Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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29 novembre 2012

VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA

di Pietro Pagliardini

Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.


La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.

Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.

Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.
Ma non era Bruno Zevi a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.

La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del Guggenheim di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.

La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.

Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.

Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.

A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per Zaha Hadid.
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di Fuksas, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare Fuksas per abbassare la Hadid già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.

Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.

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17 marzo 2008

LE PERIFERIE URBANE, UN FALLIMENTO EPOCALE

di Giulio Rupi

Bruciano le periferie di Parigi, ma anche in Italia c’è chi lancia l’allarme e teme analoghe reazioni di fronte al degrado delle nostre città: ecco allora che, inevitabilmente, insieme alle considerazioni sugli aspetti sociali del problema, tra le cause del malessere urbano si tirano in ballo anche gli aspetti materiali, cioè la conformazione fisica delle nostre periferie e le colpe di chi le ha così progettate.

Chi scrive si è confrontato fin dagli anni 60 con i molteplici fattori che hanno determinato il processo di costruzione delle città: l’insegnamento della progettazione urbanistica e architettonica nell’Università, una nutrita successione di leggi in materia di Urbanistica e di Edilizia Pubblica, il dibattito nazionale e internazionale degli addetti ai lavori, dal Modern al Postmodern alle polemiche sui “Maledetti Architetti”.
Ne ha tratto la convinzione che “tutto si tiene”, cioè che le teorizzazioni del Movimento Moderno, l’insegnamento del mestiere di progettista nelle scuole secondarie come nelle facoltà universitarie, la conduzione delle riviste specializzate, le scelte dei concorsi di Architettura, la mentalità dei funzionari pubblici, l’elaborazione delle leggi di settore e la loro applicazione nella costruzione della città, fossero tutti aspetti assolutamente correlati e consequenziali di un unico sistema culturale, forte e coerente, tuttora egemonico.
Di conseguenza pare improbabile che si possa far fronte al fallimento epocale nella costruzione delle periferie urbane utilizzando gli strumenti culturali di sempre, senza ripensare a fondo le teorizzazioni e i luoghi comuni che sono alla base di questo fallimento e che tuttavia si danno tuttora per scontati.
Eccoci allora ad enumerare alcuni degli aspetti di questo pensiero unico che “da sempre” hanno presieduto alla costruzione della città.
La distruzione dello spazio urbano da spazio interno a spazio esterno: dagli “interni” delle piazze e delle strade dei centri antichi alla “Ville radieuse” degli edifici isolati in mezzo alla Natura. Le Corbusier disse testualmente (e coerentemente, dal suo punto di vista) che bisognava “distruggere i Centri Storici delle città europee” e realizzò quella “Unité d’abitation” che nella sua forza teorica è paradigma e premonizione di quello che sarebbe poi successo in tutte le periferie del Mondo.
Lo spazio urbano non è più un interno, quasi un prolungamento dell’abitazione, uno spazio amichevole di strade delimitate da edifici e di piazze come “salotti”: si sfrangia e diviene un esterno, un vuoto popolato di edifici isolati: questo è voluto e teorizzato, è coerente con quel pensiero unico.
Le architetture divengono così monumenti isolati. In uno spazio di questo tipo ogni episodio architettonico è un monumento. Non si crea più un tessuto urbano di strade e di piazze, ma una serie di episodi architettonici in uno spazio non più strutturato. E’ voluto e teorizzato: in qualsiasi concorso vincerà tuttora non chi cerca umilmente di ricreare uno spazio urbano ma chi esibisce il suo particolare monumento di architettura.
Così l’Architetto diviene “Artista”, si distrugge ogni continuità con il passato, ogni regola d’arte trasmissibile e le Università sfornano ogni anno migliaia di progettisti che si affacciano al lavoro, ognuno con l’intenzione di diventare “un grande Architetto” e mettere la propria indelebile firma sul territorio liberando la propria disinibita fantasia di Artista.
L’abitazione, o meglio “la casa”, il luogo della famiglia, il luogo in cui si costituisce l’autonomia dell’individuo, diviene “macchina per abitare”, diviene “un servizio” per il cittadino, privo di ogni valore simbolico.
Così negli anni 70 si promulgano leggi per l’edilizia popolare che fissano parametri su parametri e costringono sia ad una progettazione omologata (i “quartieri della 457” tutti uguali e riconoscibili in qualsiasi città d’Italia) sia a scelte tecniche di bassa qualità, che portano gli edifici a un degrado veloce. E su questa filosofia si è teorizzata e praticata la cosiddetta “industrializzazione edilizia”, che funziona solo su interventi di grande dimensione e con progettazioni ossessivamente omologate.
Parallelamente a questo tutto il sistema si evolve in maniera che i meccanismi, le strutture che presiedono alla costruzione della città debbano accrescersi in dimensione e complessità.
Chi ha fin dagli anni 60 partecipato alla costruzione di case in cooperativa sa che in quegli anni le cooperative erano ancora costituite dagli stessi utenti finali che si costruivano l’alloggio “in prima persona”. In seguito, per la promulgazione di una serie di leggi sulle assegnazioni e sui finanziamenti, la gestione è passata a strutture di livello superiore, più grandi e complesse, ed oggi l’utente della cooperativa non differisce di molto da un qualsiasi acquirente del mercato privato. Così si è interrotto il confronto tra i progettisti e i cittadini, che era un tempo la caratteristica della cooperazione.
Perché infatti fondamentale e comune a tutte le diverse facce di questo unico problema è il rapporto paternalistico nei confronti dell’utente che è sotteso a questo sistema culturale. Mentre per chi progetta un’automobile è fondamentale il gradimento finale dell’utente, per chi progetta la città è del tutto indifferente la verifica finale dei “consumatori”, il cosiddetto “successo di pubblico”. Vale solo il consenso interno a questo sistema, costruito sulle riviste specializzate, sulle cattedre universitarie e sui concorsi di progettazione.
Resta il fatto che l’altra faccia di questa medaglia, cioè dell’indifferenza alle reazioni dei consumatori, è proprio il degrado e l’esplosione delle periferie.
Così è più facile risanare con urbanizzazioni e servizi i quartieri abusivi costruiti in proprio dalla gente secondo un qualche criterio spontaneo, piuttosto che por mano alla riqualificazione di alcune tristemente famose macrostrutture, i cosiddetti “mostri” realizzati nei PEEP dalla mano pubblica e subito rifiutati dalla gente che li ha condannati a un veloce degrado. Per questi edifici l’unica soluzione rimane la demolizione.
Ma allora, se “tutto si tiene”, se cioè questo sistema culturale assolutamente coerente e inattaccabile (non c’è a tutt’oggi concorso in cui possa prevalere un progetto ideologicamente estraneo a questo sistema) ha governato fin qui la costruzione della città ed ha prodotto questi risultati, come si può far conto che dal suo interno sorga la soluzione del problema, se non ci sarà prima un “cambio di paradigma” che ne rimetta in discussione tutte le premesse?
Un filo di speranza viene dagli Stati Uniti, dove si va facendo strada la corrente del “New Urbanism”, un movimento che, partendo dalla constatazione del fallimento della città americana costruita sulle teorizzazioni del Modernismo, ne ha rimesso in discussione tutti i postulati e guarda ai valori urbani dei Centri Storici europei. Così noi Europei rischiamo di attardarci nell’ultimo degli ismi sopravvissuti, il Modernismo in Architettura, mentre altri si ispirano per il loro futuro proprio a quei meravigliosi spazi urbani che la nostra cultura ha saputo costruire in passato.

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