Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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23 agosto 2012

LA "LUNGA EMERGENZA" E IL RIFIUTO DELLA REALTA'

di
Ettore Maria Mazzola


La crisi che sta mettendo in ginocchio il nostro Paese e l’intero pianeta, le false rassicurazioni di uscita dalla stessa dei nostri governanti, creano le giuste condizioni per riflettere sul messaggio di allarme lanciato alcuni anni fa da James Howard Kunstler.

Molto opportunamente nei giorni scorsi, sul blog “De-Architectura”, Pietro Pagliardini ha pubblicato il video dell’interessantissima conferenza “How Bad Architecture Wrecked Cities” tenuta da James Howard Kunstler nel lontano febbraio 2004.

Con l’occasione, Pietro ha anche gentilmente postato il link al mio articolo "Costruire con parsimonia" scritto all’indomani della tragedia di Fukushima.
Il motivo del collegamento è che, in quell’articolo, ponevo dei quesiti sull’attuale modo di costruire e consumare energia, del tutto in linea col pensiero di Kunstler.
James Howard Kunstler è un personaggio coraggioso e fantastico ... per questo è uno di quelli che danno fastidio.
Personalmente, ritengo il suo "The Long Emergency" (pubblicato in Italia dalla Nuovi Mondi col titolo di "Collasso - Come sopravvivere alla fine dell'era del petrolio a buon mercato”) un libro straordinario, altrettanto dicasi per il precedente "Geography of Nowhere".


Purtroppo, quelli di Kunstler sono discorsi che gli architetti, gli urbanisti, i petrolieri e gli industriali – ed i politici ai loro servigi – rifiutano di ascoltare ... resta però per lui la soddisfazione che mai nessuno sia ancora riuscito a smontare le sue parole, sulla fine del “petrolio a buon mercato” e sulla dipendenza di tutte le presunte energie alternative dal petrolio.
… Una ragione in più per rimboccarsi le maniche e ripensare al nostro futuro ed a quello dei nostri figli, prima del raggiungimento del punto di non ritorno ("The Long Emergency").

L’esistenza, nel web, di video sottotitolati in italiano come quello citato, è per me una grande speranza, la speranza che i nostri ignorantissimi politici, e l'enorme massa di pseudo-architetti e pseudo-urbanisti che infesta il nostro Paese, ascolti, o legga i sottotitoli di cui i video sono provvisti e, finalmente, comprenda che dal dopoguerra ad oggi abbiamo intrapreso una strada che non va da nessuna parte … se non al collasso della nostra presunta "civiltà".
Ascoltare certi discorsi, aiuta le persone di buona volontà a capire, una volta per tutte, che quello dell'architettura e dell'urbanistica non è un problema di "stile architettonico", ma di "stile di vita".
A tal proposito, ritengo anche molto utile un altro video, della stessa serie sottotitolata, relativo alla conferenza “Retrofitting Suburbia“ tenuta ad Atlanta nel gennaio 2010 da Ellen Dunham-Jones.
Nel video, la relatrice si spinge – anche se brevemente – a ricordare quelli che sono i disastrosi effetti collaterali sulla nostra salute dell'urbanistica fallimentare del dopoguerra, mostrando anche qualche esempio americano di rigenerazione urbana possibile.

Personalmente mi sento molto coinvolto da questi discorsi, e vorrei che in tanti, in Italia, lo fossimo.
Sono ormai tanti anni che “combatto” – spesso usando toni molto aspri e provocatori – nella speranza che certi architetti, certi pseudo-storici e "critici" di architettura comprendano la grande menzogna che ci è stata raccontata sui banchi universitari e sulle riviste patinate. Costoro dovrebbero smetterla di accusare di "passatismo" chi come me, rifiutando in nome del bene comune uno stile di vita sbagliato, promuova un tipo di architettura e di urbanistica a dimensione umana e rispettosa dei luoghi.
Per questo mi auguro che ascoltino Kunstler – CHE GUARDA CASO NON È UN ARCHITETTO! – e apprendano dalle sue parole una serie di termini come "senso di appartenenza", "grammatica", "definizione dello spazio", ecc. … se mai riuscissero ad essere umili, costoro potrebbero finalmente, rivedere le proprie posizioni, troppo spesso arroganti, ignoranti e presuntuose.
Gli architetti infatti – ma anche tutti gli urbanisti, i costruttori e gli amministratori della cosa pubblica – che presumono di poter fare ciò che vogliono in nome di una ipotetica modernità dettata dalla propria ideologia, oppure in nome di una distorta visione della libertà a danno degli altri, dovrebbero sempre ricordare che questo pianeta ci è dato prestito dalle generazioni future che, si suppone, gradirebbero vederselo “riconsegnato” ancora salubre e fruibile.

A seguito del dibattito scaturito dai post precedenti, Pietro Pagliardini ha pubblicato alcune sue ulteriori riflessioni nel post, “Leonardo Benevolo e la Città del Movimento Moderno

Questo articolo pone a confronto un estratto de “La città nella storia europea” (Edizioni Laterza, 1993), di Benevolo, e il contenuto della conferenza di Kunstler.
Al termine della citazione del testo di Benevolo, Pagliardini scrive: “Una sintesi onnicomprensiva e perfetta di un periodo storico, con una conclusione (e un tono complessivo) che però mostra la mancata presa di distanza da quel modello, soprattutto delle ricadute, dell’applicazione di quel modello sull’attuale deserto urbano”. Suggerisco vivamente a tutti di leggere il testo completo, sia di Benevolo che di Pagliardini.

Personalmente direi che il testo di Benevolo, come Pagliardini ha fatto notare, non solo non prenda le distanze da quelle scelte che hanno condotto l’architettura al triste punto in cui viviamo, ma che addirittura abbia voluto giustificarle ed enfatizzarle, tanto da “ringraziare” il movimento modernista per le teorie moderniste sviluppate nel quinquennio ’24 – ’29 che, a quanto l’autore sostiene, spianarono la strada verso la “liberazione dai condizionamenti del passato” aiutando le città a migliorarsi.

Benevolo dice: “È il climax della cultura artistica europea, che taglia nello stesso tempo i legami con la tradizione propria dell’Europa e offre una base concettuale utilizzabile in tutto il mondo, per modernizzare ogni altra tradizione … Per spezzare le limitazioni della teoria e della pratica post-liberale, bisognava passare attraverso la tabula rasa, sgomberare una volta per tutte l’enorme carico delle forme convenzionali dedotte dal passato (...) Si perde la continuità soggettiva con la vicenda europea, per recuperare la comprensione oggettiva dell’intera serie degli interventi umani nel paesaggio terrestre (…)”.

E ancora: “ma senza lo strappo, la consapevole presa di distanza, non si sarebbe potuto affrontare seriamente la progettazione della città moderna, riconoscere la molteplicità delle esigenze da sintetizzare e anche la ricchezza delle tradizioni locali, da sottrarre alle schematizzazioni degli stili”. … in poche parole la madre di tutte le pippe mentali che crearono le premesse “culturali” che hanno consentito agli architetti di abusare a proprio piacimento delle nostre città, conducendole verso il delirio attuale!! Quelle pippe mentali che, nel fare tabula rasa, dimenticarono intenzionalmente quanto di buono era stato sviluppato nel primissimo Novecento.

Benevolo, nel suo racconto parziale del modernismo, dimentica infatti di far notare che, proprio all'indomani di quel quinquennio che lui sembra voler osannare, qui in Italia (ma anche altrove) nacquero i primi veri problemi delle città.

Infatti, fino alla legge del '25 sui Governatorati, che portò anche all'esautoramento dell'ICP – che fino ad allora costruiva meravigliosamente in proprio e per conto terzi risultando un Ente florido e non in perdita – le cose non erano andate affatto male, le prime esperienze delle "città giardino all'italiana" di Giovannoni & co., anni luce diverse da quelle estere, avevano infatti generato – senza alcuna necessità di fare "tabula rasa" – gli ultimi quartieri degni di esser annoverati tra i luoghi "urbani" piacevoli da vivere, e in grado di generare quel "senso di appartenenza e di comunità” tanto importante per i residenti ... i casi romani che ho più volte elencato lo dimostrano.

Quanto al testo di Pagliardini, sebbene condivida totalmente il suo scetticismo sul "New Urbanism" e sul suo approccio al problema, non riesco ad essere d'accordo quando definisce "catastrofista" il discorso di Kunstler sull'esaurimento del petrolio.
E' infatti stato scientificamente dimostrato – e Kunstler in "The Long Emergency" cita le autorevoli fonti scientifiche cui attinge … tant'è che nessuno l'ha potuto smentire – che il petrolio è in fase di esaurimento, per la precisione i dati presentati da Kunstler nel 2005 davano altri 34 anni di petrolio estraibile, sebbene a costi crescenti, dopo di che il costo di estrazione supererà quello dell'estratto e non sarà più logico procedere alle trivellazioni! Non è un caso se le principali guerre che hanno insanguinato il pianeta negli ultimi anni si siano concentrate in quella "sfortunata" regione che, diagrammi alla mano, vede la presenza del petrolio ancora di poco al di sotto del picco massimo ... altro che talebani e motivi religiosi! Ma questo è un altro argomento che necessiterebbe lunghe discussioni che esulano da questo contesto.

Per questo motivo, se mai dovessi fare una critica a Kunstler, cosa che non mi pare giusta visto che stiamo parlando di un giornalista e non di un progettista, dovrei far notare che nei suoi scritti manchino delle proposte concrete.

Kunstler si limita voler far riflettere la gente, egli fa un ammonimento che solo la miopia dei potenti della terra non vuole raccogliere.

Le grandi lobbies del petrolio e degli armamenti hanno infatti tentato, attraverso la consueta manipolazione dei media, di screditare i discorsi di Kunstler, mettendo in giro l’accusa di catastrofismo … mai però è stato dimostrata!

Del resto, l’arrogante affermazione di G. W. Bush “Lo stile di vita americano non è negoziabile!” lascia capire tante cose sull’ottusità dei cosiddetti “potenti della Terra” e dei loro burattinai!

Spetta quindi a noi progettisti a raccogliere il grido di allarme, e spetta soprattutto al corpo docente delle nostre università farlo, perché è lì che le teorie e le ricerche dovrebbero svilupparsi al di là delle ideologie ed in nome del bene comune.

Questo è uno dei motivi principali che mi anima, e che mi espone alle critiche – spesso sterili – di chi, non volendo cambiare il suo modo di fare e pensare, preferisce accusare di "passatismo" la mia attenzione e il mio interesse a recuperare l'esperienza dei nostri predecessori (anche molto recenti) per poter pianificare un futuro migliore, non per noi, ma per le generazioni a venire.

Il messaggio di Kunstler è forte e chiaro: fermatevi e riflettete ora che siete ancora in tempo per migliorare le cose ... quando comincerà la "lunga emergenza" non ci sarà più spazio per pensare, ma solo tentativi, violenti, per accaparrarsi le ultime risorse di greggio disponibili e sopravvivere nel nostro “stile di vita” distorto ... ma, si badi, egli ci ricorda anche che quei tentativi sono già iniziati, anche se mascherati da presunte ragioni religiose.

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10 aprile 2009

PIANO CASA, DENSIFICAZIONE, NEW-TOWNS

Pietro Pagliardini

Dopo circa un mese dal suo esordio non si può non prendere atto che il tanto inizialmente vituperato Piano Casa sta ottenendo lo scopo di cui parlavo nei precedenti post e negli innumerevoli commenti lasciati nei vari blog: oltre alla futura finalità economica, far discutere in positivo sulla città contemporanea, sull’urbanistica, sui suoi fallimenti e sui criteri da seguire per modificarla profondamente.
Una legge semplice, senza astruserie e ridondanze (ma ancora devono arrivare le Regioni), senza dichiarazioni di principio come è d’uso ormai nelle varie leggi urbanistiche che sembrano catechismi urbanistici da Stato Etico che impongono “comportamenti” , e quindi stabiliscono “colpe”, più che norme legislative, che dettano regole e stabiliscono infrazioni, ma una legge che ha riacceso un interesse sopìto da tempo.

Densificazione e new towns sono diventate le parola d’ordine e mentre sulla prima c’è una certa convergenza di pareri, sulle seconde c’è opposizione o diffidenza.

Densificazione è una bruttissima parola che possiede tuttavia il dono di farsi capire da tutti anche se la legge non la utilizza mai; la legge dice solo che è possibile demolire e ricostruire con un premio volumetrico.
Da questa possibilità ne ricavavo la necessità di utilizzarla soprattutto in quelle aree marginali alla città del tutto prive dei requisiti urbani per renderle più dense e integrarle con le città stesse.

Densificare è però necessario ma non sufficiente; questa legge ha il pregio di essere uno strumento affidato alle scelte della società civile che potrà farne l’uso che vuole e di cui sarà capace; non impone regole se non quantitative e il resto spetta al mondo della cultura e della politica. Densità non dice infatti nulla sul risultato qualitativo che si intende ottenere.
Se dietro non c’è un’idea di città, se si intende proseguire con la cultura urbanistica dominante fino ad oggi che ha portato alle periferie e alle aree marginali attuali non solo si perde un’opportunità grande, ma si rischia di aggravare la situazione di parti di città già degradate. E a poco varrà affidarsi al solo risparmio energetico che, in termini di apporto globale non avrà un valore significativo, perché è lecito supporre che gli edifici da demolire siano prevalentemente dismessi, quindi a consumo zero, mentre quelli da ricostruire consumeranno, se pur poca, energia; per cui il bilancio energetico totale, alla fine, non potrà che essere negativo o prossimo allo zero.

Demolire e ricostruire nelle periferie vuol dire tessere l’ordito stradale che ancora non esiste, riempire i vuoti per unire brandelli di città, trovare spazi pubblici e verde urbano.

E’ il momento della svolta, è il momento di disegnare città con le regole che hanno sovrainteso alla crescita delle nostre città storiche.

E’ il momento in cui la strada deve tornare ad essere l’elemento generatore della trama urbana, abbandonando il lotto razionalista con l’edificio che vi fluttua dentro, indifferente agli edifici e alla strada stessa, banale accostamento casuale di oggetti di (scarso) design.

E’ il momento dell’isolato che aumenta la densità senza eccessivi sviluppi in altezza che restituisca ai cittadini il piacere di abitare in una città autentica e dia loro la possibilità di intessere normali rapporti sociali con gli altri individui lungo la strada finalmente percorribile anche a piedi e non solo funzionale al traffico veicolare. La città è il luogo della socialità, dello scambio di merci, di cultura e anche di sentimenti umani che non sono affatto cambiati come da più parti si tende a far credere. Senza città non esiste forma di civiltà umana possibile e l’unica città in grado di garantirla è quella tradizionale.

Le piazze non dovranno più chiamarsi tali solo per via della targa, ma diventarlo realmente quali risultanti di nodalità cui concorre il disegno gerarchico della rete stradale, la quale dovrà tenere conto delle relazioni territoriali esistenti e delle preesistenze naturali o artificiali.

Dovrà finire la zonizzazione funzionale, che ha diviso la città in reparti stagni ognuno dei quali è abitato alternativamente solo di giorno o solo di notte, per fare posto al mix di funzioni.

L’edilizia sociale non dovrà avere niente che la possa distinguere come tale e dovranno avere fine i quartieri popolari che nascono, oggi più che mai con il fenomeno dell’immigrazione, con il marchio della diversità e dell’emarginazione.

Densificare per fare città belle.

E’ difficile tutto questo e forse è un’illusione ma non è né utopia né fuga in avanti.

Per ottenere questo risultato, tuttavia, dovrà essere accantonata la mentalità della complicazione burocratica fine a se stessa e il sacrificio del principio di realtà a leggi irrazionali e incomprensibili. Non che la realtà sia semplice o che la Legge debba essere disattesa ma quando questa diventa non solo ostacolo insormontabile alla realizzazione in tempi ragionevoli di piani e di opere necessarie e in più cozza contro elementari principi di libertà significa che ad essere sbagliata la Legge e non la realtà delle cose. Il rapporto tra realtà e Legge è sempre bi-univoco nel senso che l’una crea l’altra e viceversa ma quando questo rapporto diventa univoco, come sta accadendo da anni ormai a tutto vantaggio della Legge, significa che nella società si è insinuato un virus capace di fiaccare la volontà e le coscienze e di far scadere il mondo reale a pura astrazione.
E’ necessario perciò che gli architetti tornino a fare il loro lavoro e abbandonino le procedure dell’urbanistica, che nelle loro mani si sono trasformate da mezzo a fine, e le lascino svolgere a coloro che ad esse sono deputati per cultura e professione.

Sulle new-towns, che allo stato attuale credo siano un’intuizione non concretizzata in articolato, vale sempre il discorso della parola che induce a pensare male perché ci riporta all’esperienza inglese che spesso ha dato esiti negativi.

Ho letto sul Corriere della Sera che il concetto di new-town viene affiancato al nome di Hebenezer Howard, il teorico della città-giardino. Non si può escludere che il Presidente del Consiglio possa avere in testa un simile modello e ammetto anche che l’ideologia che sta dietro le new-towns inglesi del dopo-guerra non differisca molto da quella, però io interpreto quest’idea come un segnale, un simbolo che esprime il desiderio di ritrovare una città bella e funzionale dopo il fallimento della città moderna.

Ciò che non è accettabile è il fatto che coloro che apprezzano Brasilia e Chandigarh, il Corviale o lo Zen, rigettino aprioristicamente questa idea perché creerebbe ghetti! E’ forse troppo chiedere coerenza logica?
Coerenza che invece appartiene a Pier Luigi Cervellati che su Repubblica, riferendosi proprio all’Aquila, chiede di ricostruire il centro storico esattamente com’era prima, ricordando l’esempio di Varsavia. Una visione non solo coerente con il suo pensiero ma che tiene conto del valore profondo dell’identità e dell’appartenenza dei cittadini ai luoghi e alla città. Una relazione complessa questa, molto simile all’amore per un’altra persona che, quando è forte, non accetta scambi anche se l’alternativa si presenta migliore.

Ma anche nel caso delle new-towns vale il criterio sostanziale di quale dovrà essere il loro principio ispiratore che non potrà essere diverso da quello sopra esposto. In questo caso esse potranno svolgere un ruolo di esempio, di guida, di indirizzo anche per gli interventi nell’esistente. E’ abbastanza chiaro che ipotizzare 100 nuove città di fondazione non può che rappresentare un segnale simbolico per dire: le nostre città hanno fallito e devono essere cambiate e migliorate radicalmente e tornare belle come lo erano prima e come abbiamo dimenticato di farle.
Nell’ambito del territorio nazionale ci potranno essere villaggi totalmente nuovi (e non c’è niente di strano visto che anche in Gran Bretagna stanno andando in questa direzione) dotati di una loro autonomia e villaggi nuovi ma fortemente integrati con le città esistenti, in base alle diverse realtà urbane esistenti.

Perciò, se il termine città-giardino è una metafora per dire che i nuovi insediamenti dovranno caratterizzarsi per un livello alto di qualità della vita, entro cui rientra anche, ma non solo, il verde, va bene, sapendo però che la caratteristica prima della città, e di quella europea e mediterranea in particolare, sta nella densità, nello spazio racchiuso più che nello spazio aperto.

La concentrazione, in orizzontale e non in verticale, è un valore perché incrementa i contatti e lo scambio, il vuoto isola.

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7 novembre 2008

LE RADICI DI UNA NAZIONE

Pietro Pagliardini

AVVERTENZA: questo è un post che apparirà retorico, non tanto nella forma quanto nella sostanza. Perciò se chi ha iniziato a leggere non ama la retorica è bene che cambi subito post o blog.


Il post è frutto di una riflessione suscitata dall’ascolto della lettura e dell’analisi comparata dei due discorsi post-elettorali del Presidente eletto Barak Obama e dell’ex candidato John McCain, svolta ieri mattina dal Prof. Massimo Teodori durante la rassegna stampa di Radio 3.

Pur breve, è stata una vera e propria lezione di storia americana e di storia della libertà quella fatta da Massimo Teodori che, se non ho sbagliato, alla lettura di un passo del discorso di McCain, ha anche avuto un calo di voce e un lieve balbettio, come da parte di chi prova una forte emozione.

Questo post è “retorico” quanto lo sono i due discorsi, almeno secondo i parametri di giudizio su cui si basa la nostra cultura e la nostra politica, talora pompose nella forma ma ciniche e disincantate nella sostanza.
Cosa hanno detto entrambe i candidati alla presidenza: tutti e due hanno utilizzato le parole chiave che costituiscono l’elemento fondante della nazione americana, nata da una rivoluzione: l’unità del popolo americano frutto della somma delle individualità, cioè della diversità, nel supremo interesse della nazione stessa.

Hanno richiamato entrambi la lotta per l’affermazione dei diritti civili delle minoranze, hanno riconfermato l’importanza del sogno americano, appoggiato però su solide basi comuni e condivise capaci di unire l’intera nazione.

Hanno entrambi affondato le radici degli Stati Uniti d’America di oggi sulla comune storia, che è una storia di lotta per la libertà di tutto il popolo e l’affermazione individuale.

La storia comune, le radici comuni della nazione americana, scritte nella dichiarazione d’Indipendenza, sono dunque il richiamo costante e condiviso da parte di un popolo che nella cultura, nell’economia, nella politica si esprime invece in maniera fortemente innovativa e, piaccia o non piaccia, domina il mondo con i suoi modelli di vita, le sue mode e anche con le sue manifestazioni di grande domocrazia.

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Se è sembrata troppo "retorica" questa parte del post allora chissà cosa penserete della seconda parte!
Queste considerazioni del Prof. Teodori, da me liberamente interpretate e certamente banalizzate, mi hanno fatto riflettere su quale sia la storia condivisa della nazione italiana, quali siano i valori fondanti capaci di tenerci uniti e farci sentire una cosa sola (“e pluribus unum” è il motto della Casa Bianca) nella grande diversità che ci caratterizza da nord a sud, da qualche anno esaltata dal fenomeno dell’immigrazione.
La retorica nazionale, questa sì tanto vuota quanto magniloquente, ci indica come data fondante e comune il 25 aprile, che però ancora divide e che comunque poco dice alle giovani generazioni; oppure il 4 novembre, che divide meno ma che unisce poco, oppure il Risorgimento, che però non è stato figlio del popolo, se non in alcuni fulgidi episodi di cui siamo specialisti.

C’è dunque qualcosa d’altro che ci unisce veramente? Io credo che l’unica cosa che ci fa appartenere alla nazione italiana sia la percezione, più che la consapevolezza, della nostra immensa tradizione artistica, architettonica e storica, diffusa a piene mani su tutto il territorio nazionale, della bellezza del nostro paesaggio, sia di quello naturale, il mare, le coste, le montagne, che di quello frutto del lavoro umano, le pianure, le colline, le coltivazioni.

Quale italiano non è orgoglioso delle bellezze della propria città, del proprio borgo, della propria vallata e, se ha studiato anche un po’, non si rende conto che quella bellezza è la stessa che si ritrova, in forme diverse e adattate ai luoghi, su tutto il territorio nazionale ed è il frutto del sovrapporsi di culture differenti ma che, tutte insieme, con alti e bassi, hanno prodotto questo concentrato di patrimonio d’arte che è la nostra penisola? Questo luogo, al centro del Mediterraneo, ha visto il passaggio dei popoli più disparati e ognuno ha lasciato il meglio di sé, è stato, con la Magna Grecia, Roma e il Rinascimento, il faro della civiltà d’occidente. Firenze ha imposto la propria cultura all’Europa non con la potenza militare ma con i suoi banchieri, i suoi commercianti e i suoi artisti. Venezia è stata il punto di contatto con l’oriente e da questo ha attinto lusso e raffinatezza. Ma ogni città ha una sua peculiare caratteristica che la distingue da ogni altra e la rende unica fra tante; 9000 comuni, ancor più paesi e borghi, e non ne esiste uno da cui si possa tornare senza avervi riconosciuto qualcosa di bello da mandare a mente.


Se in questa mia convinzione c’è del vero, anche per una piccola parte, attentare a questo patrimonio in nome dell’imperativo architettonico modernista e perseverare nel costruire periferie senza anima e luoghi del degrado, oppure intervenire in maniera brutale nei nostri centri storici e nelle città d’arte, vuol dire non solo distruggere la nostra immagine nel mondo, e quindi una parte consistente della nostra economia, ma anche minare le basi della nostra appartenenza alla nazione, cioè sciogliere il legame che tiene uniti popoli e comunità molto diverse tra loro.

Senza questo legame, davvero non ci resta che la nazionale di calcio.


N.B.La bandiera degli USA è pera di Jasper Johns

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