Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


26 settembre 2010

STRADE - 6°: KEVIN LYNCH

E' la volta di Kevin Lynch e il suo L'immagine della città, Marsilio, 1960.
Il capitolo di seguito riportato è il risultato di una serie interviste fatte in diverse città americane, in cui a cittadini comuni venivano poste domande per comprendere i meccanismi che producono la percezione della città. Pragmatismo e impronta scientifica pervadono tutto il testo, e la parte che segue non fa eccezione, ed è straordinario osservare quanti punti di vicinanza vi siano con autori molto diversi tra loro: Gianfranco Caniggia e Nikos Salìngaros prima di tutti, di cui seguiranno i post.
Altrettanto significativo è rileggere il post di Ettore Maria Mazzola per verificarne affinità e differenze.
Del libro in inglese, che è ormai un classico, esiste la pubblicazione di ampi stralci su Google libri.



KEVIN LYNCH (1918-1984)


Marsilio, 1960


Il disegno dei percorsi
Elevare la figurabilità dell’ambiente urbano significa facilitare la sua identificazione visiva e la sua strutturazione. Gli elementi precedentemente isolati – percorsi, margini, riferimenti, nodi e regioni – sono i blocchi di costruzione nel processo di edificare strutture ferme e differenziate alla scala urbana. Quali suggerimenti possiamo trarre dal materiale precedente sulle caratteristiche che tali elementi potrebbero avere in un ambiente veramente figurabile?

Il percorsi, la trama di linee di movimento abituale o potenziale attraverso il complesso urbano, sono lo strumento più potente per ordinare l’insieme. Le linee chiave dovrebbero possedere qualche attributo singolare, che le individua rispetto ai canali circostanti: una concentrazione di qualche uso o attività special sui loro lati, una qualità spaziale caratteristica, una particolare grana di pavimentazione o di facciata, uno specifico schema di illuminazione, un complesso unico di colori e rumori, un dettaglio tipico o un sistema di alberature. Washington Street può essere conosciuta per l’intensità dei suoi commerci e per il suo spazio e feritoia, Commonwealth Avenue, per la sua fila centrale di alberi allineati.
Questi attributi dovrebbero venir impiegati in modo da conferire continuità al percorso. Se uno o più di essi è coerentemente adoperato in tutta la lunghezza, allora il percorso può essere figurato come un elemento continuo, unificato. Può trattarsi di una alberatura a viale, di un colore o di una grana singolare nella pavimentazione, o della classica continuità delle facciate marginali. La regolarità può essere ritmica, una ripetizione di spazi aperti, monumenti o negozi d’angolo. La stessa concentrazione di traffico abituale lungo un percorso, come avviene con una linea di trasporti pubblici, rinforzerà questa immagine familiare e continua.
Questo conduce a quella che potremmo chiamare una gerarchia visiva delle strade e delle vie, analoga alla consueta raccomandazione di una gerarchia funzionale: un’individuazione sensibile dei canali chiave, e la loro unificazione come elementi percettivi continui. Questo è il telaio per l’immagine urbana.
La linea di movimento dovrebbe possedere chiarezza nella direzione. Il meccanismo guida del cervello umano è sconcertato da una lunga successione di svolte o da curve graduali che alla fine producono cambiamenti direzionali di maggiore entità. Le svolte continue delle calli veneziane o delle strade di uno dei romantici piani dell’Olmsted, o la curvatura graduale di Atlantic Avenue a Boston, confondono subito osservatori che non siano già smaliziati. Un percorso diritto ha naturalmente una chiara direzione , ma lo stesso può dirsi di uno che ha svolte ben definite, prossime ai 90°, o di un’altra che abbia molti lievi ondeggiamenti, ma che non perda mai la sua direzione fondamentale.
Gli osservatori sembrano conferire ai percorsi un senso di collimazione o di irreversibilità direzionale e sembrano identificare una strada attraverso la destinazione cui essa è orientata. In effetti una strada è percepita come una cosa che va verso qualcosa. Il percorso dovrebbe sostenere percettivamente questa sensazione attraverso dei punti terminali forti, e attraverso un gradiente o una differenziazione direzionale, in modo da ottenere un senso di progressione e da diversificare le opposte direzioni. Un gradiente comune è quello della pendenza del terreno, che di solito è riflesso nelle indicazione date al passante di andar “su” o “giù” per la strada. Ma ve ne sono molti altri. Un progressivo infittirsi di insegne, negozi o pedoni può contrassegnare l’avvicinamento di un nodo commerciale; può anche esistere un gradiente nel colore o nella densità dell’alberatura; un accorciarsi della lunghezza degli isolati o una strozzatura dello spazio possono segnalare la prossimità del centro cittadino. Pure le asimmetrie possono venire impiegate. Può darsi che uno possa procedere “tenendo il parco sulla sinistra”, o “muovendo verso la cupola dorata”. Si possono usare frecce segnaletiche, o tutte le superfici disposte in una determinata direzione potrebbero avere colori convenzionali. Tutti questi artifizi fanno del percorso un elemento orientato, al quale altri possono venir riferiti. Non vi è alcun pericolo di commettere un errore di direzione.
Se le posizioni lungo il percorso possono venir differenziate in qualche modo misurabile, la linea sarà allora non soltanto orientata, ma anche modulata. La normale numerazione anagrafica è una tecnica siffatta. Un sistema meno astratto è quello di contrassegnare un punto identificabile lungo la linea cosicché altri luoghi possono venir pensati come “prima” e “dopo”. Parecchi punti di controllo migliorano la definizione. Oppure un attributo, (come l’ampiezza del corridoio) può avere una modulazione di gradiente a saggio variabile, cosicché la stessa variazione assume una forma misurabile. In tal modo uno potrebbe dire che un certo osto è “giusto prima che la strada si restringa assai rapidamente” o “sul fianco della collina prima della salita finale”. Chi si muove può sentire non soltanto “sto procedendo nella direzione giusta”, ma anche “vi sono quasi arrivato”. Quando il tragitto contiene una simile serie di eventi distinti, il raggiungimento ed il sorpasso di un obiettivo intermedio dopo l’altro, l’itinerario stesso acquista significato e diviene in se stesso un’esperienza.
Gli osservatori sono colpiti persino nella memoria, da una evidente qualità “cinestetica” di un percorso, dal senso di movimento nel suo sviluppo: svolte, salite, discese. Ciò è particolarmente vero quando il percorso è compiuto a velocità elevata. Una grande curva in discesa, che avvicina il centro di una città, può produrre una immagine indimenticabile. Sensazioni tattili ed inerziali partecipano in questa percezione d movimento, ma la visone sembra essere predominante. Lungo il percorso possono esser disposti oggetti per acuire la parallassi o prospettiva del movimento, o può essere reso visibile in precedenza il futuro andamento del percorso. La conformazione dinamica della linea di movimento potrà conferire ad essa identità e produrre nel tempo una esperienza continuativa.
Ogni esposizione visiva del percorso o del suo obiettivo, ne rafforza l’immagine. Ciò può essere fatto da un grande ponte, un grande viale assiale, un profilo concavo o la silhouette lontana della destinazione finale. La presenza del percorso può essere resa evidente da grandi riferimenti situati lungo di esso o da altri indizi. La vitale linea di circolazione diviene palpabile ai nostri occhi, e può divenire il simbolo di una fondamentale attività urbana. Di converso, se il percorso rivela al viaggiatore la presenza di altri elementi della città, l’esperienza può venire acuita: se esso li penetra o li tocca tangenzialmente, se offre indizi e simboli di ciò che viene sorpassato. Una linea sotterranea, ad esempio, anziché essere seppellita viva, potrebbe improvvisamente attraversare la stessa zona dei negozi, o la sua stazione potrebbe improvvisamente richiamare nella forma la natura della città che sta sopra. Il percorso potrebbe essere conformato in modo da rendere evidente ai sensi il tragitto medesimo: corsie divise, rampe e spirali consentirebbero al traffico di indulgere nelal contemplazione di se stesso. Queste sono tutte tecniche per arricchire l’ambito visivo del viaggiatore.
Di regola una città è strutturata secondo un organizzato sistema di percorsi. In questo sistema il punto strategico è l’incrocio, il luogo di connessione e di decisione per chi è in movimento. Se questo può essere chiaramente visualizzato, se l’incrocio produce di per se stesso una immagine vivida, e se la giacitura di due percorsi l’uno rispetto all’altro è chiaramente espressa, in tal caso l’osservatore può costruire una struttura soddisfacente ……
Una congiunzione di più di due percorsi è normalmente difficile da concepire. Una struttura di percorsi deve avere una certa semplicità di forma per produrre un’immagine chiara. La semplicità è richiesta in senso topologico piuttosto che geometrico, sicché un incrocio regolare, ma ad angoli approssimativamente retti, è preferibile ad un trivio rigorosamente disegnato. Esempi di simili semplici strutture sono sistemi paralleli o a fuso; croci ad una, a due e a tre sbarre; rettangoli; o pochi assi riuniti insieme.
I percorsi possono venire anche figurati, non come lo schema specifico di certi elementi singoli, ma piuttosto come una rete, che, senza identificarne specialmente alcuno, spiega le relazioni tipiche tra tutti i percorsi del sistema. Questa condizione presuppone una trama che abbia qualche coerenza, sia essa di direzione, di interrelazione topologica, o di interspazi. Una scacchiera pura, combina le tre, ma invarianza direzionale o topologica possono di per se stesse risultare piuttosto efficaci. L’immagine si precisa se tutti i percorsi che corrono in un unico senso topologico, o secondo una stessa direttrice geografica, sono visibilmente differenziati dagli altri. A ciò si deve l’efficace distinzione tra le streets e le avenues di Manhattan. Colori, alberatura, o particolari possono servire egualmente bene. Nomenclatura, gradienti di ampiezza, di topografia, o di dettagli, differenziazione in seno alla trama possono tutti dare alla griglia un senso progressivo e persino un senso modulare.
Vi è un ultimo modo di organizzare un percorso o un sistema di percorsi, che acquisterà importanza crescente in un mondo di grandi distanze e velocità. Con analogia musicale, esso potrebbe essere dichiarato “melodico”. Gli eventi e le caratteristiche lungo un percorso – riferimenti, variazioni di spazio, sensazioni dinamiche – potrebbero essere organizzati come una linea melodica, percepita e figurata come una forma di cui si fa l’esperienza in un congruo intervallo di tempo. Poiché l’immagine sarebbe quella di una melodia completa, anziché di una serie di punti separati, quell’immagine potrebbe presumibilmente essere più estesa, e tuttavia meno esigente. La forma potrebbe essere la classica sequenza introduzione-sviluppo-culmine-conclusione, o potrebbe assumere aspetti più raffinati, come quelle che evitano la conclusione finale. L’arrivo a San Francisco attraverso la baia suggerisce questo tipo di organizzazione melodica. La tecnica offre un ricco campo di applicazione e sperimentazione del disegno.


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19 settembre 2010

SEQUENZE URBANE: UN ESEMPIO CONCRETO



Le immagini qui sopra mi sono state inviate dal Prof. E.M. Mazzola, sono disegni di sequenze urbane realizzate da alcuni suoi studenti della Notre Dame School of Architecture Rome Studies, utilizzate sia come rilievo che per il progetto.
Gli autori dei disegni sono, nell'ordine dall'alto verso il basso: Joshua Eckert, Kalinda Brown e Christal Olin .
Mi spiace per la notevole riduzione di qualità che ho dovuto effettuare, me ne scuso con i tre autori e ringrazio Ettore per la sua gentilezza.
Il post che segue è una divagazione, molto lieve, sul tema “sequenze urbane” proposto da Mazzola nel post precedente, a cui necessariamente rimando per una migliore comprensione dell’argomento.

*****
Domenica mattina, in città poca gente fino alle undici: giovani padri che portano a spasso figli piccoli, rari anziani, qualche single, per forza e non per scelta, uscito di casa per sfuggire la solitudine, alcuni turisti. Anche qualche architetto (siamo così tanti che statisticamente ne trovi sempre qualcuno).
Mi fermo a chiacchiera con uno che conosco. Niente di impegnativo, argomenti da giorno di festa, l'inevitabile mugugno, cosa fai oggi, poco più. Al momento di salutarci la classica domanda: dove vai? Non è curiosità, in genere, ma una formula di saluto rituale, come how do you do. Gli dico che sto andando al cimitero a piedi
Si meraviglia moltissimo, non della meta ma dell'andarci a piedi.
Gli faccio presente che non è poi così lontano come sembra, la città dei morti è sul versante opposto della collina, la zona meno abitata della città e quindi l'idea è che sia proprio da tutta un'altra parte.
Non l'ho convinto e credo pensi che io sia un gran camminatore. Purtroppo non è così. Approfitto della domenica mattina per recuperare quel deficit di passi mancati durante la settimana.
Salgo lungo il Corso Italia, la strada dello struscio serale, il salotto di Arezzo lungo quasi un chilometro, la più importante della città, quella che proviene dalla Val di Chiana e, superata la sella di Olmo, procede diritta per tre chilometri e mezzo, entra in città, anzi origina e ordina la città, e sale lassù fino alla sommità della collina, fino al Duomo.
A metà circa del Corso svolto a destra, lungo la via Garibaldi, già via Sacra, la strada dei conventi e delle Chiese. Al centro dell’incrocio il solito pakistano che vende palloncini. Mica è stupido lui, lo sa dov’è che la gente passa, lo sa dove sono i nodi urbani. Non va a vendere in una strada con il niente intorno. I commerci ci sono laddove c’è gente, e la gente va dove ci sono commerci. In quell'angolo è incredibilmente ancora possibile trovarvi qualche contadino che vende i frutti della stagione: funghi, mazzi di agretti, castagne. Almeno fino a che qualche norma europea non impedirà per legge ciò che già è naturalmente in crisi.
Entro in piazza Sant’Agostino che non è una vera piazza, ma uno slargo in salita, molto allungato e frammentato in spazi diversi tenuti insieme dalla Chiesa di Sant’Agostino, posta in alto, punto di vista su cui converge lo sguardo. Davanti alla Chiesa l’ampio e allungato sacrato, di forma trapezoidale, sopraelevato rispetto a tutto il resto della piazza, racchiuso sui tre lati da un muro – il quarto è la Chiesa. Un progetto sciagurato in corso di esecuzione ha deciso che l’unico spazio unitario e pianeggiante che c’era in questa anomala piazza - una grande terrazza sulla piazza stessa - dovesse essere interrotto da scale poste ad angolo tra la base minore del trapezio e uno dei lati. Il progettista ha visto evidentemente molti disegni di progetti con le immancabili scale piene di giovani felici e sorridenti e così ha trasformato un’immagine grafica in un progetto urbano, ottenendo però il risultato di distruggere lo spazio. Sono i danni delle riviste e soprattutto l’incapacità di leggere, non le riviste ma la città: si prende un adesivo che piace e lo si attacca in pianta; peccato che poi si trasformi in pietra.


La qualità degli edifici intorno, salvo la Chiesa, il convento e poco altro, è scadente, ma la piazza è la più viva della città: sede del mercato rionale, conserva il carattere popolare che ha ereditato dall’essere stata luogo di lavoro, di posta per le carrozze, di vasche per le lavandaie.
Proseguo a lato della Chiesa e, sempre in salita, mi immetto in via della Minerva, una sinuosa strada degli anni '30, che mi porta in Piazza Crucifera. Uno sguardo dall’alto alle mura a strapiombo, dalle quali sono appena uscito e che in quel lato sono di notevole altezza. Ai piedi di queste uno spazio sterrato detto “Il Gioco del Pallone”, dove una volta si giocava ad una specie di pelota.
Proseguo in Borgo Santa Croce, una bella strada extra-moenia, stretta e lievemente flessuosa, a seguire una curva di livello, con edifici abbastanza poveri, salvo qualche eccezione. Arrivo alla Chiesa di Santa Croce. Qui finisce la città antica e mi immetto in un viale che sale verso la Fortezza e il Cimitero. Un tratto diritto di circa duecento metri, in salita, e sono arrivato.
Ho controllato su Google earth, in tutto ho percorso 1250 metri circa, in circa 20 minuti. E’ tanto, è poco? Dipende.
Quei 1250 metri non pesano, anzi, sono un piacere. Il percorso che compio è un susseguirsi di quadri diversi, di sequenze urbane, come ha spiegato bene E.M.Mazzola nel post precedente, a cui rimando.

Gli stessi 1250 percorsi in un quartiere sub-urbano sarebbero stati una fatica, o meglio, una noia. L’incentivo a prendere l’auto è evidente. Con la stessa distanza si può andare dalla fine della città compatta ad un “vicino” supermercato o fare una visita ad un amico nel quartiere PEEP Tortaia.
Ma per farlo si deve percorrere una lunga strada (parallela al Corso) ma progettata per le auto: rare case ai margini e tra loro staccate, una somma di episodi. Si deve attraversare la tangenziale, ambiente ostile per il pedone, si continua a camminare nel vuoto e quei tratti di strada lunghi e monotoni appaiono distanze incolmabili. Infine si arriva al supermercato, progettato come una Chiesa, al centro di una piazza che però è un parcheggio, al centro di un quartiere PEEP.
Lo schematismo del percorso, disegnato con tratto minimalista e la mancanza di stimoli rendono il cammino faticoso e l’ambiente sfavorevole alle passeggiate. Sono del tutto assenti le sequenze urbane, prima di tutto perché è assente la città.
Come si può affrontare con leggerezza una camminata in una strada come questa, dove la meta è ben oltre ciò che si vede al fondo di questa foto?
La distanza e la durata degli spostamenti pedonali è certamente importante nel progetto della città, ma da sola non è condizione sufficiente a garantire una città user-friendly; questi quartieri hanno tenuto conto del raggio di influenza della scuola e dei servizi in genere, cioè degli standard, eppure il risultato è assolutamente insoddisfacente. La logica della quantità, il funzionalismo e la zonizzazione hanno fatto evaporare la città sostituendola con aggregati edilizi inadatti alla vita e alla convivenza umana. Sono stati costruiti molti edifici ma manca ciò che li tiene insieme per farne una città.
Un pensiero rozzo e schematico si è sostituito alla raffinatezza e alla complessità della città antica.
La razionalità da sola ha fallito il suo scopo e la fatica di abitare in città si è sostituita alla naturalezza di viverla.

Non appaia irriverente o troppo riduttivo utilizzare la suggestione del discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, sostituendovi la parola “religione” con “tradizione”:
Senza il correttivo fornito dalla “tradizione” (religione nel testo originale), infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana".

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16 settembre 2010

STRADE 5°: ETTORE MARIA MAZZOLA

Questo quinto post della serie strade prevede, sempre a causa della lunghezza, un unico autore il Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola, University of Notre Dame School of Architecture Rome Studies Program. E' un testo appositamente rielaborato dall'introduzione al corso di analisi della città che ha tenuto nel 2007 per il Graduate Program della Notre Dame e tutto dedicato a Roma.
Di questo impegno ringrazio l'amico Mazzola.

ETTORE MARIA MAZZOLA
Leggere la città esistente per disegnare quella futura

Volendo sottolineare ciò che colpisce un pedone nel suo passeggio per le strade di un centro storico, forse non c’è miglior descrizione di quella lasciataci da Plinio Marconi «[…] più che del dettaglio di ciascun edificio in sé, conta l’architettura d’insieme delle strade, assai varie e pittoresche nel casuale comporsi di tanti elementi disparati – crocicchi, androni, sottopassaggi angusti, l’improvviso alzarsi e scorciare di muraglie, i balconi fioriti, le loggette, le altane»(1).
Diversamente, lo studio di una qualsiasi realtà “urbana” prodotta nel corso del XX secolo dimostra che, in nome di una ossessione per la presunta “razionalità”, tutto ciò che aveva sovrinteso – intenzionalmente o no – allo sviluppo armonico delle città, contribuendo alla creazione del carattere dei luoghi e dell’orgoglio “campanilista” dei cittadini, è stato totalmente ignorato da chi teorizzava di voler realizzare una “città funzionale” alle esigenze umane: il modello tradizionale di città (LA CITTÀ COMPATTA), è stato rimpiazzato da quello modernista (LA CITTÀ DISPERSA), basato sulle folli imposizioni contenute nella Ville Radieuse di Le Corbusier(2).

Contrariamente alla nostra tendenza imitativa del modello disperso (SPRAWL) di pianificare le città, James Howard Kunstler – autore di The Geography of Nowhere (1993), The City in Mind (2001) e The Long Emergency (2005) – in un intervista del 2006 tuonò contro i limiti di quel modello: «assenza di spazi pubblici decenti; estrema separazione degli usi; svantaggi per bambini e anziani che non guidano, ecc.» facendo notare come: «La disposizione abitativa meno naturale e normativa è l’espansione selvaggia, nata negli Stati Uniti, che cominciarono il ventesimo secolo con delle grasse riserve di petrolio in casa. Oggi dipendiamo disperatamente per più di metà del petrolio che utilizziamo da nazioni che ci odiano. L’epoca dell’espansione a macchia d’olio come alternativa credibile è agli sgoccioli[…]».
Se i dati scientifici riportati in The Long Emergency corrispondono alla realtà – nessuno fino ad oggi è stato in grado di confutarli – ritengo che sia più che legittimo da parte nostra operare un processo di ri-compattamento delle città del XXI secolo, e per far questo non c’è miglior lezione che quella dell’analisi del tessuto urbano. La comprensione del sistema delle strade, delle piazze, della commistione di funzioni, della varietà edilizia, e di tutto ciò che rende piacevole gli spazi urbanizzati, può infatti risultare di grande aiuto per rivedere il modo in cui i quartieri più recenti sono stati pianificati.

Quella che segue è una breve descrizione del tessuto urbano della Capitale, in una passeggiata ideale che dal centro si muove verso la periferia. Le sensazioni che si susseguono lungo le strade di questo percorso ci consentono di riconoscere almeno quattro diverse città:

1. pre-ottocentesca, (o storica): è caratterizzata da un tessuto compatto, apparentemente irregolare, ma dotato di una sua logica razionale, all’interno del quale si riconoscono una serie di sistemi e sottosistemi (sequenze urbane) fatti di strade, vie, vicoli, piazze, piazzette, slarghi; qui, la commistione delle funzioni è la regola, l’edilizia “nobile” è accostata a quella “minore” in un armonioso rapporto biunivoco, dove la res publica si mescola meravigliosamente alla res privata generando la civitas, l’andamento delle strade, eccettuati alcuni assi rettilinei (l’antica via del Corso, o gli assi del Piano Sistino), presenta delle lievi – o pronunciate – curvature che, anche nel caso di stretti vicoli, garantiscono la possibilità di godere della vista delle facciate degli edifici, i principali dei quali, spesso, risultano collocati in modo da svolgere il ruolo di traguardo visivo, evidenziando come quelli che alle nostre menti razionali moderne possono sembrare degli spazi casuali, nella realtà siano stati razionalmente calcolati dagli autori. La “passeggiata” evidenzia anche come possano esserci tanti modi di giungere in una piazza e, nella quasi totalità dei casi, non v’è mai un asse allineato al centro della facciata dell’edificio principale, sembra essersi privilegiata sempre la visione di scorcio, molto più stimolante di quella ovvia della prospettiva centrale tanto cara all’urbanistica post-illuminista; la vista di scorcio, tra l’altro, consente all’edificio di poter esser inquadrato provenendo da diverse direzioni. Esempio emblematico è la Piazza della Rotonda, dove ben 6 strade convergono sul Pantheon, ma nessuna risulta in asse con esso;




Roma, l’area di Piazza della Rotonda

2. post unitaria: qui, il tessuto edilizio è organizzato per griglie ortogonali, le cui maglie urbane – a causa del sistema speculativo che le ha generate – risultano mal collegate, sia col centro che tra loro. Questa è la Nuova Capitale costruita in spregio alla vecchia Roma – basti pensare che i monotoni quartieri umbertini, d’impostazione Beaux-Arts, vennero definiti “di rimprovero e insegnamento” nei confronti della vecchia Roma (3). Nella Roma post-unitaria, le strade risultano quindi rigidamente dritte, le piazze assumono dimensioni enormi, proporzionate a quelli che sono gli assi stradali nel disegno planimetrico, ma non di certo alla scala umana, le cortine edilizie lungo le strade divengono monotone, poiché le facciate tendono a coincidere con l’isolato, perdendo il ritmo e la varietà presente nel centro storico. Tuttavia, l’architettura risulta ancora ricca e a tratti piacevole, le strade continuano a risultare vitali, grazie alla commistione di funzioni ed alla presenza di diverse attività commerciali lungo i marciapiedi, ma il passeggio diviene meno interessante. Questa Roma, avendo perso l’effetto sorpresa, le viste di scorcio e i traguardi visivi in grado di attrarre e reorientare il pedone, in nome dell’ordine e dell’uniformità, ha reso la passeggiata noiosa, benché ancora possibile;




Roma, l’area di Piazza Vittorio Emanuele

3. pre-modernista, caratterizzata da un tessuto ormai organizzato secondo i principi della maglia regolare, dove i grandi assi di matrice ottocentesca la fanno da padrona; la larghezza delle strade ha perso di vista il giusto rapporto con l’altezza degli edifici, e per ritrovare il senso contenimento urbano le strade fanno ricorso alla costante presenza di alberature lungo i marciapiedi, portando i fronti edilizi a non aver più alcun valore di riferimento. All’interno di questa “Roma” diviene difficile ritrovare una gerarchia spaziale tra le strade. La Roma pre-modernista è però l’ultima che, almeno a livello architettonico, cerca di mantenere un rapporto diretto con la città storica. In alcuni quartieri, nonostante la perdita del rapporto larghezza strade-altezza degli edifici, e nonostante la monotonia delle visuali – che sembrano modellate più per un veloce transito veicolare che non per un lento e piacevole passeggio – gli edifici sono ancora concepiti per avere delle funzioni diverse al pianterreno, garantendo quella “sicurezza” rassicurante per i pedoni, che di lì a poco si è andata perdendo.




Roma, l’area di Piazza Mazzini

4. Modernista, in realtà questa definizione è attribuibile al solo “quartiere” dell’EUR, in cui è chiara la logica d’insieme, ed in cui è chiaro l’intento di essere un qualcosa nato a scopo dimostrativo e temporaneo, ma che poi è rimasto lì per sempre. Qui, volendo, una gerarchia tra le strade è riscontrabile, tuttavia questa gerarchia risulta indipendente dall’idea di scala umana: la larghezza dell’asse portante di tutto il complesso, via Cristoforo Colombo, con i suoi 100 metri, risulta immensamente più larga dell’altezza degli edifici. Via Cristoforo Colombo è una strada disegnata per le auto, e nessun essere umano sano di mente penserebbe mai di mettersi a passeggiare al centro della carreggiata, nel vano tentativo di godere dei presunti “riferimenti visivi” (tali solo nel progetto); questi elementi risultano talmente distanti tra loro, e talmente privi di “cornici edificate”, da dissolversi nell’aria. Non è un caso se l’EUR, dimensionato per l’automobile, risulta esser stato completato – dopo la caduta del Fascismo – con l’apporto economico dalla FIAT. La lettura delle strade di questo “quartiere” dimostra senz’altro una sua coerenza nel carattere degli edifici Razionalisti, tuttavia si tratta di un modello di città ben distante dalle esigenze umane, che sembra uscire da un quadro metafisico di De Chirico, dove gli spazi sembrano concepiti al solo scopo di generare l’agorafobia.


Roma, l’area dell’EUR

Esisterebbero almeno altre due Roma da descrivere, quella “palazzinara”, edificata tra gli anni ’50 e i primi ’60, e peggio di questa, quella derivante dal Piano del ’62 e dai successivi Piani di Edilizia Economica e Popolare, ma l’unica lezione che da esse si può apprendere è che si tratta di modelli urbani da non ripetersi mai più!
Riassumendo, la lettura del tessuto dei differenti quartieri, ci aiuta a comprendere i vantaggi, e/o i limiti, delle diverse città all’interno del perimetro comunale, suggerendoci varie soluzioni per riorganizzare quelle zone in cui risulta difficile riconoscere l’esistenza di un progetto urbano.
L’analisi delle strade di un centro storico, ci mostra l’importanza di aspetti quali l’“effetto sorpresa”, i riferimenti visivi, il ritmo scadenzato dal susseguirsi di piazze, piazzette e slarghi, la varietà dei prospetti che si susseguono lungo i fronti stradali, il senso di unitarietà priva di uniformità, ecc.: le reti che mettono in relazione questi elementi, possono definirsi SEQUENZE URBANE.
Queste SEQUENZE possono suddividersi gerarchicamente in sequenze urbane principali – quelle lungo le quali si snodano le strade e le piazze principali – e sequenze urbane secondarie – quelle lungo le quali si articolano i percorsi pedonali secondari con piazzette più umili o corti.

Ambedue questi tipi di SEQUENZE URBANE utilizzano gli spazi pubblici come cerniere per attrarre e re-orientare chi cammina. L’esistenza di queste SEQUENZE ci spiega il perché le piazze del centro funzionino decisamente meglio di quelle “moderne”: le seconde infatti, costantemente sovradi-mensionate e concepite come fini a se stesse – quindi non appartenenti ad un sistema complesso – non esercitano sul pedone lo stesso piacevole effetto accogliente di quelle centrali e, conseguen-temente, non riescono a generare vita all’interno dell’intero quartiere.
Queste sequenze rendono la città piacevole … la possibilità di poter scegliere tra diverse connessioni pedonali, invita la gente a passeggiare attraverso il centro, allontanando la necessità dell’automobile … gli effetti positivi della città pedonale sono troppo ovvi per doverli descrivere.

Alla luce di quanto sopra, appare dunque chiara la necessità di riaffermare il valore della continuità tra case, strade e piazze, ovvero tra i luoghi deputati agli aspetti privati della vita di ogni giorno e quelli destinati ad un ambito di relazioni allargate: i nuovi quartieri (ma anche la riqualificazione di quelli esistenti) dovrebbero intendersi come degli spazi compositi in cui le case, e/o gli edifici speciali, sono solo un elemento della composizione urbanistica, importante ma non sufficiente a soddisfare le necessità di incontro e relazioni sociali! Come infatti ha acutamente evidenziato il sociologo americano Richard Sennet (4), la “griglia ortogonale urbana” rappresenta «la prima manifestazione di una forma particolarmente moderna di repressione che nega il valore degli altri e dei luoghi specificatamente addetti alla costruzione della banalità quotidiana».

NOTE
1) Plinio Marconi, saggio intitolato L'Architettura rustica nell'isola di Capri, in "Le Madie", pubblicazione mensile d'Arti Paesane, n° 2, Dicembre 1923, pag. 22
2 «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti.»
3) Giovanni Faldella, Roma Borghese, Roma, 1882
4) Richard Sennet, American cities: the grid plan and th protestant ethic, International Social Scieca Journal; XLII, 3, 1990


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13 settembre 2010

PADIGLIONE LANGONE

Su Il Foglio del 26 agosto 2010, Camillo Langone ha stilato una lista ragionata di architetti che costituiscono il Padiglione Langone (dice lui) di una Biennale con un padiglione solo (aggiungo io). Ci sono in questa rassegna nomi noti alla quasi generalità degli architetti, e nomi noti prevalentemente a chi apprezza l’architettura della tradizione.
Questo Padiglione è la dimostrazione che si potrebbe organizzare una Biennale non monotematica, modaiola e partigiana eppure con architetture diverse tra loro, almeno nel linguaggio. Naturalmente non sarebbe la Biennale, ma altro. Non potendo riportare tutto l’articolo e non volendo menomare il testo di Langone dedicato a ciascun architetto, sono costretto ad una scelta. Ho seguito il criterio di mantenere la diversità.
Non ho compreso Andrea Pacciani, Matteo Thun e Paolo Zermani.
Alcune brevi considerazioni:
Riporto alcune foto di chiese di Mauro Andreini e consiglio di guardare nel suo sito anche gli acquerelli. Di Pier Carlo Bontempi riporto la Place de Toscace, mentre di Bruno Minardi non riporto alcuna foto perché le immagini del suo blog hanno il copyright.

MAURO ANDREINI
"I nostri nemici non sono gli atei, ma chi privatizza la fede" disse don Giussani, quindi i nostri nemici sono la Cei e le curie che da decenni commissionano chiese irriconoscibili con campanili inesistenti o non percepibili come tali perché simili a tralicci, ripetitori, ciminiere... Dopo lunghe ricerche ho verificato che in Italia su 140.000 iscritti all'Albo (avete letto bene: centoquarantamila) esiste solo un architetto che costruisce chiese che sembrano chiese e campanili che sembrano campanili (sebbene non abbastanza alti).
Sono andato a trovarlo a Montale, diocesi di Pistoia, e ho conosciuto un uomo religioso e quindi umile, quasi disinteressato all'apparire da rasentare lo snobismo. "Io sono un architetto regionale". Ma non è certo una diminutio, in un tempo di architetti internazionali tutti uguali. "Io non voglio asso¬lutamente inventare nulla". Anche questo è un merito, come capisce chiunque abbia letto il Ratzinger di "Introduzione allo spirito della liturgia": "Nelle moderne teorie artistiche si intende con creatività una forma nichilistica di creazione, in un mondo privo di senso, sviluppatosi per un'evoluzione cieca". Andreini, il cui mondo di senso è pieno, mi spiega il suo modo di progettare edifici di culto: "Vorrei avvicinarmi alla semplicità del disegno di un bambino che per disegnare una chiesa impiega urta capanna e un campanile, una piazzetta e una casina accanto".

Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Mirabella

Non ho ancora detto che tutte le chiese costruite da questo fantastico toscano (seguace di Ambrogio Lorenzetti e metafisico però di un metafisico collodiano, non dechirichiano) sono protestanti. Ebbene sì. Eretiche. Perché i vescovi cattolici l'unico architetto italiano che disegna campanili mica lo fanno lavorare.
Mauro Andreini: Chiesa e Centro comunitario - Firenze

PIER CARLO BONTEMPI
Un viale di pioppi cipressini e due pilastri nella campagna come una visione, due pilastri di mattoni appena eretti che sarebbero (mi dicono il committente Franco Maria Ricci e l'architetto Pier Carlo Bontempi) due prove di materiale eppure (me lo dico da solo) sono nientemeno che il Paesaggio Italiano, convivenza talmente armoniosa fra natura e cultura da generare poesia. Non vorrei fare troppo lo svenevole e anziché quest'immagine lirica, rarefatta, espongo un capolavoro di civile concretezza: la Place de Toscane, un'intera piazza (compresa di palazzi) progettata e costruita da Bontempi a Marne-la-Vallée, importante "città nuova" dell'Isola di Francia a pochi chilometri da Parigi.
Il suo ovale riprende dichiaratamente la lucchese Piazza del Mercato che Guido Ceronetti definì "spazio ideale" dove "vivere felici, al riparo, nel cavo di mano di un archetipo".
Place e Piazza meritano un'ulteriore citazione, stavolta di Mircea Eliade: "La nostalgia del Paradiso è il desiderio di trovarsi, sempre e senza sforzo, nel cuore del mondo, della realtà". Bontempi ovvero del paradiso possibile, a portata di mano, non dell'ideologica utopia. Non ha senso desiderare oltre: se siete ricchi o se siete potenti che cosa aspettate a commissionare qualcosa all'artefice dell'abitare senza sforzo, della riconciliazione tra cuori e muri? Le meraviglie che realizza specialmente oltralpe sono documentate nella mostra dedicata ai "New Palladians" che da Londra ha girato mezzo mondo ma non l'Italia, a riprova che gli italiani odiano loro stessi e che Palladio non se lo meritano.
Ammiratele nel libro omonimo acquistabile su Amazon dove sono raccolte opere di oltre quaranta architetti tradizionalisti, tutti meritevoli di plauso: ma solo Bontempi è così sereno.

Pier Carlo Bontempi: Place di Toscane - Marne-la-Vallèe

BRUNO MINARDI
Io non mi stupisco che il turismo balneare italiano sia in declino e che la gente si aggiri per Riccione con la domanda di Bruce Chatwin stampata sul viso: "Che ci faccio qui?". Io mi stupisco che il turismo balneare italiano esista ancora.
Com'è possibile che qualcuno si riduca a passare e vacanze a Sottomarina, Lido Adriano, San Benedetto del Tronto? Bisogna essere sprofondati in una drammatica mancanza di alternative, altrimenti sai le fughe. L'epicentro della crisi è la riviera romagnola che può affascinare a vent'anni (ma se hai vent'anni ti puoi alterare meglio a Mykonos e Ibiza).
Per ridare un minimo di credibilità a Rimini come meta turistica bisognerebbe cominciare col tirar giù gli alberghi di viale Vespucci e farli ricostruire da Bruno Minardi più piccoli, più belli e soprattutto più vicini all'idea dell'albergo di mare (al momento rendono piuttosto l'idea del condominio di Buccinasco).
L'architetto di Ravenna è l'unico architetto balneare italiano, bisogna sfruttarne l'eclettismo. Nella sua produzione, che deve molto ad Aldo Rossi pur confrontandosi col vernacolare, ho individuato almeno tre sottostili: sottostile baltico (tetti spioventi), sottostile adriatico (persiane bianche), sottostile balearico-pugliese (pietra a secco).
Qui mostro un esempio di sottostile adriatico che può aiutare a ritrovare il fascino perduto di Romagna. Oggi nell'arte figurativa c'è un grande maestro di eleganze vacanziere; Jack Vettriano. Le ville che Minardi immerge nelle pinete ravennati sono gli unici set contemporanei che l'Italia possa offrire al pittore scozzese, nel tempo in cui gli architetti da Biennale continuano a produrre sfondi per Botto e Bruno.

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11 settembre 2010

Tratto dal suo libro di poesie, un ricordo per il carissimo amico Bruno, maestro di libertà, che ci ha lasciato:
Le ultime tre poesie sono del mio nipotino Riccardo scritte all’età di sette anni.
In una notte che dormì con me, tutti soli, prima di prender sonno mi disse:
“Nonno, se muori d’agosto piangerò fino a gennaio”.
“Grazie” - risposi- “ma il Natale passalo in allegria”.
Ci addormentammo con la coscienza in pace.

Bruno Bernacchia

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10 settembre 2010

PREGHIERA DI LANGONE SU PENSILINA FIRENZE E ALTRO

del 31 agosto.

Camillo Langone su Il Foglio invita il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi, a candidarsi a Milano, per continuare nella sua opera di....demolizione.

Peccato che ci sia già candidato Stefano Boeri, sempre da Il Foglio!

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5 settembre 2010

STRADE - 4°: MARCO ROMANO E CAMILLO SITTE

Questo post è dedicato al prof. Marco Romano, cui il tema strada è particolarmente caro e congeniale, e a Camillo Sitte. Il brano del prof. Romano riportato è, al solito, limitativo rispetto alla ricchezza dei contenuti espressi dall'autore nei numerosi saggi che ha scritto, ma lo scopo di questa sorta di antologia a puntate è una segnalazione, o un pro-memoria, da prendere come invito a leggere il testo complessivo. Ho inserito anche Camillo Sitte, con il suo celeberrimo, L'arte di costruire le città, Jaca Book, 1981, nonostante l'argomento principe del libro sia la piazza; tuttavia il brano che riporto di seguito ha attinenza con un commento lasciato da un collega aretino al post precedente. Non è la risposta ad un quesito ma la riproposizione di un aspetto problematico della strada contemporanea, anche se il libro appartiene alla fine dell'800. Il titolo stesso del capitolo è di grande attualità, purtroppo.

MARCO ROMANO


Strade e piazze tematizzate
Quel che abbiamo fin qui dimostrato è che le facciate delle case nella città europea manifestano una volontà estetica ignota alle altre contrade del mondo, sottolineando poi come a loro volta i temi collettivi siano stati voluti quanto più fastosi possibile. E se il loro diverso radicamento nell’orgoglio civico – dei cittadini in quanto individui nelle facciate delle loro case e come civitas nei temi collettivi – anziché nel desiderio di magnificenza di un sovrano ne modifica il significato, è anche vero che codesta differenza non incide in modo immediato sul nostro apprezzamento. Sicchè le guide turistiche possono senza inconvenienti assimilarli al medesimo universo delle “cose da vedere”, agli edifici monumentali che punteggiano in tutte le grandi città il fondo magmatico delle case, nei quali viene comunque espresso un costante desiderio estetico, sicché dal punto di vista di chi per questo le apprezza non vi sarebbe grande novità.

Ma, accanto a quei temi collettivi, gli europei hanno inventato tutta una gamma di strade e di piazze tematizzate senza riscontro altrove , che hanno consentito di fare davvero della città intera il campo di una pervasiva volontà estetica.
Mentre per Sant’Agostino l’urbs era l’indifferente scenario terreno dove eravamo nati per guadagnarci la vita eterna in una civitas i cui reggitori seguissero la guida dei loro pastori spirituali – per principio liberi dalle umane passioni dei governanti mondani, nella città del Mille l’urbs è la manifestazione materiale della consistenza morale della civitas, perché non si dà cittadino conjurato senza il possesso di una casa, e reciprocamente ogni casa è la famiglia di un cittadino, mentre ogni tema collettivo è a sua volta l’espressione materiale dell’esistenza della civitas come organismo olistico con una propria volontà di forma – una Kuntswollen, diranno secoli dopo – e dunque civitas ed urbs sono unite come il palmo e il dorso della mano: sicché nell’ordine simbolico l’urbs è anche la manifestazione della sfera politica in tutta la sua articolazione e complessità.

Nel XI secolo le città europee consistevano in un aggregato di case fitte fitte, allineate lungo vicoli nei quali spesso incontrare un asino era un problema, circondato dai primi abbozzi delle mura e spesso senza neppure una chiesa, ché la gerarchia diocesana era fondata su pievi di campagna a servizio di una popolazione contadina dispersa in nuclei di poche famiglie.
Quando la struttura politica delle corporazioni verrà rispecchiata nell’urbs distribuendo i molti mestieri in strade diverse, compare una strada principale dove concentrare le case dei mercanti, riconosciuto nerbo della società e tramite della sua ricchezza: perché soltanto i mercanti possono trasformare nelle fiere lontane i prodotti degli artigiani e dei contadini in denaro sonante e soltanto i mercanti possono trarre dal commercio con le altre città quel guadagno che in definitiva alimenta il benessere dell’intera civitas.

Come le case degli artigiani hanno sulla strada i loro laboratori e ai piani superiori o nella corte interna la loro abitazione, così le case dei mercanti hanno al piano terreno le loro botteghe ma ai piani superiori, insieme all’abitazione, altri locali aziendali, uffici o magazzini duplicati talvolta, come a Berna, nei seminterrati.
La forma più ricorrente della strada principale, d’essere affiancata da portici, è a sua volta maturata col tempo: sarà soltanto nel Trecento che alle tende, da decenni montate davanti alle botteghe per proteggere le merci esposte in strada, verrà richiesto un qualche ordine, verranno prescritti dapprima portici in legno e in seguito in muratura, sopra i quali i mercanti amplieranno le loro abitazioni……

CAMILLO SITTE (1843-1903)


I limiti dell'arte nei moderni piani regolatori delle città
Nel campo dell'urbanistica, i limiti delle possibilità artistiche si sono di molto ristretti e un capolavoro come l'Acropoli è diventato addirittura inconcepibile. Per ora simili realizzazioni appaiono impossibili: anche se disponessimo dei soldi necessari per costruirle, sarebbe impossibile realizzarle. Infatti a noi manca il principio estetico fondamentale e la visione del mondo comune a tutti, cioè quella che vive nell'anima del popolo e che dovrebbe trovare nell’opera la sua manifestazione concreta. Anche se fosse priva di ogni contenuto ed avesse un valore puramente decorativo, com’è appunto l'arte moderna, una simile impresa sarebbe ancora d’una grandezza eccessiva per l'uomo realistico del nostro secolo. L’urbanista di oggi deve, prima di tutto, esercitarsi alla nobile virtù della modestia e, cosa bizzarra, vi è costretto non tanto per mancanza di risorse finanziarie, quanto piuttosto per ragioni interne e puramente obiettive.

Supponiamo che nel quadro di un nuovo complesso si decida di realizzare, a fini puramente decorativi un paesaggio urbano, insieme grandioso e pittoresco, che dovrebbe servire unicamente alla rappresentazione e glorificazione del comune. La regola e il rigoroso allineamento delle facciate sarebbero, perciò, degli strumenti perfettamente inutili. Infatti, per ottenere gli effetti degli antichi maestri, dovremmo disporre anche dei loro colori sulla nostra tavolozza. Bisognerebbe integrare artificiosamente nel progetto ogni specie di curvature, di angoli e di irregolarità, cioè, tutta una «naturalezza» forzata e delle “eventualità calcolate”. Ma è possibile immaginare e costruire sulla carta le forme che la storia ha prodotto nel corso dei secoli? Si potrebbe godere davvero di questa ingenua finzione, di questa spontaneità artificiale? Certamente no. Le serene gioie dell’infanzia sono negate ad un’epoca che non costruisce più spontaneamente giorno per giorno, ma che organizza i suoi spazi razionalmente sul tavolo da disegno. L’evoluzione è irreversibile e, senza dubbio, una buona parte delle bellezze pittoresche che abbiamo enumerate, sono definitivamente perdute per noi.

La vita moderna, come le nostre tecniche di costruzione, non permette una fedele imitazione dei complessi urbani antichi e bisogna riconoscerlo se non vogliamo perderci in vane fantasticherie. Le esem¬plari creazioni dei maestri d'altri tempi devono restare vive, ma non mediante un’imitazione senza anima. Occorre esaminare quello che d'essenziale in quelle opere e adattarlo, in modo significativo, alle condizioni moderne. Soltanto allora riusciremo ad ottenere una nuova fioritura da un terreno apparentemente sterile.

Nonostante tutti gli ostacoli, questa impresa dovrebbe essere tentata. Bisognerà rinunciare a molte bellezze pittoresche e tenere in gran conto le esigenze delle attuali tecnche urbanistiche dell'igiene e della circolazione. Ma non si dovrebbe perdere il coraggio e rinunciare puramente e semplicemente a cercare la soluzione artistica, per accontentarci della semplice tecnica come se si trattasse di costruire una strada od una macchina. Infatti, anche nell’affannarsi della nostra vita quotidiana, non possiamo fare a meno degli alti sentimenti suscitati in noi dalla contemplazione delle forme d’arte. Abbiamo il diritto di pensare che l'arte deve avere un suo posto preciso nell’urbanistica, perché la città è un'opera di arte che esercita quotidianamente e in ogni momento la sua azione educatrice sulle masse, mentre il teatro ed il concerto non sono accessibili che alle classi più abbienti.
I poteri pubblici dovrebbero accordare particolare attenzione a questo punto e dimostrare in quale misura i principi degli Antichi possono accordarsi con le esigenze moderne. Appunto a questo studio saranno consacrati gli ultimi capitoli......

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UNA LEZIONE DI URBANISTICA
MORE ETHICS OR MORE AESTHETICS?
CITTA' ORGANISMO O CITTà MACCHINA
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3 settembre 2010

DOVE DEMOLIRE LE PERIFERIE NON E' TABU'



Notizia tratta da URBANLOVERS, newsletter del Prof. Gabriele Tagliaventi allegata a A VISION OF EUROPE

Su YouTube sono presenti molti altri filmati analoghi, a dimostrazione che non si tratta di una eccezione.

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