Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


29 febbraio 2012

CONSIDERAZIONI SUL MODERNO:SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE- 1°

A corto di tempo causa prolungati impegni legati a vicende di tipo urbanistico-sindacale-ordinistico e quindi a corto di idee, queste essendo tutte orientate all'azione e alla scrittura di testi degni più di un politico che non di un architetto, mi arrangio facendo ricorso ad uno scambio epistolare del 2006 con un amico e collega, l'Architetto Mario Maschi, su un argomento allora alle origini e che proprio in questo periodo sta venendo a maturazione: la vendita di un edificio degli anni 70 sede della Camera di Commercio e il relativo dibattito sulla sua trasformazione.



L'Architetto Maschi mandò una lettera-appello per salvare l'edificio, molto circostanziata  e documentata, ma ben presto il discorso si spostò, in uno scambio via mail a più voci, sull'eterno tema del "moderno".
Riporto solo l'ultimo scambio tra me e Maschi, anche perchè con il passare del tempo si trasformò in uno scherzoso e ironico dibattito tra amici che non si trovano d'accordo sull'architettura ma riescono, tuttavia, a prenderla con leggerezza.
Questa la prima mail, di Mario Maschi che introduce appunto l'aspetto ironico:


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26 febbraio 2012

RIFLESSIONE SUL METODO

Questa è una riflessione sul metodo, suscitata da diversi giorni di intenso dibattito e scontro su questioni urbanistiche cittadine, ma che sono estendibili anche al dibattito urbanistico e architettonico. Non scopro niente di nuovo, ovviamente, ma una rinfrescatina alla memoria è utile.

Nella vita pubblica degli individui e dei gruppi di individui riuniti in forme di qualsiasi tipo (associazioni, partiti, sindacati, mondo del lavoro, aziende private, ecc.), e quindi nella politica intesa in senso ampio, esistono due livelli di comportamento che devono guidare l’azione utile a conseguire un determinato fine: quello strategico e quello tattico.

La strategia è l’insieme dei principi generali che rappresentano l’obiettivo da raggiungere, il fine, il cui tempo è variabile in base al soggetto che se lo pone e in base alle condizioni che ne determinano la possibilità o meno di poterlo raggiungere. Alcuni principi, infatti, non hanno tempo, sono o possono essere assoluti e addirittura eterni, è il caso della libertà e della religione, altri sono più  limitati nel tempo, quali ad esempio quelli di un partito politico che deve conseguire il risultato di riuscire a rendere vincente la propria visione di società nell’arco di un certo numero di anni. Determinate dottrine politiche invece durano da e per secoli.


La strategia fissa gli obiettivi nobili, che sono la carta di identità di ciascuno individuo o gruppo. Gli obiettivi possono perciò subire aggiustamenti e modificazioni in base alle mutate condizioni ma, in linea di principio, alcuni punti debbono rimanere fissi e immutabili. Per fare qualche esempio, perfino la religione è soggetta a interpretazioni diverse, e la teologia esiste apposta, l’importante è che la base fondante di ognuna non si stravolga, altrimenti diventa una religione diversa e si va nell’eresia. Per quanto riguarda la politica, esiste la dottrina filosofica e politica cui ispirarsi e che avrà certi punti cardine non “negoziabili” e se si considera il liberalismo, ad esempio, esso non potrà trasformarsi mai nella prevaricazione dello Stato sull’individuo, pena la morte della dottrina stessa.

La tattica, invece, è il metodo che permette di conseguire gli obiettivi, di raggiungere il fine; è l’azione che consente, nel tempo, l’avveramento della strategia finale.
La tattica dunque è e deve essere necessariamente variabile in funzione delle condizioni al contorno in quel determinato momento. La tattica è flessibile. La tattica non deve esprimere verità che chiamiamo assolute per comodità, ma verità relative ad un particolare caso o momento, tenendo sempre a mente però la strategia finale.
Dunque possiamo dire, semplificando, che la strategia è assoluta, la tattica è relativa. La strategia richiede una maggiore elaborazione del pensiero astratto ma la tattica richiede una grande capacità e intelligenza nel saper valutare una serie numerosa di variabili in gioco perché richiede scelte veloci e in sequenza continua. La lotta politica ne è l’esempio più conosciuto da tutti.

Veniamo ora al caso, anzi ai casi.
In questi giorni, dicevo, ad Arezzo è in corso un ampio dibattito sul vigente PRG approvato da pochi mesi e, come ampiamente previsto dai più, inutilizzabile. Senza parlare dei contenuti, che sono del tutto assenti, è proprio la lettura e l’interpretazione ad essere difficile, astrusa e contraddittoria. L’obiettivo è dunque cambiarlo per ottenere un primo scopo: poterlo utilizzare con relativa semplicità.
Poi esiste un altro scopo, quello strategico, cioè avere un PRG che risponda ad una idea di città, attualmente assente. Per fare questo non è sufficiente rifare tutto il PRG, anche se sarebbe già un gran risultato che oggi, per una serie di fattori, è però difficilmente perseguibile, ma è necessario cambiare il modello culturale di riferimento che è la legge urbanistica regionale. Arezzo è una città in emergenza, tutto è paralizzato dalla crisi economica ma, quelle poche iniziative che ci sono, anche piccole da parte dei cittadini per la propria casa, vengono frustrate da norme inesplicabili.

Cosa è opportuno fare dunque in una situazione come questa? Immaginare di trasformare radicalmente la legge regionale, che richiede il concorso non di una sola città, tra l’altro marginale rispetto alle altre della Toscana, oppure prendere atto che la legge esiste e intervenire laddove è possibile, vale a dire sullo strumento di “governo del territorio” che è nelle attribuzioni proprie del Comune?
Mi pare evidente la risposta. E invece, in questi giorni in cui si è fatta insistente la richiesta dal basso di modificare il PRG (o meglio quella parte di PRG che si chiama Regolamento Urbanistico, ecco una complicazione della legge regionale) spuntano coloro che si rifanno alla strategia: la responsabilità è della legge regionale, bisogna cambiare quella. E’ chiaro che parlare in termini strategici significa parlare in termini di lustri se non di decenni, visti i tempi della politica e di quella regionale in particolare. Se si scegliesse questa direzione, tutto rimarrebbe com’è e, quando accadesse il miracolo della nascita della meravigliosa nuova legge urbanistica questa troverebbe una città morta e sepolta.
Quindi coloro che oggi privilegiano la visione strategica, di fatto difendono la conservazione dello status quo perché mancano di visione tattica. Il richiamo al “ci vuole ben altro”, tipico della cultura italiana, è un modo per non cambiare niente passando però da persone colte e intelligenti oppure per politici capaci.
La soluzione semmai, sta nel doppio binario, che non è affatto impedito, vale a dire nella doppia azione di modifica dello strumento che non funziona e in quella parallela, e del tutto coerente con la prima, di agire per la revisione profonda della legge regionale, basata sull’urbanistica e non sulla somma di astratte procedure urbanistiche.

In campo architettonico e urbanistico avviene la medesima cosa. Nello scontro tra i così detti antichisti e i modernisti (questi non sono così detti, sono e basta), spunta sempre quello bravo che fa riferimento alla strategia, cioè all’architettura tout court, senza se e senza ma, all’esistenza di principi che prescindono dagli opposti ismi e da valori fondanti che devono essere applicati. Ebbene, affermando questo si favorisce, nei fatti, la tendenza dominante, cioè il modernismo nelle sue varie manifestazioni di moda, la creatività, l’architettura-spettacolo, la città zonizzata ed esplosa. La tattica invece prevede l’opposizione forte ad un pensiero forte perché consolidato nella prassi, nella mente degli architetti perché dominante ormai per abitudine e, sempre per abitudine condita da opportunismo, trasmesso dalle università.
Stare a disquisire quanto sia fuori della storia Tor Bella Monaca di Lèon Krier significa, willy nilly, apprezzare la squallide Tor bella Monaca attuale. Tor Bella Monaca di Lèon Krier non sarà l'obiettivo strategico da raggiungere, ma senza "questa" Tor Bella Monaca tutto rimarrebbe come oggi.

Architettura ed urbanistica sono arti civiche, cioè sociali, i cui soggetti preminenti non sono gli architetti, se non nella fase di soluzione tecnica del problema alle risposte della società e degli individui, hanno a che fare con la politica, sono politica nel senso che la politica ne è il brodo di coltura perché interessa tutti indistintamente i cittadini, quindi le modalità di azione sono esattamente le stesse di qualsiasi azione politica. Il luogo di scontro non sono le accademie o le riviste di critica, ovviamente necessarie e importanti se non sono solo luoghi di potere, il luogo di scontro e di decisione è la città.
Solo con un corretto rapporto conflittuale si può giungere ad una sintesi, non essendo l’architettura arte o scienza, le quali invece possono essere per una buona parte demandate ai soli esperti.
Perché il conflitto? Perché non esiste armonia nella società democratica, esiste affermazione delle proprie idee con metodi specifici della democrazia. L’armonia esiste solo nelle società non democratiche. In Cina, ad esempio, c’è molta armonia, ma la democrazia è assente. Il metodo occidentale è altro.

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20 febbraio 2012

VITRUVIO, L'URBANISTICA E IL PRINCIPIO DI REALTA'

Nel corso di una manifestazione di partito svoltasi nei giorni scorsi avente come tema il Regolamento Urbanistico di Arezzo, alquanto problematico, un consigliere comunale, il Prof. Ing. Alessandro Ghinelli, oltre ad avere brevemente riassunto la lunga storia dell’approvazione del PRG, un percorso a ostacoli di circa 10 anni, ha concluso con un richiamo alla triade vitruviana: firmitas, utilitas , venustas, cioè solidità, utilità e bellezza.

All’inizio non capivo il motivo per tirare in ballo il buon Vitruvio in un incontro dedicato all’urbanistica, anche se nel De Architectura vi è un riferimento positivo alle mura di Arezzo. Soprattutto non capivo quale relazione potesse esserci tra la sua famosa triade, attributi propri di una costruzione, con l’urbanistica e a maggior ragione con un Piano Regolatore.


Per un attimo ho avuto l’impressione che Ghinelli, che è conosciuto come persona intelligente e colta e stimato oltre i confini del suo partito, volesse fare mostra di diversità rispetto ai soliti discorsi dei politici, quando va bene generici, intercambiabili ed utilizzabili in qualsiasi circostanza. Un modo per distinguersi insomma, lecito senz’altro ma probabilmente fuori tema. Certo, sempre meglio sentire parlare di Vitruvio che di legge urbanistica toscana e dei suoi futuri, improbabili miglioramenti, ma un minimo di coerenza con l’argomento sembrava necessario.

Poi ho capito invece che Vitruvio c’entrava eccome. Il richiamo alla sua triade è un richiamo alto alla realtà delle cose, dato che l’urbanistica come prodotto di leggi è ridotta a puro formalismo giuridico, rispetto di procedure contorte senza alcuna relazione con il territorio, invenzione nominalistica per descrivere il nulla, retorica ambientalista e verde che sembra però fatta apposta per favorire i grossi interventi immobiliari a scapito di quelli ben più utili e modesti quantitativamente dei singoli cittadini. Una accozzaglia di classificazioni del territorio con nomi altisonanti e pretese pseudo-scientifiche, una quantità di verifiche e valutazioni strategiche, ambientali, integrate e chi più ne ha più ne metta. Sigle ed acronimi come se piovesse, ovviamente diversi da regione a regione talchè ognuno di noi è condannato a restare confinato entro un “regionalismo giuridico”, se anche si presentasse l’opportunità di allargare l’orizzonte oltre i propri confini amministrativi. Altro che accordi di Shengen , siamo invece in presenza di dogane invisibili ma ben più impermeabili di quelle con sbarre e guardie di frontiera.

Vitruvio invece riporta il discorso alla sostanza del progetto, alle regole che non sono fini a se stesse ma finalizzate ad un risultato preciso che si vuole ottenere. In Vitruvio vige il principio di causa-effetto. E Ghinelli cita il caso dell’altezza massima e dell’importanza che la gerarchia dei piani ha nella progettazione di un edificio. Come Léon Krier parla di massimo tre, quattro piani, ma senza porre limiti prestabiliti all’altezza d’interpiano di ciascuno, così Ghinelli osserva che imporre un’altezza massima per ciascun piano esclude a priori la possibilità di poter costruire edifici analoghi a Palazzo Strozzi o al Portico di Santa Maria delle Grazie ad Arezzo, perché sarebbero difformi dalle Norme Tecniche di Attuazione del Piano.

Certo, l’urbanistica è anche altro, ma il richiamo fatto a norme di tipo “prestazionale” e non norme “prescrittive” è un richiamo all’essenza dell’architettura e dell’urbanistica: avere un’idea della città che attraverso il Piano si vuole realizzare, poche norme per ottenere il risultato e il resto demandarlo alla responsabilità e alla cultura dei progettisti e a quella di chi è addetto al controllo. Un ritorno ad un modo più umano ed umanistico di affrontare il tema ed anche di svolgere la nostra professione. Un abbandono della minuziosa e parcellare analisi settoriale a vantaggio della lettura del territorio nella sua unità e organicità seguita dalla sintesi da cui scaturisce il progetto.

Richiamo che probabilmente cadrà nel vuoto ma che ben ha fatto Ghinelli a ricordare, anche per cercare di interrompere il perverso vortice leguleio che ci sta trascinando, non solo ad Arezzo ma in Italia, sempre più in basso e che fa il gioco della politica e della burocrazia, non quello della città e dei cittadini.

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18 febbraio 2012

LA CIVILTA' DELL'IGNORANZA

di Ettore Maria Mazzola

Antonio Salvadori, nel suo capolavoro in tre volumi “Civiltà di Venezia”, ricordava come la formula di approvazione di un progetto architettonico per la città lagunare – fino all’avvento dell’era moderna – fosse “che el sia fato che el staga ben”, ovvero che si realizzi in modo che risulti appropriata al contesto!

Immaginare il rispetto del “decorum” oggi sembra quasi fantascienza. Nell’era del mordi e fuggi e dell’egoismo più sfrenato, sembra non esserci più alcuna speranza di vagheggiare un’amministrazione politica che possa ancora tenere a cuore il bene e il bello comune. Se a questo aggiungiamo lo stato di indigenza in cui versano le casse comunali di tutta Italia, allora non c’è da meravigliarsi se qualche furbacchione abbia trovato il sistema per prendere per la gola un sindaco incapace di mettere al primo posto della sua scala di valori l’estetica e la vivibilità della sua città.

Sto parlando dell’incredibile notizia pubblicata su Repubblica del 13 febbraio 2012 nell’articolo di Salvatore Settis “Megastore con vista su Rialto – il progetto che divide Venezia”.

Esterno ed interno del Fondaco dei Tedeschi nei renderings di Rem Koolhaas
Nell’articolo, si legge: “il Fondaco (dei Tedeschi n.d.r.) è stato acquistato dal gruppo Benetton nel 2008 per 53 milioni, per trasformarlo in un "megastore di forte impatto simbolico". Il progetto prevede non solo l’inserimento di incongrue scale mobili, ma anche la sostituzione del tetto con una terrazza panoramica: l'equivalente, appunto, di una mega-nave piombata nel cuore di Venezia. Lo firma Rem Koolhaas: come ha scritto Giancarlo De Carlo, le operazioni speculative cercano spesso la copertura professionale di grandi architetti (per esempio Norman Foster progettò a Milano il quartiere di Santa Giulia, che doveva sorgere sopra un immenso deposito illegale di scorie nocive)”.
Così, dietro una “convincente” regalia di 6.000.000 di Euro il Comune ha firmato una convenzione che, si legge nell’articolo, consentirà al gruppo Benetton di “realizzare nel Fondaco una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800, e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso "con la massima diligenza e celerità", e in modo da "non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto".

Lo choc e l’indignazione che la notizia mi ha provocato mi avevano inizialmente indirizzato a scrivere questo pezzo intitolandolo "come ti legalizzo la tangente!", poi però ho pensato che fosse più giusto evidenziare come, nonostante i proclami culturali, la società contemporanea sarà molto più semplicemente ricordata come quella più ignorante ed arrogante che la storia dell’umanità potrà mai annoverare.
Non si tratta di attribuire al nihilismo, che caratterizza tutte le manifestazioni d’arte contemporanea, le ragioni del degrado e della pochezza di contenuti che la nostra società sarà in grado di tramandare ai posteri, bensì di riconoscere il fatto che il livello di ignoranza che il sistema consumistico-capitalista ha prodotto non trova precedenti nemmeno nei secoli più bui della nostra travagliata storia.

In quei secoli “bui” almeno, alcuni valori come la spiritualità, il senso civico e il senso artistico non hanno mai cessato di esistere; nonostante le difficoltà economiche del momento infatti, la società medievale ha saputo concepire delle città efficienti e vitali che dovevano celebrare i nascenti Comuni. Così si sono sviluppate città che in primo luogo miravano alla realizzazione di spazi ed edifici pubblici, città dove l’attività edilizia privata era regolata da statuti illuminanti votati alla celebrazione dell’immagine d’insieme in nome del bene e del bello comune. Quelle città erano caratterizzate da luoghi per la socializzazione dimensionati sulla scala umana, luoghi ed edifici che ancora oggi il mondo ci invidia e, si badi, non si sta parlando delle città ideali del Rinascimento, bensì di quelle che tra l’XI e il XIII secolo hanno definito il proprio carattere, un carattere così forte e deciso che ha generato negli abitanti quell’orgoglioso senso di appartenenza che, nonostante le vicissitudini storiche, ha fatto sì che certe realtà ci venissero tramandate quasi integralmente.

Diversamente da quell’infaticabile ricerca di sviluppo, salvaguardia e promozione del bene collettivo che chiamiamo “città”, l’individuo di oggi – appartenente alla “società dello spettacolo” – sembra avere come unico scopo di vita quello di far parlare di sé, nel bene o nel male, purché possa godere dei suoi “5 minuti di notorietà”.

Uno che ha capito molto bene questo è stato Oliviero Toscani e, con lui, i suoi principali mecenati a partire dal 1982: La famiglia Benetton!
Da quando è iniziato questo “matrimonio culturale”, le città italiane sono state tappezzate di foto che, spesso e volentieri, hanno mostrato una carrellata di esempi di pessimo gusto che hanno portato Toscani, la Benetton e tante altre aziende, a pensare che tutto si potesse mostrare. Tutti gli italiani ricordano un paio di anni fa l’orribile campagna antianoressia di Toscani che mostrava l’immagine agghiacciante della modella anoressica Isabel Caro nuda.

Recentemente la United Colors of Benetton si è tirata addosso le peggiori critiche per la campagna pubblicitaria che ritraeva una serie di baci omosessuali tra i principali capi di governo mondiale, incluso il bacio tra il Papa e l’Imam del Cairo: una campagna pubblicitaria per la quale perfino Toscani ha espresso il suo disappunto.

Il Papa e l'Imam del Cairo nel fotomontaggio della campagna "anti-odio" della Benettoni

Alla base delle campagne della Benetton c’è principio secondo il quale per apparire bisogna trasgredire! Ecco quindi che la Benetton risulta più famosa per le immagini delle sue pubblicità che non per uno specifico capo d’abbigliamento che ha fatto storia.

In quest’ottica però accade che, così come un ragazzino viziato rischia di perdere la capacità di accontentarsi di ciò che possiede, spingendosi a ricercare esperienze sempre più stimolanti che finiranno per mettere a rischio la sua vita, altrettanto la Benetton arriva a necessitare di un “salto di qualità” rispetto alla trovata pubblicitaria immortalata su di un cartellone stradale.

Probabilmente la ragione di questo atteggiamento va ricercata in quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:

«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

La Benetton necessita quindi di affermare la propria immagine trasgressiva in maniera più impattante e, la storia ci insegna, l’uso retorico dell’architettura può tornare utile.
Ecco quindi che, al pari del premio dato a Richard Meier da Rutelli prima di conferirgli l’incarico per il Museo dell’Ara Pacis, potremmo trovare una spiegazione logica all’assurdo Leone d’Oro alla carriera conferito a Rem Koolhaas dalla giuria dell’ultima Biennale veneziana, premio che, si leggeva nella motivazione, veniva dato all’architetto olandese perché avrebbe
“allargato le possibilità dell’architettura. Si è focalizzato sull’interazione tra le persone nello spazio. Egli crea edifici che fanno socializzare la gente, e in questo modo forma degli obiettivi ambiziosi per l’architettura. La sua influenza sul mondo è andata oltre l’architettura. Gente appartenente ad ambiti assolutamente diversi sente la grande libertà del suo lavoro”

… peccato che, nella realtà dei fatti, Koolhaas abbia svolto la sua opera intorno ad una frase che lo rese famoso negli anni ‘80: “Fuck the context”, ovvero “fanculo il contesto!” … altro che “che el sia fato che el staga ben!

A dimostrazione del fatto che la Benetton ricerchi l’archistar di turno per fare breccia nella società dello spettacolo, c’è il fatto che quest’estate si è divulgata la notizia che il Gruppo Benetton ha conferito l’incarico a Massimiliano Fuksas per realizzare, nel cuore di Roma, un altro megastore. Nello storico edificio dell’Unione Militare, posto all’angolo tra via Tomacelli e via del Corso, di fronte a via dei Condotti, è oggi in corso di realizzazione un folle sventramento necessario ad installare una informe torre di vetro, il cui scopo è evidentemente quello di affermare, con tutta la violenza del caso, la presenza del gruppo Benetton nel punto più centrale della capitale.
L'Edificio dell'Unione Militare in via Tomacelli a Roma, prima e dopo la "cura" Fuksas
Possiamo quindi avviare un sondaggio per scoprire quale sarà il prossimo stupro urbanistico che questo gruppo vorrà infliggere al nostro territorio, approfittando della fame di soldi che attanaglia i vari sindaci.
Una riflessione: recentemente lo stato italiano ha sostenuto che gli scandalosi stipendi accordati ai “manager pubblici” siano dovuti all’esigenza di prevenire una loro possibile corruzione … se questo è vero, allora ritengo sia giunto il momento di ricominciare a rifocillare le esangui casse dei comuni prima che i sindaci, presi per la gola, finiscano per devastare i nostri centri storici che, a conti fatti, dovrebbero risultare la nostra principale fonte di reddito.

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14 febbraio 2012

IL "FARE ARCHITETTURA" DI SCHIATTARELLA

Non era sufficiente il retorico, anacronistico e inutile manifesto dell’Ordine di Roma dal contorto e supponente titolo “Il diritto all’Architettura è un diritto di tutti”, ci voleva anche l’intervista dell’architetto Schiattarella, Presidente dell’Ordine di Roma, rilasciata a RaiNews e che ho visto solo oggi, a completare il quadro dell’ordine-pensiero.
Cosa ha detto Schiattarella? Ha stabilito la priorità assoluta per le nostre città. E di cosa hanno bisogno queste nostre città? Ecco quanto afferma Schiattarella:

Il delta che c’è tra la nostra capacità di fare architettura e quella degli altri paesi europei sta aumentando in modo vertiginoso. Le nostre città non riescono più a esprimere il linguaggio contemporaneo mentre altre città sono diventate addirittura degli archetipi della modernità quindi sono molto più avanti rispetto al nostro”.

Dunque sarebbe questa l’emergenza che i promotori e i firmatari del manifesto rilevano per le città italiane! Non molte le adesioni in verità, poco più di 5000, nonostante una pagina intera del Corriere della Sera comprata dall’ordine e la grande pubblicità data dagli ordini provinciali in un momento “caldo” per la professione nell’attesa delle decisioni sulle liberalizzazioni di tariffe.


Il problema delle città italiane sarebbe la mancanza di “espressione del linguaggio contemporaneo”. Con un’idea di questo genere Schiattarella potrebbe candidarsi a sindaco, prendendo di sicuro un migliaio di voti dai suoi iscritti romani, perchè ha colto la vera emergenza urbana. I cittadini non pensano ad altro che al linguaggio contemporaneo dell’architettura e a Roma specie sono davvero preoccupati per il “delta tra la nostra capacità di fare architettura” e quella degli altri paesi europei che, ovvio corollario, sono più avanti. Ricordo, a titolo di esempio, le opere olimpiche di Atene e le metto a confronto con la situazione attuale della Grecia, non certo per speculare su quel popolo e quella terra che hanno partorito la civiltà occidentale ma per smentire palesemente l’esistenza di una relazione possibile tra “l’essere più avanti” e la capacità di “fare architettura” come la intende Schiattarella. Ricordo anche la fascinazione esercitata sugli architetti italiani dalla Spagna che “fa architettura”, secondo la provinciale vulgata architettonica a fronte dell’attuale situazione in quel paese.

Non il degrado delle nostre periferie, eccetto quella di Roma ovviamente, dove infatti il linguaggio della contemporaneità si annuncia finalmente con i grattacieli a riqualificarle e rigenerale, non la scomparsa della forma urbana perpetrata da cinquant’anni a questa parte, non lo sforzo di immaginare forme e modalità di ricomposizione dello spazio urbano da attuare mediante un ricompattamento, o densificazione, basato sulla ristrutturazione del tessuto stradale, sul ritorno alla strada, piuttosto che sull’espansione incontrollata e informe nelle aree extra urbane, non l’abbandono della zonizzazione selvaggia. No, non sono queste le priorità da segnalare da parte di un ordine importante a quegli iscritti che eventualmente non se ne fossero accorti, non sono questi obiettivi tali da giustificare un vero manifesto capace di dare un segno di svolta culturale, ma l’emergenza per gli architetti italiani è, secondo l’ordine di Roma, apparire nelle riviste e nei video TV con immagini patinate di linguaggio contemporaneo, è appiattirsi nella pigra costruzione mentale dell’effetto Bilbao che Schiattarella e molti altri si sono costruiti, grazie alla campagna mediatica non filtrata da un minimo di senso critico, quella cioè che si identifica con il museo di Gerhy e che non corrisponde affatto alla realtà di una città rinata grazie ad una sapiente operazione globale di tipo economico e di ristrutturazione urbanistica supportata da notevoli investimenti resi possibili dal vero federalismo fiscale.

Possibile essere ancora così abbagliati dal conformismo architettese, dall’essere così attratti dal proprio ombelico da non vedere che Roma è un po’ diversa da Bilbao ed esprime valori culturali universali di caratura non confrontabile con quelli della città Basca? Possibile che gli architetti, una parte degli architetti spero, abbiano perso del tutto la capacità di leggere e interpretare la realtà, di sapersi guardare intorno quando il primo compito dell'architetto è proprio questo, necessario punto di partenza per qualsivoglia progetto?
Dimenticare la città che si ha davanti - e mi riferisco a Roma perché Schiattarella è di Roma – sia quella antica, unica per cultura, storia, emozione e ammirazione che riesce a comunicare al mondo intero, sia quella moderna e contemporanea che, salvo rarissime eccezioni, è il simbolo stesso del sacco edilizio che continua ininterrotto dal dopoguerra ad oggi, supportato da una incultura urbana e architettonica perpetrata con l'ausilio di coloro ai quali è rivolto proprio quel manifesto e lanciare un appello per passare da una grassa abbuffata di edifici ad una elegante, cool e geometrica portata nouvelle cuisine, dove la pietanza si colloca pretestuosamente dentro un enorme piatto quadrato, bianco o nero, gemella alimentare degli edifici-oggetto posti al centro del lotto, ciascuno disposto lungo una carreggiata stradale (non una strada) così come i piatti sono messi in fila sul tavolo per una cena!
Continuare nel sommare oggetti ad altri oggetti, quasi sempre inguardabili, come negli scaffali di un negozio di casalinghi e regali: questa è la città contemporanea sulla quale il manifesto rileva la necessità di “esprimere il linguaggio contemporaneo”! L’unico linguaggio contemporaneo italiano è proprio quello del vuoto urbano che c’è adesso e che invece va cambiato profondamente.

Dimenticare una città, patrimonio autentico dell’umanità, con o senza l’UNESCO, insieme alle altre mille città italiane, pagine di storia dell’uomo scritte con la pietra ed esempio vitale di spazio urbano, e riuscire a dimenticare allo stesso tempo le mille periferie desertificate e prive di relazioni sociali e interpersonali, dimenticare di essere architetti al solo scopo di rimasticare ancora sui “concorsi”, massimo obiettivo professionale innalzato quasi ad aspirazione di ordine etico, mantra ripetuto all’infinito dagli ordini per raccogliere facili consensi e visibilità specie in un momento difficile per gli ordini stessi, oltre che per la professione!
Vorrei consigliare a chi la pensa come Schiattarella di non guardare solo le riviste dal dentista o quelle all'Ordine o le news letter che arrivano dai vari siti internet dedicati allo star-system dell'architettura e che quando si guarda all'Europa si dovrebbe tenere conto che esistono altre realtà che non il "fare architettura" ma anche il "fare città", trasformando periferie infami in luoghi urbani, come nel caso dell'immagine in testa al post.
Ma forse ho sbagliato a scrivere questo post, perché in fondo di quel manifesto non è rimasto niente, solo la fattura della Divisione pubblicità del Corriere della Sera.

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3 febbraio 2012

UN'ESEMPLARE LEZIONE DI ANTONIO PAOLUCCI

Rubo letteralmente dal sito Archiwatch un video in cui Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, storico dell'arte nochè grande e seducente comunicatore e divulgatore, oltre a raccontarci come il consumo di cultura e di arte segua direttamente la crescita o la decrescita economica del paese - con questo mettendo un punto fermo sul luogo comune che i "servizi" o gli "eventi" producano reddito quasi fossero indipendenti da tutto il resto - fa una impietosa e veritiera analisi delle condizioni in cui versano le città e il paesaggio italiano, a far data dalla seconda guerra mondiale.

Paolucci ha ben chiaro il fatto che è stato dissipato un vero patrimonio di "bellezza" che costituiva un patrimonio economico alla voce "turismo", oltre ad un grande patrimonio alla voce "cultura di un popolo", a causa del combinato disposto della enorme quantità del costruito degli ultimi 60 anni con la pessima qualità dello stesso.
Paolucci non attribuisce le responsabilità a questo o quel soggetto ma, per restare in casa nostra, gli architetti devono fare i conti con se stessi e riflettere sulle loro responsabilità, che sono enormi, non cercando di nascondersi dietro quelle della politica, della speculazione, delle varie mafie, che sono gigantesche, ma che sono state le scuderie che hanno fornito l'auto, il motore che ha corso, e di cui gli architetti sono stati, in buona parte, i piloti, coloro che hanno determinato la condotta di gara, che hanno fatto la scelta delle gomme.

Non abbiamo determinato noi architetti le quantità, di certo, ma buona parte della scadentissima qualità certamente sì.
Noi abbiamo fatto i piani urbanistici, poi peggiorati ulteriormente dagli interessi e dai decisori, noi abbiamo costruito edifici pessimi, poi ulteriormente peggiorati per lucrare. Ma noi, da soli, abbiamo determinato il fallimento dell'edilizia residenziale pubblica, cullati e accarezzati da una classe politica in cerca di consenso e potere.
Noi architetti ci esaltiamo per il MAXXI e i grattacieli a Roma, ed elucubriamo sulle magnifiche sorti e progressive della contemporaneità architettonica, semmai lamentandoci che è troppo poco per entrare in gara con i corrispondenti MAXXI e grattacieli del mondo.
Noi ci siamo inventati di sana pianta l'esistenza dell'effetto Bilbao, come se Bilbao vivesse del museo, come se Bilbao fosse Firenze.
Sempre noi ci riempiamo la bocca, girandoci il dito nell'ombellico, sulla necessità di lasciare i segni architettonici della nostra contemporaneità in paesaggi e in città da "camera con vista", come dice Paolucci, consegnateci belle dai nostri nonni, senza nemmeno sforzarci di capire che la nostra contemporaneità è proprio quella delle nostre brutte periferie, dei nostri brutti casermoni, delle nostre brutte architetture di cui noi siamo in buona parte gli autori.
E quello che è peggio, senza ancora aver preso atto che è necessario invertire la rotta, anche se ormai i buoi sono scappati dalla stalla.

Adesso godetevi questa intervista, non prima però di farvi notare che effettuando su Google la ricerca "Paolucci", il primo nome che appare è quello di un calciatore, il secondo è il nostro. Questo fa parte della nostra contemporaneità. Come in architettura.

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PREMIO INTERNAZIONALE A E.M. MAZZOLA PER IL SUO "BORGO CORVIALE"

Il prof. arch. Ettore Maria Mazzola ci ha comunicato oggi di aver ricevuto dall'IMCL International Makink Cities Livabale Committee il premio International Urban Design Award, da una giuria composta tra l'altro da molti sociologi e di cui fa parte anche Edoardo Salzano.

Questo il testo della lettera pervenuta all'amico Ettore:

PRESS RELEASE
February 1, 2012

Contact: Suzanne H. Crowhurst Lennard, Ph.D.(Arch.)
Director, International Making Cities Livable Council
Suzanne.Lennard@LivableCities.org


Arch. Ettore Maria Mazzola

to receive the IMCL International Urban Design Award


Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola, The University of Notre Dame, School of Architecture, Rome Studies Program, will be the recipient of the 2012 IMCL International Urban Design Award, to be presented at the 49th IMCL Conference in Portland, OR, May 20-24.
Professor Mazzola’s work has consistently led the way in creating urban environments that celebrate community, and lift the spirit. His designs are hospitable for all, and show special concern for more vulnerable population groups, children, elders and the poor.
His project to replace a monolithic, low income housing block near Rome (Corviale) with a genuinely livable urban fabric, without disrupting the community, provides an exemplary model for urban renewal throughout the world. For more information, please see Regenerate suburban districts – proposal for the “ground-scraper” Corviale in Rome.
Professor Mazzola’s books include: The Sustainable City is Possible (2009); and Architecture and Town Planning, Operating Instructions, introduction by Léon Krier (2006). Please visit Professor Mazzola’s Profile.
The theme of the 49th IMCL Conference is Planning Healthy Communities for All, a theme that Professor Mazzola’s work perfectly exemplifies.


*****
Al progetto del Prof. Arch. E.M. MAzzola è dedicato un numero speciale de Il Covile, Speciale Corviale 1°

A Ettore vanno le mie congratulazioni per il suo successo internazionale. Una breve considerazione sul fatto che mentre a Roma si parla di costruire grattacieli e di inserire il Corviale nel progetto per le Olimpiadi del 2020, forse immaginando che al mondo interessi l'edificio più lungo e sgangherato del mondo, forse ignorando che all'estero in genere quegli edifici li demoliscono senza drammi ideologici, negli USA, dove tutto ciò che accadrà da noi accade prima, si premiano progetti di rigenerazione urbana a scala umana.
Servirà da esempio? C'è materia per dubitarne.

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