Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 novembre 2012

VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA

di Pietro Pagliardini

Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.


La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.

Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.

Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.
Ma non era Bruno Zevi a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.

La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del Guggenheim di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.

La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.

Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.

Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.

A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per Zaha Hadid.
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di Fuksas, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare Fuksas per abbassare la Hadid già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.

Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.

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15 novembre 2012

SMART CITIES, CANGIANTI E SFUGGENTI

Pietro Pagliardini

Se ponessimo la domanda: “Cos’è una smart city?” a soggetti diversi, esigendo una risposta sintetica, probabilmente avremmo risposte generiche e sicuramente diverse tra loro in base alla specifica preparazione di ognuno: l’informatico risponderebbe che è l’applicazione della Information technology alla vita di tutti i giorni, l’architetto direbbe che serve a migliorare la fruizione della città, il politico direbbe bla, bla, bla, l’industriale che aumenta la competitività, l’ambientalista che controlla e ottimizza le risorse energetiche e ambientali, e così via.
Pur essendoci dietro questa definizione molta concretezza economica e tecnologica, non si tratta cioè di una dei tanti vuoti ed effimeri slogan della società dell’informazione, tuttavia l’uso indiscriminato e pervasivo che se ne fa rischia di ridurlo a slogan, parola d’ordine e fuorviante, in specie per gli architetti e per le aspettative che in essa potrebbero riporre.
E’ quella parola city a confondere le acque, con il desiderio di riempire di cose diverse lo stesso contenitore. Se la dovessi tradurre in italiano, non direi “città intelligente” ma “società intelligente”, perché di questo effettivamente si tratta, e nell’ambito della società ci sta anche la città. Rientrano nella categoria smart city progetti per la tracciabilità dei cibi, il packaging che faccia risparmiare involucri, la logistica, la domotica, e poi l’informatizzazione scolastica, i controlli in agricoltura e negli incendi boschivi, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei consumi energetici, la mobilità urbana, la realtà aumentata, i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, il clouding, la sanità, il sostegno agli anziani, e molti altri ancora.



Quanti di questi temi riguardano propriamente la città e di conseguenza architetti e urbanisti? In un certo senso tutti, ma solo per il fatto che ogni attività umana si svolge nello spazio fisico, città o territorio che sia. E forse proprio per questo è stato scelto city, per offrire la concretezza di un luogo fisico a tanta diversità di contenuti. Società è forse termine troppo vasto che si presta ad equivoci di tipo politico-sociologico.

Restando alle tematiche propriamente urbane, il rischio è che si tenda ad attribuire alla smart city proprietà salvifiche che essa non può avere e che gli urbanisti vengano attirati nella sfera più strettamente ingegneristica della ICT (Information & Communication Techcnology) come risolutrice dei mali delle nostre città.
Favorire e semplificare l’accesso al flusso di informazioni da parte dei cittadini è una esigenza importante e non più eludibile. Sono i cittadini stessi a pretenderlo. Prendiamo il caso più noto, quello di Santander, in Spagna, dal Corriere della Sera:

Come si capisce dall’articolo, l’approccio è quello di creare un cervello urbano globale, che tenga sotto controllo in tempo reale qualsiasi evento avvenga, i cui recettori e utilizzatori siano in buona parte i cittadini stessi. Tralasciando le possibili conseguenze negative che potrebbero verificarsi con migliaia di persone che mandano informazioni, molte delle quali è ipotizzabili sbagliate o ridondanti o volutamente false, è chiaro che vi sono due obiettivi: rendere più sicura la vita e più partecipi i cittadini stessi alla vita della loro città.

Ma, e questa è la trappola per gli urbanisti, siamo nel campo del software, del più impalbabile e generico, l’informazione, per cui è necessario sapere se un evento avviene, ne siamo subito informati, ma poco o nulla si può fare per evitare quell’evento, mentre si può fare in modo di attenuarne alcune sue conseguenze negative.
L’informazione insomma, sembra essere un valore in sé, a prescindere. Un po’ come quando si sente in TV: il livello del fiume è salito di 6 metri, ma è sotto controllo. Controllo di che? Se deve esondare esonda. Ma uno sta tranquillo. Informazione anestetica.

Un  esempio sulla città: c’è un ingorgo di traffico, chiunque si organizza per non peggiorare la situazione. Ma il problema è: perché si è creato quell’ingorgo di traffico? Il caso che ci interessa non è l’evento eccezionale, ma quello ordinario, vale a dire una città impostata sugli spostamenti in auto, con poche strade di grande scorrimento che lambiscono zone monofunzionali le quali si riempiono e si svuotano tutte insieme a determinate ore del giorno. E’ un po’ come le piogge di questi giorni che creano inondazioni ed effetti violenti: una urbanizzazione esagerata che ha interrotto i flussi naturali di scorrimento delle acque, incrementati dall’abbandono e dall’incuria dei mille fossi e canali di scolo che distribuiscono le acque in una rete idraulica continua e capillare nel territorio e che, in occasione di precipitazione violente (corrispondenti a quelle ore di punta del traffico urbano), riversa tutta l’acqua in pochi canali che, per quanto capienti, non possono assorbirla tutta. Le auto in un ingorgo si fermano, l’acqua esonda.

Dunque la prima regola, prima del controllo, del monitoraggio e della comunicazione dei dati, consiste nell’essere smart  la città stessa nella sua parte hardware, cioè nella sua configurazione fisica e spaziale. Come la rete idraulica deve essere diffusa e gerarchizzata, così la città deve essere strutturata con una rete di strade gerarchizzate e che offrano il massimo delle alternative possibili, talchè il blocco di una di esse, per qualsiasi evento, sia assorbito senza traumi dalle altre. E qui l’ICT entra in gioco con la sua carica informativa che attenua ulteriormente i danni e gli inconvenienti.

Il rischio insomma è che l’idea di smart city si traduca in un surrogato dell’urbanistica, in una pezza a pessime città, e faccia, ancora una volta, allontanare l’obiettivo primario, cioè la sua forma. Architetti e urbanisti dovrebbero forse concentrarsi sulla città e lasciare il software ad altri, utilizzandolo semmai al pari della tecnologia che si utilizza negli edifici, senza per questo impostare gli edifici in funzione della tecnologia stessa o, peggio, progettare edifici  il cui unico valore sia quello tecnologico: la domatica può aiutare in casa, ma è destinata a rapida obsolescenza, mentre la casa resta e deve essere progettata per durare più a lungo possibile. E se qualcuno pensa il contrario, non si azzardi più a pronunciare la parola sostenibilità



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8 novembre 2012

SULL'AMPLIAMENTO DELLO STEDELIJK MUSEUM DI AMSTERDAM

di Ettore Maria Mazzola

Recentemente mi è stato ironicamente segnalato un articolo, firmato da Manlio Lilli, pubblicato il 4 novembre u.s. sul sito www.linkiesta.it. Chi conosca il progetto non può evitare di rimanere perplesso leggendo il titolo di quell’articolo: “Ad Amsterdam, lo Stedelijk Museum si fa attendere. Ora sappiamo che ne valeva la pena”.
L’articolo, a mio avviso, parte molto bene, lamentando la cialtroneria degli italiani che non sono in grado di tenere aperti i musei, a differenza di ciò che avviene in altro Paesi dove, nonostante la penuria di opere d’arte rispetto al nostro, i musei e i siti vengono super valorizzati. Come non dar ragione all’autore, visto che i musei italiani, come tutto ciò che ha a che fare col turismo, dovrebbero darci da campare?

Prima di andare avanti col discorso, è bene sottolineare il fatto che l’autore sia un laureato in lettere con indirizzo archeologico e che, recita il suo profilo biografico, fa l’archeologo per scelta, provando a mangiare (poco, naturalmente) con la Cultura. L’autore è una persona di tutto rispetto. Infatti, a quanto si apprende nel profilo, ha pubblicato tre interessanti monografie su centri del Lazio antico, oltre a numerosi contributi sull’Italia antica in riviste di settore, e collabora con una serie di siti culturali sparsi nel web, tra cui Libertiamo, Linkiesta, Il Futurista e l’Istituto di Politica.

È quindi un peccato, e non riesco a capacitarmi del perché, in questo articolo, egli abbia dovuto scadere nell’ideologia. Infatti, piuttosto che limitarsi a dare un eventuale benvenuto ad un nuovo museo, limitandosi al fatto che una nuova collezione possa esser stata aggiunta ad una preesistente, (indipendentemente dal fatto che possa o meno quella collezione essere apprezzabile), l’articolo è stato utilizzato come il luogo per sfogare tutta la rabbia possibile nei confronti di un presunto immobilismo italiano nel produrre opere architettoniche moderniste … quasi che i deprecabili interventi che vanno dal Museo dell’Ara Pacis, al MAXXI, passando per il MACRO – solo per citare gli esempi romani più recenti – non fossero mai esistiti. In pratica, l’articolo sembra esser figlio di un incomprensibile complesso d’inferiorità culturale verso certe cose che si fanno all’estero, un complesso che in Italia, dato il nostro patrimonio, risulta del tutto fuori luogo, tranne che nella mentalità di un certo genere di architetti cresciuti a pane e modernismo.
Del museo si racconta che, grazie alla nuova realizzazione, è stato possibile ampliare la collezione con nuove acquisizioni come, l’installazione luminosa di Dan Flavin dedicata a Mondrian e il ritratto di Bin Laden di Marlene Dumas … Se fossi Romolo Prince del programma comico Colorado commenterei con un finto apprezzamento dicendo: con certe opere possiamo dire che i 127 milioni di euro, all’incirca 20 più del previsto, siano stati davvero spesi bene!! …. Ma che …. sto a dì, sto a scherzà!!

Questo genere di spese, per la realizzazione di un museo, ricordano molto da vicino i 160 mln di euro spesi per costruire il MAXXI di Roma, per il quale ne sono stati spesi altri 60 per acquisire opere orribili e fallimentari che, come c’era da immaginare, non hanno suscitato alcun interesse, portando la struttura, come già accaduto per il MACRO, al fallimento ed al cambio del direttore, come se il problema fosse il solo direttore del museo, e non la concezione ideologica che lo abbia generato, nonché il genere di “opere” ivi esposte.
Ovviamente, ciò che sfugge a chi se la prende con il presunto immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea, è il fatto che “Mamma Italia” abbia generosamente dirottato fondi destinati ad altri beni culturali, più redditizi in termini di turismo, per il salvataggio di quell’orribile capriccio modernista, inclusi i fondi che avrebbero potuto consentire di tenere aperti dei musei! Si rammenta che, per bocca del precedente direttore del MAXXI, il budget annuale per tenere in piedi quella struttura è di circa 75 mln di euro, a fronte delle pochissime presenze giornaliere!

Alla luce di questa cosa, c’è da chiedersi come, un “archeologo per scelta” – come usa definirsi l’autore dell’articolo – possa accettare che avvengano certi dirottamenti di fondi, e soprattutto, come egli possa usare l’esempio olandese per lamentarsi dell’immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea!
A quanto si apprende, la prima ragione dell’intervento sul preesistente Stedelijk Museum è stata la necessità di ampliare i suoi spazi espositivi. Ma anche di ripensarne il concetto. Pare che siano stati prima approvati e poi ripudiati ben due progetti (dei quali sarei davvero curioso di vedere come fossero concepiti … almeno in che modo si relazionassero con le preesistenze) poi, una volta fallita la prima impresa di costruzioni (cosa curiosa che meriterebbe qualche approfondimento), si è deciso di affidare l’incarico allo studio di architettura Benthem Crouwel di Amsterdam … a questo punto si è deciso di aggiungere e collegare al bell’edificio del 1895 un altro dalle linee moderne … (9000 mq aggiunti agli originari 10000!) evidentemente i titolari dello studio incaricato non potevano limitarsi a restare invisibili all’interno della struttura preesistente … agli architetti autocelebrativi è geneticamente impossibile evitare di mostrarsi violentemente al pubblico: è come se ad un pavone gli venisse impedito di fare la ruota!

Ecco quindi che – come nel caso del MAXXI nato senza una collezione da esporre – anche per lo Stedelijk è nata l’esigenza di “riempire il nuovo contenitore” con nuove collezioni … già, il contenitore, perché oggi il “museo”, tra gli adepti del modernismo, non si chiama più “museo”, ma “contenitore”! Riflettendo su questa “evoluzione semantica” viene da pensare che, quando si parla di “opere consumistiche usa e getta”, il termine più appropriato è effettivamente “contenitore” … chissà quindi se, tra non molto, questa costante evoluzione porterà a chiamarlo, per coerenza, “cassonetto”!

Sebbene la totalità degli abitanti non abbiano apprezzato affatto questo progetto, ribattezzandolo “la vasca da bagno”, a detta dell’autore dell’articolo, cito testualmente:

La gigantesca ala bianca disegnata dallo studio Benthem Crouwel, “immersa” nelle architetture storiche che la circondano, non sfigura. Tutt’altro. Il nuovo corpo dello Stedelijk, un gigantesco volume lungo cento metri e alto diciotto, anche cromaticamente “emerge”. Con il bianco del Twaron, la fibra sintetica che viene dall’aeronautica spaziale, e della fibra di carbonio Tenax”.
Sicché

Nel complesso va salutata con soddisfazione la nuova realizzazione. Che senza dubbio risponde all’esigenza “progressista” degli olandesi. Alla loro voglia di sentirsi al passo con i tempi. All’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia. Perché l’Olanda non è l’Italia”.

Ebbene, se queste sono le ragioni per cui dovremmo ritenere bello questo edificio, allora viva la bruttezza. Se l’Italia non è l’Olanda, allora viva l’Italia!!
A me questo museo, più che ricordarmi una “vasca da bagno” sembra un gigantesco “lavello da incasso per cucina”, o forse è un enorme “lavandino da barbiere” dove oltre ai capelli possa operarsi anche un lavaggio del cervello in nome del modernismo, che della modernità rappresenta la visione distorta.

 Personalmente penso che, prima di difendere l’indifendibile, sarebbe il caso di capire gli effetti collaterali di un certo tipo di “edilizia” (mi viene impossibile usare il termine “architettura” per certe cose), e mi fa specie che proprio un archeologo per scelta non se ne accorga.

Si rifletta sul fatto che, l’aver promosso questo modo di progettare e costruire anche in Italia, l’aver insegnato in maniera ideologica e monodirezionale, ha portato alla creazione di una massa di architetti che non sono assolutamente in grado di restaurare in maniera rispettosa il patrimonio storico! I crolli di Pompei e L’Aquila, ma anche quelli che di qui a breve rischiano di interessare sempre Pompei, ma anche Selinunte dovrebbero mettere in allarme chi vorrebbe “vivere di archeologia e cultura”. 


L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”rappresentative dell’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia” è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di Benthem Crouwel dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? e poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “falsi storici”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire anche in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio?

Viollet-Le-Duc, preoccupato per il modo dittatoriale in cui si insegnava l’architettura al tempo dell’Academie des Beaux Arts di Parigi, perché a suo avviso metteva a rischio il patrimonio architettonico medievale francese, a causa dell’assenza di conoscenze tecniche in materia, disse: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze” (...) “dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; (…) e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?”.


Senza ombra di dubbio noi potremmo dire esattamente oggi le stesse cose relativamente ai danni culturali prodotti da una maniera del tutto distorta di guardare alla modernità (modernismo) e, soprattutto, di insegnare l’architettura in nome di un complesso di inferiorità culturale che non ci appartiene.
Osannare progetti come quello in oggetto, e criticare la nostra presunta limitata apertura al contemporaneo – specie da parte di chi, per scelta professionale, dovrebbe mirare alla tutela più assoluta del nostro retaggio culturale – equivale dunque all’auspicare la distruzione del nostro patrimonio … un po’ come quel marito che, per far dispetto alla moglie prese una decisione autolesionista alquanto discutibile!



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5 novembre 2012

PALAZZO SULLA FONTE: NO AL FALSO STORICO

Pubblico il commento al post precedente inviatomi dall'amico Franco Lani, Progettista e Direttore dei Lavori della ricostruzione del Palazzo sulla Fonte, a nome anche degli altri progettisti prof. Arch. Andrea Branzi e Arch. Antonio Bigi.
A fine commento un elenco incompleto di post correlati al "falso storico"

A Giulio Rupi

Di solito evito di polemizzare sull’architettura e specialmente on-line, per tanti motivi ma principalmente perché credo che qualsiasi produzione artistica (com’è anche l’architettura) debba essere considerata “opera aperta” (Umberto Eco) e che quindi ognuno ha il diritto di dialogare con essa a suo piacimento e di fare le considerazioni secondo le proprie sensibilità …..

Andrea Branzi

Ho pensato però che Giulio meritasse una risposta (che egli stesso chiede), non solo perché è un carissimo amico che stimo profondamente, ma per fargli presente che, in questo caso, ha di gran lunga frainteso le nostre intenzioni. Se avesse visto forse il progetto completo e non si fosse soffermato esclusivamente sulla “risega”, non avrebbe espresso questo giudizio ed avrebbe compreso ( anche se magari non apprezzato) il nostro intendimento.

Brevemente: mai e da nessuno di noi progettisti è stata pensata questa piccola discontinuità (circa 6 cm) delle pareti della ricostruzione rispetto all’esistente per “dare ….dignità di fatto storico alla bomba…”, ma, insieme ad altri accorgimenti quali: un intonaco diverso da quello dell’edificio superstite, un sottotono di colore, la previsione d’infissi esterni ad un’anta-ribalta in bronzo, ecc…, si vuole sottolineare semplicemente che questa parte dell’isolato non è coeva all’esistente.
Invece di riproporre cioè una ricostruzione-copia perfetta dell’edificio distrutto (anche se lo potevamo fare perché in possesso di foto e disegni antecedenti il bombardamento) abbiamo optato per una soluzione che, com’è stata definita dalla Commissione d’esperti del Ministero della Cultura, “ denunciasse garbatamente l’avvenuta ricostruzione mediante un consapevole intervento moderno, dove l’identificazione con il passato resta essenzialmente legata alla volumetria , all’articolazione dei prospetti e al modo di trattare le superfici……”.

Non si tratta quindi di aver voluto storicizzare drammaticamente l’evento distruttivo (come invece è stato fatto nella ricostruzione dei palazzo dei Georgofili a Firenze) ma non abbiamo però voluto aggiungere al nostro centro storico un ulteriore falso architettonico come successo ampiamente nei primi decenni del ‘900 su buona parte di esso tant’è che oggi d’autentico medioevale ha ben poco. Ci siamo in sostanza avvalsi della metodologia corrente nel restauro e ricostruzione delle opere d’arte (vedi il restauro degli affreschi di Piero o il recupero di bassorilievi o la ricomposizione dei reperti di vasellame) laddove si ricostruiscono e definiscono i volumi, le superfici e i colori delle parti mancanti tralasciando la definizione dei dettagli anche se conosciuti.

Vorrei infine tranquillizzare il simpatico Ettore Maria, che non ho il piacere di conoscere, ricordandogli che l’età di noi progettisti è tale da rendere improbabili “riseghe” ancorché “mentali”.

Franco Lani


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