Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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13 settembre 2010

PADIGLIONE LANGONE

Su Il Foglio del 26 agosto 2010, Camillo Langone ha stilato una lista ragionata di architetti che costituiscono il Padiglione Langone (dice lui) di una Biennale con un padiglione solo (aggiungo io). Ci sono in questa rassegna nomi noti alla quasi generalità degli architetti, e nomi noti prevalentemente a chi apprezza l’architettura della tradizione.
Questo Padiglione è la dimostrazione che si potrebbe organizzare una Biennale non monotematica, modaiola e partigiana eppure con architetture diverse tra loro, almeno nel linguaggio. Naturalmente non sarebbe la Biennale, ma altro. Non potendo riportare tutto l’articolo e non volendo menomare il testo di Langone dedicato a ciascun architetto, sono costretto ad una scelta. Ho seguito il criterio di mantenere la diversità.
Non ho compreso Andrea Pacciani, Matteo Thun e Paolo Zermani.
Alcune brevi considerazioni:
Riporto alcune foto di chiese di Mauro Andreini e consiglio di guardare nel suo sito anche gli acquerelli. Di Pier Carlo Bontempi riporto la Place de Toscace, mentre di Bruno Minardi non riporto alcuna foto perché le immagini del suo blog hanno il copyright.

MAURO ANDREINI
"I nostri nemici non sono gli atei, ma chi privatizza la fede" disse don Giussani, quindi i nostri nemici sono la Cei e le curie che da decenni commissionano chiese irriconoscibili con campanili inesistenti o non percepibili come tali perché simili a tralicci, ripetitori, ciminiere... Dopo lunghe ricerche ho verificato che in Italia su 140.000 iscritti all'Albo (avete letto bene: centoquarantamila) esiste solo un architetto che costruisce chiese che sembrano chiese e campanili che sembrano campanili (sebbene non abbastanza alti).
Sono andato a trovarlo a Montale, diocesi di Pistoia, e ho conosciuto un uomo religioso e quindi umile, quasi disinteressato all'apparire da rasentare lo snobismo. "Io sono un architetto regionale". Ma non è certo una diminutio, in un tempo di architetti internazionali tutti uguali. "Io non voglio asso¬lutamente inventare nulla". Anche questo è un merito, come capisce chiunque abbia letto il Ratzinger di "Introduzione allo spirito della liturgia": "Nelle moderne teorie artistiche si intende con creatività una forma nichilistica di creazione, in un mondo privo di senso, sviluppatosi per un'evoluzione cieca". Andreini, il cui mondo di senso è pieno, mi spiega il suo modo di progettare edifici di culto: "Vorrei avvicinarmi alla semplicità del disegno di un bambino che per disegnare una chiesa impiega urta capanna e un campanile, una piazzetta e una casina accanto".

Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Mirabella

Non ho ancora detto che tutte le chiese costruite da questo fantastico toscano (seguace di Ambrogio Lorenzetti e metafisico però di un metafisico collodiano, non dechirichiano) sono protestanti. Ebbene sì. Eretiche. Perché i vescovi cattolici l'unico architetto italiano che disegna campanili mica lo fanno lavorare.
Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Firenze

PIER CARLO BONTEMPI
Un viale di pioppi cipressini e due pilastri nella campagna come una visione, due pilastri di mattoni appena eretti che sarebbero (mi dicono il committente Franco Maria Ricci e l'architetto Pier Carlo Bontempi) due prove di materiale eppure (me lo dico da solo) sono nientemeno che il Paesaggio Italiano, convivenza talmente armoniosa fra natura e cultura da generare poesia. Non vorrei fare troppo lo svenevole e anziché quest'immagine lirica, rarefatta, espongo un capolavoro di civile concretezza: la Place de Toscane, un'intera piazza (compresa di palazzi) progettata e costruita da Bontempi a Marne-la-Vallée, importante "città nuova" dell'Isola di Francia a pochi chilometri da Parigi.
Il suo ovale riprende dichiaratamente la lucchese Piazza del Mercato che Guido Ceronetti definì "spazio ideale" dove "vivere felici, al riparo, nel cavo di mano di un archetipo".
Place e Piazza meritano un'ulteriore citazione, stavolta di Mircea Eliade: "La nostalgia del Paradiso è il desiderio di trovarsi, sempre e senza sforzo, nel cuore del mondo, della realtà". Bontempi ovvero del paradiso possibile, a portata di mano, non dell'ideologica utopia. Non ha senso desiderare oltre: se siete ricchi o se siete potenti che cosa aspettate a commissionare qualcosa all'artefice dell'abitare senza sforzo, della riconciliazione tra cuori e muri? Le meraviglie che realizza specialmente oltralpe sono documentate nella mostra dedicata ai "New Palladians" che da Londra ha girato mezzo mondo ma non l'Italia, a riprova che gli italiani odiano loro stessi e che Palladio non se lo meritano.
Ammiratele nel libro omonimo acquistabile su Amazon dove sono raccolte opere di oltre quaranta architetti tradizionalisti, tutti meritevoli di plauso: ma solo Bontempi è così sereno.

Pier Carlo Bontempi: Place di Toscane - Marne-la-Vallèe

BRUNO MINARDI
Io non mi stupisco che il turismo balneare italiano sia in declino e che la gente si aggiri per Riccione con la domanda di Bruce Chatwin stampata sul viso: "Che ci faccio qui?". Io mi stupisco che il turismo balneare italiano esista ancora.
Com'è possibile che qualcuno si riduca a passare e vacanze a Sottomarina, Lido Adriano, San Benedetto del Tronto? Bisogna essere sprofondati in una drammatica mancanza di alternative, altrimenti sai le fughe. L'epicentro della crisi è la riviera romagnola che può affascinare a vent'anni (ma se hai vent'anni ti puoi alterare meglio a Mykonos e Ibiza).
Per ridare un minimo di credibilità a Rimini come meta turistica bisognerebbe cominciare col tirar giù gli alberghi di viale Vespucci e farli ricostruire da Bruno Minardi più piccoli, più belli e soprattutto più vicini all'idea dell'albergo di mare (al momento rendono piuttosto l'idea del condominio di Buccinasco).
L'architetto di Ravenna è l'unico architetto balneare italiano, bisogna sfruttarne l'eclettismo. Nella sua produzione, che deve molto ad Aldo Rossi pur confrontandosi col vernacolare, ho individuato almeno tre sottostili: sottostile baltico (tetti spioventi), sottostile adriatico (persiane bianche), sottostile balearico-pugliese (pietra a secco).
Qui mostro un esempio di sottostile adriatico che può aiutare a ritrovare il fascino perduto di Romagna. Oggi nell'arte figurativa c'è un grande maestro di eleganze vacanziere; Jack Vettriano. Le ville che Minardi immerge nelle pinete ravennati sono gli unici set contemporanei che l'Italia possa offrire al pittore scozzese, nel tempo in cui gli architetti da Biennale continuano a produrre sfondi per Botto e Bruno.

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17 febbraio 2010

AUGE' E IL FASCINO DELLA STORIA

L’articolo di Marc Augè su Modena scritto per il Corriere della Sera è un piccolo capolavoro.
E’ un testo esemplare per la passione umana e la poesia con cui è scritto; si presenta, a tratti, con il tono letterario degli appunti di viaggio dell’ottocento scritti durante il Gran Tour.
E’ un testo che trasuda “sensazioni”, tanto per citare lo stesso Augè, suscitate dal fascino irresistibile dei luoghi quotidianamente vissuti ma carichi di storia:
Gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della loro storia, in quello spazio si muovono e si ritrovano con una disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati, di modo che si può parlare al riguardo di un insieme di “luoghi”. Un luogo è un luogo nel senso pieno del termine se vi si può reperire un legame visibile con il passato e se tale legame è manifestamente presente alla coscienza di chi lo abita o lo frequenta. E’ così per un certo numero di città medie in Italia (per non parlare delle più grandi) e questo spiega il fascino durevole che esse esercitano sulla straniero di passaggio, che lo sente immediatamente, anche se non sempre ne percepisce tutte le ragioni”.


E ancora
A Modena, oltre quindi agli amici, ritrovo anche luoghi familiari e ricordi, un presente piacevole e un passato sempre più lontano. La bellezza della Piazza Grande e del Duomo mi restituisce quindi, al tempo stesso, la sensazione di una certa forma di permanenza – le cose sono sempre al loro posto, fedeli – e quella del tempo che fugge”.

Avendo la possibilità di un rapporto diretto con la città e i suoi abitanti, ci si sente vicini alla gente e alle cose…….E’ pienamente città, polis, realtà geografica, storica e architettonica, ma anche e soprattutto, realtà sociale”.

Augè affronta tutti i temi che costituiscono l’essenza della città, luogo artificiale costruito per permettere e favorire la naturale socialità degli uomini. Ed è significativo il fatto che egli riconosca che “gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della storia, i quello spazio si muovono e si ritrovano con disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati”, quasi che l'abitare nelle nostre città storiche facesse parte del nostro patrimonio genetico.
In nome di cosa rinunciarvi, in nome di quale falsa sfida di una presunta modernità rinunciare a tutto questo? ammesso che sia possibile farlo, ammesso che sia possibile perdere del tutto la memoria, nonostante gli allucinogeni che ci vengono propinati da 60, 80 anni a questa parte da parte di spacciatori di idee assurde che hanno ridotto le nostre città ad informi aggregati di edifici che non hanno alcun altro senso che quello di renderci soli ed estranei gli uni agli altri, di farci perdere la “familiarità” con i luoghi e con la realtà sociale.



Nella foto: Progetto di Pier Carlo Bontempi con Léon Krier per Piazza Matteotti a Modena

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6 dicembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (2)

Pietro Pagliardini

Continuo la pubblicazione di alcuni documenti e progetti del workshop del 2002 su Arezzo redatti dall’Arch. Pier Carlo Bontempi. Inizio con un estratto dalla relazione di presentazione del progetto.
Pier Carlo Bontempi racconta di una sua visita privata, con famiglia, ad Arezzo e descrive il panorama che si vede dalla sommità della città:

Bene, guardando il panorama verso nord i miei figli hanno commentato dicendo: “ma qui è bellissimo, non si vede la città moderna”.
Questo mi ha fatto riflettere su una grande opportunità che Arezzo ha, forse unica fra le città di una certa dimensione in Italia, di aver potuto mantenere almeno in una sua parte il fantastico rapporto che doveva esistere in tutte le città italiane fra la città murata e il paesaggio della campagna
.



Questo grande valore che avete il dovere di tramandare ai vostri figli così che possa continuare la piacevole sorpresa, che c’è stata per i miei, di vedere ancora tra cento, duecento o trecento anni questa porzione di campagna , che arriva fin sotto le mura della città e che costituisce uno spettacolo straordinario. Mi perdoni il sindaco che ha citato personaggi illustrissimi che hanno lavorato ad Arezzo, ma è forse la cosa più unica che avete ad Arezzo; affreschi bellissimi ci sono in altre città, Cimabue ha fatto qualche altro crocefisso altrettanto straordinario, ma una porzione di paesaggio quasi incontaminato, o che può tornare ad esserlo, fin sotto le mura di una città di grandi dimensioni come la vostra, forse non esiste in nessun altro luogo in questo straordinario paese.






Sono stato anche abbastanza fortunato quando Calthorpe ha deciso, discutendo insieme a noi, quale dovesse essere il tema che toccava a me sviluppare in questa settimana di lavoro, di assegnarmi questa porzione di città che guarda a nord verso la campagna.

L’idea che mi è venuta affrontando questo tipo di tema è stata quella di non trattare questa zona come un quartiere urbano, ma di considerare quella zona, la Catona, piuttosto come l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica.
Per questo il disegno credo sia abbastanza rappresentativo della idea che ha guidato il mio lavoro, cioè quella di circoscrivere l’abitato esistente all’interno di una cintura verde e arrivare ad una sua definizione per dargli maggiore qualità, perché se andiamo a vederlo dall’alto delle mura ci appare bello, se andiamo a percorrerlo per le strade, ci appare ancora con qualche problema da risolvere.







Allora il mio tema è stato quello di definire in maniera precisa l’insediamento come un paese di campagna, che si accosta vicinissimo città ma il cui linguaggio rimane separato dalla città. (Omissis)
Credo che l’immagine possa servire a suggerire il tipo di architettura che mi permetto di indicare come proposta per gli sviluppi edilizi nuovi all’interno di questo, che deve mantenere il carattere di un paese. E’ una edilizia che riprende il patrimonio straordinario che avete nelle vostre campagne, che lo adatta in funzione delle necessità contemporanee ma che cerca di dare una risposta in sintonia con il paesaggio straordinario che deve accoglierlo”.






L’aspetto che Bontempi coglie del rapporto stretto tra la città e la campagna nel lato nord di Arezzo è una costante in tutte le osservazioni e le descrizioni che i viaggiatori hanno lasciato della città fin dall’800. La forma a ventaglio di Arezzo il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano ancora il confine reale e visibile tra città e campagna è stata colta sempre anche dai redattori dei piani urbanistici. Il vigente piano di Gregotti e Cagnardi aveva chiamato questa parte nord “I giardini di Arezzo”, lasciando un cono libero che partiva dalle mura fino alla corona di colline che racchiudono la piana di Arezzo a nord, proprio per mantenere e conservare questo carattere unico e distintivo della città che non si è espansa in quella direzione per motivi geografici, climatici e di rapporti territoriali.

Anche il consulente del Piano strutturale, Peter Calthorpe, ha individuato subito questa caratteristica peculiare e straordinaria, descrivendola, con l’entusiasmo tipico del viaggiatore americano, come la possibilità, dalle case del centro storico, di sentire ancora il canto del gallo (citazione a memoria).

E’ davvero una percezione immediata e istintiva che non necessita nemmeno di essere razionalizzata in chissà quali ragionamenti per essere dimostrata vera: è l’essenza stessa della città di Arezzo, orientata a sud, aperta ad est e ad ovest, ma chiusa a nord.

Ma non c’è niente da fare, nonostante questa evidenza c’è una scuola di pensiero, chiamiamola così, che ritorna ciclicamente ed è convinta che quel vuoto a nord sia una mancanza invece che una risorsa e che la città debba essere “richiusa a nord, come tutte le altre città”. Eppure questa espressione dovrebbe far venire il dubbio che forse sarebbe meglio conservare questo carattere distintivo della città. Questa scuola di pensiero ha evidentemente lavorato bene, tanto da fare accettare allo stesso Calthorpe il fatto di costruire in quella direzione.

Pier Carlo Bontempi si inserisce in questo dibattito con un compito ben preciso che è quello di dare forma al nuovo insediamento e lo fa in maniera egregia, cogliendo questa contraddizione e tentando di risolverla con un progetto che è “l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica”. Evidentemente ha capito che quell’insediamento è una scelta sbagliata, e come lui Calthorpe, e lucidamente tenta di limitare il danno.
Purtroppo la forte vicinanza alle propaggini della città, a quella fascia di edificato disordinato che lui garbatamente descrive come un’area che “ci appare ancora con qualche problema da risolvere” impedirebbe comunque di leggerlo come l’ultimo paese prima della città, non essendo nemmeno orientato lungo la direttrice d’ingresso.
Il vero problema è che non si sarebbe mai dovuto costruire in quel luogo, tantomeno incrementare l’insediamento.

Ma, restando all’interno di questo equivoco, il progetto è comunque significativo per la capacità di integrare l’esistente con il nuovo e di creare un villaggio che ha una sua autonomia urbanistica, un centro, una rete di strade continua e gerarchizzata e orientata in modo da lasciare visuali libere verso il paesaggio e verso le mura. Il problema è che dubito che sarà realizzato con questo impianto o con uno simile, tenuto conto delle inclinazioni culturali del redattore del piano, subentrato a Calthorpe che è stato ritenuto evidentemente un ostacolo, di genere del tutto diverso, altrimenti questi progetti sarebbero stati tirati fuori e mostrati.

L'assoluta casualità ha determinato il fatto che ad Arezzo si concentrasse il meglio del New Urbanism e di quel movimento europeo che punta alla riscoperta dell’urbanistica e dell’architettura tradizionale -Calthorpe, Lèon Krier, Per Carlo Bontempi- la volontà comune ad amministrazioni di diverso colore che si sono succedute ha voluto che quell’anomalia fosse cancellata a vantaggio di un’urbanistica burocratica senz’anima e senza altro scopo che non sia il controllo totale sui cittadini e sui processi naturali che regolano la crescita della città.


CREDITI:

La foto aerea è tratta da Google Earth. Le immagini dei progetti di Léon Krier e Pier Carlo Bontempi sono fotografie da me eseguite durante l'esposizione al workshop. Gli stralci delle relazioni sono state ottenute sbobinando registrazioni da me fatte durante la presentazione.

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30 novembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (1)

Nel luglio 2002 si tenne ad Arezzo un Workshop in occasione della redazione del Piano Strutturale. Il Consulente scientifico del piano era, al tempo, Peter Calthorpe. Al Workshop erano stati invitati, tra gli altri, Lèon Krier e Pier Carlo Bontempi. Di quei pochissimi giorni di lavoro cui seguì una mostra e un dibattito pubblico di grande successo e interesse, sembra che si sia persa ogni traccia: nel sito del Comune c’è una cronologia puntigliosa e dettagliata dei lunghi anni di gestazione del PS, ma del workshop solo questa comunicazione.
Poiché a suo tempo avevamo fatto foto e raccolto un po’ di materiale, sono andato a ripescarlo e lo pubblico in due parti.


In questa prima parte ci sono stralci della relazione di Lèon Krier e alcuni dei suoi disegni, nella prossima ci saranno stralci della relazione di Pier Carlo Bontempi, sempre con disegni.

Stralci dalla relazione svolta da Lèon Krier:
Calthorpe è forse, all’interno del movimento del New Urbanism, il teorico che più di ogni altro fa riferimento alla grande scala territoriale, riuscendo a fare una sintesi di concetti molto atomizzati, simili alla mia concezione di quartiere o di struttura della città della piccola città.
Calthorpe ha concepito l’idea della città policentrica, basati su una catena di villaggi collegati tra loro da sistemi di trasporto pubblico. Penso che Arezzo sia una città “felice” per la sua collocazione geografica, ma che la sua periferia presenti le stesse problematiche delle altre aree suburbane italiane.
In particolare Arezzo presenta problemi difficili da risolvere dal punto di vista strutturale, poichè i suoi sobborghi risultano estremamente frammentati dalla presenza di infrastrutture del traffico, dei trasporti e dei percorsi d’acqua; elementi questi che non aiutano una buona forma urbana.


Il grande concetto di Calthorpe è di “legare” la città diffusa, periferica, in una catena di quartieri a forma di “ipsilon” e di concentrare la crescita futura della città su questi tre assi. Mi sembra una scelta molto pragmatica ma anche possibile, perché su questi tracciati ci sono vaste aree per lo sviluppo, che possono permettere ad una grande città di espandersi ulteriormente, come ha fatto negli ultimi 50 anni.
Dunque, invece di una crescita atomizzata, si potrà prevedere il completamento dei quartieri, e avere così una crescita all’interno, piuttosto che una crescita esplosiva.
(omissis)

Girando per la città ci rendiamo conto quanto sia vero l’assunto che una grande quantità di spazio è contraria ala qualità urbana dello spazio. Le immagini che seguono sono un esempio che mostra quanto queste aree frammentate possano nel futuro divenire aree di crescita urbana, fino a raggiungere una densità forse non uguale a quella del centro storico, ma certamente uguale alla qualità spaziale del centro storico, anche se meno densa.

Gli isolati che abbiamo disegnato, oltre a contenere gli edifici esistenti, avranno in futuro la tendenza a creare fronti edilizi continui, anche se di diversa altezza, secondo il vecchio sistema di facciate e di muri, talcolta così raffinati nei centri storici o nei piccoli nuclei di campagna fuori città. Questi servono come modello diretto, e li percepiamo non come segni della storia, ma segni della tecnologia per creare nuovi centri storici. (Omissis)

Ogni quartiere avrà il suo centro, e una piazza, e un suo limite chiaramente leggibile. (Omissis)

Automobile e pedoni devono poter coesistere in armonia piuttosto che in conflitto. (Omissis)
Strade come Corso Italia e Via Roma, che attraversano tutto il corpo della città antica, hanno la capacità di legare al centro storico tutti i quartieri della nuova Arezzo, e soprattutto di superare la terribile frattura creata dalla ferrovia e permettere alla città di collegarsi all’università e all’ospedale, che in futuro potrà espandersi e diventare un quartiere indipendente”.

E’ ovvio che lo scopo di questo e del prossimo post non è quello di alimentare un dibattito su Arezzo, dato che sarebbe impossibile per chi non conosce la città; tuttavia dal confronto del testo con le immagini si comprendono bene i principi essenziali che stanno alla base del pensiero di Lèon Krier e di Peter Calthorpe e che, pur applicati ad una situazione specifica, hanno una portata assolutamente generale:
1. una città costruita in continuità con il centro storico, fatta di quartieri ognuno dotato di un proprio “centro storico”, capace di ridare dignità a zone oggi monofunzionali e anonime;
2. un potenziamento del trasporto pubblico con la valorizzazione del sistema ferroviario attualmente esistente lungo il quale andare ad individuare le aree di crescita della città, alleggerendo così la pressione del traffico privato in ingresso e in uscita dalla città;
3. una città che cresce su se stessa con densità molto alte simili a quella del centro storico;
4. una crescita che si innesta sui due assi viari principali esistenti.

Ma il successo di questi propositi non è indifferente al tipo di disegno urbano, e questo non è una variabile indipendente tale da dare esiti positivi qualunque esso sia: quando si dice alta densità si intende che il pieno deve prevalere sul vuoto, non che si realizza con edifici di maggiore altezza; si intende che il nuovo tessuto urbano dovrà essere analogo a quello della città storica, fatto da isolati e strade racchiuse da fronti edilizi continui. Senza queste caratteristiche i buoni propositi, le scelte “politiche”, sono destinate al fallimento e alla ripetizione degli errori del passato, lontano e più recente.

Per questo c’è da augurarsi che, a distanza di sette anni, questi disegni non siano stati rimossi dalla memoria, oltre che abbandonati in archivio come spesso accade nei nostri comuni, che vengano ripresi, sviluppati, perfezionanti, anche corretti se è il caso. Non esiste progetto che non contenga errori o analisi non del tutto condivisibili, e anche questo non sfugge alla regola, ma il workshop è stata una occasione davvero unica e straordinaria di elaborazione concreta di proposte e progetti fatti da straordinari architetti e urbanisti quali Lèon Krier, Pier Carlo Bontempi, Peter Calthorpe; nato probabilmente per caso, se non addirittura per un equivoco, ha fornito materiale di grande qualità che sarebbe insano fare finta che non sia mai esistito per ricominciare con nuovi progetti, naturalmente nel solito filone modernista.


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19 agosto 2008

IL TABU' DEL FALSO IN ARCHITETTURA

Pietro Pagliardini

Qualche giorno fa ho avuto in studio un colloquio con una neo-laureata in architettura interessata a fare la sua prima esperienza professionale.Abbiamo parlato della sua tesi, del relatore della sua tesi, del PRG della nostra città, dei suoi studi, del più e del meno. Il discorso è anche caduto su questo blog e qui ho avuto la sorpresa: ha detto di essere rimasta colpita dal mio post sul Falso in architettura.

Ora, al netto di una comprensibilissima quota di captatio benevolentiae, devo però dire che:
a) Su circa 60 post sarebbe andata a scegliere proprio questo che è vecchio di due mesi;
b) Ve ne sono certamente altri che avrebbero potuto tranquillamente attirare l’interesse di un neo-laureato e ottenere lo stesso, presunto, risultato;
quindi io prendo per sincera questa affermazione, tanto più che la sorpresa non sta nel valore del contenuto del post ma nel fatto che se ne è dichiarata colpita proprio per l’argomento in sé, perché all’università, parole sue, “Il falso in architettura è un tabù. Le rarissime volte che veniva sfiorato l’argomento i professori deviavano subito”.

Tabù: ha usato proprio questa parola antica, desueta e anche un po’ logora.

Tabù si usava ai miei tempi ma oggi quanti tabù sono sopravvissuti?

Wikipedia dà questa definizione di tabù:
In una società umana un tabù è una forte proibizione (o interdizione), relativa ad una certa area di comportamenti e consuetudini, dichiarata "sacra e proibita". Infrangere un tabù è solitamente considerata cosa ripugnante e degna di biasimo da parte della comunità.”

Poi di seguito elenca una serie di presunti tabù. Dico presunti perché mi sembra che solo uno sia rimasto e cioè la pedofilia. Gli altri mi sembrano del tutto digeriti, almeno dalla nostra società.

Ma all’elenco ne manca uno: Il falso in architettura. Qualcuno dovrebbe aggiornare Wikipedia.

Io non dubito affatto che questa affermazione sia vera perché l’architettura accademica è sempre stato il luogo dei tabù e ogni epoca ha avuto il suo: quando frequentavo io, il falso non era neanche” in mente dei”, rimosso, mai esistito, ma in compenso l’architettura fascista (tout court) era deprecabile, Piacentini un servo del regime, ogni architettura classica sinonimo di regime dittatoriale.

Vedi a questo proposito Leonardo Benevolo che, nella sua Storia dell’Architettura Moderna, edizione 1971, associa l’italiano Giovannoni, il russo Lunacarskij (ministro della cultura sovietica) e il tedesco Speer (architetto e ministro della guerra di Hitler) nello stesso girone dell’inferno.

Di Giovannoni, in particolare, Benevolo utilizza questo brano come esempio:
Il classico è dignità, è equilibrio, è sentimento sereno di armonia. Forse per l’antropomorfismo delle sue proporzioni, o forse per la coscienza con cui si è inserito nell’anima della città e delle generazioni è il punto di riferimento del gusto e dell’arte pubblica, è l’espressione somma che l’uomo ha trovato … ovunque ha voluto dalle materiali contingenze elevarsi alle finalità di pura espressione della vita dello spirito”.
Con il che ho scoperto di essere anch’io un uomo di regime, che non sarebbe niente, se non fosse che giudizi molto simili a questo sono condivisi (a parole) da Rem Koolhaas il quale dice:
I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.

Con tutto il rispetto dovuto a Leonardo Benevolo non sarebbe il caso, se già non lo avesse fatto, di ammettere un atteggiamento esageratamente ideologico e un po’ conformista nel suo giudizio?

Ora il povero studente, tanto più in clima sessantottino, che speranza aveva non dico di contestare ma di provare a immaginare lontanamente di contestare simili giudizi espressi da Leonardo Benevolo e, di conseguenza , dei professori? Casomai era ammessa e gradita una condanna ancora maggiore, uno scavalcamento a sinistra del grande storico, ma pensare di affrontare un esame e dire che, in fondo, il classicismo qualcosina di buono l’aveva fatto e forse avrebbe potuto anche continuare a farlo era suicidio curriculare se non rischio fisico, in assenza di un presidio di celerini. E così si plasma la mente del giovane studente di architettura!

Oggi non è così, il culto imperante del modernismo (in alcune facoltà, nella critica ufficiale, nei congressi e nei consessi pubblici) come lo chiama correttamente Nikos Salìngaros , non si manifesta in maniera rozza come allora, ma in modo molto più raffinato e subdolo, con una tecnica da conventio ad excludendum , cioè con un atteggiamento di sufficienza e sottile disprezzo per la volgarità del pensiero che mette in posizione marginale coloro che invece ritengono che Giovannoni avesse ragioni da vendere e come lui, oggi,Lèon Krier, e Rob Krier, e il principe Carlo d’Inghilterra, e Nikos Salìngaros, e Pier Carlo Bontempi, e Gabriele Tagliaventi, e Demetri Porphyirios, e Lucien Steil e tanti altri che non sto ad elencare.

Se è vero che oggi è possibile, tuttavia, azzardarsi a professarsi seguaci delle forme classiche e/o della tradizione senza rischiare molto di più di qualche sorrisino di sufficienza, di non aspirare a vincere concorsi, di ripetere qualche esame, è anche vero, evidentemente, che il tabù permane per il falso in architettura, per il restauro stilistico.

Una piccola riprova? Andate su Google, fate la ricerca “falso in architettura” e cosa trovate? Nella prima schermata in posizione n° 5 il mio post sul falso.
Ora, dico io, su un argomento di questa importanza che dovrebbe avere pagine e pagine cosa significa che il mio post "De corrupta edificandi ratione ovvero come progettare falsi e vivere felici" occupi quella preminente posizione?Una cosa sola: che dell’argomento non si parla e non si scrive, o almeno non a sufficienza e ciò che non appare non esiste, come è noto.

Ma il seguace del culto dirà: se non appare significa che non interessa!
Sbagliato: non interessa perché non appare, perché del tabù non si parla, altrimenti non sarebbe un tabù, perché parlarne è già farlo cadere e la caduta di un tabù come questo, per il solo fatto di parlarne e basta, sia bene che male, è causa di rimessa in discussione di tutto l’impianto si cui si basa il pensiero unico modernista e cioè che è possibile solo un unico canone architettonico, cioè quello della mancanza di canoni.

Tana, liberi tutti; ognuno faccia ciò che vuole perché sono la creatività, la sperimentazione e l’innovazione a rendere autentica solamente l’architettura contemporanea, tutto il resto è morte, mummificazione, ignoranza, volgarità.

Si ammette dunque un’apparente libertà assoluta, ma in realtà limitata e costretta nell’ambito dei tre canoni di cui sopra; mentre l’aderenza alla storia, l’annullamento dell’egocentrismo architettonico, il riconoscimento del valore civile dell’architettura, la convinzione, suffragata da studi seri, che vi sono valori permanenti in architettura e urbanistica, sono concetti oscurati, censurati, derisi.

Il tabù del falso, cioè la negazione della possibilità del solo parlarne, non il dichiararsi d’accordo con il falso, viola appunto "l’interdizione ad una certa area di comportamenti, dichiarata sacra e proibita" e questa è la migliore dimostrazione che il culto non è, purtroppo, un’ossessione o un’esasperazione retorica.

Parlare di falso è entrare in un recinto sacro e perciò proibito ai più, essendo solo i sacerdoti gli unici in grado di stabilire ciò che è giusto e ciò che sbagliato. La violazione del tabù comporta "biasimo da parte della comunità".

Ma perché il falso è tabù?

Perché parlare di falso significa, prima di tutto e a prescindere dal parere di ognuno in proposito, parlare di architettura per la città e per i cittadini, cioè avere come obbiettivo non l’auto-esaltazione dell’architetto ma il desiderio di creare ambienti urbani per l’uomo. Questo è l’obbiettivo del falso in architettura, salvo poi pensare, legittimamente, che non sia una strada giusta; ma, se si inizia a parlarne si mettono in discussione le radici dell’architettura contemporanea la quale non ha altro scopo che il personalismo esasperato del progettista, la ricerca del nome, del maestro, il gesto ad effetto, senza tenere in alcun conto i valori che la città storica e la città in generale esprime in relazione ai suoi abitanti, più che all’architettura stessa.

Per questo il povero Gustavo Giovannoni è stato relegato nell’inferno dei cattivi, perché non solo ha osato esaltare il classicismo e, si legga bene il brano all’indice, solo per i concetti di antropomorfismo (Rupi direbbe per la rappresentazione figurativa) e di armonia, non per aver detto di preferire l’ordine corinzio al dorico, ma anche perché ha introdotto il principio del restauro stilistico, che con il falso ha notevoli consonanze.

Ma è grazie al restauro stilistico che la mia città, Arezzo, è visitata con piena soddisfazione da migliaia di turisti ignari ed ignoranti del fatto che una serie di monumenti, non tutti, sono reinventati, e grazie al quale gli aretini nati dopo il 1940 hanno potuto godere di una città più bella e più riconoscibile di quella dei loro padri.

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