna ed Elementare dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Media dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Superiore dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Loggia per il Mercato, la nuova Chiesa di San Filippo Neri, con canonica, oratorio e centro sportivo per i ragazzi del quartiere, un Centro Culturale, un Cinema-Teatro. L’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhSy2HIZgCyWcuo7uz4fkF8363-df-i2nASQT5Kp8frXq6YkxnAaGLALNxbs1Pzm2LELxa_kfQyAUY6Endxp8H_7VCAOHq2hzuOJrIUqYTmimtYvin9T-lSoqP8o1ghIfB2u3HeK_ucLNs/s1600/Immagine+5.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="262" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhSy2HIZgCyWcuo7uz4fkF8363-df-i2nASQT5Kp8frXq6YkxnAaGLALNxbs1Pzm2LELxa_kfQyAUY6Endxp8H_7VCAOHq2hzuOJrIUqYTmimtYvin9T-lSoqP8o1ghIfB2u3HeK_ucLNs/s400/Immagine+5.jpg" /></a></div>Anche in questo caso, le principali strade verrebbero animate da 45679 mq di negozi mentre, lungo le strade secondarie, potrebbero sorgere 46861 mq di laboratori artigianali, ogni appartamento sarebbe inoltre dotato di box auto privato, ovviamente il progetto ha previsto il rispetto della normativa in materia di parcheggi pubblici, così come anche quello per il Corviale.<br />
Questi progetti non sono frutto di fantasticherie, né si ha la presunzione di sostenere di aver inventato il sistema di sviluppo per illuminazione divina, né tantomeno si tratta di un’imitazione dei sistemi New Urbanism o quant’altro proveniente dall’estero: si tratta semplicemente di progetti per i quali è stato ipotizzato di riutilizzare norme e strumenti in vigore in Italia finché il fascismo non decise di impedirli: certe norme e strumenti basati sul buon senso riuscirono a risanare le finanze del Comune di Roma ormai in bancarotta, quelle norme e strumenti generarono migliaia di posti di lavoro e contribuirono ad eliminare del tutto fenomeni violenti pari a quelli delle banlieuses francesi del 2005.<br />
Perché allora non riprenderli a modello?<br />
La crisi ci ha ormai messi in ginocchio, e i nostri edifici, così come quelli inglesi di cui allo spunto iniziale, necessitano di essere sostituiti, non solo per le ragioni di sicurezza e salute pubblica riportati nello studio inglese, ma anche perché, come denunciato dalla Commissione Europea per l’Ambiente – a causa della pessima qualità dell’architettura costruita negli ultimi 70 anni in Europa – l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).<br />
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia.<br />
Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano un notevole consumo di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla demolizione.<br />
La logica suggerirebbe quindi, al pari del Regno Unito e della Francia, di rivedere l’intero patrimonio immobiliare realizzato nell’arco dell’ultimo secolo, piuttosto che proseguire imperterriti nella produzione di edifici energivori e inquinanti … a conti fatti, una revisione del genere potrebbe risanare le esangui casse statali e, di conseguenza, potrebbero ridursi drasticamente gli sperperi di denaro pubblico e le tasse dei cittadini. Cosa stiamo aspettando?<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-55518258358618055312013-01-13T23:42:00.001+01:002013-01-14T23:42:42.539+01:00IL NUOVO MANIFESTO DELL'ARCHITETTURA 2013<i>di Ettore Maria Mazzola</i><br />
<br />
Il 6 gennaio u.s., la vecchina sulla scopa ha portato un regalo a tutti gli architetti internauti, una bozza di quello che vorrebbe essere il <i>Manifesto per l’Architettura</i> elaborato dalle <i>menti eccelse ed innovative</i> dell’<i>Associazione Italiana di Architettura e Critica</i> … un’associazione che prevede appunto il connubio indissolubile tra architetti e critici, connubio necessario per poter essere o meno inclusi nel “<i>cerchio della fiducia</i>” di questa bistrattata professione.<br />
Certo che, per come vanno le cose a livello professionale, ma anche economico e ambientale, un <i>Manifesto </i>che si prenda cura di come dovrebbe svolgersi questa professione, specie alla luce del background culturale dell’Italia, dovrebbe essere quanto meno auspicabile, del resto si parla di un settore che potrebbe risollevare le sorti di un Paese devastato dalle politiche economiche della globalizzazione.<br />
La necessità del cambiamento del resto è evidente a chiunque risulti in grado si rendersi conto del fatto che, da quando è stato esplicitamente imposto di guardare ovunque, tranne che alla nostra gloriosa tradizione, la produzione edilizia italiana, e i problemi socio-economici, abbiano subito un drastico peggioramento.<br />
<span id="fullpost"><br />
E allora, agli occhi di chi è stufo oltre settant’anni di follie utopiche in materia architettonico-urbanistica, risulta chiaro che, piuttosto che continuare ad affannarci nell’imitazione di folli ricerche futuristiche alla base delle problematiche sociali, economiche ed ambientali che attanagliano il pianeta, risulterebbe più che logico provare a ripartire da dove avevamo smesso.<br />
… Ma sarebbe chiedere troppo, sarebbe come voler chiedere alla Monsanto di rimettere in discussione i pesticidi e le modifiche genetiche dei campi di mais, sarebbe come chiedere ai fondamentalisti religiosi di provarsi ad aprire al dialogo interreligioso con i presunti nemici.<br />
Ecco quindi che il “<i>nuovo</i>” <i>Manifesto per l’Architettura</i> proposto da Luigi Prestinenza-Puglisi, coadiuvato da Anna Baldini, Diego Barbarelli, Roberta Melasecca, Giulia Mura, Marco Sambo e Zaira Magliozzi, si viene a configurare non solo come la conferma – se mai ce ne fosse stato il bisogno – dello status-quo della materia architettonica, ma sembra addirittura voler essere una patetica riproposizione, a 98 anni di distanza, di quelle assurde teorie già contenute nel <i>Manifesto dell'Architettura Futurista</i> di Sant'Elia … ma con un’aggravante: Antonio Sant'Elia aveva dalla sua parte un periodo storico e artistico molto particolare, e non aveva alcuna idea dei drammatici effetti collaterali prodotti dalle sue folli idee reazionarie. Quindi, sebbene condannabile, il <i>Manifesto </i>del '14 possiede una miriade di attenuanti. Il nuovo <i>Manifesto </i>invece – forse a causa della miopia di LPP & co. nel guardasi alle spalle (sarebbe da “<i>passatisti</i>”), o vuoi perché come tutti i "<i>guru</i>" pensa di poter derivare le proprie conoscenze da se stesso (in base alla "<i>necessità di azzerare la storia</i>") – non può trovare alcuna clemenza da parte della corte, poiché si tratta di una pianificazione lucida e intenzionale di manipolazione della realtà mirante a rafforzare il ruolo dei critici (lui in questo caso), rispetto agli architetti: <i>se stai con me sei “IN”, se non condividi sei “OUT</i>”!<br />
<br />
Giustamente, nel <b><a href="http://www.de-architectura.com/2013/01/le-grandi-speranze-per-lanno-nuovo-di.html">post precedente</a></b> di Pietro Pagliardini su De-Architectura, egli ha, con grande acume, fatto un giustissimo raffronto con Socrate, scusandosi "in contumacia" con l'ateniese. Nel suo testo, Pagliardini ha giustissimamente detto: «<i>se ci trovassimo nell’antica Atene a dover votare su di lui, scriverei il suo nome sul coccio per decretarne l’ostracismo, non territoriale ma dal consesso della critica, con la motivazione di “corruzione di giovani architetti</i>”».<br />
<br />
Si noti che tempo addietro, tra FB e i vari blog in giro nella rete, LPP e diversi suoi sostenitori e/o emuli, hanno organizzato svariate iniziative tese a rafforzare, o a dare un senso, al ruolo dei critici di architettura nel XXI secolo.<br />
… Verrebbe da pensare che, se c’è poco lavoro per gli architetti, figuriamoci per i critici, e allora sì che bisogna inventare qualcosa di nuovo, qualcosa che rafforzi il ruolo dei secondi rendendo i primi dipendenti da quelli … il potere mediatico è fondamentale!<br />
<br />
Del resto per come vanno le cose di questi tempi in Italia – dove a causa di un generalizzato atteggiamento intellettualoide si vive in un contesto dove una presunta e autoproclamata <i>élite colta</i> ha il <i>diritto di parlare</i>, mentre la <i>massa incolta</i> ha il <i>dovere di accettare passivamente</i> – questo programma rischia di avere un discreto margine di successo … ma la cosa non è assolutamente una novità come si vuol far credere.<br />
<br />
Come infatti ho avuto modo di scrivere nel mio <i>Architettura e Urbanistica – Istruzioni per l’Uso</i>(1):<br />
<br />
<i>Le università si sono comportate esattamente come una la congregazione la quale, al pari delle peggiori sette religiose, sotto l’ispirazione di una presunta intelligenza superiore, emette una dottrina ritenuta immutabile e procede, per raccogliere aderenti, per iniziazione: l’insegnamento distorto che è stato esercitato negli ultimi settant’anni, è stato mirato alla sottomissione delle intelligenze ad una dottrina, in vista di un risultato concepito in anticipo che non si chiama MODERNITÀ ma MODERNISMO!</i><br />
[…]<br />
<i>Vista l’analogia storica, e per meglio comprendere quello che accade in determinate situazioni, parafraserò, attualizzandolo, quanto ebbe acutamente modo di osservare nelle sue “Conversations sur l’Architecture” Eugène Viollet-Le-Duc(2) all’epoca in cui fu vittima dell’ostracismo da parte del sistema Beaux-Arts.</i><br />
<i>L’influenza esclusiva che può assumere una congregazione irresponsabile nei riguardi di un potere esecutivo responsabile è talmente grande da rischiare di non poter essere controllata: cosa può opporre un’amministrazione non competente all’opinione di un’università o un ordine professionale che lo Stato stesso (poiché è lo Stato che li sostiene) considera del tutto competente? Come ammettere che un’amministrazione che non è artista, si accinga ad assumersi le responsabilità di affidare, per esempio, la costruzione di un monumento pubblico a un uomo che rifiuta un corpo che si ritiene si recluti nell’élite degli artisti? […]</i>. <br />
<i>Per i grandi incarichi, comunque, dovendo rispondere a delle Normative di trasparenza e non potendola fare proprio […], l’amministrazione trova più semplice, e meno compromettente, ripararsi dietro l’opinione dell’organo colto (commissione giudicatrice decisa dall’Ordine degli Architetti o da chicchessia che, comunque, sarà composta come al solito dagli adepti della “setta” e mai dalla gente comune che dovrà vivere ciò che le si costruisce), che però non è responsabile e non è minimamente tenuto, nei confronti del pubblico, a rendere conto dei reali motivi che lo fanno agire, e ben si guarda dal rivelarlo, se lo farà argomenterà le sue decisioni con le tipiche frasi arcane miranti a far sentire il popolo come una massa di sudditi ignoranti per i quali lo Stato “buono” produce. Si capisce che in tali condizioni, in un’amministrazione che “non se ne intende” di speciali questioni d’arte, gli affari della lobby vadano alla grande. Così queste amministrazioni si trovano ben presto completamente alla mercé dei capi della congregazione e circondate dai suoi aderenti, impiegati ad ogni livello. Questi ultimi divengono tanto più numerosi e sottomessi allo spirito del corpo, quanto più sentono che la sua influenza si accresce e che il suo potere si rinsalda in tutti i servizi dei lavori pubblici. Poiché tali servizi ormai intendono esprimere una sola opinione su tutto, e visto che tutti gli “oppositori del regime” sono stati costretti a tirarsi fuori dalla mischia, credono in perfetta buona fede di essere nel giusto … fino al momento in cui, per un caso fortuito, si assiste ad un brusco risveglio. È solo a questo punto che questa responsabilità – che l’amministrazione credeva potesse accollare al corpo protetto – viene invece a ricadergli addosso come un macigno, a questo punto il corpo irresponsabile se ne lava le mani. Così facendo, si suppone, l’istituzione statale dovrebbe divenire per lo Stato imbarazzante, tuttavia inizia un tira e molla di scaricabarile finché, col tempo, ci si dimentica e si ricomincia come se niente fosse stato!</i><br />
<i>La forma dittatoriale silente che caratterizza l’ambiente dell’Architettura di oggi è assolutamente inimmaginabile alla gente che vive – o sopravvive – nelle città: gli architetti e gli studenti di Architettura si trovano in una situazione particolare a dir poco vergognosa: ripudiare le proprie idee, qualora tali opinioni e tali idee non siano ammesse dal Corpo protetto dallo Stato, o essere condannati a una specie di ostracismo se mantengono le loro idee e le loro opinioni personali. […]</i>.<br />
<i>È esattamente come nella riflessione di Giulio Magni a proposito dell’impostazione Beaux-Arts del suo tempo: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo, se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone … affrontare l’impopolarità è certo un eroismo! […]»</i>.<br />
<i>Si rifletta sul fatto che un qualsiasi corpo (in questo caso gli Ordini Professionali) sottomesso a una dottrina, (in questo caso la Teoria Modernista imperversante nelle Facoltà di Architettura), che dipende dallo Stato tramite un legame qualsiasi, tenderà sempre a servirsi fatalmente dello Stato per far trionfare la propria dottrina! Quando a questo si aggiungono le riviste specializzate – su cui ovviamente scrivono i grandi luminari dell’Architettura e i loro emuli – che bombardano in maniera monotona e dittatoriale i lettori con architetture astruse – la frittata è fatta.</i><br />
<i>Chi si ribella a questo circolo vergognoso viene immediatamente annientato da chi comanda abusando della sua posizione protetta e privilegiata. Gli studenti, e/o i giovani architetti che provano ad emanciparsi imparano subito, a loro spese, cosa costi. Se non seguono la strada uniforme tracciata dal cameratismo, si trovano le porte chiuse; se non cozzano contro un’ostilità dichiarata, vengono condannati dalla cospirazione del silenzio: se lo studente prova a divergere dall’idea del docente non passa, o passa a stento, e dopo lunghe sofferenze, l’esame progettuale; se un giovane architetto ha la fortuna di realizzare, o semplicemente progettare un intervento tradizionale, nessuna rivista lo prende in considerazione.</i><br />
<br />
Ora quindi, con questo nuovo <i>Manifesto</i>, ci troviamo davanti ad un documento non solo assurdo, ma per alcuni versi pericoloso a causa del contenuto di alcune delle sue <i>12 tesi</i>.<br />
Per esempio la <i>Quinta Tes</i>i, la cui pericolosità è già insita nel suo nome: <i>Bisogno di utopia</i>: … ma non sono bastate le follie del secolo trascorso per comprendere che sarebbe meglio stare con i piedi per terra?<br />
O la <i>Sesta Tesi</i>, intitolata <i>Liberare</i>, dove si inneggia al bisogno di libertà superando il mito della produttività e dell’efficienza economica a tutti i costi. <br />
Oppure la <i>settima</i>, che si intitola <i>Sconfiggere l’ossessione del controllo</i> … come dire, niente regole, siamo architetti!!<br />
L’<i>ottava</i> poi, intitolata <i>Il paesaggio si costruisce</i>, arriva a decidere che, “<i>così come un albero può, come il cemento, diventare un materiale da costruzione, il cemento può, come un albero, diventare un frammento di paesaggio</i>” … dunque viva l’ambiente!<br />
La più impressionante è però la <i>nona tesi</i>, definita <i>Ecologie</i>, dove si arriva all’assurdo per eccellenza: qui gli autori, scopiazzando in maniera ancora più folle le elucubrazioni visionarie e consumistiche della <i>Ville Radieuse</i> e del <i>Manifesto dell’Architettura Futurista</i>, arrivano ad affermare che <br />
<br />
!!! «<i>La vita è produzione e consumo di energia. Non ha senso risparmiarla</i>» !!!<br />
<br />
Andando avanti, ovviamente, non può mancare l’attacco alla tutela del patrimonio, sicché la <i>Decima Tesi</i>, dal titolo <i>Recuperare e trasformare</i>, si spinge alla <i>necessita di demistificare le ideologie del recupero a tutti i costi e del falso storico e pensare che attraverso il nuovo e la competizione tra le migliori idee si possa migliorare l’esistente. Occorre puntare alla stratificazione degli interventi considerando anche le nostre come tracce del susseguirsi delle epoche</i>.<br />
È chiaro che con questa tesi, a parte l’inesistenza della “novità”, si voglia rafforzare l’idea del “<i>famolo strano, famolo contemporaneo</i>”, senza punto porsi il problema del rischio di perdere per sempre quel patrimonio che il mondo ci invidia e che dovrebbe darci da campare, sicché la l’<i>undicesima tesi</i>, intitolata <i>Innovare</i>, non fa che rafforzare quella precedente, scimmiottando la Carta del Restauro di Atene del 1931:<br />
<br />
«Bisogna perseguire l’innovazione e la sperimentazione, come fonti di continue sorprese e aperture concettuali».<br />
<br />
Appare quindi paradossale che, a conclusione del Manifesto, LPP presenti quello che lui definisce “<i>testo di accompagno</i>”, un documento che inizia con le parole “<i>Varcare la soglia del buon senso</i>”, il paradosso risiede nel fatto che, dati i contenuti, se mai questo Manifesto dovesse prender piede, tutti coloro i quali svolgono la professione di architetti, di urbanisti e di restauratori basandosi sulle ferree regole del <i>buon senso</i> e della<i> disciplina professionale</i>, risulterebbero banditi!<br />
Ma è chiaro l’intento del documento, in questo primo scorcio di secolo, dove gli sforzi degli architetti sensibili alle tradizioni hanno fatto emergere dall’oscurità la loro presenza suscitando l’interesse del pubblico, c’è il timore che la gente sana di mente possa fare un confronto e discernere il bene dal male, e allora è necessario operare nuovamente un lavaggio del cervello che ricordi come la storia vada, necessariamente, periodicamente riazzerata … hai visto mai che gli architetti “<i>ignoranti per vocazione</i>” debbano rimettersi sui banchi a studiare per poter continuare a fare la professione?<br />
<br />
<br />
<b>Note:</b><br />
1) E. M. Mazzola, <i>Architettura e Urbanistica, Istruzioni per l’uso – Architecture and Town Planning, Operating Instructions</i>, (prefazione di Léon Krier) Gangemi Edizioni, Roma 2006<br />
2) Per la traduzione italiana: <i>Conversazioni sull’Architettura </i>– Edizioni Jaca Book S.p.A. op. cit.<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com1tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-7354344778425817712013-01-12T20:48:00.000+01:002013-01-15T00:32:44.397+01:00LE GRANDI SPERANZE PER L'ANNO NUOVO DI LPP<i>Pietro Pagliardini</i><br />
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Con la leggerezza necessaria a non prendere troppo sul serio l’inizio di un nuovo anno, che può anche essere un periodo simbolicamente importante per la speranze di ciascuno di noi ma che collettivamente diventa l’operazione mediaticamente più retorica e ripetitiva tra le molte che ci tormentano lungo le varie tappe di ciascun anno, mi accingo al commento di una proposta di inizio anno.<br />
<br />
Mi riferisco al <b><a href="http://presstletter.com/2013/01/manifesto-per-larchitettura-associazione-italiana-di-architettura-e-critica/">Manifesto per l’Architettura</a></b>, addirittura, di <b>Luigi Prestinenza Puglisi</b> con la sua <b>AIAC</b>. Ho già scritto altre volte di provare molta simpatia per la persona perchè è intelligente, spiritoso, garbato e sempre dialogante. Poi ha quel dolcissimo , beffardo e blasè accento catanese, a me caro per vecchie consuetudini familiari, che riesce a sfumare i contrasti più forti. Inoltre anche le iniziali contano, e potersi riferire ad una persona semplicemente chiamandola <b>LPP</b>, beh, è una qualità impagabile e da fare invidia a chiunque.<br />
<br />
Ma ciò detto, se ci trovassimo nell’antica Atene a dover votare su di lui, scriverei il suo nome sul coccio per decretarne l’ostracismo, non territoriale ma dal consesso della critica, con la motivazione di “corruzione di giovani architetti”.<br />
Non nel senso in cui venne decretato per Socrate, per carità, anche perché qualche differenza tra LPP e l’ateniese oggettivamente esiste, e non me ne vorrà di certo per questo confronto, ma perché ritengo che egli blandisca i giovani inducendoli al facile peccato dell’orgoglio, convincendoli che siano la creatività e la innovazione le chiavi per diventare bravi architetti. E a scorrere le dodici tesi del Manifesto ve ne sono di ragioni per poterlo affermare. Vediamole (per il testo delle tesi rimando al link):<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEismkXFe1c0iuh94iM6UezoZVGI2pR-0bFMOzYHBuzdxdAlNXd070oRYOGGkz8E6sfIP0Ny3lj8MMZqf0G8hdsxMdQk0ElUOOJxVDSdqFqUigHpKXqyjcojxQhN_bvL397bioazcufEeN8/s1600/cielo.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="200" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEismkXFe1c0iuh94iM6UezoZVGI2pR-0bFMOzYHBuzdxdAlNXd070oRYOGGkz8E6sfIP0Ny3lj8MMZqf0G8hdsxMdQk0ElUOOJxVDSdqFqUigHpKXqyjcojxQhN_bvL397bioazcufEeN8/s400/cielo.jpg" /></a></div><span id="fullpost"><br />
<i>1)Recuperare il grado zero.</i><br />
Già, senza entrare nel merito, come si può recuperare ciò che non esiste? Perché il grado zero è il Nulla che ha prodotto il Nulla di oggi. Quindi il Nulla non è recuperabile perché non esiste, per definizione, ma dal punto di vista di chi lo propone, esiste già, ossia è vecchio. Nella migliore delle ipotesi è una visione….nostalgica e conservatrice dello status quo.<br />
<br />
<i>2)Contenuti-linguaggio</i><br />
Trovare nuovi linguaggi è l’esatto contrario della prima tesi, cioè azzerare il linguaggio. Francamente non capisco.<br />
<br />
<i>3)La critica</i><br />
Problema irrilevante questo su cosa debba essere la critica perché interessa solo quindici persone. Siamo nell’autoreferenzialità non molto diversa da quella, criticatissima,dei politici che si parlano addosso.<br />
<br />
<i>4)Contro le derive del disegno</i><br />
Scritta com’è lascia il tempo che trova ma, se la critica “prefigura prospettive”, LPP non può tacere che il parametricismo di Hadid (con tutto il suo seguito di cloni e imitatori) è la sola essenza di quell’architettura e quindi il nostro dovrebbe stroncarle tutte senza se e senza ma. Non mi sembra che lo faccia.<br />
<br />
<i>5)Bisogno di utopie</i><br />
Abbiamo già dato ed è stato un fallimento, in architettura, in urbanistica, in politica e nella società in genere. Almeno tre generazioni di giovani ci sono caduti: già non trovano lavoro, non continuiamo a prenderli in giro anche con questa fuga dalla realtà.<br />
<br />
<i>6)Liberare</i><br />
E qui siamo alla teorizzazione dell’astrattezza pura, allo svincolo cioè dell’architettura dalla sua realtà che è la prefigurazione dello spazio entro cui abita, agisce e vive l’uomo, come individuo e come parte della società, da cui non può essere disgiunto.<br />
<br />
<i>7)Sconfiggere l’ossessione del controllo</i><br />
Sorvolo perché non l’ho capita. Come nuovo linguaggio si comincia male.<br />
<br />
<i>8)Il paesaggio si costruisce</i><br />
Questa mi sembra il regno dell’ambiguità: c’è del vero e del falso insieme. Insomma viola il principio di non contraddizione ma soprattutto è in assoluta controtendenza rispetto all’unica concreta e ragionevole novità di questo periodo, vale a dire la netta separazione tra città e campagna, la riscoperta dei limiti unita al blocco dell’espansione – e possibilmente alla contrazione - della città nel territorio agricolo. Il tutto in nome, sempre, della libera espressione architettonica, questo feticcio che ci portiamo dietro da quasi un secolo.<br />
<br />
<i>9)Ecologie</i><br />
Come sopra quanto ad ambiguità.<br />
<br />
<i>10)Recuperare e trasformare</i><br />
Avrebbe potuto essere intitolata questa tesi come “L’ossessione del falso storico”. Non nel senso che se ne stiano facendo troppi, ma nel senso che non si fanno e si deve continuare a non farli. Non mi metterò certo a contestare ancora una volta questo tabù, questo pregiudizio, questo ostacolo mentale a valutare il mondo reale, mi limito a dire che d’ora in poi chiamerò quelli che altri chiamano “<i>falso storico</i>” come “<i>vero attuale</i>”.<br />
<br />
<i>11)Innovare</i><br />
Vedi risposta a tesi 9<br />
<br />
<i>12)Pensare a una nuova geografia e definire il livello di intelligenza</i><br />
Non esiste alcuna interazione apprezzabile tra le reti di comunicazione e la rete urbana. Esiste solo, o meglio esisterebbe se venisse applicata dovrebbe esistere, una analogia tra i principi che devono guidare il disegno e la costruzione della rete urbana e quelli delle reti di comunicazione: accessibilità, permeabilità, interazioni, nodi e connessioni, ottenuti mediante la costruzione della strada tradizionale, le connessioni, e le piazze (e non solo) come luoghi nodali. L’esatto opposto di quanto si sta facendo da decenni, un indistinto non-disegno urbano, un quadro astratto svincolato dal territorio, privo di connessioni, caratterizzato da specializzazione per aree non comunicanti tra loro, da strade nel vuoto, da vuoti che accolgono oggetti sparsi fuori da ogni relazione con l’intorno e con gli altri edifici, cui corrisponde il vuoto sociale, la destrutturazione delle relazioni umane. La non-città, la periferia, il suburbio. Cercare una interazione tra le reti di comunicazione e la città, immaginando che le prime debbano o possano modificare la seconda è un errore e una esercitazione intellettuale, buona solo a utilizzare ogni tre per due e a sproposito il termine <i>smart-city</i>.<br />
<br />
<b>Conclusioni</b><br />
<b>LPP </b>ha decisamente fiuto e intelligenza e ha scelto il momento opportuno per proporre un <b>Manifesto</b>. Sa che non c’è più niente in giro, nel suo giro, degno di appartenere alla categoria architettura e in verità anche di edilizia. Sa che c’è una ripetitività assoluta, una moltiplicazioni di cloni uguali a se stessi, impostati su tre o quattro filoni figli delle genialate di alcune famose ma ormai imbolsite e sterili <i>archistar</i> e quindi cerca un nuovo target, un nuovo ordine. Non credo riuscirà a trovarlo basandosi sulle Tesi, perché propone le stesse cose di adesso, sostanzialmente. Sarebbe come ripetere la stessa tappa del giro. Siamo arrivati al paradosso della copia esatta di progetti di <b>archistar</b>, cioè dei <i>veri attuali</i> di modelli contemporanei.<br />
<br />
Se invece allargasse il suo orizzonte, se riuscisse a <i>Liberare </i>(Tesi n°6) la mente da pregiudizi, forse potrebbe vedere che il mondo è grande, che esistono soluzioni meno appariscenti e più <i>ecologiche </i>(Tesi n°9), molte opportunità di <i>Recuperare e trasformare</i> (Tesi n° 10) per concentrare la città riempiendo i vuoti al suo interno, ridando forma alla città con la definizione dei limiti e liberando spazio alla campagna, più possibilità di <i>Innovare </i>(Tesi n° 11) tornando a costruzioni più tradizionali, ormai abbandonate da decenni e quindi realmente nuove.<br />
Questo non accadrà quasi certamente, ma <b>LPP </b>continuerà ugualmente a rimanermi simpatico, anche se alla prima occasione saprei fare un uso giusto del mio coccio.<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com3tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-11513155056785400292013-01-04T00:19:00.000+01:002013-01-04T00:19:16.334+01:00SCUSI PER RICCIONE? SEGUA LE INDICAZIONI PER I CARAIBI!<i><b>di Ettore Maria Mazzola</b></i><br />
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<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiyiHB9l39mK5Ez5YFrM8tGGh9Clotu_FpeREcjeg-OeKjScihxW5FliCVepblsy_5hPf6enUh1OHlw6OAm-EyP9ZtWqpBqcUnmK1RCnalee2xeAap7aXS-fidNzv8hhK2iPs_KUuSEdyM/s1600/Atollo+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="218" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiyiHB9l39mK5Ez5YFrM8tGGh9Clotu_FpeREcjeg-OeKjScihxW5FliCVepblsy_5hPf6enUh1OHlw6OAm-EyP9ZtWqpBqcUnmK1RCnalee2xeAap7aXS-fidNzv8hhK2iPs_KUuSEdyM/s400/Atollo+1.jpg" /></a></div>A chi in Italia si preoccupava di porre un freno al consumo di territorio si potrà finalmente rispondere di dormire sonni tranquilli … il <i>genio </i>italiano ha trovato una soluzione “<i>sostenibile</i>”, anzi “green”: realizzare un atollo davanti a Riccione!<br />
<br />
Chissà cosa avrà pensato Domenico Finiguerra – il <i>sindaco anticemento</i> di Cassinetta di Lugagnano, nonché leader carismatico del movimento “<i>Stop al Consumo di Territorio</i>” –leggendo, le parole di Cristian Amatori – capo di gabinetto del sindaco di Riccione – il quale ha affermato: «<i>L'intento è integrare e ampliare l'offerta turistica di Riccione senza togliere nulla al patrimonio esistente sulla costa, che ha ormai raggiunto la saturazione</i>».<br />
<br />
… Ma che <i>ambientalista</i>!<br />
<br />
La notizia è rimbalzata qualche giorno fa sul web, subito dopo che i progettisti dell’Università di Ferrara (ma non farebbero meglio a pensare alla ricostruzione post-terremoto?) e il capo di gabinetto del sindaco di Riccione hanno indetto una conferenza stampa che dava l’annuncio della prossima <i>colonizzazione </i>del Mare Adriatico con <i>un atollo di un chilometro di diametro</i>, dove ci saranno <i>un porto</i> (<i>con terminal per le navi da crociera in viaggio tra Venezia, Grecia e Croazia</i>) <i>degli hotel, dei residence, centri di ricerca in tema di green economy (!!!), parchi, negozi: il tutto, per una popolazione di circa 3 mila persone e con possibilità di balneazione assolutamente inedite, dato che la profondità del mare, a quella distanza dalla costa, è di 12 metri</i>.<br />
<span id="fullpost"><br />
Sarebbe utile capire cosa studieranno quei “<i>centri di ricerca in tema di green economy</i>” … forse varrebbe la pena che facessero degli studi che gli facciano comprendere come certi progetti, oltre a risultare deleteri in termini ambientali (<i>green</i>), lo sono anche in materia economica (<i>economy</i>).<br />
<br />
Mi chiedo dove possa essere finita l’etica di certi docenti, professionisti e politici emiliani i quali, nonostante la crisi, e nonostante il dramma delle popolazioni terremotate e delle aziende impossibilitate a riavviare le proprie attività, pensano a lanciare proclami di costruzioni di atolli 3 a miglia dalla costa miranti al puro edonismo.<br />
<br />
La cosa che più disturba di questa storia è la ipocrisia con la quale certi personaggi abusino di termini come “<i>green</i>”, “<i>sostenibile</i>” e “<i>rispetto del patrimonio della costa</i>” per perseguire i propri intenti speculativi e antiecologici.<br />
<br />
Purtroppo, il marciume della <i>società dello spettacolo</i> fa sì che non occorra che tra le parole e i fatti possa esserci una corrispondenza, la cosa importante è dire delle frasi ad effetto, mostrandosi pubblicamente mentre si sostiene il proprio interesse alla tutela dell’ambiente … è quasi certo che nessuno andrà mai a verificare fino in fondo se si sia detta la verità, e se mai qualche scandalo verrà fuori, esso verrà presto dimenticato e sostituito da un’altra discussione e poi, se dei danni – economici o ambientali che siano – ne scaturiranno, saranno gli altri, ovvero noi tutti, a pagarli.<br />
<br />
Certe notizie fanno davvero riflettere sul fatto che certi “<i>architetti bio</i>”, e la stragrande maggioranza delle aziende produttrici di materiali “<i>bio</i>” per l’edilizia, meriterebbero multe o condanne come quella datata 26 novembre 2012 emessa dal garante dell’antitrust nei confronti di alcune aziende multinazionali produttrici di alimenti a causa delle “<i>false promesse salutiste</i>” raccontate nei loro ingannevoli spot pubblicitari.<br />
<br />
Una dichiarazione inquietante del capo di gabinetto del sindaco apre uno scenario preoccupante: «<i>Superato il primo attimo di sconcerto e viste le carte, l'approccio è stato, non solo collaborativo, ma entusiastico. Da allora, con l'avvento del governo Monti, l'idea ha cominciato a marciare</i>».<br />
<br />
L’inquietudine è legittima! … L’operazione infatti, lascia supporre che si tratti dell’ennesima iniziativa tanto cara alla lobby bancaria che tiene sotto scacco il pianeta, quella lobby è infatti interessata a questo genere di investimenti che, con i loro costi folli, incentivano l’indebitamento pubblico e/o privato, arricchendosi mentre il resto del mondo impoverisce.<br />
<br />
In ogni modo, se mai qualcuno avesse potuto immaginare che la cosa potesse avere un minimo di interesse economico locale, creando posti di lavoro e dando da lavorare alle imprese locali, questo qualcuno potrà subito ricredersi ascoltando le parole del Sindaco di Riccione Pironi: «<i>la cifra pazzesca verrà reperita sotto l'ombrello del project financing: Abbiamo già ricevuto l'interessamento di imprenditori sauditi e di alcuni fondi d'investimento inglesi e olandesi</i>».<br />
<br />
Ma questa colonizzazione del mare italiano è italiana? È saudita? O è inglese ed olandese? Ergo, chi ne beneficerà? <br />
<br />
Tanto per rammentare cosa nascondano certe operazioni, e vista l’analogia, ricordo che lo scorso 13 gennaio, il Corriere della Sera aveva pubblicato un articolo molto interessante che titolava: “<i>la frenesia cinese da grattacielo è sintomo del crac in arrivo – studio inglese: le bancarotte precedute dai boom edilizi</i>”.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjbVymA5qHUDwkfhE95y3nuqOdZW2fPTL0lYclbbaHZCW5xBAvUM2tmsSoSZpBdOzu2UrILfNjzxL8UwMEN479zaHpDCy8Al6iW9FLEsgRcMmeRzv3ItdsDjVFoxGIj3KtxYhR5R-WgEeU/s1600/Atollo+2.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="269" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjbVymA5qHUDwkfhE95y3nuqOdZW2fPTL0lYclbbaHZCW5xBAvUM2tmsSoSZpBdOzu2UrILfNjzxL8UwMEN479zaHpDCy8Al6iW9FLEsgRcMmeRzv3ItdsDjVFoxGIj3KtxYhR5R-WgEeU/s400/Atollo+2.jpg" /></a></div><br />
Qualcuno potrebbe sminuire quell’articolo attribuendolo a Cassandra – sebbene le argomentazioni risultino inconfutabili – quindi torna utile riferirci ad un caso conclamato: il clamoroso crac tailandese del 1997 generato dalla realizzazione di opere ipertrofiche che avrebbero dovuto “<i>modernizzare</i>” quel Paese.<br />
<br />
Qualche anno fa infatti, mentre si stava pensando di realizzare in quel Paese opere similari, venne pubblicata, come monito agli smemorati, questa vignetta satirica rappresentante il <i>Sathorn Unique Tower</i>, edificio-fallimentare simbolo della presunta modernizzazione. <br />
Detto ciò, si ritiene del tutto superfluo rammentare a questi signori i numeri del fallimento commerciale (e ambientale) del modello cui si sono ispirati: Dubai!<br />
<br />
C’è un ultimo punto da tenere in considerazione, punto che forse è all’origine dell’iniziativa: l’ASSENZA DI UNA NORMATIVA SPECIFICA SULL’ARGOMENTO … una vera furbata!!<br />
<br />
Luca Emanueli, il progettista dell’iniziativa, nonché direttore del Centro di Ricerca sui Sistemi Costieri presso il Dipartimento di Architettura dell'Università di Ferrara, ha infatti candidamente affermato che per questa estensione territoriale, <i>trattandosi di un progetto senza precedenti, si sono dovute esplorare nuove strade sotto il profilo urbanistico e legislativo …</i><br />
Come dire, per evitare ogni possibile ostacolo normativo a tutela del paesaggio, ed evitare le rotture di quei rompiscatole degli ambientalisti italiani, creiamo un caso che nessuno potrà mai bloccare in nessun tribunale!<br />
<br />
I colonizzatori stranieri ringrazieranno doppiamente: un pezzo d’Italia servitogli su di un piatto d’argento, con la possibilità di arricchirsi, nel nostro territorio, togliendo clienti al turismo della riviera romagnola!<br />
<br />
Già possiamo immaginare la campagna pubblicitaria degli alberghi stranieri sull’atollo: <i>vi offriamo gli stessi divertimenti della riviera romagnola, ma il nostro mare è più pulito e senza alghe</i>!<br />
<br />
Il <i>simpaticissimo </i>signor Amatori ride e ci dice che, almeno «<i>per ora non c'è traccia di comitati anti-atollo … Ma forse perché il progetto non è ancora ufficiale!</i>»<br />
<br />
Che dire, davvero uno splendido esempio di attaccamento alla propria terra … e al proprio mare!<br />
<br />
Romagnoli, svegliatevi, prima che i vostri alberghi si svuotino a beneficio dei coloni, difendete il vostro mare … che è anche il nostro!<br />
<br />
<br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com7tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-73017918717280504352012-12-23T22:02:00.000+01:002012-12-23T22:15:23.548+01:00BUON NATALE A.....A tutti i lettori di questo blog<br />
a chi commenta<br />
a chi non commenta per motivi suoi<br />
a chi manda contributi<br />
a chi non li manda perchè non li vuole mandare<br />
a chi è d'accordo con me<br />
a chi non è d'accordo con me e lo dichiara<br />
a chi non è d'accordo e se ne frega di dichiararlo<br />
ai modernisti educati<br />
ai modernisti moderatamente educati<br />
anche a quelli maleducati perchè a Natale bisogna essere buoni<br />
agli architetti che vivono un brutto momento<br />
a molti dei quali augurerei di passarlo in tempi normali ma non in questo<br />
ai giovani architetti per legge naturale presuntuosi<br />
ai giovani architetti presuntuosi a causa dei loro Maestri<br />
a tutti gli amici<br />
ai miei familiari praticamente ignari dell'esistenza di questo blog<br />
<b>Auguro Buon Natale</b><br />
<i>Pietro Pagliardini</i><br />
<table align="center" cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="margin-left: auto; margin-right: auto; text-align: center;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiwTC6zs-eM05BXJ9jqGJkEinvDtaQx96t0_VmpuVsttGL7WMMBzcROp_kSNZUm2BwY-plu_4KL-ul5QkjaQAcb4CKzVZtkIpLIbRRrB5m8ayNxTjcN0slACIigfxhd5_XHbagXffDpnXQ/s1600/nativita.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="640" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEiwTC6zs-eM05BXJ9jqGJkEinvDtaQx96t0_VmpuVsttGL7WMMBzcROp_kSNZUm2BwY-plu_4KL-ul5QkjaQAcb4CKzVZtkIpLIbRRrB5m8ayNxTjcN0slACIigfxhd5_XHbagXffDpnXQ/s640/nativita.jpg" width="480" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Andrea della Robbia: Natività - Basilica di San Francesco- La Verna, Chiusi della Verna (AR)</td></tr>
</tbody></table>
<br />
<br />Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-30565718783994098542012-12-19T00:29:00.004+01:002012-12-19T00:29:51.156+01:00SULLA PRESUNTA "RIQUALIFICAZIONE ARCHITETTONICA E ARTISTICA"- PIAZZA VERDI A LA SPEZIA<b>Sulla presunta</b> "<b><i>Riqualificazione Architettonica e Artistica</i></b>" <b>Piazza Verdi a La Spezia </b><br />
<b><i>di<br />
Ettore Maria Mazzola</i></b> <br />
<br />
<br />
<b>Premessa</b> <br />
<br />
Nello sconfinato patrimonio artistico italiano non v’è manifestazione artistica che non risulti passata in rassegna. Dalle opere rupestri dei popoli preistorici a quelle delle popolazioni italiche preromane, dall’impressionante mole di opere lasciateci dai romani fino alle manifestazioni futuriste, il nostro Paese vanta un patrimonio che nessun altro luogo del pianeta può avvicinare!<br />
<br />
… Ciò nonostante, un certo genere di <i>artisti </i>e <i>architetti </i>suppone che il nostro patrimonio necessiti di una <i>riqualificazione</i>!<br />
<br />
Il motivo di questa supposizione risiede nel disastro accademico post bellico che, specie a partire dai primissimi anni ’60, ha portato l’insegnamento a divenire profondamente ideologico … nonostante le promesse <i>libertarie</i>, ergo profondamente ignorante. Ecco quindi che la storia, laddove sia stata insegnata, risulta esser stata vergognosamente manipolata a tutto vantaggio di una presunta <i>élite </i>colta che ha gradualmente acquistato un potere infinito in materia decisionale. In questo contesto, la gente comune è dunque stata costretta a subire ciò che quell’élite le imponeva dall’alto (o dal basso … fate un po’ voi) delle proprie conoscenze!<br />
<br />
Tutto ciò ha gradualmente generato <i>tre categorie</i> di persone: 1) coloro i quali restano spaesati ma accettano passivamente; 2) coloro i quali – per snobismo – per non sentirsi estromessi da quell’<i>élite</i>, fingono di comprendere ciò che non ha alcun significato; 3) quelli che si ribellano a questi soprusi unendosi in comitati di quartiere, e/o in associazioni a difesa del patrimonio artistico e ambientale, scendendo in piazza per manifestare contro le violenze che si intendono infliggere al territorio.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;">
<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhI6xJjbWWXBfrfluzce7sBFvMYg-k4LHCr5JWXhcj1Jx-wHt6Ce4FnUx1VuZLUVr_NQZDD_gwc22iAsOQvx_Ten-nKesVtxszALZTY0G7NtPv5enoyJfLP80D9NGMpKjx-RY2G2gC0NnU/s1600/La+Spezia+1.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="221" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhI6xJjbWWXBfrfluzce7sBFvMYg-k4LHCr5JWXhcj1Jx-wHt6Ce4FnUx1VuZLUVr_NQZDD_gwc22iAsOQvx_Ten-nKesVtxszALZTY0G7NtPv5enoyJfLP80D9NGMpKjx-RY2G2gC0NnU/s400/La+Spezia+1.jpg" width="400" /></a></div>
<i><span style="font-size: x-small;">Rendering del progetto per Piazza Verdi a La Spezia. Artista: Daniel Buren _ Architetti: Arch. Giannantonio Vannetti (Capogruppo) con Arch. Christian Baglioni, Arch. Elena Ciappi, Arch. Claudio Dini, Arch. Franca Cecilia Franchi. Collaboratore: Emiliano Lascialfari</span></i><br />
<span id="fullpost"><br />
Volendo dare una definizione a queste tre categorie potremmo definire la prima quella degli abulici i quali – con il loro immobilismo – consentono all’<i>élite</i> di fare i propri sporchi interessi; la seconda categoria è invece quella degli <i>intellettualoidi </i>che fingono di intendere ciò che non ha alcun significato; l’ultima è invece quella degli <i>intellettuali</i>i quali, per ovvie ragioni culturali, rifiutano che una presunta élite, arrogante ed ignorante, possa sfregiare a proprio piacimento il patrimonio. <br />
<br />
C’è da dire che molti architetti, specie quelli più giovani, agisce in totale buona fede! Essi infatti, si sono formati in Facoltà Universitarie dove l’omogeneità dei corsi ha praticato una sorta di <i>lobotomia</i> che impedisce loro di poter divergere dalla “<i>cultura egemone</i>”.<br />
<br />
Per meglio comprendere il significato di questo concetto è utile, per analogia, rileggere un breve passaggio della lettera scritta nel 1885 da Giulio Magni a Raimondo D’Aronco: «[…] <i>colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone […] affrontare l’impopolarità è certo un eroismo e chi si sente forte nella battaglia da combattere, scenda in campo con quel coraggio che dà la sicurezza della vittoria. E noi giovani che coltiviamo questo ideale nella nostra mente, dobbiamo difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze, studiando alacremente con la ferrea volontà di riuscire!</i>»<br />
<br />
… Peccato quindi che i giovani di oggi non abbiano alcuna voglia di combattere. A differenza dei tempi di Magni e D’Aronco infatti, la nostra società è permeata dal consumismo a tutti i livelli, sicché anche l’arte e l’architettura vengono intenzionalmente confusi con manufatti usa e getta che non richiedono alcuno sforzo intellettuale (anche se poi ci si costruisce intorno una spiegazione, pseudo-intellettuale, atta a far credere che sia bella e sostenibile un’opera orrenda e insostenibile). Niente regole, siamo artisti contemporanei! Se non ci capite non è colpa nostra … siete ignoranti!<br />
<br />
In un clima del genere, va da sé che chi ami confrontarsi con le regole classiche e col rispetto dei luoghi dia fastidio e debba essere condannato al silenzio per evitare che la gente comune possa fare un confronto. Ma la gente comune è stufa di queste battaglie ideologiche!<br />
<br />
<b>L’intervento di La Spezia</b><br />
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La Spezia può, senza ombra di dubbio, definirsi una capitale dell’Italia <i>Liberty</i> e <i>Decò</i>, una splendida realtà dove gli ultimi grandi episodi dell’arte e dell’architettura che possano annoverarsi nei libri di storia hanno generato un incantevole unicum italiano. In questo unicum sorge anche la Piazza Verdi, un luogo che, a causa delle trasformazioni del 1933, risulta difficile poter ancora definire “piazza”. Tuttavia, data la forza del carattere, <i>unitario ma non uniforme</i>, degli edifici che la definiscono, è senz’altro un luogo che possiamo ritenere abbondantemente “<i>qualificato</i>”.<br />
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Di qui lo stupore, e la rabbia, dei tanti cittadini spezzini che hanno appreso della prossima realizzazione di un intervento di "<i>Riqualificazione Architettonica e Artistica</i>".<br />
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L’ipocrisia delle parole che hanno accompagnato il progetto, parole che meritano di essere discusse con la cittadinanza per comprenderne la veridicità, non ha fatto altro che ingigantire il senso di rifiuto da parte della cittadinanza rispetto a quest’opera inutile quanto brutta.<br />
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Sebbene nel testo si parli di “<i>ridurre drasticamente il carico del traffico veicolare urbano</i>” (unico argomento condivisibile), guardando il progetto si comprende che la “<i>piazza</i>” verrebbe a configurarsi come una lunga isola delimitata dal traffico veicolare: quantunque si possa supporre una limitazione al solo transito del trasporto pubblico, ci si troverebbe comunque davanti ad un’<i>esplanade</i> più che a una piazza, che non presenta alcuna protezione totale dai veicoli su almeno uno dei suoi lati; una spianata che non presenta alcun senso di contenimento dello spazio stesso, ovvero priva del senso ultimo della piazza italiana. Il progetto, più che ad una piazza italiana è assimilabile a quegli orribili spazi sconfinati che gli americani chiamano “<i>plaza</i>”.<br />
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<span id="fullpost"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-KtKAJcbNgsqcsSuJ9Tp-c7ynMieSLdLih3bWZ2za5TLoRInxr47X1rln56rHzUeglzft4cVEbxBAh6NHxeZUjq60Qc_7EJC61xxe2NSgqNmPVmoMaPMeBDtzTP7IrxRV1gaema6hydA/s1600/La+Spezia+3.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="130" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEj-KtKAJcbNgsqcsSuJ9Tp-c7ynMieSLdLih3bWZ2za5TLoRInxr47X1rln56rHzUeglzft4cVEbxBAh6NHxeZUjq60Qc_7EJC61xxe2NSgqNmPVmoMaPMeBDtzTP7IrxRV1gaema6hydA/s400/La+Spezia+3.jpg" width="400" /></a></span></div>
<span id="fullpost"><i><span style="font-size: x-small;">La Spezia - due immagini storiche che ritraggono il Teatro Politeama di Pontremoli demolito nel 1933 quando fu realizzato l’edificio postale di Mazzoni. Il teatro, facendo da sfondo all’asse di via Chiodo, creava uno spazio concluso che definiva la piazza</span></i><br />
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Prima della demolizione del Politeama, teatro che faceva da fondale a via Chiodo, e nonostante le dimensioni della strada, lo spazio veniva a configurarsi come una piazza ottocentesca italiana, risultando perfettamente coerente con l’urbanistica e l’architettura del periodo. Perché quindi ignorare aprioristicamente il passato?<br />
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I progettisti, piuttosto che trincerarsi nella loro visione, personale e distorta, della modernità, e affermare di voler dare a quel luogo una “definizione di ordine spaziale non monumentale ma ludica”, oppure di sottolineare che “<i>nella nuova immagine del progetto non vi è nostalgia del passato ma fiducia nel tempo che avanza rinnovandosi</i>”, avrebbero potuto riflettere sul codice genetico delle piazze italiane … il che non equivale ad essere nostalgici del passato – se mai questo fosse un problema – ma realizzare uno spazio decoroso per quel luogo e riconoscibile come piazza!<br />
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La piazza dovrebbe essere un luogo accogliente e protetto, un luogo coerente con l’intorno, dove viene ad instaurarsi un rapporto privilegiato di relazione tra lo spazio aperto e uno o più edifici emergenti lungo il suo perimetro.<br />
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La decisione di non rispettare l’ordine spaziale esistente, creandone uno nuovo “<i>ludico</i>” (ove 14 discutibili portali verdi e rossi – <i>all’interno dei quali ci saranno dei nebulizzatori d’acqua</i> – e vasche allagate intransitabili se non con sistemi di guado), trasformerà questo simbolico luogo spezzino in un pessimo esempio di <i>kitsch</i>, degno dei peggiori outlet che infestano l’Italia … e menomale che i progettisti avevano voluto ribadire di non voler scadere nella falsificazione storica e nella “<i>nostalgia</i>”! Ma cos’è più falso?<br />
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Piuttosto che temere di essere “<i>nostalgici</i>”, i progettisti avrebbero potuto immaginare come rendere maggiormente fruibile e sicuro lo spazio pedonale, magari limitando lo stesso volume di traffico veicolare che intendono mantenere lungo il lato mare, proteggendo quindi la piazza lungo il lato dell’ufficio postale mazzoniano; soprattutto, se avessero studiato meglio lo spazio dotato di fondale prima del 1933, avrebbero potuto trovare l’ispirazione (non nostalgica) per comprendere come oggi risulti indispensabile frazionare quello spazio a monte e a valle, creando degli episodi costruiti che facciano da quinta scenica – ovviamente aperta per mantenere l’importanza dell’asse strutturante di via Chiodo/via Vittorio Veneto – alle tre piazze, delimitate dalle vie Niccolò Tommaseo, Pietro Micca e XX Settembre, tre piazze che risulterebbero relazionate agli edifici prospettanti su di esse.<br />
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La verità è che, nella totale incapacità di dialogare con il passato, certi progettisti preferiscono intraprendere delle battaglie – perse in partenza, agli occhi della stragrande maggioranza della gente – nelle quali giustificano, in maniera poco credibile, delle opere fini a se stesse come opere di “<i>riqualificazione</i>”. Nel caso in oggetto, la giustificazione vedrebbe La Spezia come “<i>la rappresentazione di una profonda aspirazione alla modernità</i>” … Ma la modernità è ben altra cosa che non il modernismo! … non è che questa aspirazione risulti solo appannaggio dei progettisti?<br />
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Nell’infinita serie di punti discutibili di questo progetto, c’è la scelta di coinvolgere Daniel Buren, un “<i>artista</i>” già resosi responsabile di numerosi scempi in giro per il mondo, primo tra tutti l’abominevole serie di rocchi di colonne scanalate bianche e nere, disposti nel cortile d’onore del Palais Royale di Parigi, un’opera orrenda che nessun parigino sano di mente ha mai compreso, né amato; una sorta di pista con paracarri per svolgere una gimkana con i go-kart all’interno di un luogo splendido della <i>Ville Lumière</i>. … Ma che in Italia non avevamo artisti disponibili?<br />
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvCHnlyqG1JBlL1zsg69YjJS8amHgcKKhKbfDGtQEwpl5JSuOZk3BLh4vcXbUZUrzu1tBCOLlvuafUA1zFis6g7ra1d7pfXsU8ZjlMA1u6eo6m2RPNY1HrbFsvpaXl3XziTk-gtPPRkH8/s1600/La+Spezia+4.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="269" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhvCHnlyqG1JBlL1zsg69YjJS8amHgcKKhKbfDGtQEwpl5JSuOZk3BLh4vcXbUZUrzu1tBCOLlvuafUA1zFis6g7ra1d7pfXsU8ZjlMA1u6eo6m2RPNY1HrbFsvpaXl3XziTk-gtPPRkH8/s400/La+Spezia+4.jpg" width="400" /></a></div>
<i><span style="font-size: x-small;">Parigi – Il cortile d’onore del Palais Royale ormai inutilizzabile grazie all’orribile e costosa installazione di Daniel Buren</span></i><br />
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In pratica, come già accaduto per il Palais Royale, l’operato di questo <i>artista</i>, coadiuvato dagli esterofili progettisti nostrani, porterà Piazza Verdi a non essere più fruibile dagli esseri umani, perché ridotta ad una spianata utile solo alla mostra dei 14 portali – 7 prima e 7 dopo la “piazza scavata” davanti all’edificio postale.<br />
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Nella Piazza, i progettisti dicono di voler realizzare una “<i>interpretazione dell’assenza come segno morbido scavato per un teatro centrale</i>” … è arduo comprendere il senso di questa frase, ma è facilissimo capire due cose: 1) i progettisti non conoscono la differenza tra un teatro e un anfiteatro, visto che quello che propongono è un ambiente rettangolare gradonato su tutto il perimetro, ovvero non assimilabile né al primo, né al secondo, e che semmai potrebbe avvicinarsi all’idea di quest’ultimo; 2) un disabile non potrà mai più pensare di potersi avvicinare al centro dell’ambiente, a meno cha non intenda sfracellarsi cadendo dalle gradonate!<br />
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… Ma una “<i>piazza</i>” non dovrebbe essere accessibile a tutti?? … E dire che i progettisti hanno perfino affermato che “<i>nel nostro progetto l’arte è intesa come utile, cioè non come pura immagine ma come strumento di realizzazione di spazi fruibili e contemporanei in grado di creare nuove percezioni e riconnessioni ambientali</i>”.<br />
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Peccato che il progetto risulti esattamente l’opposto delle loro stesse parole! Ma, si sa, tra i progettisti autoreferenziali non c’è alcun bisogno che tra le parole e i fatti esista una corrispondenza, l’essenziale è poter dire di aver detto certe cose. Del resto loro, in quanto appartenenti all’<i>élite colta</i>, sono i depositari del motto <i>cogito ergo sum</i>, tutti gli altri devono solo assistere al loro <i>essere</i>!<br />
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Sempre in materia di <i>mistificazione della realtà</i>, un’ultima annotazione risulta indispensabile. Sebbene infatti sarebbe utile far notare l’assurda affermazione che vedrebbe la nuova Piazza Verdi possedere una “<i>scala tagliata sull’uomo, i cui intenti sono quelli di ricreare un luogo stimolante e di cui riappropriarsi per l’abitare</i>”, è preferibile soffermarci sull’assurda ed ipocrita sostenibilità del progetto. <br />
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Nel capitolo intitolato “<i>Comfort Ambientale E Sostenibilità</i>” i progettisti affermano: “<i>Non si dà un progetto di uso se non si realizza allo stesso tempo un livello adeguato di comfort ambientale. L’uso degli elementi naturali: tappeti erbosi, specchi d’acqua e nuove alberature per l’aumento dell’ombreggiatura, contribuiscono al miglioramento del microclima estivo locale secondo i principi della bioclimatica applicata agli spazi esterni. Altri criteri di sostenibilità applicabili sono: - il risparmio idrico attraverso l’uso delle superfici pavimentate per la raccolta e il riuso delle acque piovane per le fontane e l’irrigazione del verde; - l’uso di materiali naturali e locali per le pavimentazioni; - il controllo dell’inquinamento luminoso e l’uso di fonti a basso consumo (led incassati nel pavimento); - progetto sonoro e riduzione dell’inquinamento acustico; - uso di tecniche attive per il raffrescamento estivo (nebulizzatori inseriti nel percorso d’arte)</i>” … Tutto qui? Un po’ pochino per definire il progetto sostenibile!<br />
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Come potete comprendere, anche in questo caso, non v’è alcun motivo per cui tra le parole e i fatti debba esserci alcuna corrispondenza … del resto quello della “<i>sostenibilità</i>” è l’argomento più abusato tra i progettisti di oggi. Per un “<i>depositario del verbo</i>” (l’architetto dell’<i>élite colta</i>), ovvero uno abilitato a dire le cose in quanto appartenente alla categoria di “<i>quelli che sanno</i>”, basta usare un termine per farsi bello e fingersi rispettoso. Quando il tempo dimostrerà il fallimento del progetto sotto tutti i profili, come abbiamo visto con altre progettazioni ideologiche in giro per il Paese, la responsabilità non sarà mai del progettista, ma di chi ha realizzato l’opera, oppure degli abitanti ignoranti che non ne comprendono il significato, oppure dell’Italia più in generale!<br />
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Ciò di cui non ci si capacita è l’atteggiamento della classe politica … sull’ottusità intellettualoide delle Soprintendenze che danneggiano il patrimonio storico consentendo e incentivando le cosiddette “<i>contaminazioni</i>” siamo ormai rassegnati.<br />
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C’è da chiedersi infatti come possa un sindaco, che dovrebbe mirare al più ampio consenso di pubblico, consentire che una sparuta minoranza di persone, senza alcuna cultura ed amore per la città da lui amministrata, possa violentarla a proprio piacimento strafregandosene del malcontento generale.<br />
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Eppure anche in Italia, finalmente, sarebbe necessario che per i progetti urbanistici venisse adottato il processo partecipativo con la cittadinanza tutta: dov’è quindi il rispetto della <i>vox populi</i> nel caso di Piazza Verdi?<br />
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E non si venga a dire che c’è stata una regolare commissione che ha aggiudicato il vincitore di un concorso, perché i concorsi, chi fa questo mestiere lo sa bene, sono una <i>truffa-culturale</i> gestita dalla presunta <i>élite colta</i> che se li fa e se li canta in nome dell’ideologia egemone.<br />
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Oggi come oggi la gente è stufa dei soprusi di questa casta! Se si vuol dare credibilità e consenso ad un progetto del genere, che si faccia una esposizione pubblica di ogni genere di progetto per quel luogo, creando una commissione esaminatrice che rappresenti le volontà popolari, e non solo e soltanto quelle degli architetti e artisti (o presunti tali) … solo allora si potrà vedere chi risulterà il reale vincitore! È sarà con grande sorpresa di tutti scoprire che nessun comitato anti-progetto nascerà più dal nulla. <br />
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Italia Nostra, facendosi portavoce del malcontento tra gli spezzini, ha scritto al sindaco invitandolo a comprendere le ragioni del movimento anti-progetto, l’augurio è che il Primo Cittadino si ricordi di essere il Sindaco di tutti i cittadini.<br />
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Speriamo quindi che il Sindaco faccia sapere ai suoi cittadini a quale delle tre categorie elencate precedente ritiene di appartenere: Signor Sindaco, Lei è un <i>abulico</i>, un <i>intellettualoide</i>, o un <i>intellettuale</i>?<br />
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</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com8tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-82520366539554195432012-12-09T18:02:00.001+01:002012-12-09T18:05:43.510+01:00MARIO FAZIO: PASSATO E FUTURO DELLE CITTA'<i>Il processo di trasformazione del Bel Paese è avvenuto e sta avvenendo in modo sostanzialmente autoritario. Architetti, ingegneri, geometri, progettano su ordinazione di amministratori pubblici e di privati proprietari di aree da sfruttare; i progetti vengono approvati in stanze più o meno segrete. Al cittadino, considerato un “utente” al quale non si devono troppe spiegazioni, non resta che brontolare. Ma la colpa è anche sua se accetta che le decisioni restino nelle mani di pochi.<br />
Dal canto loro gli amministratori comunali non sembrano avvertire il dovere di illustrare piani e progetti in modo documentato e comprensibile, per stimolare la partecipazione democratica (sottolineo l’uso della parola, contro le tentazioni della deriva rinunciataria).<br />
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L’esposizione al pubblico di un piano regolatore è una presa in giro: tavole costellate di segni enigmatici, zone a colori diversi. Spesso l’interesse si riduce ad accertare se il proprio terreno sarà edificabile. Manca inoltre nella stragrande maggioranza dei cittadini la conoscenza della storia della città, indispensabile per valutare il rapporto delle nuove costruzioni con quelle del passato. Quanto alle architetture, alle scelte delle forme, il cittadino si sente disarmato e intimidito.</i><br />
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<i>Eppure strutture e forme urbane sono gli stampi in cui si solidificano le vite degli uomini. La città brutta e disgregata è incubatrice di violenza, di conflitti, di sofferenze non valutabili soltanto dal traffico caotico e dagli inquinamenti. La collettività paga prezzi altissimi per il naufragio urbanistico.</i><br />
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<i><b>Il circuito “autoreferenziale</b></i><br />
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<i>Sull’architettura contemporanea si è diffusa un’opinione così negativa da provocare una crescente rivalutazione del passato. Non perché il moderno sia considerato un disvalore in assoluto ma perché i valori della modernità restano soffocati quando gli edifici non riescono a comunicare, quando non rispondono alle esigenze umane.Però gli architetti e i critici di professione ne parlano quasi esclusivamente all’interno di un circuito chiuso. Quello delle riviste, delle mostre, delle Università, dei saggi che in certi casi sembrano “elucubrazioni di architettura verbale” come diceva <b>Giancarlo De Carlo</b> vent’anni fa denunciando il distacco dell’architettura dalla dimensione umana e affermando l’esigenza di “renderla comprensibile, utilizzabile da tutti per generare gioia e identità”.<br />
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Gli architetti di fama e quelli che inseguono la fama progettano pensando ai critici e i critici scrivono per gli architetti, usando il linguaggio della critica artistica, come se il progetto di un nuovo quartiere fosse una composizione astratta da appendere a una parete oppure il tema di un gioco intellettualistico. Ma nell’architettura destinata a durare generazioni, condizionando la vita di milioni di esseri umani, l’autore non può appagarsi di concetti e di poetiche personali, imponendo agli “utenti” senza voce stilemi canonizzati con la benedizione di critici e cattedratici. Tangentopoli e l’abusivismo non sono al’origine di ogni male urbano: pesano anche le responsabilità di chi progettava e di chi insegnava a progettare. Soltanto il 4% del costruito porterebbe la firma di un architetto. Il 96% sarebbe dovuto ad altri, prevalentemente geometri. Ma le grandi opere, i quartieri mostruosi, furono progettati da architetti. E per disegnare villette e palazzine i geometri hanno avuto maestri gli architetti, nelle scuole come nella professione.</i><br />
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Questo brano è tratta da <i>Mario Fazio, Passato e futuro della città</i>, Einaudi.<br />
Un libro del 2000 di <b>Fazio</b>, giornalista de La Stampa, scomparso nel 2004. Un libro acquistato ieri al prezzo di L.24.000. Si, ancora c'è stampato il vecchio conio, segno che non vi sono state ristampe dall'introduzione dell'euro. Non ne conosco le ragioni, ma potrei immaginare che l'essere stato Fazio Presidente di Italia Nostra abbia costituito un freno all'acquisto da parte di coloro che vedono questa associazione come un elemento di conservazione. Il libro è invece di qualità, scritto da un giornalista molto documentato che certamente risente, in positivo, della sua esperienza in Italia Nostra e che si pone rispetto al problema città con un atteggiamento molto più avanzato e con maggiore sensibilità di quanto non sappiano fare molti urbanisti e architetti. Si pone il problema del livello decisionale dei cittadini sulle scelte urbane e denuncia l'autoreferenzialità della cultura urbanistica e della casta accademica. Lui stesso fa un richiamo al <b>Tom Wolfe</b> di <i>Maledetti Architetti</i>, ma riferendosi più alla città che all'architettura.<br />
Denuncia il circuito vizioso architetti-critica-Università, anche se a distanza di 12 anni questo si è spostato dal mondo delle riviste, ormai marginali, alla rete, in nulla però cambiando il metodo, semmai essendo peggiorato.<br />
C'è una parte, che ancora non ho letto, espressamente dedicata alle stelle dell'architettura e al fenomeno, ormai sgonfiato, del così detto "effetto Bilbao".<br />
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C'è poi la previsione di una città trasformata dal mondo digitale e da Internet, con alcune previsioni azzeccate ed altre meno, in cui si intravvedono i primi germi della <i>smart city</i>, il nuovo fenomeno che si annuncia come una nuova illusione di risoluzione dei problemi urbani.<br />
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Propongo alcuni brani di questa "profezia", tenendo conto conto che 12 anni in questo campo sono un secolo e che facebook, ad esempio, è nato nel 2004:<br />
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<i>Se la città del “Capitalism rampant” è preoccupante, quello della “città dei bit” non è oggetto di pura curiosità. La rivoluzione elettronica porterà cambiamenti epocali nel modo di lavorare, di comunicare, di abitare, come nei comportamenti sociali. I seguaci della nuova fede, fondata sull’avvento di un mondo dominato dalla telematica, profetizzano ambienti digitali, città virtuali, rapporti umani in cui il software prevale sulla fisicità e il dialogo interpersonale avviene via cavo o via satellite. La “bitsfera” e il “cyberspazio” si sovrappongono alla biosfera e ai paesaggi naturali. L’area informatica cambierà la geografia; sarà sempre meno importante trovarsi in un dato luogo alla data ora. Sarà possibile persino la trasmissione dello spazio steso, secondo i profeti dell’era elettronica.<br />
Non ci saranno più le code per raggiungere il posto di lavoro, essi dicono, perché si lavorerà a casa di fronte a un computer. I siti Internet sostituiranno le piazze, i caffè, i punti di ritrovo. Non si andrà più a scuola, a teatro, in chiesa, in banca, al mercato: tutto a casa con rappresentazioni virtuali non affidate alle sole immagini sullo schermo ma anche a sensazioni trasmesse al cervello da impulsi comandati da un tasto……<br />
Le case dovranno essere ristrutturate, per dotare ogni abitante di una piccola nicchia elettronica da cui fare la spesa, seguire le lezioni, lavorare nell’ufficio virtuale, farsi curare con la telemedicina, nuotare nel mare scelto premendo un tasto. E si potrebbe continuare.<br />
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Gli stessi profeti ella nuova era si domandano quali siano i fini della rivoluzione annunciata, quali i pericoli per la società civile e l’umanità intera, chi potrebbe e chi dovrebbe controllare il tutto. Quel che sta avvenendo con la diffusione di Internet preoccupa non soltanto i pantofolai e e i moralisti d’occasione. La perdita di funzioni della città, sostituiti da luoghi virtuali, è una minaccia gravissima per le civiltà maturate nei secoli all’interno degli organismi urbani. Non meno grave del pericolo di un “ordine mondiale” a carattere tecnologico. Il presidente della Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, Paul Virilio, intravvede questo ordine mondiale nelle forme di un “nuovo fascismo tecnico e futurista che alla democrazia reale, fondata sull’incontro di individui nell’agorà (piazza, teatro, stadio ecc) sostituisce la democrazia virtuale staccata dalla presenza umana. La democrazia automatica, fatta di tecnica e di pura immagine, con sbocco totalitario”. Come negli incubi di Orwell….<br />
Ancora Paul Virilio, intelligentemente, invita a organizzare la resistenza non perché contrario alle nuove tecnologie ma perché contrario alla virtualizzazione totale che renderebbe irreali le persone, le città, l’eredità storica, con la conseguente morte della cultura e della società. Un mondo privo di specificità locali dove tutto diventa noto in forma virtuale, ridurrebbe l’esistente a oggetto di contemplazione sullo schermo; il patrimonio culturale verrebbe condensato in un catalogo elettronico e omogeneizzato come i cibi della catena MacDonalds.</i><br />
</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com2tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-63897491676868074892012-11-29T10:20:00.002+01:002012-11-30T01:04:55.620+01:00VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA<i>di Pietro Pagliardini</i><br />
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Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.<br />
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.<br />
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9hx4FpydsFCocrxgGMnAArF7-SVKajjhu2Esy3caIkXa0PQTT72udbE2GCzx8KFaCvvOGTJlgizKWx50QHCBNlQAKwfqRJ9lsC8lbo-donsj8xcKAbuNw7euBxGP_I-6lwX_p6yqDgJE/s1600/Roma+maxxi+ingresso.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="300" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEh9hx4FpydsFCocrxgGMnAArF7-SVKajjhu2Esy3caIkXa0PQTT72udbE2GCzx8KFaCvvOGTJlgizKWx50QHCBNlQAKwfqRJ9lsC8lbo-donsj8xcKAbuNw7euBxGP_I-6lwX_p6yqDgJE/s400/Roma+maxxi+ingresso.jpg" /></a></div><span id="fullpost"><br />
La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.<br />
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Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.<br />
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Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.<br />
<div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXMA1y1QFx7z97V7igEFfCSqPS57mZOGbgUtxSrQWzLZLoEOPB8PRl1iMvAu83wPOiAiRXkFEJLOOBOoaapK2fy7PMppP7jLCzxzPx4HvXGgCD6T2GwQ70rnVzHNRAEhyphenhyphenqqWEq6yBK5wk/s1600/Maxxi+pianta+PT.jpg" imageanchor="1" style="margin-left:1em; margin-right:1em"><img border="0" height="282" width="400" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhXMA1y1QFx7z97V7igEFfCSqPS57mZOGbgUtxSrQWzLZLoEOPB8PRl1iMvAu83wPOiAiRXkFEJLOOBOoaapK2fy7PMppP7jLCzxzPx4HvXGgCD6T2GwQ70rnVzHNRAEhyphenhyphenqqWEq6yBK5wk/s400/Maxxi+pianta+PT.jpg" /></a></div>Ma non era <b>Bruno Zevi</b> a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.<br />
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La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del <b>Guggenheim </b>di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.<br />
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La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.<br />
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Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.<br />
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Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.<br />
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “<i>Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante</i>”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.<br />
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A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per <b>Zaha Hadid</b>.<br />
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di <b>Fuksas</b>, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare <b>Fuksas </b>per abbassare la <b>Hadid </b>già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.<br />
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Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.<br />
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</span>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com9tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-26465683992842503332012-11-15T00:57:00.001+01:002012-11-15T23:36:23.778+01:00SMART CITIES, CANGIANTI E SFUGGENTI<i>Pietro Pagliardini</i><br />
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Se ponessimo la domanda: “Cos’è una <i>smart city</i>?” a soggetti diversi, esigendo una risposta sintetica, probabilmente avremmo risposte generiche e sicuramente diverse tra loro in base alla specifica preparazione di ognuno: l’informatico risponderebbe che è l’applicazione della Information technology alla vita di tutti i giorni, l’architetto direbbe che serve a migliorare la fruizione della città, il politico direbbe bla, bla, bla, l’industriale che aumenta la competitività, l’ambientalista che controlla e ottimizza le risorse energetiche e ambientali, e così via.</div>
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Pur essendoci dietro questa definizione molta concretezza economica e tecnologica, non si tratta cioè di una dei tanti vuoti ed effimeri slogan della società dell’informazione, tuttavia l’uso indiscriminato e pervasivo che se ne fa rischia di ridurlo a slogan, parola d’ordine e fuorviante, in specie per gli architetti e per le aspettative che in essa potrebbero riporre.</div>
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E’ quella parola <b>city</b> a confondere le acque, con il desiderio di riempire di cose diverse lo stesso contenitore. Se la dovessi tradurre in italiano, non direi “<i>città intelligente</i>” ma “<i>società intelligente</i>”, perché di questo effettivamente si tratta, e nell’ambito della società ci sta anche la città. Rientrano nella categoria <i>smart city</i> progetti per la tracciabilità dei cibi, il packaging che faccia risparmiare involucri, la logistica, la domotica, e poi l’informatizzazione scolastica, i controlli in agricoltura e negli incendi boschivi, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei consumi energetici, la mobilità urbana, la realtà aumentata, i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, il clouding, la sanità, il sostegno agli anziani, e molti altri ancora.</div>
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<a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1obqG9baG6JT-Czk3xGwXILppyGzfR5e4ped93ZGmr770PQnsF-seBWrTgcHmiukYwmH4kG5Hu053zKIfaabgivCa9_v8zvJJbXPB0wIbhncWkTZlxnqZzriXBZIrwthvfIyyeuVZpAI/s1600/siemens-smart-city-siemens-smart-grid-610x425.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="277" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEg1obqG9baG6JT-Czk3xGwXILppyGzfR5e4ped93ZGmr770PQnsF-seBWrTgcHmiukYwmH4kG5Hu053zKIfaabgivCa9_v8zvJJbXPB0wIbhncWkTZlxnqZzriXBZIrwthvfIyyeuVZpAI/s400/siemens-smart-city-siemens-smart-grid-610x425.jpg" width="400" /></a></div>
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<span id="fullpost">Quanti di questi temi riguardano propriamente la città e di conseguenza architetti e urbanisti? In un certo senso tutti, ma solo per il fatto che ogni attività umana si svolge nello spazio fisico, città o territorio che sia. E forse proprio per questo è stato scelto <b>city</b>, per offrire la concretezza di un luogo fisico a tanta diversità di contenuti. Società è forse termine troppo vasto che si presta ad equivoci di tipo politico-sociologico.</span></div>
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<span id="fullpost">Restando alle tematiche propriamente urbane, il rischio è che si tenda ad attribuire alla <i>smart city</i> proprietà salvifiche che essa non può avere e che gli urbanisti vengano attirati nella sfera più strettamente ingegneristica della ICT (Information & Communication Techcnology) come risolutrice dei mali delle nostre città.</span></div>
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<span id="fullpost">Favorire e semplificare l’accesso al flusso di informazioni da parte dei cittadini è una esigenza importante e non più eludibile. Sono i cittadini stessi a pretenderlo. Prendiamo il caso più noto, quello di Santander, in Spagna, dal <b>Corriere della Sera</b>:</span><br />
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<span id="fullpost"><b><a href="http://www.corriere.it/scienze_e_tecnologie/12_ottobre_27/santander-smart-city-cruccu_ff7cc69e-203d-11e2-9aa4-ea03c1b31ec9.shtml"><span style="font-size: large;">Santander, città intelligente</span></a></b></span></div>
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<span id="fullpost">Come si capisce dall’articolo, l’approccio è quello di creare un cervello urbano globale, che tenga sotto controllo in tempo reale qualsiasi evento avvenga, i cui recettori e utilizzatori siano in buona parte i cittadini stessi. Tralasciando le possibili conseguenze negative che potrebbero verificarsi con migliaia di persone che mandano informazioni, molte delle quali è ipotizzabili sbagliate o ridondanti o volutamente false, è chiaro che vi sono due obiettivi: rendere più sicura la vita e più partecipi i cittadini stessi alla vita della loro città.</span></div>
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<span id="fullpost">Ma, e questa è la trappola per gli urbanisti, siamo nel campo del software, del più impalbabile e generico, l’informazione, per cui è necessario sapere se un evento avviene, ne siamo subito informati, ma poco o nulla si può fare per evitare quell’evento, mentre si può fare in modo di attenuarne alcune sue conseguenze negative.</span></div>
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<span id="fullpost">L’informazione insomma, sembra essere un valore in sé, a prescindere. Un po’ come quando si sente in TV: il livello del fiume è salito di 6 metri, ma è sotto controllo. Controllo di che? Se deve esondare esonda. Ma uno sta tranquillo. Informazione anestetica.</span></div>
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<span id="fullpost">Un esempio sulla città: c’è un ingorgo di traffico, chiunque si organizza per non peggiorare la situazione. Ma il problema è: perché si è creato quell’ingorgo di traffico? Il caso che ci interessa non è l’evento eccezionale, ma quello ordinario, vale a dire una città impostata sugli spostamenti in auto, con poche strade di grande scorrimento che lambiscono zone monofunzionali le quali si riempiono e si svuotano tutte insieme a determinate ore del giorno. E’ un po’ come le piogge di questi giorni che creano inondazioni ed effetti violenti: una urbanizzazione esagerata che ha interrotto i flussi naturali di scorrimento delle acque, incrementati dall’abbandono e dall’incuria dei mille fossi e canali di scolo che distribuiscono le acque in una rete idraulica continua e capillare nel territorio e che, in occasione di precipitazione violente (corrispondenti a quelle ore di punta del traffico urbano), riversa tutta l’acqua in pochi canali che, per quanto capienti, non possono assorbirla tutta. Le auto in un ingorgo si fermano, l’acqua esonda.</span></div>
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<span id="fullpost">Dunque la prima regola, prima del controllo, del monitoraggio e della comunicazione dei dati, consiste nell’essere <i>smart</i> la città stessa nella sua parte hardware, cioè nella sua configurazione fisica e spaziale. Come la rete idraulica deve essere diffusa e gerarchizzata, così la città deve essere strutturata con una rete di strade gerarchizzate e che offrano il massimo delle alternative possibili, talchè il blocco di una di esse, per qualsiasi evento, sia assorbito senza traumi dalle altre. E qui l’ICT entra in gioco con la sua carica informativa che attenua ulteriormente i danni e gli inconvenienti.</span><br />
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<span id="fullpost">Il rischio insomma è che l’idea di <i>smart city</i> si traduca in un surrogato dell’urbanistica, in una pezza a pessime città, e faccia, ancora una volta, allontanare l’obiettivo primario, cioè la sua forma. Architetti e urbanisti dovrebbero forse concentrarsi sulla città e lasciare il software ad altri, utilizzandolo semmai al pari della tecnologia che si utilizza negli edifici, senza per questo impostare gli edifici in funzione della tecnologia stessa o, peggio, progettare edifici il cui unico valore sia quello tecnologico: la domatica può aiutare in casa, ma è destinata a rapida obsolescenza, mentre la casa resta e deve essere progettata per durare più a lungo possibile. E se qualcuno pensa il contrario, non si azzardi più a pronunciare la parola sostenibilità</span></div>
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Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com5tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-8256636010080781582012-11-08T23:44:00.000+01:002012-11-09T00:09:30.404+01:00SULL'AMPLIAMENTO DELLO STEDELIJK MUSEUM DI AMSTERDAM<b><i>di Ettore Maria Mazzola</i></b><br />
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<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt;">Recentemente mi è stato ironicamente segnalato un articolo, firmato da Manlio Lilli, pubblicato il 4 novembre u.s. sul sito </span><a href="http://www.linkiesta.it/"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt;">www.linkiesta.it</span></a><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt;">. Chi conosca il progetto non può evitare di rimanere perplesso leggendo il titolo di quell’articolo: <i>“Ad Amsterdam, lo Stedelijk Museum si fa attendere. Ora sappiamo che ne valeva la pena”</i>.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">L’articolo, a mio avviso, parte molto bene, lamentando la cialtroneria degli italiani che non sono in grado di tenere aperti i musei, a differenza di ciò che avviene in altro Paesi dove, nonostante la <i>penuria</i> di opere d’arte rispetto al nostro, i musei e i siti vengono super valorizzati. Come non dar ragione all’autore, visto che i musei italiani, come tutto ciò che ha a che fare col turismo, dovrebbero darci da campare?<o:p></o:p></span></div><div class="separator" style="clear: both; text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFw7MNsLAllFZ5PGMafzTxio5J-87dq_I2zekPDvTvTt2FuKM4ydaVmraDlt8UpKcJX8E-IIeezSgdnU7apYxDsVSZ6x1kQQrCmbXwH6uRfCo7E8wqYfELKHdnE0aeXckJn5cjKkM5k3w/s1600/Bagnarola.jpg" imageanchor="1" style="margin-left: 1em; margin-right: 1em;"><img border="0" height="186" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEjFw7MNsLAllFZ5PGMafzTxio5J-87dq_I2zekPDvTvTt2FuKM4ydaVmraDlt8UpKcJX8E-IIeezSgdnU7apYxDsVSZ6x1kQQrCmbXwH6uRfCo7E8wqYfELKHdnE0aeXckJn5cjKkM5k3w/s400/Bagnarola.jpg" width="400" /></a></div><span id="fullpost"><br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Prima di andare avanti col discorso, è bene sottolineare il fatto che l’autore sia un <i>laureato in lettere con indirizzo archeologico</i> e che, recita il suo profilo biografico, fa l’<i>archeologo per scelta</i>, <i>provando a mangiare (poco, naturalmente) con la Cultura</i>. L’autore è una persona di tutto rispetto. Infatti, a quanto si apprende nel profilo, <i>ha pubblicato tre interessanti monografie su centri del Lazio antico, oltre a numerosi contributi sull’Italia antica in riviste di settore, e collabora con una serie di siti culturali</i> <i>sparsi nel web</i>, tra cui <i>Libertiamo</i>, <i>Linkiesta</i>, <i>Il Futurista</i> e l’<i>Istituto di Politica</i>.<o:p></o:p></span></div><br />
<div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">È quindi un peccato, e non riesco a capacitarmi del perché, in questo articolo, egli abbia dovuto scadere nell’ideologia. Infatti, piuttosto che limitarsi a dare un eventuale benvenuto ad un nuovo museo, limitandosi al fatto che una nuova collezione possa esser stata aggiunta ad una preesistente, (indipendentemente dal fatto che possa o meno quella collezione essere apprezzabile), l’articolo è stato utilizzato come il luogo per sfogare tutta la rabbia possibile nei confronti di un presunto immobilismo italiano nel produrre opere architettoniche <i>moderniste</i> … quasi che i deprecabili interventi che vanno dal Museo dell’Ara Pacis, al MAXXI, passando per il MACRO – solo per citare gli esempi romani più recenti – non fossero mai esistiti. In pratica, l’articolo sembra esser figlio di un incomprensibile complesso d’inferiorità culturale verso certe cose che si fanno all’estero, un complesso che in Italia, dato il nostro patrimonio, risulta del tutto fuori luogo, tranne che nella mentalità di un certo genere di architetti cresciuti a <i>pane e modernismo</i>.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Del museo si racconta che, grazie alla nuova realizzazione, è stato possibile ampliare la collezione con nuove acquisizioni come, l’<i>installazione luminosa </i>di Dan Flavin <i>dedicata a Mondrian</i> e il <i>ritratto di Bin Laden</i> di Marlene Dumas … Se fossi Romolo Prince del programma comico Colorado commenterei con un finto apprezzamento dicendo: <i>con certe opere possiamo dire che i 127 milioni di euro, all’incirca 20 più del previsto, siano stati davvero spesi bene!! …. Ma che …. sto a dì, sto a scherzà!!<o:p></o:p></i></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Questo genere di spese, per la realizzazione di un museo, ricordano molto da vicino i 160 mln di euro spesi per costruire il MAXXI di Roma, per il quale ne sono stati spesi altri 60 per acquisire opere orribili e fallimentari che, come c’era da immaginare, non hanno suscitato alcun interesse, portando la struttura, come già accaduto per il MACRO, al fallimento ed al cambio del direttore, come se il problema fosse il solo direttore del museo, e non la concezione ideologica che lo abbia generato, nonché il genere di “opere” ivi esposte.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Ovviamente, ciò che sfugge a chi se la prende con il presunto immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea, è il fatto che “<i>Mamma Italia</i>” abbia generosamente dirottato fondi destinati ad altri beni culturali, più redditizi in termini di turismo, per il salvataggio di quell’orribile capriccio modernista, inclusi i fondi che avrebbero potuto consentire di tenere aperti dei musei! Si rammenta che, per bocca del precedente direttore del MAXXI, il budget annuale per tenere in piedi quella struttura è di circa 75 mln di euro, a fronte delle pochissime presenze giornaliere!<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Alla luce di questa cosa, c’è da chiedersi come, un “<i>archeologo per scelta</i>” – come usa definirsi l’autore dell’articolo – possa accettare che avvengano certi dirottamenti di fondi, e soprattutto, come egli possa usare l’esempio olandese per lamentarsi dell’immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea!<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">A quanto si apprende, la prima ragione dell’intervento sul preesistente Stedelijk Museum è stata la <i>necessità di ampliare i suoi spazi espositivi. Ma anche di ripensarne il concetto</i>. Pare che siano stati prima <i>approvati e poi ripudiati ben due progetti</i> (dei quali sarei davvero curioso di vedere come fossero concepiti … almeno in che modo si relazionassero con le preesistenze) <i>poi, una volta fallita la prima impresa di costruzioni</i> (cosa curiosa che meriterebbe qualche approfondimento), s<i>i è deciso di affidare l’incarico allo studio di architettura Benthem Crouwel di Amsterdam</i> … a questo punto <i>si è deciso di aggiungere e collegare al bell’edificio del 1895 un altro dalle linee moderne</i> … (9000 mq aggiunti agli originari 10000!) evidentemente i titolari dello studio incaricato non potevano limitarsi a restare invisibili all’interno della struttura preesistente … agli architetti autocelebrativi è geneticamente impossibile evitare di mostrarsi violentemente al pubblico: è come se ad un pavone gli venisse impedito di fare la ruota! <o:p></o:p></span><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Ecco quindi che – come nel caso del MAXXI nato senza una collezione da esporre – anche per lo Stedelijk è nata l’esigenza di “<i>riempire il nuovo contenitore</i>” con nuove collezioni … già, il <i>contenitore</i>, perché oggi il “<i>museo</i>”, tra gli adepti del modernismo, non si chiama più “<i>museo</i>”, ma “<i>contenitore</i>”! Riflettendo su questa “<i>evoluzione semantica</i>” viene da pensare che, quando si parla di “<i>opere consumistiche usa e getta</i>”, il termine più appropriato è effettivamente “<i>contenitore”</i> … chissà quindi se, tra non molto, questa <i>costante evoluzione</i> porterà a chiamarlo, per coerenza, “<i>cassonetto”</i>!<o:p></o:p></span><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal" style="text-align: justify;"></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Sebbene la totalità degli abitanti non abbiano apprezzato affatto questo progetto, ribattezzandolo “<i>la vasca da bagno</i>”, a detta dell’autore dell’articolo, cito testualmente:<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">“<i>La gigantesca ala bianca disegnata dallo studio Benthem Crouwel, “immersa” nelle architetture storiche che la circondano, non sfigura. Tutt’altro. Il nuovo corpo dello Stedelijk, un gigantesco volume lungo cento metri e alto diciotto, anche cromaticamente “emerge”. Con il bianco del Twaron, la fibra sintetica che viene dall’aeronautica spaziale, e della fibra di carbonio Tenax</i></span><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">”.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Sicché<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">“<i>Nel complesso va salutata con soddisfazione la nuova realizzazione. Che senza dubbio risponde all’esigenza “progressista” degli olandesi. Alla loro voglia di sentirsi al passo con i tempi. All’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia.</i> <i>Perché l’Olanda non è l’Italia”.</i></span></div><div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;"><br />
<span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">Ebbene, se queste sono le ragioni per cui dovremmo ritenere bello questo edificio, allora viva la bruttezza. Se l’Italia non è l’Olanda, allora viva l’Italia!!</span></div><div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">A me questo museo, più che ricordarmi una “<i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">vasca da bagno</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">” sembra un gigantesco “</span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">lavello da incasso per cucina</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">”, o forse è un enorme “</span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">lavandino da barbiere</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">” dove oltre ai capelli possa operarsi anche un lavaggio del cervello in nome del </span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">modernismo</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">, che della </span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">modernità</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;"> rappresenta la visione distorta.</span></div><br />
<div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"><span id="fullpost"><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;"> </span><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">Personalmente penso che, prima di difendere l’indifendibile, sarebbe il caso di capire gli effetti collaterali di un certo tipo di “</span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">edilizia</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">” (mi viene impossibile usare il termine “</span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">architettura</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">” per certe cose), e mi fa specie che proprio un </span><i style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">archeologo per scelta</i><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;"> non se ne accorga.</span></div><br />
<div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;">Si rifletta sul fatto che, l’aver promosso questo modo di progettare e costruire anche in Italia, l’aver insegnato in maniera ideologica e monodirezionale, ha portato alla creazione di una massa di architetti che non sono assolutamente in grado di restaurare in maniera rispettosa il patrimonio storico! I crolli di Pompei e L’Aquila, ma anche quelli che di qui a breve rischiano di interessare sempre Pompei, ma anche Selinunte dovrebbero mettere in allarme chi vorrebbe “<i>vivere di archeologia e cultura</i>”. <o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"><br />
<span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal" style="background-color: white; background-position: initial initial; background-repeat: initial initial; margin-bottom: 0.0001pt;"></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: 'Palatino Linotype', serif; font-size: 12pt; line-height: 115%;">L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”<i>rappresentative dell’</i><i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia”</span></i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"> è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di </span><i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Benthem Crouwel </span></i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? e poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “<i>falsi storici</i>”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire <u>anche</u> in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio? <o:p></o:p></span></span><br />
<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"><br />
</span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;">Viollet-Le-Duc, preoccupato per il modo dittatoriale in cui si insegnava l’architettura al tempo dell’Academie des Beaux Arts di Parigi, perché a suo avviso metteva a rischio il patrimonio architettonico medievale francese, a causa dell’assenza di conoscenze tecniche in materia, disse:</span><i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"> “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze” (...) “dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; (…) e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?”.<o:p></o:p></i></span></div><div class="MsoNormal"><br />
<i><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"><br />
</i></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Senza ombra di dubbio noi potremmo dire esattamente oggi le stesse cose relativamente ai danni culturali prodotti da una maniera del tutto distorta di guardare alla modernità (<i>modernismo</i>) e, soprattutto, di insegnare l’architettura in nome di un complesso di inferiorità culturale che non ci appartiene.<o:p></o:p></span></div><div class="MsoNormal"><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;">Osannare progetti come quello in oggetto,<span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%;"> e criticare la nostra presunta limitata apertura al contemporaneo – specie da parte di chi, per scelta professionale, dovrebbe mirare alla tutela più assoluta del nostro retaggio culturale – equivale dunque all’auspicare la distruzione del nostro patrimonio … un po’ come quel marito che, per far dispetto alla moglie prese una decisione autolesionista alquanto discutibile!</span><span style="font-family: "Palatino Linotype","serif"; font-size: 12.0pt; line-height: 115%; mso-bidi-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-font-family: "Times New Roman"; mso-fareast-language: IT;"><o:p></o:p></span></span></div><br />
<br />
</span><br />
Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com32tag:blogger.com,1999:blog-1239916086652624689.post-34525517154188612202012-11-05T12:51:00.002+01:002012-11-05T12:51:45.588+01:00PALAZZO SULLA FONTE: NO AL FALSO STORICO<i>Pubblico il commento al<b><a href="http://www.de-architectura.com/2012/10/ricostruzione-nel-centro-storico-di.html"> post precedente</a></b> inviatomi dall'amico Franco Lani, Progettista e Direttore dei Lavori della ricostruzione del Palazzo sulla Fonte, a nome anche degli altri progettisti prof. Arch. Andrea Branzi e Arch. Antonio Bigi.</i><br />
<i>A fine commento un elenco incompleto di post correlati al "falso storico"</i><br />
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A Giulio Rupi<br />
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Di solito evito di polemizzare sull’architettura e specialmente on-line, per tanti motivi ma principalmente perché credo che qualsiasi produzione artistica (com’è anche l’architettura) debba essere considerata “opera aperta” (Umberto Eco) e che quindi ognuno ha il diritto di dialogare con essa a suo piacimento e di fare le considerazioni secondo le proprie sensibilità …..<br />
<table cellpadding="0" cellspacing="0" class="tr-caption-container" style="float: right; margin-left: 1em; text-align: right;"><tbody>
<tr><td style="text-align: center;"><a href="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicKHaPCwfJOOJqabzxHnCztA0uy9a9nZJoqlOHqA5USucAS4ds-rbhlb5GMzHpxA3XJ9_kelQj_KSgFTZFfZFyG0RQFQhFJp2Y1CsLMrmMvac53FHVDvJCLwWeprXHY1pDINtkJWenCgg/s1600/Andrea+Branzi.jpg" imageanchor="1" style="clear: right; margin-bottom: 1em; margin-left: auto; margin-right: auto;"><img border="0" height="249" src="https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEicKHaPCwfJOOJqabzxHnCztA0uy9a9nZJoqlOHqA5USucAS4ds-rbhlb5GMzHpxA3XJ9_kelQj_KSgFTZFfZFyG0RQFQhFJp2Y1CsLMrmMvac53FHVDvJCLwWeprXHY1pDINtkJWenCgg/s320/Andrea+Branzi.jpg" width="202" /></a></td></tr>
<tr><td class="tr-caption" style="text-align: center;">Andrea Branzi</td></tr>
</tbody></table>
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Ho pensato però che Giulio meritasse una risposta (che egli stesso chiede), non solo perché è un carissimo amico che stimo profondamente, ma per fargli presente che, in questo caso, ha di gran lunga frainteso le nostre intenzioni. Se avesse visto forse il progetto completo e non si fosse soffermato esclusivamente sulla “risega”, non avrebbe espresso questo giudizio ed avrebbe compreso ( anche se magari non apprezzato) il nostro intendimento. <br />
<br />
Brevemente: mai e da nessuno di noi progettisti è stata pensata questa piccola discontinuità (circa 6 cm) delle pareti della ricostruzione rispetto all’esistente per “<i>dare ….dignità di fatto storico alla bomba…</i>”, ma, insieme ad altri accorgimenti quali: un intonaco diverso da quello dell’edificio superstite, un sottotono di colore, la previsione d’infissi esterni ad un’anta-ribalta in bronzo, ecc…, si vuole sottolineare semplicemente che questa parte dell’isolato non è coeva all’esistente.<br />
Invece di riproporre cioè una ricostruzione-copia perfetta dell’edificio distrutto (anche se lo potevamo fare perché in possesso di foto e disegni antecedenti il bombardamento) abbiamo optato per una soluzione che, com’è stata definita dalla Commissione d’esperti del Ministero della Cultura, “ <i>denunciasse garbatamente l’avvenuta ricostruzione mediante un consapevole intervento moderno, dove l’identificazione con il passato resta essenzialmente legata alla volumetria , all’articolazione dei prospetti e al modo di trattare le superfici……</i>”. <br />
<br />
Non si tratta quindi di aver voluto storicizzare drammaticamente l’evento distruttivo (come invece è stato fatto nella ricostruzione dei palazzo dei Georgofili a Firenze) ma non abbiamo però voluto aggiungere al nostro centro storico un ulteriore<i> falso architettonico</i> come successo ampiamente nei primi decenni del ‘900 su buona parte di esso tant’è che oggi d’autentico medioevale ha ben poco. Ci siamo in sostanza avvalsi della metodologia corrente nel restauro e ricostruzione delle opere d’arte (vedi il restauro degli affreschi di Piero o il recupero di bassorilievi o la ricomposizione dei reperti di vasellame) laddove si ricostruiscono e definiscono i volumi, le superfici e i colori delle parti mancanti tralasciando la definizione dei dettagli anche se conosciuti.<br />
<br />
Vorrei infine tranquillizzare il simpatico Ettore Maria, che non ho il piacere di conoscere, ricordandogli che l’età di noi progettisti è tale da rendere improbabili “riseghe” ancorché “mentali”.<br />
<br />
<i>Franco Lani </i><br />
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<b>POST CORRELATI AL "FALSO STORICO"</b><br />
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<b><a href="http://www.de-architectura.com/2012/10/ricostruzione-nel-centro-storico-di.html">Riflessioni sul Falso storico</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2008/08/il-tabu-del-falso-in-architettura.html">Il tabù del falso in archittetura</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2010/03/ma-solo-lantico-e-falso.html">Ma solo l'antico è falso?</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2009/06/pietro-pagliardini-sul-quotidiano-la.html">Gli architetti con il falso sempre in bocca</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2012/05/dovera-comera.html">Dov'era, com'era</a></b><br />
<b><a href="http://www.de-architectura.com/2008/06/de-corruptae-edificandi-ratione-ovvero.html">De corrupta aedificandi ratione, ovvero come progettare falsi e vivere felici</a></b>Pietro Pagliardinihttp://www.blogger.com/profile/08270052623457877178noreply@blogger.com4