Pietro Pagliardini
Il titolo non è mio ma è quello del nuovo libro di Marco Romano che consiglio vivamente di leggere con animo sgombro da pregiudizi. E’ un libro disinibito, dissacrante, libertario, liberatorio e perfino libertino, tanto è anti-moralista e quindi controcorrente in questa fase della nostra storia così grevemente moralista e giacobina, e lo è con spirito leggero e divertito. Leggendolo viene da immaginarsi la sottile e irridente perfidia dell’autore nello scrivere quelle parti più politicamente scorrette, col gusto per la provocazione intellettuale che ci ha messo, ben sapendo che sarebbe stato sottoposto alle critiche più feroci. Probabilmente andando volontariamente a sollecitarle.
Ma detto questo, il libro è serio, anzi serissimo, fondato sulla profonda conoscenza non solo delle città ma della storia e delle sue pieghe più nascoste, quasi da erudito topo di biblioteca.
Il contenuto è letteralmente politico perché affronta il tema città dal punto di vista della civitas, cioè dei cittadini, ribaltando completamente la visuale rispetto a quella che è la regola generale da sempre: la città europea come noi la conosciamo e come a noi è giunta, è il frutto dell’opera dell’uomo da mille anni a questa parte ed è cresciuta e si è trasformata guidata da una precisa volontà estetica non imposta dall’alto bensì cresciuta in un clima di democrazia e libertà, e quindi il metro con cui leggerla e giudicarla è l’uomo stesso in quanto cittadino, senza divinizzare i manufatti se non in funzione del soddisfacimento dei desideri, oltre che dei bisogni, dell’uomo in quanto appartenente alla civitas. Il valore simbolico dei temi collettivi e dei temi individuali trova la sua ragion d’essere nell’essere stati scelti come tali dai cittadini con l’intento di rendere più bella l’urbs.
Da questo assunto storico, che fa perno sul diritto di cittadinanza garantito dal possesso di una casa, le cui origini Romano spiega con dovizia di particolari, nasce Liberi di costruire, che va preso proprio in senso letterale, almeno di primo acchito, per entrare dentro l’argomento, salvo poi riportarlo entro l’alveo delle regole le quali però hanno sempre come faro il rispetto del diritto dei cittadini a costruirsi una casa secondo le aspettative e le possibilità di ciascuno.
Le regole infatti sono informate, riprendendo quello che sempre l’autore ha sostenuto, dal principio di garantire un godimento della città il più possibile egualitario, a prescindere dalle possibilità economiche dei singoli. Ciò può avvenire, secondo Romano, disegnando piani regolatori che non pongano limiti quantitativi al “dimensionamento” del piano (immagino i funzionari-urbanisti della Regione Toscana saltare sulla seggiola alla lettura di questa parte, ammesso che non sia già messo all’indice e che tutti i dipendenti non vengano perquisiti per evitare che il virus si diffonda), strutturati con rete stradale costituita da boulevard e viali che partano dal centro della città o comunque da luoghi centrali, affinchè la città sia una presenza per tutti gli isolati che affacciano su di essi e per tutte le case allineate lungo le strade, creando così una condizione tale per cui, anche chi non può permettersi di abitare in centro, abbia la percezione fisica di essere comunque parte integrante di quella civitas. E’ la visione tradizionale che Marco Romano ha del disegno della città, che in questo libro si evolve e si arricchisce di indicazioni politiche più ampie.
Leggiamo i titoli dei capitoli che lo compongono:
-Il cittadino europeo e la sua casa
- Limiti alla libertà di costruire
- La democrazia della civitas e la bellezza dell’urbs
- Che fare?
- Liberarsi dalle commissioni edilizie
- Liberarsi dalle norme edilizie
- Una libera casa di vacanza
- Liberiamoci dallo Stato.
Come si capisce, questo è un libro sulla libertà, che non va considerata in alcun modo anarchia o scambiata, ancora peggio, per una bieca visione speculativa, perché Romano non solo non rifiuta l’idea di progetto della città, ma anzi auspica un ritorno al piano disegnato, al piano all’antica, contro la pratica della pianificazione come fonte di corruzione:
“E su questo terreno incerto [cioè sulle infinite regole scritte da presunti esperti, Ndr] serpeggia un’endemica corruzione, che non va fatta risalire alla disonestà dei singoli – spesso coperti dai partiti – ma alle stesse procedure della pianificazione: una corruzione che i piani regolatori correnti fino a mezzo secolo fa, con le loro strade tracciate seguendo un’indiscutibile coerenza d’insieme e con una semplice norma regolativa dell’edificabilità, rendevano minima (...)
E se dobbiamo oggi levare una bandiera di difesa della libertà del cittadino nella propria casa, alla nostra generazione toccherebbe abolire subito tutte le norme che concernono il suo interno, dove ciascuno dovrebbe essere libero di ridurre l’altezza dei locali ai quei 2,26 metri che Le Corbusier considerava il modulo perfetto –o beninteso a qualsiasi misura ciascuno creda migliore – di scegliere la dimensione delle stanze, dei corridoi, dei bagni e di quant’altro giudichi confacente alla sua personalità, di decidere se e come illuminarli o arearli, e chissà che una casa senza finestre non faccia riparo alle crescenti polveri inquinanti sparse nell’aria cittadina. (…) La vera difficoltà che incontra questa proposta non è tanto quella concettuale, perché tutti dovrebbero convenire su quanto sia connaturata a una società libera la libertà di conformare la propria casa secondo i propri desideri e non secondo le arbitrarie prescrizioni di quegli esperti che i principi totalitari infiltrati tra noi hanno legittimato, quanto dal semplice fatto che a controllare il rispetto di codeste norme sono impegnati gli uffici tecnici dei Comuni, che spesso non saprebbero a cos’altro venire destinati. Ma se il governo di questo paese vorrà seriamente impegnarsi nella spending review ecco un campo dove il taglio non soltanto sarebbe indolore ma verrebbe salutato con vero entusiasmo da quanti sono quotidianamente impegnati – gli architetti e i loro clienti – ad aggirare queste assurde disposizioni spesso con umilianti sotterfugi: gli attentati alla nostra libertà evocano in ogni campo un popolo di abusivi, e le quotidiane e innocue trasgressioni alle norme più stravaganti consolidano la convinzione che tutte le norme siano di fatto trasgredibili”.
Come si capisce bene, il gusto del paradosso, accompagnato da osservazioni assolutamente vere e a tutti note, serve a provocare una reazione forte nel lettore, a dare una scossa al torpore, al massimo all’indignazione, con cui oramai subiamo ogni tipo di assurde e inutili vessazioni.
Ma allora, c’è un limite alla libertà del cittadino? Il limite c’è e “la civitas è legittimata a porre limiti soltanto quando viene intaccata la sua sfera simbolica, e la sua sfera simbolica non è un campo aperto alle coercizioni dei pianificatori ma può essere soltanto quella sedimentata nei secoli dalla sua democrazia e dalla sua libertà”. La sfera simbolica è, secondo Romano, lo spazio pubblico con i suoi temi collettivi.
Sull’architettura, sulla forma che le abitazioni potrebbero avere, Romano pensa che: “E’ vero che la tradizione moderna pretende che l’architettura abbia il dovere morale di rispecchiare nei suoi progetti il linguaggio estetico appropriato ai tempi nuovi, quello di Gropius e di Le Corbusier, e non di replicare gli stili del passato, ma questa pretesa è anch’essa riconducibile ai principi di una pianificazione che pretende di formare un uomo nuovo piuttosto che soddisfare i bisogni degli uomini in carne e ossa; e se qualcuno tra costoro crederà di essere felice in un paese costruito con un aspetto antiquario è legittimo che trovi un architetto capace di disegnarlo – speriamo con un disegno più sapiente di quello corrente degli outlet , un disegno che del resto va già in qualche caso comparendo – ed è anche legittimo che codesto architetto non debba avvertire alcun senso di colpa per questa sua rara capacità”.
Molti altri sono i temi di grande interesse affrontati da Marco Romano, che conclude il suo libro con una intrigante, anche se di difficile architettura istituzionale, proposta di una Europa delle città, anziché quella di una Europa delle nazioni, sempre fondata su argomentazioni e interpretazioni storiche non certo estemporanee. Questo è il senso del titolo dell’ultimo capitolo, Liberiamoci dallo Stato, non quello di un grido anarchico o di un becero lassismo come qualcuno certamente penserà.
Un libro i cui assunti non tutti possono essere condivisi e tanto meno che se ne ritenga possibile la facile attuazione, ma che tuttavia riporta tutta la materia della città e dell’architettura alla sua fonte originaria, cioè l’uomo come cittadino parte della civitas con i suoi desideri e i suoi bisogni, sottraendo l’urbs alle grinfie dei presunti esperti. Chi mi ha letto un po’ sul blog sa che ho sempre sostenuto che per ridare legittimità all’architettura non c’è altra strada che rimetterla al giudizio dei cittadini. Forse è questa l’unica vera “terza via”, vale a dire quella di tornare alla prima.
7 aprile 2013
LIBERI DI COSTRUIRE
21 agosto 2012
LEONARDO BENEVOLO E LA CITTA' DEL MOVIMENTO MODERNO
Da Leonardo Benevolo, La città nella storia europea,Edizioni Laterza, 1993.
I grassetti sono i miei, i corsivi dell’autore:
“L’invenzione di una nuova città
…Nei primi due decenni del ‘900 [queste] due linee di esperienze si incontrano. Infatti:
- La ricerca artistica smaltisce, nella sua accelerazione, tutto il repertorio delle forme accumulate in passato, e arriva alla “parete nuda” (Kandisky), disponibile per un’invenzione totalmente nuova;
- La sperimentazione concreta, ingrandendo la scala degli interventi pubblici sussidiari e sperimentali – i quartieri di edilizia sovvenzionata, le città giardino – si accorge che l’urbanizzazione pubblica può diventare un metodo alternativo per lo sviluppo della città e una chiave per ricostruire, in senso moderno, l’equilibrio tra scelte individuali e collettive.
L’amministrazione e gli operatori si spartiscono i compiti nel tempo, non nello spazio; l’amministrazione acquista i terreni da trasformare , li sistema e cede le porzioni fabbricabili ai vari operatori pubblici e privati, in pareggio economico. Diventa possibile disegnare la sistemazione complessiva, senza l’ostacolo dei confini di proprietà, e i singoli edifici, senza la pressione della rendita fondiaria; così si apre lo spazio per una progettazione nuova in cui è pronta a inserirsi la cultura artistica finalmente liberata dai condizionamenti del passato.
Le due linee convergono così verso un risultato unico: da un lato reintrodurre l’invenzione artistica nelle varie scale della progettazione urbana, dall’altro trasformare la pianificazione in una combinazione razionale di interessi pubblici e privati componibili tra loro dentro le regole del mercato e della competizione imprenditoriale. La posta è un nuovo assetto della città, considerata in tutta l’estensione del suo significato, come quadro fisico in cui la vita umana può acquistare il suo intero valore….
..Il movimento che è stato chiamato dell’”architettura moderna” coglie con estrema tempestività il momento in cui le molte fila da riannodare sono aperte e disponibili: l’esaurimento della ricerca pittorica post-cubista, il desiderio di una nuova integrazione di valori dopo la tragedia della prima guerra mondiale, i grandi programmi di ricostruzione del dopoguerra, l’inizio di una comprensione scientifica dei comportamenti individuali e collettivi. Il tentativo è compresso in un tempo brevissimo – tra la ripresa economica del ’24 e la crisi del ’29 – ma imprime una svolta durevole alla cultura europea: progettisti di molte esperienze imparano a collaborare tra loro nel Bauhaus di Gropius e da questo crogiolo escono le più straordinarie esperienzae architettoniche comparse in Europa da molti secoli: Mies van der Rohe, Le Corbusier, Alvar Aalto.
E’ il climax della cultura artistica europea, che taglia nello stesso tempo i legami con la tradizione propria dell’Europa e offre una base concettuale utilizzabile in tutto il mondo, per modernizzare ogni altra tradizione…..Per spezzare le limitazioni della teoria e della pratica post-liberale, bisognava passare attraverso la tabula rasa, sgomberare una volta per tutte l’enorme carico delle forme convenzionali dedotte dal passato….. Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre….
Il ruolo della città, come sistema paesistico contrapposto al territorio, diventa necessariamente problematico: il quadro della nuova progettazione è l’intero ambiente geografico ed entro questo quadro la città va nuovamente definita a ragion veduta.
Si distinguono le funzioni della città: abitare, lavorare, coltivare il corpo e lo spirito (Le Corbusier), e si definiscono i loro caratteri in contrapposizione con la città post-liberale. La residenza, dove si trascorre la maggior parte della giornata, diventa l’elemento più importante della città, ma è inseparabile dai servizi che formano i suoi “prolungamenti”; la attività produttive determinano i tre tipi di fondamentali di insediamento umano: la città sparsa nel territorio, la città lineare industriale, la città radiocentrica degli scambi; le attività ricreative richiedono un’abbondanza di spazi liberi, che non basta concentrare in certe zone, ma devono formare uno spazio unico dove tutti gli altri elementi siano liberamente distribuiti (il parco ottocentesco prefigura la nuova città, che è un grande parco attrezzato per tutte le necessità della vita urbana); la circolazione dev’esser selezionata secondo le necessità dei vari mezzi di trasporto e alla rue-corridor va sostituito un sistema di percorsi separati per i pedoni, le biciclette, i veicoli lenti e i veicoli veloci, tracciati nello spazio continuo della città-parco…..
I primi tentativi su questa strada son risultati spesso utopistici e approssimativi; ma senza lo strappo, la consapevole presa di distanza, non si sarebbe potuto affrontare seriamente la progettazione della città moderna, riconoscere la molteplicità delle esigenze da sintetizzare e anche la ricchezza delle tradizioni locali, da sottrarre alle schematizzazioni degli stili”.
Una sintesi onnicomprensiva e perfetta di un periodo storico, con una conclusione (e un tono complessivo) che però mostra la mancata presa di distanza da quel modello, soprattutto delle ricadute, dell’applicazione di quel modello sull’attuale deserto urbano. Sono riproposti in questo brano tutti i principali temi di quel periodo storico che ha prodotto l’attuale modernità. Alcuni poi sono addirittura all’ordine del giorno del dibattito contemporaneo, come la specializzazione dei percorsi urbani.
Se si mette in sequenza questo testo con la breve lezione di J.H. Kunstler del post precedente, ecco che ognuno dei criteri del Movimento Moderno viene smontato pezzo per pezzo, fino a dire che di ognuno di quei criteri è necessario applicare il suo opposto per tentare di recuperare le nostre città ad una civile vita urbana:
- la campagna che entra nella città come un piano continuo in cui liberamente si appoggiano i vari edifici diversi per funzione creando uno spazio indistinto, un vuoto fisico e un vuoto dell’anima, diventa la definizione dei confini urbani, la netta differenza qualitativa tra lo spazio urbano e quello naturale;
- alla dispersione dell’urbanizzazione nel territorio per zone specializzate si deve opporre la concentrazione della città con la commistione delle diverse attività;
- alla specializzazione dei percorsi si deve opporre la rue-corridor, la strada tradizionale stretta tra cortine di edifici e caratterizzata dalla pluralità delle funzioni e dall’integrazione, dalla prossimità, dalla naturale pedonalità, dalla permeabilità, come dice Kunstler, cioè dal fatto che c’è scambio continuo tra gli edifici e la strada stessa.
Come non vedere, inoltre, nel MM una ideologia totalizzante di chi si sente investito della missione di cambiare il mondo, di creare l’uomo nuovo, attraverso una progettazione integrale di ogni parte del territorio? Lo stesso Benevolo lo riconosce quando scrive: ”Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre”
C’è quindi alla base del MM una visione di tipo “morale”, in perfetta analogia con le ideologie del secolo breve, l’epoca delle grandi visioni politiche che hanno prodotto le più grandi catastrofi della storia, così come il MM ha prodotto l’era della disgregazione delle città e la perdita della conoscenza, delle regole per costruire la città, avendo azzerato nella teoria, ma anche nella memoria della cultura urbanistica e architettonica, ogni ricordo, ogni canone, ogni esperienza, se non cristalizzandola e museificandola nelle espressioni di “centro storico” e “monumento”.
Per questo motivo, personalmente non apprezzo molto di Kunstler e del New Urbanism l’insistere in maniera ideologica su aspetti che hanno anch’essi un background di tipo morale, quali quelli ambientalistico-catastrofistici sull’esaurimento delle risorse petrolifere (che in verità non sono esaurite ma il cui prezzo è destinato ad aumentare per l’incremento della domanda da parte dei paesi emergenti e per ragioni geo-politiche e se anche fosse finito non ci sarebbe da compiacersene), proprio perché anch’essi si presentano, nell’ansia di voler dimostrare gli errori commessi, come una visione “globale” che coinvolge ogni aspetto della vita degli uomini e il loro “stile di vita”. E dal voler cambiare lo stile di vita all’”uomo nuovo” il passo è breve.
Non serve l’uomo nuovo, serve la città nuova, cioè la città tradizionale, in cui l’uomo di sempre, l'uomo e basta, abbia la possibilità di comportarsi da cittadino di una comunità di persone. La città nuova serve anche per motivi energetici, ma servirebbe anche se il petrolio costasse poco.
Non c’è bisogno di ricorrere a queste visioni perché si rischia lo stesso abbaglio ideologico del secolo scorso, dato che è sufficiente la presa d’atto degli errori fatti e la necessità di rivalutare il principio civile di cittadinanza, proprio come afferma molto opportunamente lo stesso Kunstler nell’intervista, non considerando cioè i cittadini solo come consumatori ma come esseri umani che hanno la necessità di vivere in una comunità che offra loro la possibilità di avere una vita urbana piena, civile e accogliente e in essa poter dispiegare tutta la ricchezza e la varietà di attività, interessi, rapporti, emozioni che il diritto di cittadinanza è in grado di offrire.
La città tradizionale ne è la premessa indispensabile perché ciò avvenga, un mezzo e non un fine di ordine morale.
20 aprile 2010
STRALCI DAL "PRINCIPE BIANCO"
Riporto qui alcuni stralci di un libro noiosissimo, ripetitivo e alquanto povero di contenuti: Architettura integrata, di Walter Gropius. Il che non significa che non sia efficace rispetto allo scopo per cui è stato scritto, vale a dire quello di diffondere il verbo del modernismo negli USA. Tutt’altro. La ripetitività e l’assertività di concetti privi di approfondimenti e argomentazioni logiche credibili sono alla base del meccanismo propagandistico in cui Gropius dimostra di essere Maestro. In corsivo brevissime impressioni personali.
Non è tanto un dogma bell’e pronto che voglio insegnare, ma un insegnamento spregiudicato, originale ed elastico verso i problemi della nostra generazione. Inorridirei se il mio insegnamento dovessi risolversi nella moltiplicazione di una concezione fissa di “architettura alla Gropius”. Quel che desidero è far sì che i giovani intendano quanto siano inesauribili i mezzi del creare se si fa uso degli innumerevoli prodotti dell’epoca moderna, e incoraggiare questi giovani a trovare le proprie soluzioni personali”.
Il Principe si schernisce ma si intuisce benissimo che è proprio un dogma che sta preparando, quello delle soluzioni individuali.
Come concepii la Bauhaus.
IL FINE. Avevo già trovato, prima della guerra mondiale, il mio linguaggio in architettura, com’è provato dall’edificio Fagus del 1911 e da quello del Werkbund all’esposizione di Colonia del 1914. Ma fu appunto la guerra mondiale, durante la quale presero, per la prima volta, forma le mie premesse teoriche, a darmi la coscienza piena, basata su autonoma riflessione, delle mie responsabilità di architetto”.
Altissima considerazione di sé stesso: fondatore di un nuovo linguaggio, tutto basato su “autonome” riflessioni personali. Come architetto, prende sulle sue spalle i mali del mondo e diventa, perciò, il profeta e sommo sacerdote della nuova religione in terra d’America. Prende se stesso a metro e misura del vero e scrive in prima persona: la sua storia personale è il compendio e l’archetipo dell’architettura e del nuovo che avanza.
DIFFERENZA TRA LAVORO MANUALE E INDUSTRIALIZZATO
“….; e sebbene si debba intendere e accettare quanto lo sviluppo della tecnica ha dimostrato, e cioè che una forma collettiva di lavoro può condurre l’umanità a una somma di efficienza superiore rispetto all’opera autocratica dell’individuo isolato, non si dovrebbe prescindere dall’efficacia e dall’importanza dello sforzo personale. Al contrario, consentendogli di assumere il giusto ruolo nell’attivitàcollettiva, verrà esaltato il suo rendimento pratico. Quest’atteggiamento non vede più nella macchina meramente uno strumento economico per eliminare il massimo numero possibile di lavoratori manuali e privarli della loro vitalità, e nemmeno un mezzo per imitare il prodotto artigianale; piuttosto la vede come uno strumento che deve sollevare l’uomo dalla più oppressiva fatica fisica, e irrobustirne la mano sì da renderlo capace di dare forma al suo impulso creativo. Il fatto che non padroneggiamo ancora i nuovi mezzi di produzione, e che perciò da essi debba ancora derivarci sofferenza, non è un argomento valido contro la loro necessità”.
Pensieri a dir poco mediocri oltre che sprezzanti della durezza del lavoro industrializzato. In fondo, anche se non avesse mai visto una fabbrica o letto un libro in proposito, sarebbe bastato andare al cinema a vedere Charlie Chaplin nel suo Tempi moderni, del 1931. Astrazione assoluta dalla realtà, nel migliore dei casi, e disprezzo verso gli altri, considerati meri strumenti del suo disegno di rifondazione della società.
EDUCAZIONE AL COMPORRE
La mia tesi è che la creazione artistica trae vita dalla mutua tensione tra le facoltà sub consce e consce della nostra esistenza, e che essa fluttua tra realtà e illusione. I poteri subconsci o intuitivi di un individuo sono pertanto unicamente suoi. E’ de tutto futile, per chi educa a comporre, proiettare nella mente dell’allievo le proprie sensazioni soggettive. Tutto ciò che egli può fare, se intende ottenere qualche risultato, è svolgere il suo insegnamento sulla base della realtà, dei fatti obiettivi, comune proprietà di tutti noi. Ma lo studio di ciò che sia realtà e di ciò che sia illusione richiede una mente fresca, non influenzata da residui d conoscenza intellettuale. Tommaso d’Aquino ha detto: “Debbo svuotare la mia anima perché possa entrarvi Iddio”. Questo vuoto, questa disponibilità senza pregiudizi è lo stato mentale proprio della concezione creativa. Ma l’accento che oggi intellettualisticamente poniamo sull’educazione libresca non promuove questo clima mentale. Compito preliminare di un insegnante di composizione dovrebbe essere liberare l’allievo da ogni inibizione intellettuale incoraggiandolo ad affidarsi alle proprie reazioni subconsce e a sforzarsi di ricostituire la ricettività spregiudicata della sua infanzia. Deve perciò guidarlo nel progressivo sradicamento di pregiudizi tenaci e salvarlo dal ricadere nella pura imitazione, aiutandolo a trovare un denominatore espressivo comune che sorga dalla sua stessa osservazione ed esperienza”.
Vale a dire: dimenticate tutto, liberate la vostra mente e fate come dico io. E’ il principio di un culto, di una setta, come hanno scritto Tom Wolfe e Nikos Salìngaros. Più volte nel testo Gropius tornerà su questo tema, suggerendo di estendere questo metodo a far data dalla prima infanzia, su, su fino alle scuole di architettura, dove propone di eliminare ogni studio storico per i primi tre anni. Il motivo è evidente: inculcare nei giovani i suoi principi senza prima che ne possano conoscere altri. Guai educare alla capacità critica, molto meglio, e anche più facile, a quella creativa”. E’ atteggiamento tipico da setta, che chiede di spogliarsi di tutto e di rigenerarsi alla fonte della verità, che è ovviamente il pensiero del sacerdote, in questo caso il Principe Bianco.
A.Base Educativa Generale
“…Questo non è vero per lo spirito inventivo e creativo nel campo tecnico: qui (negli USA) l’attuale generazione non sembra avere difficoltà di sorta ad incoraggiare il più ardito pionierismo e il più fiero disprezzo delle norme stabilite dal passato. L’atteggiamento nei riguardi dell’arte è, invece, del tutto differente….. penso che siamo riusciti, e in grado straordinario, a laborare metodi per far conoscere ai nostri figli le conquiste del passato: ma non credo che riusciamo a stimolarli ad esprimere se stessi. Abbiamo fatto loro studiare tanto intensamente la storia dell’arte, che non hanno trovato il tempo di esprimere le proprie idee….
Hanno perduto la lieta, giocosa urgenza dell’infanzia a modellare le cose in forme nuove…”
L’idea è sempre la stessa, quella di liberare la creatività. Idea che curiosamente contrasta con quanto affermato precedentemente, nel cogliere solo la realtà. L’unica coerenza che riesco a trovare è quella di imporre negli USA una nuova visione dell’architettura, per il resto le motivazioni sono oscure e inconsistenti, nemmeno giustificate da un’analisi approfondita della realtà.
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