Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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18 marzo 2012

IL GREGOTTI SCATENATO

Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.

Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman

Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.

Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.

Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.

Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.

In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.

Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.

L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.

Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.

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13 febbraio 2011

LETTERA A MASSIMILIANO FUKSAS

Quella che segue è una lettera aperta a Massimiliano Fuksas, quasi lo conoscessi, anzi, quasi fossimo amici. La forma epistolare è solo un espediente retorico che dovrebbe rendere più immediata e digeribile l’esposizione di qualche pensiero. Non lo conosco invece, e dunque non posso essere suo amico, né potrei esserlo, credo, anche se lo conoscessi. Non certo per la diversa collocazione politica, che questa non mi è affatto di ostacolo con altri amici reali, e neppure per l’oggettivo abisso professionale che ci separa, che anzi io sono sempre affascinato da chi è riuscito a raggiungere il successo, essendo convinto che questo è il frutto di una forte componente di merito individuale, in dosi variabili da caso a caso, naturalmente, ma per aspetti squisitamente caratteriali, almeno da quel poco che ho potuto intuire dai suoi interventi televisivi e giornalistici.
Diciamo che certi suoi atteggiamenti un po' ribaldi, pur risultando talora anche divertenti nella loro estemporaneità e (apparente?) genuinità, quella sua ingenua sicurezza di rappresentare sempre la parte giusta, l’unica naturalmente, confliggono con la mia timidezza nei rapporti personali che mi impedirebbe di mettermi al centro del mondo. Forse è anche la sua imponente figura da austero busto di antico romano ad accentuare una sua certa (apparente?) prosopopea, stemperata, per fortuna, dal forte contrasto con non rare sue iperboliche e improbabili affermazioni apodittiche (famosa quella su Cicerone, cui indubbiamente assomiglia), che contribuisce ad umanizzarlo e a renderlo simpatico.


Avrei potuto recentemente confermare queste mie impressioni andandolo ad ascoltare, e vedere, di persona ad Arezzo, essendo egli intervenuto alla presentazione di un suo libro, che ahimè non ho letto, ma si sarebbe svolta di sabato alle 21,00 e non me la sono sentita di rinunciare ad una tranquilla cena tra amici e di costringermi ad ingoiare qualcosa di corsa, come si fosse trattato di un giorno di lavoro qualsiasi. Alla prossima occasione.

*****
Caro Max
Ho letto su L’Espresso di questa settimana un tuo articolo dal titolo: “Dimenticare Bilbao”. Già dal titolo ho istintivamente peccato di vanità, lo ammetto, masticando tra me e me: “Mi hai fregato l’idea. Hai letto il mio post e te ne sei appropriato. Almeno, da amico, avresti potuto citarmi. Una citazione fatta da te mi avrebbe lusingato assai. Avresti potuto fare un piccolo accenno al fatto che ne abbiamo parlato insieme più volte, se proprio non volevi nominare il blog che, effettivamente, non è proprio schierato dalla tua parte”. E’ seguita una espressione a denti stretti che tralascio di scrivere per educazione.

Leggendolo per intero, poi, quella prima impressione si è anche irrobustita, perché l’articolo parlava anche d’altro e l’effetto Bilbao non è che ci azzeccasse molto, espressione questa cara ad un tuo amico che però non ci è comune, e della quale amicizia io non sono mai stato geloso.
Forse non è proprio esatto dire che non ci azzeccasse, direi che non mi è risultato chiaro se volevi parlare della fine dell’effetto Bilbao, e hai colto l’occasione di farlo con un progetto di Gehry che io non conosco, e del quale tu sembri apprezzare una certa, nuova e insolita sobrietà, oppure se volevi solo parlare del progetto di Gehry e ci hai infilato en passant la fine dell’effetto Bilbao perché l’avevi appena letto sul blog e non volevi perdere l’occasione per andare in testa al gruppo, come si conviene ad un campione.

Ripensandoci, poi, ho capito che era solo la mia immodestia ad avermi fatto immaginare una cosa del genere, e che tu non hai certo il tempo di spippolare troppo in internet, tanto meno di perderlo con il mio blog del quale conosci l’esistenza, perché te l’ho detto qualche volta, ma non sono affatto sicuro che tu lo abbia mai aperto.
Certamente tu sei sempre in giro per il mondo a seguire i tuoi progetti e penso che durante i viaggi tu sia indaffarato a riguardare relazioni, preparare gli incontri, documentarti sugli stati di avanzamento, ecc. Al più, in aereo, puoi prendere ispirazioni dall’oblò per una nuova nuvola, o puoi schizzare qualcosa di nuovo su un libriccino di appunti, nei rari momenti di relax!
Quindi, capitolo chiuso e, trascurando improduttive e stucchevoli questioni di primazia, resta il fatto che tu accogli con soddisfazione la dichiarazione della fine di questo effetto, se mai c’è stato veramente, e, soprattutto, la proliferazione dei tanti piccoli “effetti Bilbao” su tutto il territorio nazionale. Vorrei farti osservare che ad alimentare questo stato di cose hai contribuito, e non poco, anche te, magari inconsapevolmente, che non vuol dire incolpevolmente!

Vi hai contribuito con la tua architettura, che non è che tenda proprio a mimetizzarsi e a non farsi notare, che, insomma, parla di nuvole, mica di fondazioni e di muri e di tetti, che racconta di grattacieli sul mare capaci di riqualificare tutta un’area di Savona, che disegna la città viola che mette al centro del programma non dico lo stadio, ma addirittura l’etica del calcio e l’indottrinamento, pardon, l’educazione di giovani ed adulti ad una sana visone sportiva. Magari questa forma di città etica, terribilmente autoritaria nella sua concezione, non è nelle tue intenzioni, magari è solo uno spot pubblicitario del Presidente onorario che tra l’altro ha detto: “Io mi aspetto uno stadio comodo, fresco d’estate, caldo d’inverno, dove le famiglie possano trascorrere giornate intere. Io purtroppo non ci sono spesso ma Andrea mi dice che in Europa ci sono impianti di grandissimo valore“.
T’immagini una città del calcio dove le famiglie possano trascorrere intere giornate! E’ questa la tua visione di società e di città e del modo di trascorrere il tempo dei suoi abitanti? Io credo di no, però il tuo marchio su questa idea di città-spettacolo ci sarebbe. Ma il Presidente onorario aggiunge anche dell’altro: “Non esiste niente del genere nel mondo- dice il patron viola- e ancora museo d’arte contemporanea sulla scia dello splendido Guggenheim di Bilbao, hotel delle maggiori catene alberghiere, una strada aperta ai negozianti di Firenze, aree verdi, parcheggi. Investimenti previsti: 150 milioni di euro per lo stadio, 250 per il resto”. Come vedi l’effetto Bilbao è evocato e utilizzato a piene mani.

Insomma, tu sei una riconosciuta archistar, direi anzi che sei la vera e unica archistar italiana, dato che Renzo ha, a questo punto, superato quella fase per passare direttamente e senza processo alla beatificazione per acclamazione.
Quello che fai e dici te si riverbera su una infinità di architetti che ti imitano, che assumono il tuo modo di pensare l’architettura e la città. Questa è la responsabilità che ti deriva dall’essere architetto di grande successo. Tu hai, oggettivamente, obblighi di coerenza maggiore degli altri, maggiori di tutti noi, perché sei un esempio, un modello.

Se dunque hai appreso con soddisfazione la fine dell’effetto Bilbao, della spettacolarizzazione dell’architettura e della città, dell’idea che una città possa crescere grazie ai grandi gesti dell’architetto-demiurgo e tuttologo, che si sostituisce non solo alla politica ma addirittura ai cittadini, se tutto questo è vero, come in verità io e tutti gli amici del Gruppo Salìngaros diciamo e scriviamo da tempo, abbastanza snobbati nella forma, ma piuttosto ascoltati, sembra, nella sostanza, se oltre a te molti altri si sono avvicinati, almeno nelle dichiarazioni, a concetti simili, dunque sarebbe bene che, senza snaturare o abiurare il tuo modo di fare l’architetto, anche tu ti accostassi ad una maggiore sobrietà, cioè ad una minore spettacolarità, cominciando ad allontanarti dalla filosofia dell’oggetto per avvicinarti a quella dell’insieme.

Nessuno può chiederti di rinnegare e di abbandonare l’architettura che ti ha reso famoso, nessuno può chiederti, come invece fai te quando ti occupi di politica, di esigere una moralità assoluta e una elitaria virtù da Catone il Censore, che richiederebbe una coerenza tra pensieri, parole ed opere professionalmente suicida. Io almeno, che conosco e tollero e anche apprezzo la fallibilità umana e quell’impasto di fango e spirito di cui tutti noi siamo fatti, non lo chiedo e tantomeno lo esigo da nessuno.

Solo un po’ più di quella che con abusato termine si chiama onestà intellettuale e di sobrietà sarebbe richiesta. Proprio come negli accadimenti che in questi giorni riempiono le pagine dei giornali e di cui non se ne può proprio più, naturalmente da punti di vista diversi.
Con questo auspicio, e direi incoraggiamento, ti saluto e ti invito, se trovi il tempo durante un week-end, a venirmi a trovare in rete, per scoprire magari che potresti trovarvi altri spunti di riflessione e di ripensamento.
Ciao
Pietro

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9 gennaio 2011

INTERVISTA A JULIUS CESAR PEREZ

Julio César Pérez: "La città deve essere sognata, progettata e concepita per il futuro" Intervista apparsa in due parti in Cuban Art News, il 6 gennaio 2011. Il mese scorso, il 16 dicembre, l'architetto e urbanista cubano Julio César Pérez (nata a San Antonio, 1957) ha aperto una mostra di architettura e pianificazione presso la Eduardo Abela Provincial Gallery, nella città di San Antonio de los Baños.
Pérez, che si è laureato alla scuola di architettura dell'Avana nel 1982, ha insegnato e tenuto conferenze presso la Harvard University, il Boston Architectural Center, e l'Università di Toronto. E 'autore di Inside Cuba (Taschen, 2006), L'isola: Visioni di Cuba (Editoriale Samper, 2009).
Altre notizie su Pérez sono reperibili qui.
La versione originale in lingua inglese dell’intervista è consultabile qui.

Le mostre di architettura e urbanistica non sono comuni a Cuba. Cosa ti spinge a presentare un decennio di progetti?
Davvero non ricordo nessun mostra collettiva di architettura, ad eccezione di quelle fatte dagli allora giovani laureati degli anni '80 - ed io stesso tra loro, nel 1987 (presso il Centro di sviluppo per le Arti Visive, e nel 1991 (a La Cabaña).

La mia ultima mostra personale ha avuto luogo nel 2002 presso la School of Design alla Harvard University . Lì, ho presentato una selezione di 20 opere e progetti realizzati tra il 1989 e il 1999. In precedenza, con gli architetti Céspedes Milvia e Esteban Martinez, ho fatto una mostra a San Antonio de los Baños durante la 6° Biennale de L'Avana nel 1997. In tutti i casi, l'intenzione era di mantenere in vita l'architettura come una vocazione, e di proiettare una visione di questa professione che continua la tradizione e il savoir faire che ha caratterizzato la sua pratica nel nostro paese nel corso degli ultimi quattro secoli.
Adesso 
mi ha spinto di nuovo questa necessità. E'utile anche per analizzare un periodo di lavoro, per confrontarsi con idee e approcci e, soprattutto, per dimostrare che l'architettura rimane una delle belle arti, se ci si avvicina ad essa con una prospettiva artistica rigorosa.

La vostra mostra copre una vasta gamma di argomenti: residenze personali, paesaggi urbani, ristrutturazione di edifici storici, pianificazione urbana. Corrispondono ad una vasta gamma di interessi in architettura?
Per me, la pratica dell'architettura inizia con il rapporto tra l'ambiente naturale e quello culturale, che è un tutto indivisibile, e l'essere umano. La città è l'elemento più importante, in quanto è espressione di rapporti umani e l'archetipo culturale essenziale. I miei interessi sono ampi, e io rinuncio alla visione riduzionista e alla specializzazione che hanno fatto molto male a questa professione in tutto il mondo. L'architetto deve sempre essere un uomo del Rinascimento che agisce in modo responsabile nel suo tempo; egli deve fare i conti sia con gli eterni problemi che con i conflitti contemporanei derivanti dalla sua situazione concreta. Questo richiede uno studio costante, soprattutto per coloro che si dedicano all'insegnamento.

Quando si avvicina alla casa - un tema "tradizionale" e un laboratorio per gli architetti cubani - sembra che lei usi tecniche di costruzione e competenze già ben consolidate nel repertorio popolare.
La casa è il punto di partenza, il soggetto più vicino agli esseri umani, per l'architetto. Io credo che gli studenti dovrebbero imparare a progettare una casa prima di ogni altra cosa. Molti giovani architetti non si sa come, e questo è deplorevole, non hanno nemmeno un'idea precisa di quello che sia una casa, di che cosa sia la loro casa. E' un esercizio di buon insegnamento. La scala consente di iniziare da un'idea generale e di passare ai dettagli, di partire da una situazione specifica in termini di localizzazione, relazioni spaziali, requisiti funzionali, programma, contesto, scopo, per poi arrivare ai dettagli.
Si tratta di un processo che permette l'apprendimento. E'indispensabile per progettare bene, per costruire bene - si tratta di una lezione antica e tuttora valida. La tradizione fornisce le istruzioni necessarie da cui gli architetti possono esplorare e innovare, e trovare la propria lingua oltre la moda e le tendenze.
D'altra parte, a Cuba non ci sono molte opzioni per quanto riguarda l'utilizzo di tecniche di costruzione non tradizionali e materiali - soprattutto nelle abitazioni. Il fallimento totale e ripetuto della prefabbricazione è stato il fattore più eloquente a favore di un ritorno alle tecniche di costruzione tradizionali. La perdita di questo lavoro (progettare case) è, inoltre, uno dei fattori che hanno intaccato il prestigio della professione. Questo è triste, dato che l'industria delle costruzioni in questo Paese è stata caratterizzata da un alto livello di abilità, che ha raggiunto il suo apice nel corso del 1950. Ho imparato il rigore, la disciplina, e il mestiere del lavoro con mio padre, un eccellente muratore e capomastro.

Nel vostro piano per la crescita e la sviluppo futuro dell'Avana, quali giudichi che siano gli elementi chiave?
Il piano è basato su un decalogo, un programma in dieci punti che riassume una serie di idee interconnesse e integrate. Tutti i punti devono essere considerati insieme, sulla base della loro ovvia relazione e la necessità di affrontarli tutti con la massima economia di tempo e risorse.
1. Valorizzazione del Waterfront. Questo darà alla città una nuova immagine e ci permetterà di cogliere il maggior vantaggio del suo litorale. Sono previsti edifici ad uso misto: usi culturali e commerciali al piano terra e l'uso residenziale ai piani superiori. Ciò stabilisce una continuità con le tradizioni della città e offre un modello in linea con le tradizioni europee basandosi su caffè all'aperto, gallerie d'arte e ristoranti, bar, negozi e bazar. D'altra parte, c'è il settore del porto di L'Avana, la cui rigenerazione è un modello per l'intera città. Abbiamo intenzione di trasformare questa zona in un moderno centro commerciale e sportivo che contribuirà ad una nuova immagine della città e consentira la ri-creazione della sua storia, il riciclaggio delle sue funzioni economiche, ed aumenterà l'attrattiva della capitale in generale.
2. Un Approccio Maggiormente Policentrico. Questo è essenziale. Esso comprende la creazione di nuovi centri urbani nella proposta di sviluppo di impianti a ovest (sito del vecchio campo d'aviazione Columbia) e ad est. Questo approccio riduce l'espansione della città verso le sue periferie, limitando la necessità di eccessivo traffico e di viaggio.
3. Un Nuovo Sistema di Trasporto Pubblico. Ciò permetterà un uso efficiente e razionale delle infrastrutture stradali esistenti e proposte, e permette di disporre di vari e moderni mezzi di trasporto (treno, autobus, automobili) che non inquinano l'ambiente. Il piano prevede il trasporto di superficie e sotterraneo, e uno dei suoi rami prevede la costruzione di un tunnel parallelo alla linea di costa, che creerà una "promenade" lungo la costa da Jaimanitas a Cojimar.
4. Rinnovamento delle Infrastrutture. Attualmente, le infrastruttura della città sono obsolete, del tutto inadeguate e insufficienti. Questo rinnovamento migliorerà l'Avana e amplierà i servizi dell'acqua, dell'elettricità, delle fognature, del telefono, di internet ad alta velocità, e di altri servizi. E' pianificato un incremento dello spazio pubblico per rispondere alle idiosincrasie di Cuba, dei suoi costumi e delle sue tradizioni. Nella zona costiera e nella baia sarà istituita una zona cuscinetto che conterrà un possibile aumento del livello del mare dovute ai cambiamenti climatici derivanti dal riscaldamento globale.
5. Integrazione Sociale e Culturale. Il punto di arrivo di un pieno utilizzo della città, dei suoi quartieri e dei suoi spazi da parte di tutte le persone, con libero accesso a tutte le strutture ed edifici.
6. Sicurezza Ambientale e Aumento delle Aree Verdi.
7. Una Nuova Immagine della Città. Con questo si intende trasformazione della città e vitalità come risultato di azioni urbane e civili.
8. La Rivitalizzazione delle Strade e delle Altre Vie a Livello Cittadino.
9. Uso misto. Questo è parte della tradizione della città. Esso prevede la vitalità e la varietà necessaria per la vita urbana, combinando varie funzioni che indirizzino i diversi gruppi sociali.
10. Una Visione Ampia Combinata con un Dettagliato Disegno Urbano. La città deve essere sognata, progettata e concepita per un futuro che trascenda il segno di un'epoca particolare, e la cui costruzione sia la risultante degli sforzi e dell'intervento di diverse generazioni. Il piano urbanistico dovrà proporre progetti di diversa scala che potrebbero essere costruiti in diversi momenti nel tempo, e la cui flessibilità accetta le trasformazioni richieste dalle circostanze.

Che cosa rende questo progetto diverso dagli altri che l'hanno preceduto?
Proponiamo una visione olistica e integrata. I piani precedenti non ha considerato l'Avana per quello che è: un insieme, un territorio con un ecosistema particolare che deriva dalla sua condizione geografica, dalle sue idiosincrasi e dalla sua cultura. Per la prima volta nella storia, e questo è forse il suo più grande merito, questo Master Plan inventa e sviluppa idee per trasformare la capitale nel breve, medio e lungo termine, e di trasformarlo in una città moderna che fa onore alla sua lunga storia ed esprime il suo continuo processo di cambiamento. A differenza dei piani delineati nel periodo coloniale, che erano di natura militare, quelli della Repubblica, che sono stati frammentati e limitati solo ad alcune zone, e quelle formulate dal Dipartimento di Urbanistica durante il periodo rivoluzionario, che sono stati dettati dal governo e dale sue priorità, il Piano per L'Avana del 21° secolo cerca di preservare i valori della città esistente pur sottolineando la necessità di creare nuovi valori economici e urbani.
Inoltre, questo piano non segue alcun dettame o ordine governativo. Si tratta di un lavoro di amore per la città, fatto senza compenso. E' un dono, un contributo personale.

Come si caratterizza lo stato attuale dell'architettura a Cuba? Dove si trovano le sue principali contraddizioni?
Lo stato attuale dell'architettura è pietoso. Nessuna attenzione viene data alla qualità dei progetti o di ciò che è costruito, il che si traduce in un grande spreco: di terre, di risorse, di talenti e di tempo. Questo dimostra l'ignoranza e l'apatia. Non esiste un sistema di valori che differenzia l'architettura dalla costruzione semplice. Le contraddizioni iniziano nelle scuole: gli insegnanti non hanno l'indispensabile prestigio e l'autorità professionale, in quanto non hanno organi del lavoro che convalidino le loro carriere. L'insegnante dovrebbe essere un esempio. Quando l'insegnamento è necessario per conoscere e imparare, per avere un esperienza di lavoro, una solida cultura. Per questo motivo, un neolaureato non può insegnare, poiché non hanno alcuna esperienza professionale e nessuna capacità di insegnamento. Questo è un grave errore.
La mancanza di una guida, con comprovate credenziali e una solida reputazione basata su meriti accademici e professionali - essenziali per occupare posizioni di leadership nella scuola e reparti livelli - ha contribuito alla formazione inadeguata di diverse generazioni di architetti.
La professione dell'architetto richiede sacrificio e dedizione al di là del necessario e l'indispensabile chiamata o il senso della vocazione. La successiva motivazione è parte del compito dei docenti la cui condotta e il cui lavoro dovrebbe servire da modello per i futuri architetti. Un altro fattore è la mancanza di una pratica professionale che contribuisce ad una graduale, progressiva formazione, che insegna a correggere gli errori.
Un altro elemento è l'assimilazione acritica di progetti stranieri e il rifiuto di architetti cubani a favore di professionisti stranieri di dubbia reputazione. Il processo di investimento è pieno di opinioni negative e di grande corruzione. Ciò ha contribuito alla perdita di autorità e di prestigio degli architetti locali, abbandonati da istituzioni create per garantire i loro interessi, e una perdita di autostima e di dignità personale e professionale.
L'assegnazione dei progetti e dei posti di lavoro a soggetti stranieri senza gara formale non comporta solo costi eccessivi, ma favorisce i pericoli ideologici della globalizzazione, che ignora la cultura, la storia e la stessa professione. Altri modelli e schemi sono già stati implementati.
Gli esempi abbondano, tutti negativi. Si va dagli hotel costruiti dalla catena alberghiera spagnola Meliá (L'Avana, Cohiba, Varadero) a quelli fatti per altre catene alberghiere: Novotel o LTC a Monte Barreto, per il Gran Dutch Tulip (Central Park), le costruzioni immobiliari (per gli investitori a Monaco), al 5° Avenue, o quelli costruiti a Monte Barreto (come il Miramar Trade Center). In questa zona, l'ignoranza del disegno urbano tradizionale sembra essere stato raccolta e sintetizzata, incapace di assimilare o i valori del contesto, naturale e costruito, o l'uso misto. Questi progetti falliscono perfino nel corretto orientamento degli edifici e delle loro relazioni spaziali, portando alla svalutazione di una delle poche aree verdi a L'Avana.
Sul piano della pura architettura, gli edifici mancano della qualità di base del progetto e dimostrano la mancanza di padronanza della scala e dell'uso dei materiali. Sembra che gli alberghi abbiano istituito un concorso a premi per emulare il peggior edificio costruito dai loro predecessori. Tra loro ci sono l'ambasciata Russa e disfunzionali hotel Tritone e Nettuno.

Insieme ai vostri progetti, voi conducete anche workshop intensivi con studenti di architettura. Qual è la sfida più grande: la creazione di una "scuola intorno a un insegnante" o intorno alla realtà concreta?
Entrambe le cose. Preferisco descrivere un'esperienza nel processo di creazione della Scuola Nazionale di Pianificazione e Architettura, che ha scommesso sulla città, i suoi monumenti, ma anche sui suoi edifici sensibili integrati nell'ambiente circostante. A L'Avana, ci sono molti esempi di tutte le epoche, che vanno dal Castello di Morro, dove lo scoglio e l'edificio si fondono armoniosamente, ai palazzi del tardo 18° secolo - un'architettura urbana di straordinario valore.
I seminari già accennati come pure L'Avana Charette uniscono, incoraggiano, propongono ed esprimono la volontà di invitare tutti senza escludere nessuno. Essi cercano di instaurare una tradizione (e ci sono stati quattro workshop consecutivi) di consultazione: per mostrare quanto è stato fatto, senza pregiudizi. La cosa importante è trasmettere agli studenti l'amore per la città e i suoi dintorni, oltre che una responsabilità verso essa e il suo futuro, se vogliamo rimanere a L'Avana, la città magica, poetica e magnetica che cattura tutti con il suo fascino, illumina il cammino con la sua progettazione, e ispira con la sua architettura. La realtà impone sfide, ma dobbiamo distinguere le sfide temporanee e dettate dalle circostanze e temporanee da quelle reali, veramente critiche.

Credi in una architettura d’"autore" - nota negli Stati Uniti come "starchitecture"?
L'architettura d'"autore" è un inganno, un'architettura orientata verso l'oggetto, non verso la città. Generalmente, le opere create da architetti che sono famosi per essere iconoclasti non resistono al tempo. O molto poche sopravvivono al passare del tempo o alla giudiziosa, obiettiva critica quando sono analizzate nel loro contesto e non in riviste e libri gestiti da fotografi qualificati.
Il fatto è che solo un piccolo gruppo di architetti sopravvive alla critica obiettiva, e questo è vero ovunque. Penso che tra loro ci sono Frank Lloyd Wright e Louis Kahn, di quelli del passato. Tra quelli attuali c'è Renzo Piano, il cui rigore nella progettazione e costruzione supera il resto. E forse il giapponese Tadao Ando. C'è un sacco di spazzatura costruita in nome della "architettura dell'autore."
Il più grande problema causato da questo modo di fare è il danno alla mentalità e alla formazione di studenti, perché introduce modelli di imitazione favorita da insegnanti ignoranti, che sono privi di cultura visiva e in grado di sviluppare il proprio personale lavoro. La maturità di un architetto, io credo, è quella di imparare in modo che il loro lavoro non sia appesantito dall'architettura di "un altro autore". E' la più grande sfida e una grande prova di onestà intellettuale.

Recentemente, hai avuto un percorso lungo e intenso come docente di scuole e università americani. Come descriveresti l'approccio degli Stati Uniti nei confronti del patrimonio architettonico di Cuba e delle sue trasformazioni future?
C'è grande ammirazione e grande apprezzamento per il patrimonio architettonico di Cuba e dei valori di L'Avana. Un grande rispetto. Mi sento molto orgoglioso, molto felice quando parlo di L'Avana, la sua architettura, la sua urbanistica, che è intatta fino ad ora, nonostante tali edifici perduti. Ecco perché è così importante conservare la città al di là di qualsiasi edificio o gruppo di edifici.
La gente mi incoraggia nel mio lavoro. Essa lo riconosce. Parlo di L'Avana con amore e grande ammirazione. Tutti vogliono vedere L'Avana, vogliono venire a L'Avana. Coloro che sono stati qui vogliono tornare. Questo deriva anche dal fatto che la nostra nazione è più vecchia, ha le sue radici europee, e ricordiamo che le città di Cuba sono state fondate dagli europei - che è senza dubbio di enorme valore. La pianificazione urbana spagnola era di qualità elevata e questo, combinato con il necessario adattamento al nostro clima, la nostra geografia, e altre caratteristiche (come la disponibilità dei materiali) ha prodotto un'architettura vernacolare di grande valore. Nella sua essenza, "vernacolare" significa creatori anonimi - l'antitesi del concetto di "architettura d'autore".
Inoltre in Nord America ci sono solo poche città storiche, e la gente riconosce i valori storici che sono custoditi a L'Avana, insieme con i valori architettonici e urbanistici. Molti professionisti dell'architettura, e la gente in generale, hanno espresso la loro preoccupazione per la futura evoluzione della città, attraverso l'emergere della sensibilità del mercato e la possibilità di perdere L'Avana, cambiando la sua immagine seducente e romantica. Quando ne parlo dico sempre che questo è il concetto del Master Plan per il 21 ° secolo all'Avana.

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4 luglio 2010

LEON KRIER A ROMA: LA FORZA DELLE IDEE

Mi era completamente sfuggito questo video girato a Roma durante il convegno Trasformazione Urbana tenutosi ad aprile, quello delle archistar, per capirsi.

Impossibile non subire il fascino che Lèon Krier promana, dovuto senza dubbio alla capacità di esprimere concetti semplici e allo stesso tempo forti e scandalosi. La semplicità dà scandalo nel mondo dell'architettura, per il fatto che semplicità significa chiarezza e forza di idee, almeno nel caso di Krier. L'architettese non gli appartiene, perché spesso dietro questo assurdo gergo si cela il vuoto di idee. Provate a leggere un'intervista qualsiasi a Peter Eisenmann e poi cercate di decifrarla e spiegarla con parole semplici ai vostri figli. Oppure a Renzo Piano che, viceversa, parla in maniera semplice, ma è come scrivere sull'acqua.
Gli applausi scroscianti in sala ne sono una prova evidente. Una sola piazza italiana in un quartiere pedonale, l'assurdità di tre sale di musica insieme, la monumentalità che non è altezza ma gerarchia tra i piani, l'urbanistica che prevale sull'architettura, la trama urbana che prevale sull'oggetto.
C'è poco da fare: i suoi progetti potranno anche non piacere, ma le sue idee sono forti, chiare, semplici. Più difficile ne è l'applicazione rigorosa in una società democratica, ma almeno lui ne è consapevole e lo dice chiaramente.

Tanto che ci sono, questo è link di un'altra conferenza di Lèon Krier a Rotterdam, Istituto Berlage, che consiglio di guardare:
The compact city


Credits:
Il video di Léon Krier è tratto da UNIROMA TV

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25 giugno 2010

I MISTERI DELLA CHIESA DI SAN PIO

Risvegliamoci e resistiamo al brutto che avanza”: è questo il titolo di un post di Francesco Colafemmina nel suo blog Fides et Forma. Il brutto di Colafemmina è riferito prevalentemente all’arte sacra, o meglio all'arte moderna che di sacro ha assai poco, architettura compresa, ma la frase ha lo stesso valore se riferita all’arte e all’architettura in genere.

Nel suo libro Il mistero della Chiesa di San Pio, progettata da Renzo Piano, il tenace e documentatissimo Francesco dimostra come in quella Chiesa non vi sia praticamente nessun segno tale da poter riconoscere in quell’edificio un luogo di culto cattolico, e questa è già la prova chiara ed evidente di un progetto sbagliato, prescindendo completamente dalla fede, o dalla sua mancanza, da parte di chi giudica. Quella, come molte altre contemporanee, è una Chiesa solo per un fatto di pura comunicazione: si chiama Chiesa, quindi è una Chiesa. Ma, dentro e fuori, di Chiesa cattolica c’è ben poco.


Se un architetto ha l’incarico di redigere un progetto, qualunque esso sia, e alla fine del processo consegna un edificio che non risponde alle caratteristiche e alla funzione richiesta, ma è altra cosa, come chiamare diversamente questo risultato se non errore?
Quali le cause possibili di questa evenienza? Tralascio del tutto la tesi del libro, peraltro assolutamente plausibile e ricca di indizi che in qualche caso potremmo anche chiamare “prove”, in cui si segnala la presenza di simboli riferibili all’esoterismo massonico, e mi limito a considerazioni generali applicabili a qualsiasi progetto o edificio costruito:
- La committenza ha fornito istruzioni ambigue o addirittura sbagliate, tali da lasciare al progettista un ampio margine di interpretazione personale. In questo caso si potrebbe ingenerare confusione nel progettista stesso e metterlo in uno stato di assoluta incertezza, e allora sarebbe probabile un progetto debole e contraddittorio. Non è però il caso in oggetto, perché l’edificio nasce su un impianto planimetrico e volumetrico preciso: quello di una conchiglia a spirale del tipo nautilus. Per questo basta guardare questa tesi di laurea, svolta in maniera del tutto indipendente da ogni influenza esterna.
http://www.youtube.com/watch?v=bRzrbybUmPA
Del resto, che la forma a spirale sia una scelta lo scrive Renzo Piano stesso nella breve relazione al progetto nel suo sito, anche se ci sono schizzi preliminari molto diversi. Dunque in questo caso, dato anche il lungo lasso di tempo trascorso tra progettazione e costruzione, che fa presupporre il fatto che molte persone ne abbiano potuto prendere visione, possiamo ritenere che la committenza fosse ben informata e che abbia condiviso il progetto. E’ perciò da ritenersi che per il committente quel progetto, con tutti gli arredi e opere d’arte presenti, corrisponda alla loro idea di Chiesa.



- La committenza ha chiesto il progetto per una determinata funzione, senza fornire troppe ulteriori specifiche, se non, si può immaginare, un bagdet. Nel caso specifico, trattandosi di una Chiesa e per di più dedicata ad un Santo veneratissimo e oggetto di culto popolare, destinata ad accogliere milioni di pellegrini all’anno, immagino che avranno chiesto anche una grande capienza e un’immagine forte e riconoscibile; richiesta questa implicita nella scelta stessa dell’architetto, il cui nome da solo è capace di produrre interesse, pubblicità, pubblicazioni, foto, interviste, libri, servizi TV e il consueto giro mediatico dell’archistar. Se così fosse l’architetto avrebbe redatto il progetto in maniera autonoma e in piena libertà. D’altro canto al nome Renzo Piano corrisponde una fama e un’autorevolezza tale da ritenere difficile l’imposizione di troppi limiti o intromissioni nella stesura del progetto.
Naturalmente i due casi non sono i soli possibili, essendo più verosimili situazioni oscillanti e intermedie. Ma il dato certo è che il progetto è uscito sbagliato, perché risponde più alla necessità dell’architetto di autorappresentarsi che non a quello di essere un luogo di preghiera, tant’è che le panche sono prive di inginocchiatoio, e non v’è dubbio che il responsabile primo sia il progettista.

Sono stato a San Giovanni Rotondo, circa tre anni fa e, prescindendo dal fatto che la geometria a spirale non è assolutamente percepibile ad altezza d’uomo, né fuori né dentro, confusa com’è con quell’elemento di disordine e di provvisorietà rappresentato dagli archi, i quali invece producono in genere l’effetto opposto di ordine e stabilità, e da quella copertura a corazza di coleottero sospesa su esili elementi metallici che frammentano del tutto la percezione unitaria del volume, che in planimetria appare invece geometricamente preciso e rigoroso, la prima cosa che si nota è l’orientamento della Chiesa, di cui non si trova l’ingresso, se non andandoselo caparbiamente a cercare. Ma poiché uno si scoccia dopo un po’, ci si infila nel primo fra i tanti boccaporti di nave che si trovano aperti e si finisce poi per trovare l’entrata....uscendo. Questa è collocata dalla parte opposta della spianata dalla quale si arriva e, per di più, in uno stretto spazio a ridosso di un muro a retta, e non ho potuto fare a meno di pensare al retro di un ristorante in cui si ammucchiano le casse di acqua e i rifiuti.



Una scelta davvero inspiegabile quella di collocare l’ingresso principale in un vero e proprio anfratto posto sul retro. Quali le motivazioni? Davvero non sono riuscito a darmi la spiegazione e, come me, molti altri.
Ma anche l’interno è disorientante: la selva di archi in conci di pietra che si tengono per effetto della precompressione (un inutile e costoso virtuosismo tecnologico) ha un primo impatto di una certa suggestione ma è solo un attimo, perché la confusione, il disorientamento e il disagio prevalgono. Per camminare si rischia continuamente di battere la testa sugli archi e manca del tutto quel senso di raccoglimento e di rispetto dovuto alla sacralità del luogo; quel sentimento che ti spinge naturalmente a parlare sottovoce, anche se non c’è una funzione religiosa in corso. Delle panche, di buon design e fattura ma senza inginocchiatoio, ho già detto.

Domanda: perché una Chiesa deve essere come una auditorium? Chi l’ha detto che un pellegrino debba pregare per forza seduto o in piedi e non possa inginocchiarsi, se non in terra? Chi ha stabilito che il fronte, debolissimo con un lezioso grigliatino da ufficio aziendale sopra la porta d’ingresso, deve essere nascosto nel retro? Questi sono misteri architettonici della chiesa di San Pio.
Ultima domanda: ma Renzo Piano avrà mai visto una Chiesa? Nessuno gli chiede di essere per forza credente ma è dovere dell’architetto documentarsi e mettersi nei panni di un fedele, oltre che conoscere la liturgia.
A meno che gli sia stato chiesto espressamente di fare una non-chiesa! Nel qual caso, sarebbe solo un brutto progetto di …..non so che cosa.

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26 ottobre 2009

SONDAGGI

Angelo Gueli mi ha segnalato un post del blog Architecture Here and There che non conoscevo.
Tralasciando i sondaggi via internet che, come quelli fatti dai quotidiani, non hanno grande attendibilità perché si rivolgono ad un pubblico fidelizzato che tende dunque ad avere idee in comune, gli altri dati che David Brussat fornisce sono invece molto significativi.



Ecco una sintesi del post:

Nel 2007 l’AIA (American Istitute of Architects) commissiona, per il suo 150° anniversario, un sondaggio tra un campione di 1804 cittadini e gli edifici modernisti subiscono una debacle.
Le più alte in classifica sono le torri gemelle, 19° posto, ma per ovvi motivi affettivi, segue la pur splendida
Casa sulle cascate, di F.L. Wright, 29° posto.



A Dresda la ricostruzione della Frauenkirche è passata con l’80% dei voti e quella del circostante Neumarkt con il 91%.

Lo scorso maggio, Le Figaro ha chiesto ai parigini quali edifici vorrebbero voluto demolire.Per il
33,4 per cento era la Torre di Montparnasse (1972), nel centro di Parigi, seguivano le Beaugrenelle Towers, una serie di grattacieli modernisti fuori Parigi, con il 31,4 per cento, al terzo posto, il 22,7 per cento, volevano radere al suolo il Centre Pompidou.

La settimana scorsa, un sondaggio ha chiesto a 1.042 britannici: "Immaginate che un nuovo edificio dovesse essere costruito vicino a casa vostra. Quattro diversi modelli vengono proposti. Osservate ciascuno disegno. Quale vi piacerebbe che fosse costruito? Due erano tradizionali e due di disegno modernista. Tutti erano di volumetrie e utilizzo simile.
Quelle tradizionali, sono stati preferiti dal 77 per cento
.

Questi dati sono solo una conferma di ciò che in realtà ogni architetto sa, anche se rifiuta di riconoscerlo. O se lo riconosce ritiene che i cittadini non abbiano le capacità e le conoscenze per decidere.
Io credo invece che l’architettura possa ritrovare una sua strada e una sua dignità disciplinare e civile non certo con le Leggi sull’architettura o con i Festival vari ma con il contributo attivo dei cittadini, unici titolari del diritto di decidere sulla propria città.


*****
A questo punto mi concedo una deviazione, un divertissement:
se i cittadini sono stati chiamati a scegliere sul segretario di un partito, con un processo democratico molto simile a quello che auspico per i concorsi (gli esperti, cioè gli iscritti, scelgono tra candidati e progetti veramente alternativi e questi si sottopongono al giudizio popolare), perché mai non dovrebbe accadere la stessa cosa per la città che presenta un interesse collettivo di interesse almeno pari a quello delle vicende di un partito?
E quale è stato il risultato di quel voto di domenica?
1°: la tradizione rivisitata
2°: la modernità manierista
3°: il modernismo nichilista.

Davvero singolare l’analogia con i sondaggi in architettura!

Finita la deviazione, la domanda resta sempre la stessa: chi ha paura del voto ai cittadini?

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19 aprile 2009

ARCHITETTURA DEL CONSENSO

Pietro Pagliardini

Questo post è un commento all’articolo di Vilma Torselli, Architettura e consenso, su Artonweb.
Inutile leggere il post se prima non si è letto l’articolo.

*****

L’interpretazione che Boncinelli fornisce della creatività in relazione al consenso sociale si presta, come accade spesso in questo campo, alla doppia, possibile interpretazione.
Al soldato che doveva partire per la guerra e domandava trepidante se sarebbe tornato vivo, la Sibilla rispondeva “Ibis, redibis non morieris in bello” lasciando a lui l’interpretazione nel mettere la sospensione prima o dopo la negazione, con ciò assicurandosi un sicuro successo.
Il doppio senso di Boncinelli mi sembra stia nel la frase “Il successo creativo richiede qualità sociali tali da permettere l’affermazione propria e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull’insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo”.

Ora mi sembra che Boncinelli, diversamente dalla Sibilla, non dia due risposte opposte ma due risposte di valore diverso, una basata sull’oggettività del prodotto creativo, l’altra, quella della frase riportata sopra, sulla soggettività , rispetto al pubblico, delle qualità sociali del soggetto creativo. Insomma, sulla capacità del creativo di sapersi vendere bene, di saper sedurre, di apparire convincente, con ciò lasciando al lettore la scelta se attribuire maggiore importanza all’una o l’altra delle risposte.

Non attribuisco un giudizio negativo a questa dote di fascinazione, tanto più in un architetto che non può in alcun modo essere simile ad un poeta maledetto, dato che questi può continuare a scrivere quanto vuole anche senza avere uno straccio di lettore ma l’architetto non può costruire neanche una capanna se non trova un minimo di consenso sociale, almeno in un cliente disposto a dargli credito. E i progetti da soli difficilmente fanno un architetto: mi piacerebbe aver potuto vedere Sant’Elia all’opera!

Non gli attribuisco un giudizio negativo ma aiuta a spiegare il perché, come dice Vilma Torselli, le archistar hanno tanto, innegabile consenso.
Il caso Gehry è emblematico e ormai è diventato un classico: il successo del suo museo a Bilbao è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Grazie alla sua creatività, sulla quale non si possono avere incertezze (che invece ve ne sono sul fatto se sia creatività da architetto o da scultore) ma grazie anche alla potenza dei media che, probabilmente in virtù del nome e della tradizione che porta il museo, l’hanno “pompato” oltre misura, e masse di turisti sono andate in una città ai più ignota, salvo che per il calcio. Grande è pure la creatività di Ghery nel sapersi fare propaganda, nel saper sfruttare con grande capacità la sua bella faccia rugosa e allegra da vecchio saggio e scapigliato allo stesso tempo, nel farsi fare il suo bel film da un grande regista, nel lanciare ai giovani insegnamenti tanto creativi quanti inutili, tipo quello arcinoto del foglio di carta accartocciato entro cui guardare con una telecamera per esplorare spazialità “nuove”.

Se Ghery è grande in questo, per esserne stato anche il capostipite del genere, altrettanto lo è Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico, sicuramente casuale, nel conferirle un’aura di novità, mistero, esotismo, curiosità, eccezionalità, unito ovviamente alla sua creatività che consiste nel disegnare forme dinamiche nello spazio mettendo a frutto le innovative tecniche del software, che però nel passaggio dalle patinate copie a sublimazione alla dura materia edilizia, stentano a conservare la loro capacità attrattiva. Non risultano infatti per lei pellegrinaggi come a Bilbao.

Ma è giusto citare anche il nostro Renzo Piano il quale tra tutti è, in questo senso, il più intrigante e il più sapiente, con un approccio mediatico molto “contestualizzato”, che io definirei “genovese”, perché è “oculato” nel proporsi e, quando lo fa, riesce a mantenere un garbo ed un aplomb molto understatement, in cui bisogna essere veramente del mestiere per capire se ti sta prendendo in giro oppure se fa sul serio, e comunque ti lascia davvero sempre il dubbio; cosa invece che negli altri è più semplice discernere, se tanto tanto uno non è avvezzo ad abboccare a tutta la pubblicità che gli viene propinata.
Anche umanamente Renzo Piano è una miscela di romanticismo(il suo amore per il mare) e di concretezza (il suo battere sul mestiere e sulla ricerca) ed è perciò italianissimo in questo, perché è “ruffiano” come la sua architettura: non ti lascia senza fiato né ti indigna ma sei costretto ad accettarla anche contro voglia non riuscendo a capire cosa ci sia di giusto o di sbagliato. Al che, viene da pensare, ma non ho fatto alcuna indagine in materia, che il Beaubourg sia più opera di Rogers che sua, tanto è esuberante e eccessivo (per questo dubbio vedi anche www.prestinenza.it).

Mi piacerebbe anche parlare di Libeskind ma ho divagato troppo e sono anche andato fuori tema rispetto alle riflessioni finali di Vilma Torselli che condivido. Non c’è dubbio infatti che i media, nella loro fame mai appagabile di notizie sensazionali ad ogni costo, per valorizzare il loro spazio pubblicitario, lasciano poco o punto tempo e spazio alla riflessione meditata, a tutto vantaggio dell’immagine flash, della spettacolarizzazione, della “invenzione” straordinaria.
Anche la critica specializzata, sempre attraverso i media ma anche in gran parte attraverso l’università, ed è quella che lascia il segno più profondo, svolge un decisivo ruolo di mediazione tra il soggetto creativo e il pubblico.

E’davvero possibile bypassare questo sistema? Io credo proprio di no, si può solo sperare che cambi il prodotto ma il metodo resta lo stesso. Questo vale però per le punte dell’iceberg, per l’occhio dei media, per la notizia globalizzata. Esiste invece un grande bacino di consenso o dissenso che non sta sotto gli occhi del mondo ed è quello della provincia dove io credo sia possibile oltre che necessario, mettere in rapporto diretto soggetto creatore e pubblico, opere e città.

Lo si può fare, basta che lo si voglia fare ed è una forma di rapporto così profondamente coerente con la nostra società che si dice essere democratica che quasi stupisce non sia presa in alcuna considerazione. E’ il metodo del voto popolare, ma non quello fatto attraverso la TV digitale, che è manipolabile perchè influenzato da fattori incontrollabili, ma quello fatto proprio con una scheda o una firma, che richiede un interesse reale che smuova il cittadino ad andare in un luogo, a guardare cosa si sta pensando di fare della propria strada, del proprio quartiere, della propria città e decidere che cosa sia più giusto o, semplicemente, cosa gli piaccia di più.

Nel mezzo possono esserci manipolazioni politiche; è possibile, anzi sicuro, ma politica significa arte di governare la città, quella però fatta al cospetto di persone fisiche, di cittadini-elettori in carne ed ossa non passivi spettatori o lettori o nickname della rete. Quindi non ha senso parlare di manipolazione quanto di normale dinamica della politica, cioè di scelte per la città.
Un concorso per un nuovo edificio pubblico, una piazza, la sistemazione di una strada, un edificio privato di grande impatto, tanti sono i campi in cui è doveroso che vi sia il parere “scritto” dei cittadini.

In realtà la decisione su quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi della città”, fatta in base ad una intenzione estetica è caratteristica comune e peculiare della città europea almeno fin dagli inizi del medioevo.

Ma l’intenzione estetica collettiva, cioè la volontà di determinare ciò che è bello e ciò che è brutto per la propria città, pur appartenendo ad una società chiusa di tipo organico, perciò disposta a muoversi entro un universo di canoni condivisi, contrariamente alla nostra società aperta in cui la scelta individuale e le spinte centrifughe sono nettamente prevalenti sull'unità, ha determinato tuttavia la formazione di un diritto architettonico secondo il quale la città appartiene a tutti. Il fatto che vi sia una separazione dei compiti tra coloro che sono deputati alla redazione del progetto e coloro che di tale progetto dovranno essere i fruitori non esclude l’esistenza della figura del committente, di colui cioè che paga per l’esecuzione dell’opera.

Nel caso delle opere pubbliche non c’è alcun dubbio che tale committente sia la città.

Si tratta di decidere, perciò, se lasciare tale decisione al livello della democrazia rappresentativa, come avviene "teoricamente" oggi, cioè ai Consigli Comunali e Provinciali, oppure se rimetterla ad una forma più diretta, cioè direttamente dei cittadini.

Allo stato attuale la decisione è sempre e comunque frutto di una mediazione di interessi diversi e contrastanti tra una pluralità di soggetti:
- l’ente preposto che, consapevole della propria debolezza e incapacità di assumersi responsabilità che potrebbero influire sul meccanismo del consenso, si affida agli “esperti”;
- gli “esperti”, nominati anch’essi con assurdi metodi di garanzia che, per dover essere impersonali, finiscono per diventare o casuali o frutto di scelte opache;
- gli architetti che rivendicano il loro diritto alla libertà di espressione e alla creatività che è culturalmente l’opposto del rispetto dei luoghi e degli uomini;
- i cittadini direttamente interessati all’opera che vengono formalmente fatti sfogare nelle varie forme in cui si esercita la così detta partecipazione e trasparenza ma cui alla fine non resta che la formazione di comitati di protesta e del no; questa procedura, che in termine tecnico si chiama “presa in giro”, allunga a dismisura i tempi, inquina il clima, sotto ogni profilo, fa guadagnare qualche posticino in municipalizzate a qualche presidente di comitato e dà sempre, alla fine pessimi risultati.
Risulta perciò chiaro che la soluzione corretta è affidare la scelta dell’opera direttamente alla città.
Dunque, in campo urbanistico, come in quello artistico, è necessario trovare strade capaci di stabilire una relazione diretta tra autore e pubblico e direi meglio tra prodotto e pubblico, dato che l’autore interessa solo agli architetti e ai media. Ma qui c’è da superare un doppio ostacolo: quello degli architetti, cui torna comodo il filtro dell’establishment culturale e politico, più manipolabile che non il giudizio di massa e torna comodo anche ad una politica che, incapace da tempo di assumersi la responsabilità di scelte autonome, preferisce coprirsi le spalle con parodie di scelte democratiche.

Una prova di tutto questo lo avremo proprio con la ricostruzione in Abruzzo: voglio proprio vedere se quella gente così colpita nei propri affetti, nella perdita della propria casa e dei propri ricordi più intimi permetterà di essere espropriata della decisione sul che fare delle loro città. Voglio proprio vedere se il dibattito rimarrà a livello politico e di esperti urbanisti e architetti o sarà costretto a confrontarsi con i veri protagonisti della ricostruzione.

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25 dicembre 2008

RICICLAGGIO DI ARCHISTAR

Nicolai Ouroussoff è il critico di architettura del New York Times. E’ un convinto e competente amante dell’architettura moderna, spera che New York riesca a rinnovare il suo antico primato in questo campo ma non si nasconde i fallimenti e i problemi degli ultimi anni, a seguito della moda degli Archistar.
La crisi gli ha fatto cambiare, in parte, opinione o almeno mi sembra esprima un certo disorientamento.
Questo articolo recente ne è una prova:

ERA DIVERTENTE, FINCHE’ NON SONO FINITI I SOLDI
di Nicolai Ouroussoff, NYT del 19 dicembre 2008

Chi poteva sapere un anno fa che ci stavamo avvicinando alla fine di una delle epoche più deliranti nella storia architettonica moderna?
Ancora di più: chi avrebbe predetto che questo passo indietro, determinato dalla più grande crisi economica in mezzo secolo, avrebbe trovato dietro l’angolo un colpevole senso di sollievo? Prima del cataclisma finanziario, la professione è sembrata essere al centro di una importante rinascita. Architetti come Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Frank Gehry e Jacques Herzog e Pierre de Meuron una volta ritenuti troppo radicali per la corrente più tradizionale, sono stati celebrati come le maggiori figure culturali. E non solo dalle istituzioni culturali più aperte; sono stati corteggiati dalle società immobiliari che una volta disprezzavano quei talenti come presuntuose teste tra le nuvole. Aziende come Forest City Ratner e le società collegate, che una volta lavoravano esclusivamente con i gruppi più esperti a trattare i grandi budget piuttosto che l’innovazione architettonica, si basarono su questi innovatori come componente di una accorta strategia aziendale.

Il prestigio dell'architetto non solo avrebbe vinto sulla capacità di discernimento dei consumatori ma inoltre avrebbe persuaso le commissioni urbanistiche ad aderire a progetti urbani su grande scala come per esempio Atlantic Yards di Gehry a Brooklyn.
Ma in qualche luogo lungo la strada il capriccio ha preso una curva sbagliata. Come si sono moltiplicate le commesse per palazzi multipiano residenziali di lusso, boutique di qualità superiore e uffici di società in città come Londra, Tokyo e Dubai, i progetti più attenti al sociale raramente sono stati realizzati.
L'edilizia popolare, un articolo del Modernismo del ventesimo secolo, non era all’ordine del giorno in nessun posto. Né vi erano le scuole, gli ospedali o le infrastrutture collettiva. L'architettura importante stava cominciando ad assomigliare ad un servizio per il ricco, al pari dei jets privati ed dei trattamenti nelle spa.

In nessun posto c’era quel cocktail tossico di vanità e di auto-illusione più visibile che a Manhattan. Anche se sono stati commissionati alcuni progetti culturali importanti, questo periodo, probabilmente, sarà ricordato tanto per la volgarità quanto l’ambizione.

Sembrava che ogni architetto importante nel mondo stesse progettando qui un esclusivo edificio residenziale.
Daniel Libeskind, di UNStudio, di Koolhaas , Zaha Hadid e di Norman Foster. Questi progetti hanno tutti insieme minacciato di trasformare l'orizzonte della città in una tappezzeria fatta di ingordigia individuale.

Ora la bolla senza fine è scoppiata ed è improbabile che ritorni presto.
La torre residenziale di 75 piani di
Jean Nouvel in ampliamento al Museo di Arte Moderna è stata rinviata indefinitamente. E le società immobiliari ora sembrano restie ad intraprendere simili progetti. Anche se l'economia ha una brusca inversione di tendenza, la tolleranza del pubblico per le dichiarazioni sulle architetture fuori misura che sono al servizio del ricco ed ad auto-assorbimento, è ormai praticamente esaurita.

Queste non sono tutte le buone notizie. Molta buona architettura sta andandosene con quella cattiva. Anche se la maggior parte della torre del
MoMa di Nouvel sarebbe stata destinata ad appartamenti di lusso, per esempio, avrebbe permesso che il confinante museo ampliasse significativamente lo spazio della sua galleria. Inoltre sarebbe stata una delle aggiunte più spettacolari del profilo di Manhattan dal tempo del Chrysler Building.

E sarebbe un’infamia se la recessione facesse deragliare progetti culturali promettenti come il nuovo
Whitney Musuem of American Art di Renzo Piano nel distretto di imballaggio della carne o la ristrutturazione interna di Norman Foster della Biblioteca Pubblica di New York di Beaux-Arts sulla Quinta Strada.

Gli studi di architettura, nel frattempo, stanno soffrendo come tutti gli altri. Con tanti progetti rinviati e così pochi nuovi in entrata, molti già stanno licenziando gli impiegati. Gli aspiranti architetti appena laureati, che potrebbero prendere il posto di un pool di talenti minori, probabilmente si orienteranno verso professioni più sicure.

Eppure, se la recessione non uccide la professione, potrà avere alcuni effetti positivi a lungo termine per la nostra architettura. Il presidente eletto
Barack Obama ha promesso di investire molto nelle infrastrutture, comprese scuole, parchi, ponti ed edilizia popolare. Un maggiore riconversione delle nostre risorse creative può diventare a portata di mano.

Se molti dei talenti architettonici di prim'ordine assicurano di non sapere come cavarsela, perché non arruolarli nella progettazione dei progetti che interessano di più?
Quello è proprio il mio sogno.


L'edificio in fotografia è al n° 40 di Bond Street, di Herzog e de Meuron.La foto è tratta dal New York Times

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10 dicembre 2008

PREGHIERA DI LANGONE, da Il Foglio, 10 Dicembre


PREGHIERA del 10 dicembre, di Camillo Langone da Il FOGLIO.

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