Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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18 agosto 2010

STRADE - 1°: PALLADIO E JANE JACOBS

Ho messo insieme, senza alcuna pretesa scientifica, brani di autori di ogni epoca sul tema che io ritengo il più importante per la città: la strada.
E’ il più importante in assoluto ma lo è anche, e a maggior ragione oggi, per motivi contingenti, dopo che Le Corbusier ha teorizzato e decretato, riuscendo perfettamente nel suo intento, di distruggere, eliminare, annientare quella che è il primo elemento che costituisce la trama urbana, cioè la strada. Ci è riuscito così bene nel suo intento che questo argomento è, salvo eccezioni, completamente dimenticato da urbanisti e architetti, limitandosi al massimo a opere di arredo urbano e design, spesso di pessima fattura.
Sono convinto, invece, che non potrà esserci alcuna rigenerazione urbana e non potrà esserci più la città se l’urbanistica non ripartirà proprio dalla strada.
Questo è il primo di una serie post in cui riporto due stralci di testi lontani tra loro nel tempo e soprattutto diversi per l'appartenere uno all’architetto per eccellenza, Andrea Palladio (1508-1580), l’altro ad una giornalista-antropologa con un grande interesse per la città, e per le strade in particolare, Jane Jacobs (1916-2006). L’abbinamento è dettato, in questo caso, solo dalla totale diversità dei soggetti ma nei prossimi post altri potranno essere i criteri.



PALLADIO III LIBRO

DEL COMPARTIMENTO DELLE VIE, 
dentro la città Cap. II.

Nel compartir le vie dentro la Città si deve haver riguardo alle temperie dell'Aere, e alla Regione del Cielo, sotto la quale saranno situate le Città. Percioche in quelle di Aria frigida, o temperata, si devranno far le strade ampie, e larghe, conciosiache dalla loro larghezza ne sia per riuscir la città più sana, più commoda, e più bella: essendo che quanto meno sottile, e quanto più aperto vien l'Aere, tanto meno offende la testa; per il che quanto più sarà la città in luogo frigido, e di aria sottile, e si faranno in quella gli edifici molto alti, tanto più si dovranno far le strade larghe, acciò che possano essere visitate dal sole in ciascuna lor parte. Quanto alla commodità non è dubbio, che potendosi nelle larghe molto meglio che nelle strette darsi luogo gli huomini, i giumenti, e i carri, non siano quelle molto più commode di queste: e è eziandio manifesto, che per abbondar nelle larghe maggior lume, e per esser ancora l'una banda dall'altra sua opposita manco occupata; si può nelle larghe considerar la vaghezza de' Tempi, e de' palagi: onde se ne riceve maggior contento, e la città ne diviene più ornata. Ma essendo la Città in regione calda, si devono far le sue vie strette, e i casamenti alti: acciò che con l'ombra loro, e con la strettezza delle vie si contemperi la calidità del sito, per la qual cosa ne seguiterà più sanità: il che si conosce con l'esempio di Roma, la quale (come si legge appresso Cornelio Tacito) divenne più calda, e men sana, poi che Nerone per farla bella, allargò le strade sue. Nondimeno in tal caso per maggior ornamento, e commodo delle Città si deve fare la strada più frequentata dalle principali arti, e da passaggieri forestieri, larga, e ornata di magnifiche, e superbe fabriche, conciosiache i forestieri, che per quella passeranno, si daranno facilmente à credere, che alla larghezza, e bellezza sua corrispondino anco le altre strade della Città. Le vie principali, che militari havemo nomate; si deono nelle Città compartire, che caminino diritte, e vadino dalle porte della Città per retta linea a riferire alla piazza maggiore, e principale, e alcuna volta ancho (essendone ciò dal sito concesso) conduchino cosi diritte sino alla porta opposita: e secondo la grandezza della Città si faranno per la medesima linea di tali strade, tra la detta piazza principale, e alcuna, qual si voglia delle porte; una, o più piazze alquanto minori della detta sua principale. L'altre strade ancor elle si deono far riferire le più nobili non solo alla principal piazza, ma ancora a i più degni Tempi, palagi, portici, e altre publiche fabriche.

Nota: Ho lasciato il testo in originale salvo la grafia delle lettere s e v per renderlo più scorrevole nella lettura.




Per essere in grado di accogliere di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve avere tre qualità principali:
1. Dev’esserci una netta separazione tra spazi pubblici e spazi privati; lo spazio pubblico e quello privato non devono essere compenetrati, come in genere avviene negli insediamenti suburbani o nei complessi edilizi.
2. La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati cechi.
3. I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata. [Omissis]

Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi,i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi. Omissis
L’idea stessa di eliminare per quanto è possibile le strade urbane, di degradare e minimizzare il ruolo sociale ed economico che esse hanno nella vita cittadina, è la più pericolosa e deleteria invenzione dell’urbanistica ortodossa.

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21 ottobre 2008

MANCANZA DI FORMA

Pietro Pagliardini

Storie Parallele: un altro testo di Vilma Torselli su Artonweb. Un’altra riflessione provocante, graffiante e lievemente amara che spiega molto ma non trae conclusioni e che finisce con un Perché? In neretto.
Il tema è la relazione tra la cultura ebraica e l’arte e l’architettura dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi. Alcuni passi significativi:
"Non è un caso che il logos sia alla base della cultura di matrice ebraica aniconica e iconoclasta, in opposizione a morphè, ciò che “la nostra infanzia greca” indica come forma sensibile, come modo di essere o di apparire, e non è un caso che sia l’espressionismo astratto che il decostruttivismo mettano in crisi proprio il concetto di forma.

Anche da un'analisi superficiale non è difficile individuare in certe scelte progettuali di Daniel Libeskind una relazione con i grandi vuoti mistici delle tele di Mark Rothko, nella fluida casualità dell’architettura gestuale di Frank Gehry una stretta corrispondenza con la deregolata soggettività espressiva dell’action painting di Jackson Pollock o con la casualità amebica delle forme liquide di William Baziotes. In tutti i casi ciò che viene messo in gioco e che brilla per la sua assenza è la forma.
Questa convergenza programmatica tra le due correnti è l’aspetto più interessante e più decisivo per legarle sotto una stessa chiave di lettura."


E conclude così:

"E la perdita del senso dei luoghi e delle cose, del loro orientamento, spaziale e simbolico, l’opposizione alla loro riconoscibilità ha come esito la distruzione del senso di appartenenza (ad una comunità, ad un’etnia o semplicemente alla specie umana).
Se questo vuol fare e fa l’architettura decostruttivista, ammesso che ciò che ho scritto ne riassuma il senso, resta comunque da scoprirne il motivo.
Perché?"


Una domanda che non aspetta una improbabile risposta conclusiva quanto una serie di risposte tutte parzialmente vere e perciò tutte parzialmente false.

La voglia di rispondere è stata forte da subito e ho cominciato a documentarmi. E’ incredibile quante cose si riescano a trovare di un argomento quanto l’argomento improvvisamente si presenta come se fosse nuovo. Tutto è già stato trattato, tutto è già stato discusso, sviscerato, approfondito.

A questo proposito consiglio questi link illuminanti e profondi:
http://www.area-arch.it/home.php?_idnodo=172394
http://www.chiweb.net/shenkar2.html
e tutte le interviste di Nadine Shenkar che vi sono nel sito.

Ma la risposta qual'è?

Rispondere vorrebbe dire cadere in una trappola, almeno per me, che mi sono ottusamente proposto di parlare, divulgare (parola grossa), parteggiare per l’architettura umana, tradizionale, classica.

Rispondere vorrebbe dire raccogliere una sfida e cominciare un dialogo; e dialogare è una condizione che ti avvicina agli altri e avvicinarsi agli altri vuol dire “mettersi nei panni di” altri e perdere qualcosa di te acquistando qualcosa dagli altri.

Ma per dialogare occorrono condizioni di parità. Ma gli altri sono troppo forti perché vi possa essere un dialogo. Sarebbe come dialogare tra schiavi e padroni.

Che dialogo può esserci tra schiavi e padroni!

Che dialogo può esserci con chi detiene il potere, tutto il potere, economico, editoriale, culturale, massmediologico, industriale, di marketing!

Che dialogo può esserci tra coloro che parlano a se stessi e coloro che vorrebbero parlare alla gente!

E allora, pur decidendo di continuare ad approfondire e cercare di capire, ho deciso di non provare nemmeno di tentare di dare una risposta al Perché?.

Perché? Perché il mio scopo è semplice, banale, da tutti comprensibile anche se non condiviso: io credo, anzi so, che l’uomo ha bisogno di città che diano il “senso di appartenenza”, di edifici che abbiano una forma che sia una figura e in cui l’uomo si possa riconoscere e che possa riconoscere come la propria “casa” (home e non house).

E allora all’instabilità, alla mancanza di forma, alla inutilità e provvisorietà del decostruttivismo non rispondo con parole mie ma con queste:
Devesi, avanti che a fabricar si cominci, diligentemente considerare ciascuna parte della pianta, e impiedi della fabrica che si ha da fare. Tre cose in ciascuna fabrica (come dice Vitruvio) devono considerarsi, senza le quali niuno edificio meriterà esser lodato; e queste sono, l'utile, o commodità, la perpetuità, e la bellezza: perciocché non si potrebbe chiamare perfetta quell'opera, che utile fusse, ma per poco tempo; ovvero che per molto non fusse comoda; ovvero c’havendo amendue queste, niuna grazia poi in se contenesse.

La
commodità si havrà, quando a ciascun membro sarà dato luogo atto, sito accommodato, non minore che la dignità si ricchiegga, ne maggiore che l'uso si ricerchi: e sarà posto in luogo proprio, cioè quando le Loggie, le Sale, le Stanze, le Cantine, e i Granari saranno posti ai luoghi loro convenevoli.

Alla
perpetuità si havrà riguardo, quando tutti i muri saranno diritti a piombo, più grossi nella parte di sotto, che in quella di sopra, e haveranno buone, e sofficienti le fondamenta: e oltre a ciò, le colonne di sopra saranno al dritto di quelle di sotto, e tutti i fori, come usci e fenestre saranno uno sopra l'altro: onde il pieno venga sopra il pieno, e il voto sopra il voto.

La
bellezza risulterà dalla bella forma, e dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: conciossiaché gli edificij habbiano da parere uno intiero, e ben finito corpo: nel quale l'un membro all'altro convenga, e tutte le membra siano necessarie a quello, che si vuol fare.

Considerate queste cose, nel disegno, e nel Modello, si deve fare diligentemente il conto di tutta la spesa, che vi può andare: e fare a tempo provisione del danaro, e apparecchiare la materia, che parerà far di mestieri; acciocché edificando, non manchi alcuna cosa, che impedisca il compimento dell'opera, essendo che non picciola lode sia dell'edificatore, e non mediocre utilità a tutta la fabrica; se con la debita prestezza vien fornita, e che tutti i muri ad egual segno tirati; egualmente calino: onde non facciano quelle fessure, che si sogliono vedere nelle fabriche in diversi tempi, e inegualmente condotte al fine.

Andrea Palladio, dal 1° Libro dell’Architettura, Capitolo I



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24 settembre 2008

STRANI ABUSI E SUPERFLUE SPESE

di Francesco Gazzabin

.....strani abusi, le superflue spese......
Andrea Palladio
(dal Proemio al libro I dell’Architettura)

STRANI ABUSI....
Sembra un’espressione contemporanea, una riflessione fatta da quei cittadini che, di fronte ad una delle tante “trovate” architettoniche celebrative dell’estro e della capacità creativa dell’archistar di turno chiamata dalla solita amministrazione comunale per sponsorizzare nel mondo l'immagine di modernità della propria città,

non riescono a comprendere il perché di una simile scelta progettuale, il perché di forme e stranezze stilistiche, veri e propri abusi nei loro confronti, e che dovranno subire quotidianamente ed anche economicamente, visto che la maggior parte delle volte si scopre che il relativo costo di costruzione è andato lievitando nel passaggio dal preventivo al consuntivo.

....E SUPERFLUE SPESE

… e invece no, è un’espressione vecchia alcune centinaia di anni, di quel noto personaggio che al suo tempo era considerato un innovatore, nel metodo progettuale e soprattutto nella forma la quale nasce sempre dallo studio del passato, fonte inesauribile di stili ed elementi architettonici.

Al “Tagliapietre” Andrea Palladio, persona evidentemente dotata di grande senso pratico, attento conoscitore dei materiali da costruzione e del buon uso che se ne poteva fare, dovettero sembrare quanto meno “inconsueti” quegli edifici nei quali alcuni elementi architettonici erano costruiti con materiali non idonei all’uso e che costituivano perciò uno spreco di denaro; anche oggi spendere soldi per realizzare opere non idonee all’uso e facendo largo uso di prodotti “sperimentali”, ad alcuni potrebbe sembrare uno spreco, specie se i soldi sono pubblici.

Abusi?

Usando oggi il termine abuso, naturalmente in ambito edilizio, ci si riferisce a fabbricati o a qualsivoglia architettura realizzata in assenza o difformità da titoli autorizzativi rilasciati dalle autorità competenti in materia.
Anche al tempo di Palladio esistevano norme e statuti che, in vari modi, regolamentavano l’attività edilizia, ma certamente quando l’Architetto parlava di abusi si riferiva al cattivo uso degli elementi architettonici e non certo alla veranda del sig.Rossi.

Parliamo allora dei veri abusi edilizi cntemporanei, sicuramente lontani, non solo nel tempo, da quelli visti dal Palladio; parliamo di quelle mostruose “macchine”, estranee ad ogni contesto, oggetti inclassificabili dove la regola è la sregolatezza, dove il principio ispiratore è solo nella testa (o nella mano) di chi l’ha pensato, lo stesso principio che ispira un qualsiasi pittore dell’astratto che nei suoi quadri traduce le proprie emozioni in segni e colori non codificabili o meglio traducibili in parole soltanto da chi voglia dare ad ogni costo un significato alla sua fantasia.

Abusare!

Tutto ciò non significa forse abusare, nel senso di commettere abuso sul comune cittadino costretto a subire l’ingombrante presenza di oggetti realizzati in deroga ad ogni regola (del buon costruire) e regolamento (strumento edilizio/urbanistico)? Proprio quello stesso cittadino che forse una volta si è anche visto negare da una commissione edilizia o da una Soprintendenza l’autorizzazione ad aprire una finestra, piuttosto che cambiare un infisso, in nome del rispetto delle norme e del decoro degli edifici e dell'attenzione verso l'ambiente circostante?

Certo, anche un quadro o una scultura possono essere considerati abusi, se offendono la vista di alcuni, ma, dato il loro essere oggetti mobili, diversamente dagli immobili, essi possono essere accolti all’interno degli edifici ed essere “goduti” da chi ne ha voglia e soprattutto senza alcuna costrizione, come avviene invece con gli edifici che, pur privati, si rivolgono e parlano sempre (urlano talora) ad uno spazio pubblico.

Una torre sbilenca o contorta (al tempo del Palladio il termine grattacielo poteva forse essere appellativo di persona un po’ squilibrata) di decine e decine di metri, un ponte di acciaio e gradini di vetro la cui bellezza è pari soltanto alla sua inutilità, una pensilina, o forse sarebbe meglio chiamarla pensilona data la stazza, rimarranno invece lì, ingombranti testimoni della "grandezza" dei loro progettisti e ricordati soltanto con il nome del loro autore: la Torre di Caio, la Sfera di Sempronio e non come succede con la maggioranza delle architetture classiche di tutti i tempi che, nonostante siano state progettate da illustri architetti, vengono chiamate con il nome del loro committente o con quello del santo cui sono dedicate o ancora con il nome del luogo nel quale furono erette: Palazzo Farnese, Cappella Pazzi, Duomo di Santa Maria del Fiore, Castel del Monte.

La Basilica di Santa Croce a Lecce, mia città di origine, è stata realizzata su disegno del celebre architetto Giuseppe Zimbalo eppure non viene certo ricordata come la Basilica di Zimbalo, bensì come capolavoro del barocco; la chiesa di Santo Spirito a Firenze, come è noto, fu realizzata su disegno di Filippo Brunelleschi, ma non mi sembra che sia chiamata da qualcuno la chiesa del Brunelleschi. La cupola del Duomo di Firenze, quella sì è la "cupola del Brunelleschi" per la travagliata  storia con cui è nata, per la sua spregiudicatezza tecnica  e perché è la consacrazione del genio del suo autore. Ma quanti geni ci sono in architettura?

Ma in fondo è giusto così, è giusto che si ricordino le opere contemporanee moderniste col nome del loro artefice. Sarà utile infatti, non riuscendo a capirle o meglio a classificarle, associarle ad un nome, dal momento che tra 100 o 200 anni non credo si potrà associarle ad altro.

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