Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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30 luglio 2012

LA MORTE DELLA CULTURA URBANA

Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base , se non ne altera la “forma” significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowsky a Leroi-Gourhan, non c’è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del “sistema significativo” che sostiene ogni modello culturale.
Il risultato è sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la “cultura” è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una “forma”, nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l’organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come “etnologico”: segnale di pseudo vita, di “vita morte”….”
.


Questa è una parte del testo con cui Ida Magli, nel suo atroce ma rivelatore libro Dopo l’Occidente, BUR, descrive il metodo attraverso il quale modelli culturali appartenenti a sistemi diversi entrano in contatto tra di loro e come uno di essi può soccombere fino ad estinguersi.

Non sono l’architettura e l’urbanistica al centro dell’attenzione del libro, essendo invece un grido di dolore con poche speranze sulla fine dell’Occidente e della sua cultura secolare, ad iniziare dall’Europa, l’anello più debole della catena, ma i richiami all’arte, all’architettura, alla storia, alla letteratura, al pensiero filosofico europeo e a quello italiano in particolare sono frequenti ed accorati perché i popoli d’Europa si risveglino ed evitino l’estinzione, minati come sono da una cultura di morte per avere perso ogni legame con la tradizione, con il proprio passato, con i legami familiari, con la propria religione, con tutto il suo patrimonio culturale, con il comune buon senso.

Non si occupa di città Ida Magli ma, pur non essendo certo io esperto di antropologia, come pensare che la città, come tutti gli insediamenti umani, non faccia parte del patrimonio culturale dei popoli, se è vero che la città è l’ambiente creato dall’uomo per potervi sviluppare tutti i propri rapporti sociali? Si può dire che la città è il luogo della società. E allora come non osservare i cambiamenti che le città hanno avuto negli ultimi cento anni, e nel nostro caso negli ultimi sessant’anni, grazie ad un “modello culturale” ad essa prima estraneo e di “forma” completamente diversa e volutamente a quello opposta!

L’annientamento della strada, prima di tutto, con la perdita delle sequenze spazio-temporali di quel continuum che era la città precedente, a vantaggio di uno spazio sincopato e frammentato, disegnato esclusivamente per il mezzo meccanico, per l’auto soprattutto, e costituito da zone tra loro separate e ciascuna monofunzionale e super specializzata.
La perdita quindi della ricchezza delle relazioni umane, della varietà delle azioni da compiere nell’arco dell’intera giornata.
La perdita della scoperta continua di situazioni e della possibilità di azioni diverse che accadono nell’arco spazio-temporale di qualche centinaio di metri e della stessa giornata, una variazione dei rapporti umani improntati alla regola della “uniformità nella diversità”, al pari delle abitazioni dell’edilizia di base, ciascuna con le medesime caratteristiche tipologiche eppure ognuna morfologicamente diversa dall’altra per la variazione di pochi elementi architettonici.

Cosa ha a che vedere una città-organismo in cui ogni parte è in relazione al tutto e dove l’insieme delle varie parti è ben più della somma delle stesse, con un modello frammentato, esploso, splittato in cui le singole parti sono relazionate alle altre solo con strade adatte alle automobili, impraticabili a piedi, e dove l’insieme, l’organismo, non esiste perché ogni parte funziona (male) separatamente dall’altra?

Cosa ha a che vedere un modello di città denso caratterizzato dalla pluralità di funzioni, dalla prossimità, intesa in senso spaziale, funzionale e simbolico, con un modello in cui ad ogni zona corrisponde una sola funzione e per assolvere a più funzioni nell’arco della giornata è necessario spostarsi con il mezzo meccanico? La prima città in un certo senso si muove con il cittadino, perché il suo fluire continuo ti accompagna ovunque; la seconda è immobile e gli abitanti devono spostarsi in massa da un luogo all’altro: se si bloccano gli spostamenti in auto, la città non funziona più, si paralizza. Paradossalmente i due estremi ingorgo-blocco del traffico producono lo stesso risultato: la paralisi della vita urbana.

Cosa ha a che vedere un modello di città caratterizzata da fronti continui che racchiudono la strada, lungo la quale si sviluppa la vita di relazione, con quello di una somma di edifici scollegati tra loro, tenuti insieme da vuoti informi, da verde di tutti e quindi di nessuno e/o da parcheggi, entrambi destinati presto a diventare luogo di degrado?
Il secondo modello, totalmente estraneo e diverso dal primo, è figlio di una cultura diversa, immessa a forza nel sistema culturale esistente da una macchina propagandistico-culturale straordinaria, che si è impadronita di quella precedente, ma ha iniziato “il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come etnologico”, cioè quello di una cultura morta. Questo fenomeno è già certamente avvenuto nella mente degli architetti, cioè di coloro che insieme alla politica, al mondo accademico, ai media avrebbero avuto il compito di capire in tempo cosa stesse accadendo e di porvi rimedio. Ma così non è stato e così non è tuttora, anche se vi sono segnali, deboli e incerti che vanno nella direzione opposta.

Segnali confusi però in mezzo a molti altri segnali, non sbagliati in se stessi, ma il cui forte rumore mediatico finisce per coprire i primi:
• la "smart-city", sistema tecnologico fors’anche utile, ma di secondo o terzo livello, solo software, quando la città invece è hardware, è forma delle varie parti relazionate tra loro. Una città funziona se la sua forma è giusta e i sistemi tecnologici sono utili supporti che, da soli e in presenza di una forma non idonea, poco o niente possono risolvere. Al pari di una abitazione, in cui ciò che conta è il tipo, gli spazi interni che la definiscono, la materia con cui è costruita, non gli impianti, avanzati quanto si vuole, ma che possono essere cambiati o migliorati in ogni momento.
•la città “sostenibile” o “green”, concetto generico entro cui ci sta tutto e il suo contrario. Non è certamente sostenibile per la sola presenza di un po' fotovoltaico, è sostenibile se il risparmio energetico deriva dalla sua forma, cioè se è pedonabile non per decreto del Sindaco ma perché è compatta ed è possibile accedere alla gran parte delle funzioni di uso quotidiano senza la necessità dell’auto.

In questi segnali non è difficile leggere il marchio delle lobbies industriali e commerciali che hanno tutta la convenienza a lasciare le cose come stanno, cioè a conservare la morta città attuale, per vendere i loro prodotti salvifici. Il mondo della cultura urbanistica non deve lasciarsi distrarre da queste idee, continuamente e ossessivamente veicolate dai media, che allontanano la ricerca della soluzione, per cadere ancora una volta nella trappola tecnicistica, dopo quella dello zoning che favoriva prima e adesso obbliga all’uso esclusivo e massiccio dell’auto.

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19 aprile 2012

GRATTACIELI A ROMA: I VIDEO

Si è svolto a Roma il 13 aprile un incontro per discutere sulla proposta di Alemanno di individuare aree per costruire i grattacieli. Erano presenti tra gli altri: Paolo Portoghesi, Oreste Rutigliano, Vittorio Sgarbi, Amedeo Schiattarella, Ettore Maria Mazzola, Giorgio Muratore, Franco Purini. Alcuni di essi fanno parte della "commissione grattacieli" voluta dal Sindaco di Roma.

Non ero presente quindi mi limiterò ad allegare i video che al momento sono disponibili in rete. Anche l'ordine cronologico non so se corrisponda, ma non ritengo sia molto importante. Purtroppo il video di E.M. Mazzola è stato girato senza inquadrare le slides che venivano da lui illustrate.

Mi risultano oscure e molto estemporanee le motivazioni che possano spingere un sindaco di una qualsiasi città, a maggior ragione di Roma, a decidere di istituire una "commissione grattacieli" per individuare aree adatte a tale tipologia.
Soprassedendo sull'anacronismo, sulla non sostenibilità ambientale, sulla pericolosità, sulla estraneità di tale tipo rispetto alla realtà italiana, è incomprensibile e profondamente sbagliata l'idea stessa di immaginare zone adatte ai grattacieli perchè è un modo diverso di perpetrare una zonizzazione, che in questo caso è tipologica, creando "isole" specializzate destinate a diventare nuove periferie alternative e diverse rispetto alla città. Uno sprawl verticale in sostanza.
Aggiungo, con un misto di amarezza e sadismo, che probabilmente il "combinato disposto" di IMU e rivalutazione triennale del valore degli immobili sarà l'ostacolo che riuscirà a fermare questa sciagurata operazione.


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4 aprile 2012

UTOPIE

La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico , il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale è l’incapacità della città di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico.
La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale riguarda l’intera città. La sua soluzione riguarda la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede , inoltre, l’integrazione della città con i suoi immediati dintorni
.


Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più.
La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituite quell’impianto con uno che elimini, per quanto possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita.
Ciò significa che dobbiamo sostituire l’antico sistema a griglia, o a lotti, con un elemento nuovo, una nuova unità di insediamento, la cui struttura possa risolvere, in termini generali, i problemi di tutte le diverse zone della città e delle loro interrelazioni: dovrebbe dai luogo a un’espansione urbana libera e senza ostacoli creando una struttura adeguata a una sana esistenza della comunità.
Le aree residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano tutte queste condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale
”.

Chi scrive è Ludwig Hilberseimer, in La natura delle città, Il Saggiatore, 1969, prima edizione negli USA del 1955. Si tratta dell’inizio del 3° capitolo “Problemi di pianificazione”, mentre i primi due titolano ”Origine, crescita e declino” e “Modello e forma”.
Il testo continua con la descrizione, piuttosto precisa, del tipo di insediamento “ideale” che risponda ai requisiti generali sopra esposti. Viene chiamato “unità di insediamento”, ogni funzione è separata dalle altre e la viabilità è gerarchizzata in modo tale che all’interno della aree residenziali non possano entrare auto.

La prima osservazione è che il libro sembra scritto da due persone diverse: nei primi due capitoli si analizzano molte città del passato e del presente, con competenza e sensibilità, sapendone cogliere gli aspetti concreti e quelli simbolici e anzi attribuendo a questi una grande importanza nella forma e nella crescita della città, e vi si trovano frasi di questo genere:
L’architettura di una città è un’architettura che implica non i singoli edifici o gruppi di edifici, ma tutto il complesso che costituisce la città stessa; la relazione mutua tra le sue parti e quella fra ciascuna parte e la città nel suo insieme. Il suo obiettivo è l’uso creativo degli elementi materiali della città; il suo scopo è il raggiungimento di un odine visivo adeguato all’ordine fisico della città”.

E poi:

I materiali dell’architettura della città sono il luogo della città e la sua topografia, gli edifici della città, e gli spazi interni ed esterni ad essa”.

Non solo: il secondo capitolo, come scritto in Prefazione “si occupa dei modelli organizzativi e della forma della città, analizza i due sistemi di pianificazione, geometrico e organico”, che determinano il tipo, l’architettura e il paesaggio urbano”. Il fatto singolare è che l’autore attribuisce al modello organico, quello cioè che asseconda la morfologia del terreno e la natura e “prende in considerazione necessità e funzione” - mentre quella geometrica è pianificata in base ad un’idea generale preesistente al luogo - la sua preferenza, anche di tipo politico e sociale:

Castellazzo (insediamento geometrico) e Galstonbury (insediamento organico) rappresentano, a un livello primitivo, i due tipi universali di città: la città autocratica e la città libera, che sono rintracciabili in tutte le epoche”.
Niente è più geometrico, ideale e autocratico della città verticale e di quella che è stata prodotta dal libro, vale a dire Lafayette Park a Detroit.

Colpisce, inoltre, il fatto che la lettura del brano in testa potrebbe trovarsi in un qualsiasi testo contemporaneo, in un blog, in un articolo di giornale: traffico, inquinamento, limitazioni alla circolazione, criminalità, incidenti; sono passati sessanta anni e i problemi sembrano essere sempre gli stessi, evidentemente irrisolti. Non solo: Hilberseimer è convinto della relazione esistente tra degrado urbano e criminalità, cioè del rapporto diretto tra qualità della città e comportamenti sociali e individuali.

Nonostante tutto questo “L’idea chiave che sottintende l’urbanistica progressista è quella della modernità”(1). “Non meno che dall’ambiente, la pianta della città progressista risulta indipendente dalle coercizioni della tradizione culturale. […] La preoccupazione di efficienza si manifesta subito con l’importanza accordata al problema della salute e dell’igiene. L’ossessione dell’igiene si polarizza intorno alle nozioni di sole e di verde. […] La conseguenza più importante sarà l’abolizione della strada […] [e] la costruzione in altezza, per sostituire alla continuità dei vecchi edifici bassi, un numero ridotto di unità […] verticali. […]”.(2)

Hilberseimer non sfugge a questa legge e vi sono infatti ampie parti del libro che trattano di salute e igiene. Soprattutto è l’automobile il feticcio intorno a cui ruotano tutte le scelte: tenere lontano le auto dalle residenze ma senza perdere i vantaggi alla mobilità derivanti dalla esistenza di questo mezzo. Effettuando una separazione e gerarchizzazione di strade carrabili in principali e secondarie, e in strade pedonali, si consolida il modello dello zoning, della città separata per funzioni diverse. Che sia la città verticale, precedente a La natura delle città, o quello orizzontale di Lafayette Park a Detroit, il modello è concettualmente lo stesso: tutto è separato e funzionalizzato, e anche la separazione dei percorsi si colloca entro questo schema e contribuisce alla costruzione di una città dissociata in parti.

La logica è quindi sempre la stessa, e il programma di Hilberseimer è sempre lo stesso, come scrive nella parte di testo ad inizio post:
Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria”; la fine della strada, della rue corridor, determina la fine della città tradizionale, senza aver portato però alcun beneficio alla città e alla soluzione del problema traffico, passati ormai sessant’anni.

Oggi c’è il rischio che il tema si ponga in maniera speculare a quella di allora: una città pedonalizzata e/o ciclabile dove l’auto non è più il simbolo della modernità ma è considerata il dramma della modernità. A me sembrano due facce della stessa medaglia che ha nome “utopia”.

Prima si è preteso di andare contro la storia della città e a favore dell’auto, adesso contro l’auto ma a favore della città; credo che sia un errore, un’illusione, nonostante la benzina a due euro. Ritengo la mobilità individuale un valore di libertà e immaginare di progettare paradisi urbani senza auto può portare a progetti che, sperando in un futuro luminoso senza auto, di fatto ripropongono un disegno della città utopico e astratto e comunque non necessariamente valido sempre. Si rischia cioè di costruire una “macchina” urbana, esattamente come è accaduto prima, non un “organismo” urbano, il quale invece sa reagire alle mutazioni di abitudini e alla società che cambia e si evolve.

Le strade sono le arterie e le vene attraverso cui scorre al linfa vitale della città, attraverso cui la città è permeabile in ogni sua parte e che consentono libertà di scelta tra più alternative possibili e restano l’elemento fondamentale, la struttura portante della città, a prescindere cioè dall’uso e dalla regolamentazione che se ne può fare e che può essere suscettibile di cambiamenti nel tempo. Modificare profondamente l’impostazione della forma urbana avendo in mente solo l’uso o solo il non uso dell’auto significa precludere alla città la possibilità di modificarsi nel tempo, affidandosi ad una predizione del futuro e quindi ad un'alta probabilità di sbagliare. Impostare la città su una ideologia o pregiudizio pro o contro l’auto è comunque una forma di utopia. Io credo che sia più corretto dare per scontato l’esistenza del mezzo auto, prescindendo dal giudizio di merito, o peggio dalle crociate, in modo tale che siano possibili le due opzioni:
- la convivenza pedone-auto, quella che di fatto avviene oggi, ma in maniera caotica e non regolamentata;
- la possibilità di chiudere al traffico determinate strade con la semplice regolamentazione, che non è di competenza del progettista, ma appartiene alla fase gestionale.

La terza non va presa in considerazione, perché è quella delle autostrade urbane, quella di Hilberseimer, che non solo è anti-urbana, ma ha dimostrato di non funzionare.


1) Choay F., La città. Utopie e realtà, Einaudi, Torino, 1973.
2) Choay F., Op. cit.

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10 marzo 2012

A MILANO STOP ALLO ZONING!

Scrive Marco Romano sul Corriere della Sera del 9 marzo 2012:
Tra le modifiche alle norme edilizie proposte nella nuova stesura del Pgt (Milano), spicca per il suo carattere virtualmente radicale la liberalizzazione delle destinazioni d’uso dei fabbricati: d’ora in avanti tutti potranno costruire quanto loro consentito senza dover rispettare alcun vincolo di destinazione. La norma constata quanto da tempo tutti sanno per esperienza diretta, che cioè la destinazione d’uso dei fabbricati cambia nel tempo mentre la forma della città, il suo aspetto visibile nelle strade e nelle piazze, resta il medesimo per secoli, e dunque non possiamo progettare un piano regolatore con la destinazione d’uso delle varie zone delle città legate poi insieme da una rete di strade e di trasporti, proprio come una circolazione sanguigna lega i diversi organi del corpo umano”.
Poi fa un richiamo al PRG di Milano del 1884, un piano disegnato evidentemente, di cui descrive alcuni esiti positivi.
Quindi conclude:


E’ il momento – se portiamo alla sua conclusione il processo iniziato dalle abolizioni delle destinazioni d’uso – di riprendere il disegno di quel piano e di estenderlo a quei quartieri che ancora restano da costruire, ridisegnando con i medesimi criteri le loro sequenze di strade e di piazze. Tutti sembrano concordare che la cultura è sviluppo, e che la bellezza delle città è la radice della nostra cultura: se vogliamo passare dalle parole ai fatti, è il momento di fare di Milano una bella città. Le regole di quel piano – fatto di disegni e di una breve relazione di dodici pagine – consentivano a quanti disponevano di un lotto affacciato su una strada di costruire liberamente – senza che fosse necessario come oggi l’intermediazione di un imprenditore immobiliare – un fabbricato alto in proporzione esteticamente armonica con la sua larghezza, sicchè la densità edilizia era l’esito di un progetto estetico che poteva venire anche concordemente migliorato con, per esempio, i grattacieli del Centro svizzero e della Velasca.
Vogliamo tornare a fare di Milano una città bella?


Finalmente qualcuno che ha ricominciato a ragionare e ad osservare la realtà: non è a Marco Romano che mi riferisco, lui non ha mai smesso, ma al Comune di Milano che ha fatto una scelta di grande coraggio e intelligenza a dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che un Piano regolatore si fa avendo alle spalle cultura e idee non solo una somma di leggi e informazioni il più delle volte inutili e fuorvianti.

Non tragga in inganno il termine liberalizzazione, il cui significato, così come usato nel'articolo, non ha molto a che vedere con quello di gran moda oggi relativo esclusivamente alla concorrenza e ai problemi della finanza. La liberalizzazione delle destinazioni d’uso attiene strettamente alla storia della città ed è semmai un ritorno all’antico dopo la lunghissima parentesi della selvaggia zonizzazione orizzontale, di cui Le Corbusier è stato, se non l’inventore, il grande teorizzatore e divulgatore, il cui pensiero ha contribuito a cristallizzare nella cultura urbanistica e nella mente di architetti, politici e perfino dei cittadini la divisione in zone funzionali classificate con lettere nella legge urbanistica del 1942.

Poi, certo, esiste anche una componente dirigistica di tipo più strettamente politico che si è sovrapposta, aggravandola, a quella strettamente urbanistica, e in questo senso, ma solo in questo, liberalizzazione acquista un significato più vicino alla cronaca. Ma il significato autentico resta quello di orientarsi verso una città vera, densa, viva, vitale e realmente sostenibile, grazie al mix di funzioni, alla zonizzazione verticale, come la chiama Gabriele Tagliaventi, a significare che nello stesso edificio possono (è una libera scelta, non un obbligo) coesistere attività diverse, con le attività commerciali e artigianali al piano terra, a contatto diretto della strada.

La liberalizzazione delle funzioni è solo un primo passo, ma importantissimo, che permette di porsi in un’ottica realmente urbana che sarà del tutto raggiunta solo con il ritorno della strada tradizionale. Una volta rotto il tabù delle aree funzionali, sarà inevitabile ripensare alla forma della città.
Frantumato lo schema a blocchi (in senso grafico e mentale) che è stato ed è ancora l’ideogramma della città moderna, caratterizzato dalle sue connessioni semplici e inefficaci, non si potrà non porsi il problema della rete di connessioni complesse che caratterizzano la vera città e che sono il principio della vita, esattamente come la circolazione corporea.

Se la città torna ad essere un insieme unico, un unico organismo in cui tutte le funzioni urbane sono presenti, il problema della costruzione della rete - fatta di arterie principali ma anche di molti capillari - e del disegno della città risalterà in tutta la sua imprescindibilità.

Sarà come passare da poche tessere sparse sul tavolo, che necessitano solo di connessioni costituite da semplici aste, ad un’unica, grande tessera e, a quel punto, sarà impossibile non cominciare a scavarvi dentro alla ricerca di connessioni interne. Di qui al disegno il passo è, solo concettualmente, breve.

Spero che questa metaforica prefigurazione di come si potrebbe evolvere il processo negli anni a venire, se la scelta di Milano farà scuola, sia imprecisa o fantasiosa solo nella descrizione del modo in esso avverrà ma non nel risultato finale.



Concludo con una selezione ristretta di link pertinenti all'argomento, tra cui un mio commento su Antithesi in risposta a Vilma Torselli, partito da un argomento diverso ma arrivato, chissà come, a questi argomenti:

Commento su Anthitesi
Gabriele Tagliaventi: La città che vorrei
De Architectura: Strade, piazze, funzioni, eventi
De Architectura: Società liquida, città solida


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7 gennaio 2012

IL CANE CHE SI MORDE LA CODA

Un post di E.M.Mazzola sulla relazione tra forma della città e caro benzina, cioè tra forma della città e sistemi di trasporto.
Pubblico un'immagine trovata tra i vari studi del piano della mia città, Arezzo, che rappresenta il territorio comunale, uno dei più grandi d'Italia, con l'occupazione di suolo dei "centri urbani". Il perchè di questa immagine la si capisce leggendo il post


Caro benzina: cambiare il sistema? O continuare a fare come il cane che si morde la coda?
di
Ettore Maria Mazzola

Un articolo, comparso su Il Corriere della Sera on-line del 5 gennaio 2012, ci informava di un’interessante iniziativa organizzata dal Codacons: a seguito del folle caro benzina, che ormai ha raggiunto gli € 1,80 al litro (facendo segnare dall’inizio del 2011 un aumento pari a circa il 16% della Verde e di circa il 25% del Gasolio! n.d.r.) le associazioni dei consumatori invitano a non fare il pieno nelle giornate del 5 e 6 gennaio.
Per ovvie ragioni, purtroppo, difficilmente chi vive nelle grandi città avrà potuto aderire a questa encomiabile iniziativa, che si spera abbia invece riscosso una grande adesione nelle città più piccole, e nei paesini. Ormai risulta sempre più difficile poter parlare di città, visto che gli esseri umani, a causa dell'urbanistica scriteriata del 20° secolo, vivono sparsi su un territorio così vasto che non può chiamarsi né città, né campagna. Tutto, sin dai progetti di Le Corbusier (sponsorizzati dal produttore di automobili Voisin) è stato fatto per rispondere agli interessi dei costruttori di automobili e dei produttori di petrolio.

Nella sua lucida follia, immortalata nel Plan Voisin e nella Ville Radieuse – follia sposata in pieno dall’urbanistica e dall’architettura modernista – Le Corbusier diceva:

«le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti».

Ma questo sistema, folle e visionario, non aveva fatto i conti con il possibile esaurimento dei combustibili fossili, né col fatto che il sistema consumistico a suo supporto avrebbe finito col portare gli esseri umani a dipendere, in tutto e per tutto, dal sistema di indebitamento pubblico e dalla conseguente vessazione delle banche e delle lobbies.
Questa breve premessa fa sì che si debba pensare al più presto ad un cambiamento del nostro stile di vita totalmente sballato.
Detto ciò, considerato che per gli stati globalizzati e consumisti diviene impossibile riuscire a divincolarsi, almeno nel breve termine, da questo abominevole sistema, l’unica difesa possibile diviene quella di evitare di alimentarlo in maniera dissennata.

Considerando quindi che, nelle attuali condizioni, i nostri politici non sono in grado di venire incontro ai contribuenti, tagliando loro le tasse,una soluzione possibile potrebbe essere quella aiutarli a limare le spese giornaliere di trasporto e di gestione della casa, il che si traduce in una riduzione degli spostamenti e del consumo energetico, operata attraverso un’urbanistica a dimensione umana e un’architettura più rispettosa dell’ambiente.

Diversamente dall’assurdo modello LeCorbuseriano della presunta “Città Funzionale” (Città dispersa, organizzata in maniera monofunzionale e zonizzata), che non funziona affatto, specie in assenza di petrolio, la Città tradizionale, multifunzionale e compatta , funziona molto meglio, risulta più sicura, e costa ai contribuenti molto meno.
Una semplicissima dimostrazione di questa affermazione emerge dal fatto che la città tradizionale, essendo organizzata secondo in principio di “casa e bottega”, consente alla gente di poter fare a meno dell’automobile per fare i propri acquisti; ma una città più compatta si traduce anche in una spesa minore per la costruzione e manutenzione delle strade, marciapiedi, illuminazione, acquedotti, linee elettriche, fogne, linee telefoniche, gas, potatura alberi, ecc. Inoltre, la presenza dei negozi lungo le strade, fa sì che la città tradizionale risulti costantemente “vigilata” spontaneamente dai pedoni e dai negozianti, portando maggiore sicurezza a costo zero. Infine la città tradizionale, utilizzando per le sue costruzioni tecniche e materiali naturali – prevalentemente a chilometri zero – riduce i costi di trasporto di questi ultimi e, soprattutto, quelli di riscaldamento e raffrescamento degli ambienti, fino al 50% di quelli di riscaldamento e fino al 100% di quelli di raffrescamento.

Allora, un modo per poter venire incontro al contribuente da parte della classe politica, potrebbe essere quello di promuovere un ricompattamento del tessuto urbano, piuttosto che promuovere lo sviluppo della città dispersa e il conseguente consumo di territorio.
Ecco perché risulta assurdo e contraddittorio il comportamento di quei sindaci che, mentre da una parte consentono l’allargamento a macchia d’olio della città e la costruzione di centri commerciali, e dall’altra organizzano le “giornate ecologiche” a piedi, causando problemi enormi a chi vive in città impossibili dall’essere vissute a targhe alterne e, peggio ancora, a piedi.

La cosa potrebbe sembrare un’utopia ma, pensandoci bene, potrebbe invece risultare un grande affare per l’economia nazionale e locale.
Se, come diceva Baudrillard, “la modernità è trasformare la crisi in valore”, la crisi attuale ci consente di poter affermare che oggi, più che mai, abbiamo la possibilità di essere moderni trasformando il problema della città dispersa in un enorme valore per tutti.
Giovanni Giolitti, nel 1909, lamentandosi del fallimento del Comune di Roma a causa dei piani urbanistici post unitari disse:
«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione»(1).
Questa riflessione lo aveva già condotto nel 1903, nel suo 3° mandato da Presidente del Consiglio, ad emanare l’illuminata Legge Luzzatti che istituì gli ICP e, dal 1907 in poi, a produrre una serie di norme e strumenti di gestione dell’edilizia pubblica che portarono l’edilizia ad essere la principale fonte di reddito pubblico … finché il Fascismo non impedì all’ICP, all’Unione Edilizia Nazionale e al Comitato Centrale Edilizio di operare in concorrenza con l’imprenditoria privata.

L’aver abdicato a favore della privatizzazione, da quegli anni ad oggi, ha condotto il nostro Paese ad una situazione è drammatica, soprattutto a causa al sistema di indebitamento pubblico. Dunque, in questa drammatica situazione, l’unico modo per rialzare la china è quello di ricominciare a fare ciò che sapevamo fare prima di quella resa.

Del resto, come ha osservato Italo Insolera parlando delle problematiche di inizio Novecento: «in una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti»(2).

Considerando quindi che la città dispersa, ereditata dalla scriteriata urbanistica novecentesca, risulta prevalentemente costituita da vuoti di proprietà demaniale, potremmo ipotizzare una campagna di ricompattamento delle città, dove chi muove i fili è la Pubblica Amministrazione, e non gli speculatori fondiari.

Se l’Amministrazione di dotasse di piani plani-volumetrici che “ridisegnino la città” al fine di ricompattarla, quei terreni potrebbero garantirle un’enorme rendita. Se a questo si aggiunge che, rispolverando i criteri adottati un tempo, l’ATER (ex IACP), potrebbe ricominciare a costruire in proprio – ed anche per conto terzi – l’edilizia pubblica, senza più distinguere tra case popolari e non, questa macchina economica potrebbe servire a creare tantissimi posti di lavoro, e potrebbe portare le città ad esser più compatte e, all’interno di ogni quartiere, ad avere tutti i servizi necessari a ridurre, se non ad eliminare del tutto, gli spostamenti.

Tutto questo, diversamente dall’attuale sistema keynesiano di gestione della spesa pubblica, potrebbe tradursi in un grande beneficio per tutti: riduzione della spesa pubblica, con conseguente emancipazione graduale dal sistema di indebitamento pubblico, creazione di tantissimi posti di lavoro, con conseguente aumento del potere d’acquisto da parte delle famiglie, realizzazione di città più sicure indipendentemente dall’inutile e costosa presenza di forze dell’ordine, riduzione degli spostamenti con conseguente riduzione delle emissioni nocive, riduzione graduale delle tasse, miglioramento delle condizioni sociali ed economiche della gente, ecc.
L’organizzazione della protesta del Codacons contro il “caro benzina” è un segnale che ci invita a riflettere sulla necessità di cambiamento del nostro modo di spostarci e di vivere… diversamente continueremmo imperterriti a fare come il cane che si morde la coda.

Note:
1) Per l’edilizia della capitale, Camera dei deputati, tornata 16 giugno 1907, Discorsi, vol. III, p. 969.
2) Italo Insolera in Roma – Immagini e realtà dal X al XX secolo, Laterza Edizioni, Roma-Bari 1980, pag. 32.

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19 novembre 2011

SI PUO' COSTRUIRE NEI CENTRI STORICI?

Giornata piena alla Giornata di studio su Giorgio Vasari Architetto organizzata dall’Ordine degli Architetti di Arezzo. Non è il momento di un resoconto completo, in attesa di scaricare qualche video, ma vorrei commentare uno dei tanti spunti che sono stati lanciati da Luigi Prestinenza Puglisi, coordinatore dell’incontro del pomeriggio .
Nel corso della mattinata Giorgio Vasari Architetto è stato degnamente celebrato dalle approfondite relazioni del Prof. Francesco Gurrieri, del Prof. Gabriele Morolli e dell'arch. Anna Pincelli. Nel pomeriggio invece Vasari è stato toccato solo tangenzialmente avendo presentato alcuni loro progetti Massimo Carmassi e i due giovani Stefano Pujatti e Giovanni Vaccarini. Su questi ultimi due mi riservo di approfondire con i video, anche se anticipo di avere assistito ad una fiera della vanità a mio avviso alquanto priva di contenuti; Massimo Carmassi, che avevo incrociato in altre occasioni, è stato invece una sorpresa.


Non per i progetti, che sono noti a tutti e non c’è stata alcuna novità, ma per le cose che ha detto durante il dibattito, dando segni di evidente insofferenza rispetto ad atteggiamenti professionali e a progetti che lui ha giudicato molto negativamente sotto ogni profilo. Se posso dirlo (tanto lui non usa internet), l’età l’ha cambiato molto e direi in meglio: disponibile al dialogo, disincantato, perfino autoironico, ha abbandonato del tutto quella certa aria da architetto di successo nei quartieri alti della cultura architettonica che deve tenere il punto sul proprio lavoro senza nulla concedere ad un momento di spontaneità. Ha distinto nel bagaglio dell’architetto la sovrastruttura fatta di parole, utilizzate per valorizzare la propria figura professionale, dalla struttura reale, cioè il proprio lavoro che è quello che resta; ha invitato gli architetti a tornare alla realtà, ha sottolineato l’aspetto artigianale del nostro lavoro, ha chiesto maggiore umiltà e ha auspicato il ritorno ad un minimo comun denominatore di grammatica architettonica. Ma di questo ne riparlerò insieme agli altri due giovani.

Prestinenza Puglisi, da cui mi divide praticamente tutto, è però un ottimo comunicatore e intrattenitore, sapiente nel cogliere i vari temi che emergono dalla discussione che lui risolve dando spazio a tutte le opinioni anche a quelle che certamente non condivide. Uno di questi spunti, che non c’è stato tempo di approfondire e che è anche in qualche modo suggerito dall’opera di Giorgio Vasari, è il solito, eterno tema della opportunità o meno di progettare nei centri storici.

Io sono convinto che, detta in questo modo, limitandosi cioè a considerare la parte antica di ogni città come a se stante, come una sorta di parco architettonico-urbanistico e scrigno di bellezza in mezzo al brutto della città moderna, effettuando cioè la divisione netta tra centro storico e periferia, la risposta più corretta, saggia e prudente sia quella di dire, come è stato detto in effetti nella gran parte del paese, semplicemente: no, non si devono fare nuovi progetti. Se buona parte dei nostri centri storici sono conservati questo è dovuto al niet delle Soprintendenze, talvolta odioso nei dettagli e nella forma, ma senza il quale credo ci sarebbe rimasto però ben poco di quella bellezza. Quali sono le ragioni di questa convinzione? Sono legate al modello culturale dell’architettura ed anche dell’urbanistica dominante:

L’architettura:
- Attualmente è orientata ad una creatività tutta tesa ad esaltare l’oggetto architettonico come evento a se stante, autonomo dal contesto di riferimento e ad una ricerca della “sorpresa” e della valorizzazione del suo autore piuttosto che nello sforzo di soddisfare tutti i soggetti interessati all’opera di architettura, cioè il committente e tutti i cittadini cui la città, nel suo complesso e nelle sue parti, appartiene. Quest’ultimo input pare essere ormai completamente estraneo alla cultura dell'architetto contemporaneo. L'architetto ha un approccio al progetto che è di tipo mistico, cioè di colui che entra in relazione con la verità per istinto e non per razionalità e che quindi non può essere, per definizione, comunicata; il che lo autorizza a sentirsi libero da ogni vincolo, dal giustificare il progetto agli altri ma anche a se stesso, salvo il fatto di fare uso massiccio di espressioni ed impressioni di tipo immaginifico ed emozionale assolutamente non verificabili e il più delle volte prive di riscontro con la realtà e del tutto incomprensibili ad una elementare analisi sintattica e lessicale. Basta leggersi qualsiasi relazione ai concorsi o ai progetti. Basta guardare qualche intervista. D’altronde è chiaro che mentre è possibile fare un’analisi grammaticale, come è stata fatta dal Prof. Morolli, dell’opera del Vasari, è viceversa impossibile farla per i progetti contemporanei che direi per scelta rifiutano qualsiasi grammatica, anzi si dichiara che ognuno ha la sua grammatica: la mistica appunto.
Questo per l’oggi.
Ieri invece per la nota prevalenza del movimento moderno che avendo azzerato tutto il patrimonio di conoscenze accumulato nei secoli ritenuto non idoneo all’espressione della modernità e, direi meglio, all’uomo moderno - considerato assurdamente diverso da quello antico - non può avere certo le carte in regola per intervenire al’interno di parti della città che invece sono cresciute e si sono trasformate, mattone dopo mattone, con un processo evolutivo di crescita con forti attinenze a quello della natura e senza sostanziali e violente cesure e traumi.

L’urbanistica:
- Qui prevale ancora la zonizzazione selvaggia, figlia sempre del movimento moderno, che ha dissolto l’unità della città, ha eliminato la strada dal suo orizzonte relegandola a mero supporto funzionale al traffico veicolare, creando, con la certificazione legislativa della zona A, il “centro storico”, oggetto di salvaguardia, e lasciando piena libertà di azione nella rimanente parte di territorio, con unico limite e criterio progettuale quello quantitativo del metro cubo e dei vari parametri edilizi. In questo modo è andata persa del tutto anche la memoria di come avviene la crescita della città, i suoi meccanismi di stratificazione successiva, una armonica e naturale modificazione urbana. Attualmente poi si tende a considerare la periferia sotto il profilo emozionale, soggettivo e psicologico, cercando di valorizzare presunte spinte ideali individuali di appartenenza a quel non-luogo riconoscendo una inesistente vitalità, ma di fatto condannandola invece allo status quo ed anzi aggravandone la situazione con l’aggiunta di oggetti singoli che amplificano ancora di più il disordine, il rumore e la parcellizzazione urbana e sociale.

Permanendo questo stato di cose il centro storico non può che continuare ad essere considerato off-limits, area da escludere da ogni possibile invenzione che lo renderebbe del tutto simile alla periferia.
C’è una rinuncia totale nella cultura dell’architetto contemporaneo ad un’azione che tenda invece a modificare il corso delle cose, un’acquiescenza passiva allo spazio-spazzatura che non viene considerato come uno stato di fatto negativo ma si tende ad elevarlo a valore, esaltando paesaggi urbani caratterizzati dal precario e dallo squallore e inventando una sorta di poetica del provvisorio, del brutto, dell’instabile al solo scopo di giustificare il proprio progetto, espressione della propria grammatica individuale. E’ la vittoria del relativismo assoluto in cui sembra non si debba giudicare niente (evidentissima contraddizione anti-relativa) ma che è utilissima ad evitare ogni giudizio sul proprio prodotto salvo quello che se riesco a produrlo vuol dire che va bene. Una trasposizione banale, strumentale e involontaria dell’essenza delle cose in base alla quale l’essere è, il non essere non è e l’essere non può non essere.

Dimentica l’architetto, e quando qualcuno glielo ricorda non capisce o non vuol capire, che la città è il luogo in cui si esprime la comunità come insieme di individui ognuno con la propria libertà ma nel rispetto di quella altrui. Non capisce che la città coincide con la società dalla quale, invece, tende a subire passivamente e talvolta con gioia una quantità di regole e leggi tanto elefantiaca quanto inutile e dannosa. Ma rinnega la possibilità di regole urbane considerate un ostacolo alla sua libera e licenziosa espressione di creatività. Riduce le nostre città e la nostra società, a Dubai, visto come il luogo della libertà assoluta, non sapendo leggere e distinguere le diversità e la peculiarità di ciascun luogo, ammesso e non concesso che Dubai sia un luogo e non piuttosto una cassaforte per capitali, sempre più scarsi, in cerca di reddito.

Invece è proprio l’idea di periferia che deve essere rifiutata tendendo a farla diventare essa stessa emanazione e riproduzione del centro storico, che dovrebbe essere chiamato centro antico, non banalmente come si tende a dire per colpevolizzare l’avversario dando per scontato che a questa visione corrisponda necessariamente una visione antichista in senso stilistico, ma come parte di un organismo unitario che deve proseguire nelle regole insediative che hanno prodotto la città antica, interpretandole e adattandole alle varie situazioni geografiche, morfologiche e funzionali.
Nel centro antico sarà lecito e opportuno intervenire solo previo avveramento di questa condizione di carattere urbanistico e solo dopo che, se mai potrà avvenire, l’architetto abbia rinunciato per scelta razionale e non per intenzione moralistica o di basso profilo all’egocentrismo creativo.
Insomma solo dopo che l’architetto potrà tornare ad essere portatore di una cultura urbana e quindi civile.

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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5 settembre 2011

GABRIELE TAGLIAVENTI SU CATTIVA URBANISTICA E DEBITO PUBBLICO. ARTICOLO CHE SI SPOSA CON IL POST PRECEDENTE

Un articolo di Gabriele Tagliaventi sul rapporto tra urbanistica e debito pubblico italiano.
Un articolo che conferma la bontà e la necessità di quei principi affermati nella modifica alla Legge urbanistica della Regione Toscana di cui ho scritto nel post predcedente.

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1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


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31 maggio 2011

STANDARD, CITTA' E MOBILITA'

Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.


La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.

E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.

Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.

Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.

Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.

Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.

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21 maggio 2011

DOPO L'ORGIA BUROCRATICA, TORNARE AL PROGETTO

Ormai è fatta. Il Regolamento Urbanistico della mia città (cioè il PRG) è approvato e le elezioni comunali si sono svolte. Quindi ogni cosa che dirò non avrà alcuna influenza nell’immediato(spero anche verso di me) e non si potrà fare troppa dietrologia su secondi o terzi fini.
A onor del vero ho già parlato abbastanza in itinere, ma l’ho fatto solo in ambito cittadino, mentre da questo blog mi sono limitato solo a qualche rarissima e leggera (o pesante?) ironia, tipo questa sulle strade o questa, a giochi fatti, sulle cucce dei cani.
Sono solo due dei numerosi esempi dello stupidario che diventa inevitabile quando le Norme Tecniche di Attuazione si compongono di 155 articoli, di 346.735 caratteri (senza spazi) e di 58.816 parole (sia chiaro, non le ho contate io, ci ha pensato Word da solo). Immaginate di contare - non di leggere- fino a 58.816, immaginate il tempo che ci vuole e pensate cosa significhi comprendere e assimilare un testo con lo stesso numero di parole. E dire che la legge regionale prevede, con grande enfasi ed evidenza, la figura del Garante dell’Informazione: ma è davvero possibile informare su un testo siffatto?

Piano 1935 - Tutto disegnato e poi realizzato quasi esattamente così

Sembrano solo numeri, ma in realtà sono la dimostrazione della rinuncia ad ogni credibile piano - tanto meno al disegno della città- della impossibilità di una sua decente e corretta gestione, della mancanza assoluta di trasparenza e di semplificazione, in fondo di un deficit di pensiero democratico, perché i cittadini, cioè coloro a cui il piano è destinato, non avranno alcuna possibilità di comprendere alcunché; dovranno affidarsi totalmente a noi professionisti, e noi professionisti dovremo affidarci agli uffici per decrittare il testo. Saremo perciò tutti molto più sudditi e molto meno cittadini. Saremo tutti un po’ meno liberi.

Sembrano solo numeri, ma invece sono la rappresentazione di una decadenza culturale e politica perché sono lo specchio di una visione della società che, non solo a livello locale, ma anche regionale, nazionale ed europeo, affida la propria vita ad una quantità bulimica quanto inutile di regole e norme, avendo perso ogni rapporto con il mondo reale, in campo urbanistico specificamente, con la propria città e il proprio territorio.

Ma queste sono solo le Norme, la parte scritta del piano! Poi ci sono gli elaborati grafici, le tavole. Anche qui la quantità è l’elemento caratterizzante, la qualità essendo del tutto assente. Ma parlare di qualità è davvero fare una fuga in avanti, perché questa presuppone un disegno capace di rappresentare un’idea, magari sbagliata oppure non condivisa, ma che pure dovrebbe esistere: ebbene, se c’è non appare, perché paradossalmente a fronte di così tante tavole grafiche non esistono… disegni, ma solo un collage di campiture colorate, con sovrapposte sigle alfanumeriche che rimandano alle norme. Non esiste un progetto in scala 2000 di qualcosa, le strade nuove si troncano improvvisamente fuori del ridotto limite delle piccole aree oggetto di trasformazione; la stragrande maggioranza del territorio comunale, anche quello con grosse previsioni edificatorie, è rappresentato con un indistinto retino a righe diagonali e al loro interno niente, solo la cartografia di base: non una strada, non il minimo accenno a qualche forma possibile di insediamento, solo decine di tavole prive di qualsiasi informazione che non siano sigle alfanumeriche.
Un piano che è una legenda di un testo astruso. Possono numeri e lettere rappresentare da sole un’idea di città? Può un data base farsi piano urbanistico?

Nei tre anni in cui mi sono occupato di questo blog, ho visitato decine di altri blog e siti che si occupano di architettura ed urbanistica, ho discusso e polemizzato con molti di loro, e viceversa, cercando di affermare l’idea di un tipo di disegno urbano capace di riscattare le nostre città e le nostre periferie disperse e frantumate dalla zonizzazione selvaggia, dalla fine della strada come elemento generatore e vitale della città, dal ritmo sincopato della giustapposizione di una serie di oggetti piuttosto che dalla sequenza continua dei fronti edilizi lungo le strade che sfociano in piazze in cui si concentra la vita sociale e di relazione, con l’idea di un ritorno al disegno dello spazio, almeno in misura compatibile con le numerose, superflue e illiberali procedure imposte dalla legge; mi sono scontrato con idee dal tutto diverse che io considero sbagliate, ma mai, dico mai, ho incontrato un nulla come quello messo in campo nel piano di Arezzo. E se fossi solo io a dirlo, poco varrebbe, ma l’hanno scritto e gridato per anni tutte le categorie professionali ed economiche, attraverso i proprio rappresentanti istituzionali e associativi, fino al punto di una Camera di Commercio, ente pubblico, che cerca di riempire il vuoto di progetto proponendo essa uno studio alternativo per la città.
A nulla è valso, se non ad ottenere l’accoglimento di una parte delle 2600 osservazioni presentate, che al massimo avranno potuto attenuare o, speriamo, eliminare le storture più macroscopiche, gli errori più grossolani non dico del progetto, che è l’oggetto misterioso, ma della stessa lettura dello stato attuale, del quadro conoscitivo come si dice con molta retorica, che ha però ricadute fondamentali nelle trasformazioni future.

Eppure il piano era partito bene 11 anni fa con la chiamata come consulente scientifico, probabilmente casuale e figlia di una serie di coincidenze, di Peter Calthorpe, architetto-urbanista americano esponente di spicco del New Urbanism,. La lettura che aveva dato della struttura urbana di Arezzo era giusta, aveva individuato con chiarezza i problemi della città legati alla sua forma davvero unica e al suo punto critico cioè il suo assetto territoriale caratterizzato da numerose frazioni prive di identità e dei requisiti minimi di autosufficienza e di forma per poter essere qualcosa di più che semplici dormitori. Aveva agito, secondo il suo metodo, dando una grande importanza alle infrastrutture per la mobilità, volendo garantire quella prossimità e pedonalità del massimo tempo di dieci minuti da percorre a piedi per godere delle opportunità offerte dalla città.

Aveva impostato lo sviluppo lungo la rete ferroviaria trattandola come una metropolitana di superficie e lungo quell’asse aveva previsto il potenziamento degli abitati esistenti ed anche nuovi insediamenti. Questa scelta non era del tutto condivisibile se applicata in maniera massiva, perché ancora trascurava il recupero delle importanti frazioni, in specie quelle della direttrice sud, ma forse, se ci fosse stata l’opportunità, con la discussione e il confronto che lui accettava senza problemi, avrebbe potuto esserci la possibilità di apportare correttivi e integrazioni. Ma non è stato possibile perché il suo lavoro è stato bruscamente interrotto, forse per ragioni non proprio culturali legate all’amministrazione del tempo, non a lui.

Le sue idee, e direi meglio lo spirito che le guidava, sono state messe da parte ed è rimasta solo l’applicazione pedissequa della parte peggiore della cultura espressa dalla legge regionale: l’abbandono del disegno, il territorio parcellizzato in aree sottoposte a vincoli e tutele - differenza di cui mi sfugge tutt’ora il significato reale - il tutto inserito in un enorme database geografico, tra l’altro intriso di una quantità di errori di lettura imperdonabili, il cui risultato è illeggibile ai più ma che soprattutto non delinea nessuna idea plausibile di città.
Impossibile dialogare, scambiare opinioni, inutile avvertire del precipizio verso cui si andava, solo ascoltare modeste lezioncine, in ossequio alla garanzia dell’informazione.
Mi rendo conto di aver delineato uno scenario quasi apocalittico, ma la realtà è forse peggiore, e per rendersene conto basta andare a consultare il SIT del comune, l’unica cosa fatta veramente bene e di qualità infinitamente superiore a quella di altri comuni.

A questo punto, dopo 11 anni di travaglio del nuovo piano, è il momento di ricavarne qualche riflessione meno amara e più positiva per il futuro, che non sia solo di interesse locale, ma più generale, e di guardare avanti.
Intanto per dire: mai più così. E’ poco, mi rendo conto, anzi niente, ma davvero il pericolo da scongiurare è che non accada più un fatto come questo, perché il rischio dell’ulteriore avanzamento di questa incultura urbana è concreto, supportato da burocrazie regionali che oramai sono più potenti e inattaccabili degli stessi amministratori.

In campagna elettorale è venuta l’assessore regionale all’urbanistica Prof.ssa Anna Marson, urbanista espressa dall’Italia dei Valori, persona di notevoli qualità, a illustrare alcune idee sulla necessaria modifica della legge regionale. I principi che ha affermato, e che sono stati espressi in un documento ufficiale della Regione, dimostrano la sua volontà di cambiare in meglio e non sono apparsi solo promesse elettorali. Ha parlato molto chiaro, ha detto di voler sfoltire la sovrabbondante retorica verbale - fatto assolutamente non secondario né formale – ha auspicato un necessario, anche se non sufficiente, ritorno al disegno urbano, una ridefinizione del significato originario del concetto di nuovo consumo di suolo, utilizzato oggi come un mantra al solo scopo di non far niente, soprattutto nella riqualificazione dell’abitato esistente. Ha detto molto altro e il suo intervento è visibile qui.

La speranza è che, senza aspettare la nuova legge regionale, che richiederà tempi lunghi e ostacoli a non finire, e il cui risultato non è affatto scontato, ad Arezzo si possa tornare alla realtà, ad affrontare i problemi urbanistici della città avendo come faro un disegno compiuto di essa, mettendo in secondo piano il tema fuorviante, eredità culturale del movimento moderno, della ossessiva divisione delle funzioni e risolvere, matita in mano guidata dal cervello, le periferie e le frazioni in modo corretto, creando luoghi urbani, ancorché piccoli, che diventino centro di vita sociale con pluralità di funzioni, lasciando alla libera iniziativa dei cittadini la scelta delle attività da insediare, sapendo che loro conoscono meglio di chiunque cosa realmente serva dato che ci investono i propri denari, avendo il pubblico il dovere di garantire certi servizi essenziali.
Insomma, dare dignità e fiducia ai cittadini e abbandonare l’idea dirigistica e autoritaria che il pubblico possa e debba decidere tutto, sapendo bene che poi la forza del mercato tutto travolge e il risultato è addirittura opposto a quello sperato.
Liberare le energie degli individui e controllare gli appetiti della speculazione, guidandoli verso un disegno di città più umana, l’unico vero potere che il pubblico detiene e che non esercita quasi mai in maniera corretta.

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5 aprile 2011

RAPIDA SINTESI SULLA ZONIZZAZIONE

Ho trovato su Slideboom questa sintesi sullo zoning di cui però non conosco l'autore, a parte le varie slides che recano in basso il nome dei vari autori da cui sono tratte.
Poiché è pubblico lo posto volentieri, come pro-memoria o introduzione a quella sciagura urbana che è la zonizzazione.
Forse seguirà un approfondimento.

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19 settembre 2010

SEQUENZE URBANE: UN ESEMPIO CONCRETO



Le immagini qui sopra mi sono state inviate dal Prof. E.M. Mazzola, sono disegni di sequenze urbane realizzate da alcuni suoi studenti della Notre Dame School of Architecture Rome Studies, utilizzate sia come rilievo che per il progetto.
Gli autori dei disegni sono, nell'ordine dall'alto verso il basso: Joshua Eckert, Kalinda Brown e Christal Olin .
Mi spiace per la notevole riduzione di qualità che ho dovuto effettuare, me ne scuso con i tre autori e ringrazio Ettore per la sua gentilezza.
Il post che segue è una divagazione, molto lieve, sul tema “sequenze urbane” proposto da Mazzola nel post precedente, a cui necessariamente rimando per una migliore comprensione dell’argomento.

*****
Domenica mattina, in città poca gente fino alle undici: giovani padri che portano a spasso figli piccoli, rari anziani, qualche single, per forza e non per scelta, uscito di casa per sfuggire la solitudine, alcuni turisti. Anche qualche architetto (siamo così tanti che statisticamente ne trovi sempre qualcuno).
Mi fermo a chiacchiera con uno che conosco. Niente di impegnativo, argomenti da giorno di festa, l'inevitabile mugugno, cosa fai oggi, poco più. Al momento di salutarci la classica domanda: dove vai? Non è curiosità, in genere, ma una formula di saluto rituale, come how do you do. Gli dico che sto andando al cimitero a piedi
Si meraviglia moltissimo, non della meta ma dell'andarci a piedi.
Gli faccio presente che non è poi così lontano come sembra, la città dei morti è sul versante opposto della collina, la zona meno abitata della città e quindi l'idea è che sia proprio da tutta un'altra parte.
Non l'ho convinto e credo pensi che io sia un gran camminatore. Purtroppo non è così. Approfitto della domenica mattina per recuperare quel deficit di passi mancati durante la settimana.
Salgo lungo il Corso Italia, la strada dello struscio serale, il salotto di Arezzo lungo quasi un chilometro, la più importante della città, quella che proviene dalla Val di Chiana e, superata la sella di Olmo, procede diritta per tre chilometri e mezzo, entra in città, anzi origina e ordina la città, e sale lassù fino alla sommità della collina, fino al Duomo.
A metà circa del Corso svolto a destra, lungo la via Garibaldi, già via Sacra, la strada dei conventi e delle Chiese. Al centro dell’incrocio il solito pakistano che vende palloncini. Mica è stupido lui, lo sa dov’è che la gente passa, lo sa dove sono i nodi urbani. Non va a vendere in una strada con il niente intorno. I commerci ci sono laddove c’è gente, e la gente va dove ci sono commerci. In quell'angolo è incredibilmente ancora possibile trovarvi qualche contadino che vende i frutti della stagione: funghi, mazzi di agretti, castagne. Almeno fino a che qualche norma europea non impedirà per legge ciò che già è naturalmente in crisi.
Entro in piazza Sant’Agostino che non è una vera piazza, ma uno slargo in salita, molto allungato e frammentato in spazi diversi tenuti insieme dalla Chiesa di Sant’Agostino, posta in alto, punto di vista su cui converge lo sguardo. Davanti alla Chiesa l’ampio e allungato sacrato, di forma trapezoidale, sopraelevato rispetto a tutto il resto della piazza, racchiuso sui tre lati da un muro – il quarto è la Chiesa. Un progetto sciagurato in corso di esecuzione ha deciso che l’unico spazio unitario e pianeggiante che c’era in questa anomala piazza - una grande terrazza sulla piazza stessa - dovesse essere interrotto da scale poste ad angolo tra la base minore del trapezio e uno dei lati. Il progettista ha visto evidentemente molti disegni di progetti con le immancabili scale piene di giovani felici e sorridenti e così ha trasformato un’immagine grafica in un progetto urbano, ottenendo però il risultato di distruggere lo spazio. Sono i danni delle riviste e soprattutto l’incapacità di leggere, non le riviste ma la città: si prende un adesivo che piace e lo si attacca in pianta; peccato che poi si trasformi in pietra.


La qualità degli edifici intorno, salvo la Chiesa, il convento e poco altro, è scadente, ma la piazza è la più viva della città: sede del mercato rionale, conserva il carattere popolare che ha ereditato dall’essere stata luogo di lavoro, di posta per le carrozze, di vasche per le lavandaie.
Proseguo a lato della Chiesa e, sempre in salita, mi immetto in via della Minerva, una sinuosa strada degli anni '30, che mi porta in Piazza Crucifera. Uno sguardo dall’alto alle mura a strapiombo, dalle quali sono appena uscito e che in quel lato sono di notevole altezza. Ai piedi di queste uno spazio sterrato detto “Il Gioco del Pallone”, dove una volta si giocava ad una specie di pelota.
Proseguo in Borgo Santa Croce, una bella strada extra-moenia, stretta e lievemente flessuosa, a seguire una curva di livello, con edifici abbastanza poveri, salvo qualche eccezione. Arrivo alla Chiesa di Santa Croce. Qui finisce la città antica e mi immetto in un viale che sale verso la Fortezza e il Cimitero. Un tratto diritto di circa duecento metri, in salita, e sono arrivato.
Ho controllato su Google earth, in tutto ho percorso 1250 metri circa, in circa 20 minuti. E’ tanto, è poco? Dipende.
Quei 1250 metri non pesano, anzi, sono un piacere. Il percorso che compio è un susseguirsi di quadri diversi, di sequenze urbane, come ha spiegato bene E.M.Mazzola nel post precedente, a cui rimando.

Gli stessi 1250 percorsi in un quartiere sub-urbano sarebbero stati una fatica, o meglio, una noia. L’incentivo a prendere l’auto è evidente. Con la stessa distanza si può andare dalla fine della città compatta ad un “vicino” supermercato o fare una visita ad un amico nel quartiere PEEP Tortaia.
Ma per farlo si deve percorrere una lunga strada (parallela al Corso) ma progettata per le auto: rare case ai margini e tra loro staccate, una somma di episodi. Si deve attraversare la tangenziale, ambiente ostile per il pedone, si continua a camminare nel vuoto e quei tratti di strada lunghi e monotoni appaiono distanze incolmabili. Infine si arriva al supermercato, progettato come una Chiesa, al centro di una piazza che però è un parcheggio, al centro di un quartiere PEEP.
Lo schematismo del percorso, disegnato con tratto minimalista e la mancanza di stimoli rendono il cammino faticoso e l’ambiente sfavorevole alle passeggiate. Sono del tutto assenti le sequenze urbane, prima di tutto perché è assente la città.
Come si può affrontare con leggerezza una camminata in una strada come questa, dove la meta è ben oltre ciò che si vede al fondo di questa foto?
La distanza e la durata degli spostamenti pedonali è certamente importante nel progetto della città, ma da sola non è condizione sufficiente a garantire una città user-friendly; questi quartieri hanno tenuto conto del raggio di influenza della scuola e dei servizi in genere, cioè degli standard, eppure il risultato è assolutamente insoddisfacente. La logica della quantità, il funzionalismo e la zonizzazione hanno fatto evaporare la città sostituendola con aggregati edilizi inadatti alla vita e alla convivenza umana. Sono stati costruiti molti edifici ma manca ciò che li tiene insieme per farne una città.
Un pensiero rozzo e schematico si è sostituito alla raffinatezza e alla complessità della città antica.
La razionalità da sola ha fallito il suo scopo e la fatica di abitare in città si è sostituita alla naturalezza di viverla.

Non appaia irriverente o troppo riduttivo utilizzare la suggestione del discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, sostituendovi la parola “religione” con “tradizione”:
Senza il correttivo fornito dalla “tradizione” (religione nel testo originale), infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana".

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