Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.
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Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman |
Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.
Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.
Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.
Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.
In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.
Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.
L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.
Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.
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