“La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico , il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale è l’incapacità della città di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico.
La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale riguarda l’intera città. La sua soluzione riguarda la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede , inoltre, l’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.
Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più.
La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituite quell’impianto con uno che elimini, per quanto possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita.
Ciò significa che dobbiamo sostituire l’antico sistema a griglia, o a lotti, con un elemento nuovo, una nuova unità di insediamento, la cui struttura possa risolvere, in termini generali, i problemi di tutte le diverse zone della città e delle loro interrelazioni: dovrebbe dai luogo a un’espansione urbana libera e senza ostacoli creando una struttura adeguata a una sana esistenza della comunità.
Le aree residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano tutte queste condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale”.
Chi scrive è Ludwig Hilberseimer, in La natura delle città, Il Saggiatore, 1969, prima edizione negli USA del 1955. Si tratta dell’inizio del 3° capitolo “Problemi di pianificazione”, mentre i primi due titolano ”Origine, crescita e declino” e “Modello e forma”.
Il testo continua con la descrizione, piuttosto precisa, del tipo di insediamento “ideale” che risponda ai requisiti generali sopra esposti. Viene chiamato “unità di insediamento”, ogni funzione è separata dalle altre e la viabilità è gerarchizzata in modo tale che all’interno della aree residenziali non possano entrare auto.
La prima osservazione è che il libro sembra scritto da due persone diverse: nei primi due capitoli si analizzano molte città del passato e del presente, con competenza e sensibilità, sapendone cogliere gli aspetti concreti e quelli simbolici e anzi attribuendo a questi una grande importanza nella forma e nella crescita della città, e vi si trovano frasi di questo genere:
“L’architettura di una città è un’architettura che implica non i singoli edifici o gruppi di edifici, ma tutto il complesso che costituisce la città stessa; la relazione mutua tra le sue parti e quella fra ciascuna parte e la città nel suo insieme. Il suo obiettivo è l’uso creativo degli elementi materiali della città; il suo scopo è il raggiungimento di un odine visivo adeguato all’ordine fisico della città”.
E poi:
“I materiali dell’architettura della città sono il luogo della città e la sua topografia, gli edifici della città, e gli spazi interni ed esterni ad essa”.
Non solo: il secondo capitolo, come scritto in Prefazione “si occupa dei modelli organizzativi e della forma della città, analizza i due sistemi di pianificazione, geometrico e organico”, che determinano il tipo, l’architettura e il paesaggio urbano”. Il fatto singolare è che l’autore attribuisce al modello organico, quello cioè che asseconda la morfologia del terreno e la natura e “prende in considerazione necessità e funzione” - mentre quella geometrica è pianificata in base ad un’idea generale preesistente al luogo - la sua preferenza, anche di tipo politico e sociale:
“Castellazzo (insediamento geometrico) e Galstonbury (insediamento organico) rappresentano, a un livello primitivo, i due tipi universali di città: la città autocratica e la città libera, che sono rintracciabili in tutte le epoche”.
Niente è più geometrico, ideale e autocratico della città verticale e di quella che è stata prodotta dal libro, vale a dire Lafayette Park a Detroit.
Colpisce, inoltre, il fatto che la lettura del brano in testa potrebbe trovarsi in un qualsiasi testo contemporaneo, in un blog, in un articolo di giornale: traffico, inquinamento, limitazioni alla circolazione, criminalità, incidenti; sono passati sessanta anni e i problemi sembrano essere sempre gli stessi, evidentemente irrisolti. Non solo: Hilberseimer è convinto della relazione esistente tra degrado urbano e criminalità, cioè del rapporto diretto tra qualità della città e comportamenti sociali e individuali.
Nonostante tutto questo “L’idea chiave che sottintende l’urbanistica progressista è quella della modernità”(1). “Non meno che dall’ambiente, la pianta della città progressista risulta indipendente dalle coercizioni della tradizione culturale. […] La preoccupazione di efficienza si manifesta subito con l’importanza accordata al problema della salute e dell’igiene. L’ossessione dell’igiene si polarizza intorno alle nozioni di sole e di verde. […] La conseguenza più importante sarà l’abolizione della strada […] [e] la costruzione in altezza, per sostituire alla continuità dei vecchi edifici bassi, un numero ridotto di unità […] verticali. […]”.(2)
Hilberseimer non sfugge a questa legge e vi sono infatti ampie parti del libro che trattano di salute e igiene. Soprattutto è l’automobile il feticcio intorno a cui ruotano tutte le scelte: tenere lontano le auto dalle residenze ma senza perdere i vantaggi alla mobilità derivanti dalla esistenza di questo mezzo. Effettuando una separazione e gerarchizzazione di strade carrabili in principali e secondarie, e in strade pedonali, si consolida il modello dello zoning, della città separata per funzioni diverse. Che sia la città verticale, precedente a La natura delle città, o quello orizzontale di Lafayette Park a Detroit, il modello è concettualmente lo stesso: tutto è separato e funzionalizzato, e anche la separazione dei percorsi si colloca entro questo schema e contribuisce alla costruzione di una città dissociata in parti.
La logica è quindi sempre la stessa, e il programma di Hilberseimer è sempre lo stesso, come scrive nella parte di testo ad inizio post:
“Il sistema di strade e lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altri parti della città per mezzo di una rete viaria”; la fine della strada, della rue corridor, determina la fine della città tradizionale, senza aver portato però alcun beneficio alla città e alla soluzione del problema traffico, passati ormai sessant’anni.
Oggi c’è il rischio che il tema si ponga in maniera speculare a quella di allora: una città pedonalizzata e/o ciclabile dove l’auto non è più il simbolo della modernità ma è considerata il dramma della modernità. A me sembrano due facce della stessa medaglia che ha nome “utopia”.
Prima si è preteso di andare contro la storia della città e a favore dell’auto, adesso contro l’auto ma a favore della città; credo che sia un errore, un’illusione, nonostante la benzina a due euro. Ritengo la mobilità individuale un valore di libertà e immaginare di progettare paradisi urbani senza auto può portare a progetti che, sperando in un futuro luminoso senza auto, di fatto ripropongono un disegno della città utopico e astratto e comunque non necessariamente valido sempre. Si rischia cioè di costruire una “macchina” urbana, esattamente come è accaduto prima, non un “organismo” urbano, il quale invece sa reagire alle mutazioni di abitudini e alla società che cambia e si evolve.
Le strade sono le arterie e le vene attraverso cui scorre al linfa vitale della città, attraverso cui la città è permeabile in ogni sua parte e che consentono libertà di scelta tra più alternative possibili e restano l’elemento fondamentale, la struttura portante della città, a prescindere cioè dall’uso e dalla regolamentazione che se ne può fare e che può essere suscettibile di cambiamenti nel tempo. Modificare profondamente l’impostazione della forma urbana avendo in mente solo l’uso o solo il non uso dell’auto significa precludere alla città la possibilità di modificarsi nel tempo, affidandosi ad una predizione del futuro e quindi ad un'alta probabilità di sbagliare. Impostare la città su una ideologia o pregiudizio pro o contro l’auto è comunque una forma di utopia. Io credo che sia più corretto dare per scontato l’esistenza del mezzo auto, prescindendo dal giudizio di merito, o peggio dalle crociate, in modo tale che siano possibili le due opzioni:
- la convivenza pedone-auto, quella che di fatto avviene oggi, ma in maniera caotica e non regolamentata;
- la possibilità di chiudere al traffico determinate strade con la semplice regolamentazione, che non è di competenza del progettista, ma appartiene alla fase gestionale.
La terza non va presa in considerazione, perché è quella delle autostrade urbane, quella di Hilberseimer, che non solo è anti-urbana, ma ha dimostrato di non funzionare.
1) Choay F., La città. Utopie e realtà, Einaudi, Torino, 1973.
2) Choay F., Op. cit.
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