Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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11 dicembre 2011

QUANDO IL CATTIVO GUSTO SUPERA OGNI IMMAGINAZIONE

di Ettore Maria MAzzola

È di questi giorni la notizia che a Seoul, nell’area dello Youngsan Dream Hub, un centro per affari progettato da Daniel Libeskind, lo studio olandese MVRDV sta per realizzare due grattacieli gemelli ispirati all’attacco alle Twin Towers. Avete capito bene, le torri non sono ispirate a quelle di Yamasaki, bensì alle torri avvolte dalle nuvole causate dall’attacco kamikaze con gli aerei.


Nelle scorse settimane, l’Italia s’era indignata a causa dell’ultima trovata pubblicitaria della Benetton che vedeva il papa baciarsi sulla bocca con l’Imam, sicuramente una scelta di cattivo gusto, che però mostrava una scena d’amore e di pace, mentre qui ci troviamo davanti ad una scelta intenzionalmente ispirata dalla violenza.

La nostra cultura – ammesso che si possa ancora arrogare il diritto di adoperare questo termine – basandosi esclusivamente sull’edonismo e sul principio della “società dello spettacolo” ha perso del tutto il “comune senso del decoro”, non c’è più alcun senso del pudore che debba rispettarsi, BISOGNA APPARIRE!
Nella perenne competizione del mondo consumista e della Società dello Spettacolo, non c’è possibilità di emergere se si rimane “normali”, è indispensabile intraprendere la via del “famolo strano” se si vuol sperare, come diceva Andy Wahrol, di godere dei propri 15 minuti di notorietà.

Il “famolo strano” è una delle tante sfaccettature di quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:
«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

Ecco quindi che, per godere dei propri 15 minuti di notorietà, non occorre necessariamente che quella ci venga per dei meriti … anche i demeriti vanno bene, purché si possa parlare di noi!
Anni fa, credo fosse il 1995, “enzimi” organizzò un concorso di progettazione per giovani architetti nel cui bando gli organizzatori dicevano che avrebbero premiato il progetto più “irriverente e dissacrante” … un ottimo modo per istigare le nuove leve a produrre opere fini a sé stesse e a fregarsene degli uomini e dell’ambiente.

Ma dove porta tutto questo?
Per il momento mi limito a far notare che, benché il progetto sia stato fatto da MVRDV, il masterplan è stato sviluppato da Daniel Libeskind … e il piano per Seoul ha delle sinistre similitudini con il piano dello stesso Libeskind per Ground Zero. Per la proprietà transitiva si deve supporre che uno zampino dell’architetto polacco debba esserci stato!
Inoltre, non è possibile credere alle parole di Jan Knikker di MVRDV il quale, una volta scoppiato lo scandalo per il progetto, ha dichiarato al quotidiano olandese Algemeen Dagblad, “Non era nostra intenzione creare un'immagine simile agli attacchi, né si vede la somiglianza nel processo progettuale" … tant’è che poi ha dichiarato "Devo ammettere che abbiamo pensato anche agli attacchi del 9 / 11".

Ebbene, alla luce di questa vergogna, ricordo a tutti che Daniel Libeskind è, insieme a Massimiliano Fuksas, uno degli “architetti di fama internazionale” a capo della “Commissione Grattacieli per Roma” … quale futuro dobbiamo aspettarci per la Capitale?
Mi auguro che il sindaco e il suo entourage riflettano a fondo, e blocchino sul nascere l’idiozia dei grattacieli a Roma.

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19 ottobre 2011

COMMISSIONI "GRATUITE" PER INTERVENTI GRATUITI

di Ettore Maria Mazzola

Purtroppo quello che è circolato in questi giorni sul Blog Archiwatch del buon Prof. Muratore non era uno dei suoi simpatici scherzi firmati “Falso Cascioli”, è tutto vero e documentato sul sito istituzionale del Comune di Roma, sulla pagina ufficiale si legge:

“Il giorno 4 ottobre 2011 e il giorno 11 ottobre 2011 alle ore 14,30 alla presenza dell’Assessore all’Urbanistica, avv. Marco Corsini, si sono insediate ufficialmente la “Commissione Piazze” e la “Commissione Grattacieli”, entrambe istituite dal Sindaco di Roma Capitale”.
“La Commissione Piazze, è presieduta dal Prof. Paolo Portoghesi, Architetto di fama internazionale, è composta dal Prof. Francesco Cellini, Architetto di fama internazionale e Preside della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, dal Prof. Bruno Dolcetta, Architetto Docente di Urbanistica allo IUAV di Venezia, dall’Arch. Francesco Coccia, Direttore del Dipartimento Periferie di Roma Capitale, e dall’Ing. Errico Stravato, Direttore del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale, e ha il compito di individuare i siti idonei ad ospitare nuove piazze nell’ambito della città periferica nel territorio di Roma Capitale.
La Commissione Grattacieli, presieduta dall’Ing. Errico Stravato è composta dall’Arch. Massimiliano Fuksas, Architetto di fama internazionale, dall’Arch. Daniel Libeskind, Architetto di fama internazionale, dall’Ing. Francesco Duilio Rossi, Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, dall’Arch. Amedeo Schiattarella, Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Roma, dal Prof. Livio De Santoli, Ingegnere esperto di energia per l’Università di Roma "La Sapienza", e ha il compito di individuare i nuovi siti adatti ad ospitare edifici con tipologia edilizia a sviluppo verticale.
Entrambe le Commissioni vedono la presenza dei loro componenti a titolo gratuito e hanno l’obiettivo di elaborare le linee guida per ogni sito individuato, unitamente alla procedura concorsuale che verrà successivamente bandita. Nel corso dei due incontri si è stabilito di calendarizzare i lavori delle Commissioni e selezionare i siti che verranno analizzati
”.

Il sindaco Alemanno venne eletto anche grazie alla promessa di provvedere a mettere fine alla campagna di devastazione della Capitale, inaugurata dal sindaco Rutelli e portata avanti da Walter Veltroni, ma ben presto i romani si sono dovuti accorgere dell’inganno.

Nulla è stato fatto per rimuovere la “Bara-Pacis” di Meier, anzi è stato proposto di realizzare un mega parcheggio ed un tunnel a suo supporto. Poi, sul problema dei palazzi demoliti nel ’39 lungo via Giulia, la giunta aveva inizialmente affidato al prof. Marconi (che con il sottoscritto e le Università di Notre Dame, Miami e Roma Tre, aveva prodotto un testo e dei progetti pilota) la redazione di un Bando internazionale per la ricostruzione filologica degli edifici da destinarsi ad Università per Stranieri a Roma, successivamente – di comune accordo con personaggi il cui amore per Roma e conoscenza della città sono ancora da dimostrarsi, nonostante la loro presenza nelle commissioni di cui sopra – il sindaco decise che la ricostruzione andava fatta ma non dovesse essere assolutamente basata su principi filologici! La storia vergognosa di questa faccenda è stata ampiamente raccontata e non merita ulteriori commenti, se non che dal ricordo dello scandalo legato all’appalto del parcheggio che dovrebbe sorgere in quel punto ed al tentativo di devastazione dei reperti archeologici trovati nell’estate di due anni fa. Poi c’è stato lo “strano caso” per cui il sindaco ha sostenuto a tutti i costi il progetto per Tor Bella Monaca e il “no” alla rigenerazione del Corviale su cui occorre stendere un velo pietoso. Che dire poi dei platani abbattuti dove si vorrebbe far sorgere le strutture delle ipotetiche Olimpiadi? Ma sono troppe le cose da raccontare, e allora mi limito a far qualche riflessione nella speranza che il sindaco e i suoi “esperti” facciano altrettanto.

Alemanno, forse a causa delle sue origini politiche, probabilmente vuole impersonare il ruolo del leader della nuova “era del piccone” e così, non pago degli scempi che ha promosso e sostenuto finora, ha deciso – complici i suoi “coltissimi” consiglieri ed assessori – di istituire due commissioni, una più insulsa dell’altra … forse per questo si sono premurati di sottolineare, di seguito ad ogni nome chiamato al capezzale della Capitale “Architetto di fama internazionale”, peccato però che questi personaggi, nella loro carriera, non hanno fatto altro che mostrare la “fame di fama” e perfino l’odio più totale nei confronti della tradizione e della storia!

Qualcuno potrebbe azzardarsi a scagionare da questa categoria di devastatori il prof. Portoghesi, ma poi basterebbe ricordarsi le parole che hanno accompagnato il suo progetto per via Giulia, oppure andare a vedere la piazza mostrata durante la conferenza sul futuro di Roma, o la proposta per Piazza San Silvestro, per rendersi conto che, sebbene abbia scritto libri mirabili in materia di “Barocco”, non provi alcun interesse per la progettazione dello spazio che quel meraviglioso periodo ha prodotto. A ben vedere, il suo unico interesse sembra rivolto alla forma della pavimentazione disegnata da Michelangelo per la Piazza del Campidoglio, forma che ha colonato gratuitamente (come i suoi incarichi gratuiti di cui sopra) ogni qualvolta gliene sia capitata l’occasione in giro per il pianeta. Che garanzie può dare un Presidente di Commissione per le Piazze che disegna piazze fini a se stesse, dove ci si deve recare e ripartire in elicottero perché non hanno alcuna relazione spaziale con una sequenza urbana pedonale? Quali mirabili piazze avrebbero realizzato, o perlomeno studiato e compreso, gli altri “architetti di fama internazionale” della Commissione?

Quanto all’altra Commissione, quella per i Grattacieli, c’è da restare annichiliti alla sola idea di istituirla, specie dopo che l’intera popolazione (non solo romana) s’era mobilitata per spiegare al sindaco, ed ai suoi sponsors, che quella del grattacielo è una tipologia che non appartiene né a Roma, né all’Italia, tipologia da ritenersi folle nell’era della sostenibilità. Si vede che gli sporchi interessi che girano dietro l’edilizia e il mercato fondiario hanno fatto decidere ai nostri amministratori di calarsi le braghe davanti a chi ha intenzioni speculative.
Il solo pensiero che della commissione facciano parte Fuksas, (che attualmente sta sfregiando l’edificio dell’ex Unione Militare all’angolo tra via del Corso e via Tomacelli) e di Liebskind (che ha finora dedicato la sua vita professionale a far violenza agli edifici storici come il Museo di Dresda), non può che suscitare incubi nella popolazione romana che, si deve supporre, vedrà massacrare il suo skyline, e probabilmente il suo centro storico, per lasciar posto quelle infernali macchine di distruzione ambientale che sono i grattacieli.

Non meravigliatevi se, di qui a poco, vedrete spuntare progetti che parlano di “grattacieli sostenibili” o di “boschi verticali”, saranno i nostri “esperti di fama internazionale” a proporceli, ci racconteranno che sono cose che si fanno all’estero, ci racconteranno che stanno cercando di farlo a Milano … ma questo non vuol dire che le parole e le immagini corrispondano alla realtà! Del resto se chiedessimo ad un produttore di pesticidi se sono nocivi non ci risponderebbe mai onestamente, né se chiedessimo ai produttori di alimenti geneticamente modificati quali possano essere gli effetti collaterali essi ammetterebbero mai una simile possibilità.

È incredibile che in questa nazione, e in questa città, ci si accorga sempre in ritardo di come le cosa vadano nel resto del mondo. Basta fare una semplice ricerca nel web, digitando “grattacieli abbandonati” o “ghostscrapers” o “abandoned skyscrapers” per trovare migliaia di pagine che raccontano come nel resto del mondo, dove questa tipologia è stata sposata, essa si è rivelata fallimentare. Onestamente basterebbe conoscere le ultime notizie su Dubai per rendersene conto, eppure sembra che, ottusamente, alcuni “architetti di fama internazionale” e i loro mecenati politici, non vogliano ammettere a se stessi la dura realtà.

Roma s’è già resa ridicola agli occhi dell’intero pianeta il 20 luglio 1972 quando, 5 giorni dopo l’abbattimento del complesso Pruitt-Igoe – ritenuto "ambiente inabitabile, deleterio per i suoi residenti a basso reddito” – evento che lo storico americano Charles Jencks aveva decretato “la morte di quelle utopie”, venne deciso di realizzare il progetto per Corviale a Roma!

Evidentemente dobbiamo credere a chi sostiene che i nostri attuali politici siano diabolici: errare è umano, perseverare è diabolico!

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12 ottobre 2011

AUTOCENSURA

E’ troppo difficile commentare questo progetto senza rischiare la querela per uso eccessivo e reiterato di aggettivi oltraggiosi e d’altra parte affrontarlo in tono ironico potrebbe essere giudicato da qualcuno come superficiale e inadeguato alla gravità della situazione.
Avventurarsi in considerazioni troppo pensose, invece, può portare ad una grottesca situazione di esagerato contrasto con la quantità di pensiero presente nell’opera.
Inserire questo progetto nella storia dell’autore per inquadrarne il messaggio nel suo personale percorso progettuale, in ossequio alla concettualità dell’opera, potrebbe apparire un omaggio all’autore stesso e rischierebbe di indurre l’idea in qualche mente debole che vi sia anche del vero.
Provare a immaginare come potrebbe risolversi l’inserimento ambientale del Ponte sullo Stretto di Messina, di cui il nostro è incaricato, basandosi su questo disegno mi farebbe diventare per un paio di minuti l’idolo dell’opposizione parlamentare al gran completo, come con l'Arcuri, e di guai ne ho già troppi in casa per andarne a cercare anche fuori.
Osservare che questa nostra società occidentale ha un serio problema con Alzheimer che non lascia presumere niente di buono per il futuro è talmente ovvio che sarebbe inutile approfondire.
Dichiarare di pensare che quest’edificio ci fa sentire più vicini gli orrori della guerra potrebbe essere scambiato per retorica o, molto peggio, come la prova della giustezza del progetto, invece mi è solo balenato per la testa che di cose brutte, oltre alla guerra, in giro se ne cominciano a vedere.
Scrivere sulla degenerazione del fenomeno archistar è sotto gli occhi di tutti, o quasi, e non sarebbe originale.
Affrontare il tema del rapporto del progetto con il contesto o del dialogo tra nuovo e vecchio mi farebbe sentire alquanto scemo.
Mi resta solo la scelta di non scrivere niente e aspettare che qualche coglione di critico o di storico ce lo spieghi con dovizia di particolari e molte citazioni. Sai quanti se ne trovano nel web e pure nelle nostre facoltà!

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17 marzo 2011

DAMNATIO MEMORIAE

Segnalo questo articolo di Vilma Torselli su Artonweb, dal titolo

Come al solito Vilma ci induce alla riflessione; lei penetra negli anfratti delle cose alla ricerca di spezzoni di verità, contrariamente a questo faziosissimo blog. Non offre soluzioni ma propone problemi, anche se vi sono affermazioni chiare sulla memoria e sul compito che l'architettura svolge rispetto ad essa.
Per adesso lo segnalo ma spero prossimamente di commentarlo.

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23 gennaio 2011

L'EFFETTO BILBAO E' FINITO, MA SI SONO DIMENTICATI DI DIRCELO

Giandomenico Amendola, sociologo, ha scritto un libro, Tra Dedalo e Icaro, Laterza, sottotitolo: La nuova domanda di città, 2010. Amendola analizza la città sotto 10 profili diversi e ad ognuno di essi attribuisce un nome come si trattasse di città ognuna diversa dall’altra: La città sostenibile, La città impresa, ecc. Poi è chiaro che, come egli stesso scrive alla fine, le città si sovrappongono e i confini di ognuna si confondono con le altre. E’ un metodo interessante e anche di piacevole lettura che tra l’altro consente di ridurre a relativa semplicità ciò che è invece molto complesso. Non è detto che non comporti forzature interpretative e anche che non si soffermi su suggestoni molto di moda, rischiando perciò di tralasciare altri aspetti che magari non sono adesso in voga, tuttavia io non sono un sociologo e non voglio entrare troppo nel merito.

Mi interessa invece estrarne un tema comune, appunto, a due tipi di città, quella dell’Impresa e quella dello Spettacolo, e che riguarda i simboli dell’architettura contemporanea, cioè le opere delle archistar.
Scrive Amendola della Città dell’Impresa:

La creatività da sola non basta: l’obiettivo strategico è l’innovazione di cui la creatività diffusa è condizione necessaria ma non sufficiente. A differenza della semplice creatività, che può apparire anche in maniera fulminante ma può con uguale rapidità declinare e sparire, l’innovazione è caratterizzata da sequenzialità, irreversibilità e cumulabilità in quanto deve non solo avviare ma anche sostenere e radicare i circoli virtuosi dello sviluppo. Gli stessi casi di Glasgow e Bilbao, sin qui ritenuti esempi da manuale di esplosione di creatività urbana, vengono oggi riconsiderati criticamente. Le crepe che si sono aperte nelle loro economie dopo una felice ma breve stagione di crescita stanno mostrando come la creatività di per sé non sia sufficiente se non innesca un processo sequenziale, cumulativo e tendenzialmente irreversibile di innovazioni produttive, organizzative e politiche.
Il problema principale dell’innovazione è che essa deve radicarsi. Mentre, infatti, è abbastanza semplice individuare – quantomeno per grandi approssimazioni – i fattori capaci di attrarre soggetti creativi, è ancora aperta la questione su ciò che sia necessario perché questi talenti si radichino in una città e non la abbandonino al primo vento di crisi. Tra i fattori di radicamento centrali sono i network, che anche se gli attori dei settori più propriamente artistici tendono a disconoscerlo, legano sinergicamente i protagonisti della città creativa sia tra di loro che agli attori del sistema produttivo e politico tanto locale che nazionale. [….]
Nella logica della competizione tra città, un gran peso assume oggi l’architettura e in particolare quella iconica. Uno degli strumenti che gli amministratori ritengono, a ragione o a torto, fondamentale per affermare la propria città sulla scena internazionale è la grande architettura. La vicenda di Bilbao che ha trasformato il proprio panorama urbano facendo ricorso ai maggiori architetti del mondo, da Frank Gehry a Norman Foster, da Santiago Calatrava a Cesar Pelli, ha fatto scuola. Gli star-architects, gli architetti dalla firma prestigiosa e dalla visibilità mondiale, sono diventati ormai ingrediente costante di tutte le politiche di sviluppo delle città ed elemento di forza delle azioni di marketing urbano. Il rischio è che, paradossalmente, lo sforzo che ogni città fa di distinguersi con l’intervento del grande architetto, possa portare a un’omologazione formale della città.
Nello sforzo di piacere e di conquistare il mercato le città corrono il rischio di somigliarsi sempre più ricorrendo agli stessi architetti di grido, organizzando eventi simili, realizzando fronti mare e arredi urbani talmente uguali che i mercanti d’arte li chiamerebbero eufemisticamente multipli
. Ciononostante sembra che il gioco valga la candela. Stazioni, aereporti, piazze, waterfront, banche, grandi magazzini: tutto viene ripescato dalla banalità funzionale per diventare icona e immagine. Sulla scena urbana sono apparsi i musei che, dopo un lungo periodo di disattenzione, sono tornati ad avere un ruolo simbolico starrdinario persino maggiore di quello che – in quanto luoghi dove si concentra e diventa visibile la storia culturale e politica della nazione – avevano svolto per un lungo periodo incoronando le città capitali. […]
L’aura del museo si estende fino a coprire e valorizzare qualunque cosa avvenga al suo interno, anche se priva di alcun rapporto con la cultura. There’s no party like a Museum Party titola il supplemento del “New York Times” del 25 settembre 2009. Il riferimento è ai numerosi party, per lo più promozionali, organizzati da corporation e da privati nei locali del Moma e del Guggenheim
”.

Ed ecco un piccolo estratto dalla Città dello Spettacolo:
“Non solo la città produce e contiene spettacoli ed eventi ma, l’obiettivo finale, è che essa stessa diventi spettacolo. La città stessa, in definitiva, può essere un evento. Bilbao è evento così come Berlino è evento: perché evento è, recita il dizionario, “qualcosa che accade in un certo punto a un certo momento” e che merita attenzione. E che fa notizia. Vi sono perciò momenti in cui la città stessa può diventare evento come è accaduto per la Berlino della caduta del muro, la Bilbao del Guggenheim, la Glasgow delle politiche culturali, la Barcellona postolimpica, la Napoli del dopo G8. La città diventa evento ma “dopo”, dopo che è terminato l’evento vero e proprio e la città è riuscita – impresa certamente non facile – a metabolizzarne gli effetti e a farli propri”.

Anche da queste poche righe credo risulti chiaramente che il metodo della scomposizione tematica della città produce risultati apprezzabili. Ma veniamo al contenuto.
Intanto c’è la chiara presa d’atto che l’effetto Bilbao ha esaurito la sua “spinta propulsiva”. Cade così un mito, sul quale in verità da tempo è stata messa la sordina e qualche sospetto era venuto, e quei media e quei soggetti interessati che tanto lo hanno decantato e preso come esempio virtuoso da seguire hanno invece taciuto il rovescio della medaglia. Hanno fatto cioè disinformazione. Solo per questo è valsa la pena comprare questo libro, perché l’autore non è soggetto che sembra avere partito preso contro questo sistema e quindi lo si può ritenere del tutto credibile.

Nonostante questo pare che il mito dell’effetto Bilbao in Italia sia ancora forte, dato che sia per l’EXPO 2015 che per il Ponte sullo Stretto ci si affida a nomi altisonanti, quali Daniel Libeskind, che, tra l’altro, in quest’ultimo caso dove c’è da ottemperare ad un inserimento nel contesto ambientale, sembra una scelta doppiamente immotivata. Effetto Bilbao, che non funziona più, o provincialismo di ritorno, che non ha mai funzionato?
Amendola analizza poi un aspetto oggi dominante nel dibattito urbano, non solo nelle aree metropolitane, da cui ha origine, ma ormai esteso a centri medi e piccoli, almeno nelle intenzioni dei loro amministratori: la tentazione di ricorrere al grande creativo, alla firma dell’architettura, è utilizzata come una scorciatoia alla mancanza di creatività, ma direi di “politica”, da parte della “politica”. Ci si affida ad una o più figure esterne alla città, come in verità si è spesso fatto, che però adesso avrebbero quel quid plus costituito dalla fama mondiale indiscussa(?) e indiscutibile(?), non solo per firmare un progetto capace di fare marketing urbano a livello internazionale, ma anche per “trovare” l’idea capace di cambiare in meglio la condizione della città.
Ci si affida dunque all’architetto, o meglio all’archistar, non solo in quanto progettista famoso ma anche perché lo si ritiene capace, con un solo edificio, di trasformare una città mediante un’espressione architettonica ma anche “funzionale” - che in verità spetterebbe alla politica - capace di concentrare sulla città stessa un interesse esteso e di produrre capacità attrattiva e di stimolo per energie nuove e, naturalmente, creative.
La prima domanda da porsi è: come è possibile che una persona, un architetto, venuto da fuori a svolgere un incarico progettuale possa conoscere la realtà sociale, economica, produttiva, culturale di una città con quattro visite pubbliche e risolva tutti i problemi? Evidente che non può essere così, evidente che siamo nel campo della pura immagine e della propaganda.

Altra considerazione: quand’anche l’archistar di turno penetrasse davvero nell’anima e del corpo della città, cosa offre e cosa produce, in genere? Servizi, evidentemente: culturali, sociali, commerciali, dello spettacolo, del benessere, del tempo libero e quant’altro. Questa condizione presuppone una società di qualche tempo fa, forse solo immaginata più che reale, se non per poche limitatissime aree e città, in cui tutti consumano, si divertono e spendono, ma pochi o nessuno produce, se non i servizi che molti dovrebbero consumare. I fatti recenti legati alla FIAT insegnano però altro e cioè che se non c’è lavoro produttivo per molti i soldi da spendere per pochi, a meno che non speriamo che tutte le aziende de-localizzino e il nostro paese possa vivere, non si sa come, sul lavoro degli altri paesi. Non sembra proprio che questo sistema funzioni anzi sembra che sia stato fatto anche per troppo tempo. Il sistema economico basato solo sui servizi e sui consumi senza fine, sul tempo libero, sulla “cultura”, chiamiamola così, a gogò, mi sembra qualcosa di molto simile alla finanza creativa che ha portato alla crisi del 2008: ricchezza finta che genera povertà vera.
Non è possibile che in ogni città, in ogni paese addirittura, si possa pensare di fare un bel “centro” di qualsiasi cosa, sempre frequentato da gente disposta a spendere e che la storia possa durare.

Qui si immagina una città dello spettacolo, degli eventi continui, dell’effimero portato a condizione permanente. Non sono un economista, ma se due più due fa quattro, la città che ne esce non è per tutti, anzi è davvero per pochi privilegiati, ma il sogno di una vita fatta di eventi e novità continue viene alimentato ugualmente. E poi danno la colpa alla televisione che sarebbe cattiva maestra!

Ultima considerazione, facile da comprendere ma niente affatto scontata, e cioè l’omologazione delle città progettate allo stesso modo, con “multipli”, come eufemisticamente li chiama Amendola. In una città che dovrebbe essere caratterizzata dalla convivenza tra diversi, come scrive l’autore in altre parti del testo, e come è tanto allegramente quanto acriticamente decantato dalla vulgata buonista, tutte le città dovrebbero essere invece uguali tra loro piuttosto che rimarcare le proprie differenze, la diversità, la specificità di ciascuna storia e di ciascun contesto geografico.
Il tempo e lo spazio sarebbero omologati come se il primo dovesse fermarsi, non fosse esistito prima e non avesse lasciato segni caratteristici e il secondo, prodotto del primo, dovesse cambiare per confondersi in un amalgama indistinto e terribilmente anonimo, senz’anima e senza caratteri distintivi.

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4 dicembre 2010

POST A QUATTRO MANI SU CITYLIFE

Siamo in crisi? A Milano c’è Citylife, la mostra d'arte moderna che ci conduce nella casa-modello di 220 mq di Libeskind
di Ettore Maria Mazzola

Il Corriere della Sera del 3 dicembre 2010, con un articolo sul web supportato da immagini ci informa dell’evento milanese con la “casa-modello” dell’archistar, e ci annuncia che nella primavera del 2012 saranno pronte le case disegnate da Zaha Hadid.
La società dello spettacolo ha avuto la sua degna passerella, così gli organizzatori Maurizio Dallocchio, presidente della società CityLife, e Martina Mondadori, direttrice di Tar Mag si sono affrettati a far sapere che «Abbiamo dedicato una parte del quarto numero a CityLife proprio perché il cuore della nostra rivista è anche a Milano. Questo progetto porta tre archistar internazionali in città, ed è un evento straordinario». Il successo apparentemente sarebbe dovuto al fatto che sono arrivati come ospiti nientemeno che “Ambra Angiolini ad Arturo Artom, passando per Costantino della Gherardesca e Alberta Ferretti”.
Sulle pareti dell’edificio di Libeskind è stata organizzata una mostra di giovani artisti organizzata dalla galleria di Giò Marconi, il risultato è nelle immagini che il Corriere ha messo sul web.
Di tutte ce n’è una che mi ha colpito, ed è quella inserita anche nel corpo del testo dell’articolo.

Come si può vedere, trattasi di una stanza minuscola, (che in una casa da 220 mq costruiti ex-novo ci sta sempre bene), dove due visitatrici – che non sono né Ambra, né Alberta Ferretti – si trovano a dover aggirare un fantoccio riverso a terra con un imbuto conficcato in bocca.
Che vorrà dire?
Penso che il messaggio non sia tanto nascosto: nonostante la necessità dell’arte moderna di non svelare mai il significato ultimo dell’opera, in questo caso l’artista ci ha voluto rappresentare il padrone di casa a cui gli architetti vogliono fare ingurgitare a forza le loro schifezze! … quel pupazzo non è casuale.

La vita non è un party
di Pietro Pagliardini

Primo:
guardare le foto di questo link.
Secondo:
Che cazzo vuol, dire Citylife?
Dovrebbe voler dire, se ricordo la regola inglese per cui l’oggetto principale si scrive alla fine, la vita della città, oppure la vita di città, insomma la vita.
Certamente è così, perché la città della vita potrebbe essere il titolo di un film, troppo impegnativo, troppo filosofico, escatologico quasi e anche un po’ presuntuoso, tipo la città celeste. Oddio, visto il progetto, il tono delle foto pubblicitarie e le opere d’arte esposte, ci sta anche che abbiano voluto aspirare a questi livelli.
Comunque diamo per buono il primo significato.

Ma, ironia della sorte, “Back to city life” è anche il titolo di un workshop romano sul recupero delle periferie degradate. Ad essere malpensanti si potrebbe ipotizzare un’unica regia, un’operazione di lobbying, una pubblicità occulta, sarebbe a dire un’operazione orchestrata dal Grande Vecchio per veicolare il messaggio che la soluzione al problema delle periferie e della città sia Citylife, quella delle foto. Ad avvalorare l’oscuro intrigo almeno un paio di grattacieli presentati al workshop, uno da Portoghesi e l’altro da Purini. Ma quello di Portoghesi era un grattacielo formato famiglia, forme accattivanti, un grattacielo nazional-popolare. Quello di Purini aveva più pretese, in verità, più metropolitano, con tanto di pannelli fotovoltaici, addirittura.


Potrebbe essere proprio lui il tramite del complotto, se non proprio il Grande Vecchio? Tenderei ad escluderlo perché, nonostante tutto, anche questo aveva qualcosa di più ordinario, più provinciale di quello milanese. Senza offesa, anzi per complimento, ma era più ruspante, vagamente borgataro, relativamente a quello schiettamente metropolitano delle foto.
Insomma, niente complotto, solo una pura coincidenza temporale.


Ma vogliamo mettere quei bordi esterni spezzati delle terrazze, quelle linee sincopate e nervose, a scatti, quei cambi di direzione improvvisi proprie di chi va di fretta, di chi non può permettersi di perdere tempo. Nemmeno per mettersi a sedere, né per mangiare o per soggiornare davanti alla TV o a leggersi un giornale, almeno a giudicare dalle foto. Opere d’arte ai muri e anche per terra. Tavolo da giocatore NBA, pupazzo steso a terra con imbuto in bocca, molto elegante devo dire, colore bianco ovunque. Nessun letto, quindi niente riposo, niente amore e di conseguenza niente figli. No, questo non è vero, i figli si fanno anche in laboratorio. D’altra parte, avete visto forse una stanza per bambini? L’armadio? Abiti e scarpe attaccate al chiodo.
C’è gente che gira, che guarda un po' attonita. Donne in costume etno-religioso, donne statuarie, praticamente statue.

Una casa da party. Una casa metropolitana. Unica stanza riconoscibile è il cesso, unico richiamo alla nostra misera umanità. Meno male, anche se si poteva valorizzare di più anche qualche altra funzione umana.
No, la vita non è un party. E la metropoli, la vita metropolitana, non rappresenta gli insediamenti umani e la vita che vi svolge in Italia e nel mondo intero. E invece il messaggio che passa è questo, il modello di abitare che viene veicolato come giusto e auspicabile è proprio questo. L'architettura che sembra contare e che fa scuola è questa. Potenza della pubblicità cui il così detto mondo della cultura si è piegato e si piega passivamente.
Ma le borgate abusive romane sono migliori, molto migliori e i grattacieli non sono stati apprezzati. Se ci fosse stato complotto, direi che sarebbe fallito.




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23 novembre 2010

L'ISTINTO E LA RAGIONE

Io ho una gatta scontrosa. Anzi, avevo una gatta scontrosa. L’ho persa, in effetti, quando i miei hanno deciso a maggioranza, io all’opposizione, di prendere un altro cucciolo di gatto. Simpaticissimo questo, e ormai completamente umanizzato. Dorme nel lettone, come un figlio piccolo, ci segue ovunque andiamo, in casa o in giardino, ha i nostri stessi orari. Si sveglia con la sveglia e ci aspetta per la colazione. Cena con noi.
Però ho perso la gatta, che non ha retto al dolore di essere usurpata, o meglio, che non ha tollerato l’intrusione nel suo territorio di un estraneo. Prima dormiva spesso sopra la borsa del mio portatile lasciata per terra. Si vede che le risultava comoda, ma io mi illudevo che lo facesse perché era mia.
In realtà non l’ho persa del tutto, perché è andata a vivere dal mio vicino di casa e a cena viene spesso da noi, sempre con grande sospetto, guardandosi continuamente alle spalle temendo che arrivi l’intruso a disturbarla. Mangia e chiede subito di uscire. Come lo chiede? Lo chiede e basta.
Ieri sera sono andato a trovare il mio vicino e amico e collega. Vedo un nuovo gattino in casa sua. Domando come l’abbia presa la gatta. La risposta è arrivata prima che finissi la domanda: ha lasciato una chiara traccia nel divano, e non l’aveva mai fatto. Ben gli sta, al vicino dico.


E’ una gatta identitaria. Fortemente identitaria, ed ha uno smisurato senso della proprietà o meglio del suo territorio.
Ma lei segue il suo istinto, non la ragione, tanto meno la cultura. Noi esseri umani, fortunatamente, seguiamo, o dovremmo seguire, ragione e cultura e dunque siamo animali, sì, ma di tipo diverso e superiore.

Eppure non possiamo dimenticare del tutto certi istinti che sono latenti ma pronti a riemergere quando c’è una situazione di pericolo o di disagio o anche di benessere; non possiamo, e penso non dovremmo neanche desiderarlo, metterli a tacere una volta per tutte e fare finta che non ci siano. Anche questo è uno degli aspetti della nostra complicata umanità.
Abbiamo il dovere, però, di non comportarci come la mia gatta nei rapporti con i nostri simili. Non ci sono dubbi: in questi casi dobbiamo usare ragione, cultura, tolleranza, etica, morale. Il senso iper-identitario può andare a finire male.

Ma nel giudicare l’arte, la nostra casa, lo spazio in cui viviamo, la nostra città, non esiste obbligo morale a non giudicare anche con il nostro istinto. Non procuriamo danno a nessuno nel pensare e nel dire che un quadro di Fontana è solo un taglio su una tela, che la Merda d’artista è solo stomachevole, anche se ipotetica, merda di un artista, che un progetto della Hadid ci può disgustare e procurarci ansia e non appartiene al mondo dell’architettura ma solo a quello della vanità, pagata talora con denaro pubblico. Anzi, sono loro che procurano danni a noi, a quella parte di noi che appartiene anche alla mia gatta e che la fa scappare di casa, e quindi l’immoralità, se c’è, non è la nostra.

Non c’è motivo di vergognarsi se la scatoletta che non si sa cosa contenga davvero - e che se uno si vuole cavare lo sfizio di saperlo deve buttare una cifra variabile da 15.000 a 130.000 euro (non so se dipende dall’annata) - non solo non ci piace ma ci sembra anche una bella presa in giro. Non c’è motivo di vergognarsene perché l’istinto ci suggerisce che è una presa in giro e non c’è una vera ragione perché prevalga una cultura concettuale e astratta che confligge con un aspetto non secondario della nostra umanità, perché il prodotto contenuto nel barattolo non ci stimola propriamente il senso estetico ma quello di nausea, anche se è solo evocato.

Certo, il senso estetico appartiene all’uomo e basta, ma anche questo ha a che fare con i sensi e con la natura che è in noi; quel senso estetico che ci fa apprezzare paesaggi naturali splendidi, nel cui giudizio siamo tutti alla pari a prescindere dal grado d’istruzione e di intelligenza, se non per lo scrittore o il poeta o il pittore che riescono ad esprimere meglio di altri le proprie emozioni attraverso la loro arte; ma si tratta di comunicazione di emozioni, appunto, non di maggiore o minore capacità di emozionarsi. Nessuno può infatti supporre, e tanto meno affermare, che l’analfabeta abbia emozioni inferiori al premio Nobel.

Se un quadro di quello stesso paesaggio che tutti ammiriamo è composto da tre macchie di colore informi ecco che ci si divide e i più vedranno tre macchie di colore informi, gli altri un’opera d’arte. Entrambe i giudizi hanno diritto d’asilo, anche se il secondo richiede argomentazioni e non fuffa e non deve prevalere con la prepotenza.
Libertà vuole che ci siano persone che apprezzano la Merda d’artista o la Hadid o Libeskind e nessuno deve loro negare questo diritto (apprezzare le squallide periferie, invece, è un diritto solo per chi ci abita, gli altri non hanno titolo perché non sono credibili), ma vale anche la reciprocità e chi non le apprezza o le detesta ha il diritto di dirlo senza dover essere additato come un cavernicolo illetterato e primordiale. Libertà vuole che nessuno ha il diritto di importi ciò che ti deve piacere.
Vale per i progetti della Hadid, o per un film di Godard, o per la musica classica contemporanea (che non esiste quasi più) o per gli incubi urbani di Le Corbusier o per gli edifici storti e spigolosi di Libeskind (già, che fine ha fatto anche lui?) o per le tristi periferie che sono tristi perché intristiscono coloro che ci vivono, checché ne dicano architetti e critici e sociologi (che però non ci vivono).
Chissà che fine farà la mia gatta, senza più casa? Stasera è tornata a mangiare da me ma ha chiesto di uscire subito dopo, come sempre.
Speriamo che il mio vicino abbia capito e rinunci al nuovo gatto, che tra l’altro pare abbia già un padrone, perché fuori piove.

Pietro Pagliardini

Credits:
L'immagine Excremental Value è tratta dal blog angel's Blog

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31 agosto 2009

ELOGIO DELLA NORMALITA'

Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.


Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.

E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:



Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:


Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).

Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:


Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.

Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:


Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!

E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».

Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:



Pietro Pagliardini

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19 aprile 2009

ARCHITETTURA DEL CONSENSO

Pietro Pagliardini

Questo post è un commento all’articolo di Vilma Torselli, Architettura e consenso, su Artonweb.
Inutile leggere il post se prima non si è letto l’articolo.

*****

L’interpretazione che Boncinelli fornisce della creatività in relazione al consenso sociale si presta, come accade spesso in questo campo, alla doppia, possibile interpretazione.
Al soldato che doveva partire per la guerra e domandava trepidante se sarebbe tornato vivo, la Sibilla rispondeva “Ibis, redibis non morieris in bello” lasciando a lui l’interpretazione nel mettere la sospensione prima o dopo la negazione, con ciò assicurandosi un sicuro successo.
Il doppio senso di Boncinelli mi sembra stia nel la frase “Il successo creativo richiede qualità sociali tali da permettere l’affermazione propria e dei propri prodotti, e tali capacità sociali possono facilitare un giudizio positivo sull’insieme delle caratteristiche possedute dal soggetto creativo”.

Ora mi sembra che Boncinelli, diversamente dalla Sibilla, non dia due risposte opposte ma due risposte di valore diverso, una basata sull’oggettività del prodotto creativo, l’altra, quella della frase riportata sopra, sulla soggettività , rispetto al pubblico, delle qualità sociali del soggetto creativo. Insomma, sulla capacità del creativo di sapersi vendere bene, di saper sedurre, di apparire convincente, con ciò lasciando al lettore la scelta se attribuire maggiore importanza all’una o l’altra delle risposte.

Non attribuisco un giudizio negativo a questa dote di fascinazione, tanto più in un architetto che non può in alcun modo essere simile ad un poeta maledetto, dato che questi può continuare a scrivere quanto vuole anche senza avere uno straccio di lettore ma l’architetto non può costruire neanche una capanna se non trova un minimo di consenso sociale, almeno in un cliente disposto a dargli credito. E i progetti da soli difficilmente fanno un architetto: mi piacerebbe aver potuto vedere Sant’Elia all’opera!

Non gli attribuisco un giudizio negativo ma aiuta a spiegare il perché, come dice Vilma Torselli, le archistar hanno tanto, innegabile consenso.
Il caso Gehry è emblematico e ormai è diventato un classico: il successo del suo museo a Bilbao è al di sopra di ogni ragionevole dubbio. Grazie alla sua creatività, sulla quale non si possono avere incertezze (che invece ve ne sono sul fatto se sia creatività da architetto o da scultore) ma grazie anche alla potenza dei media che, probabilmente in virtù del nome e della tradizione che porta il museo, l’hanno “pompato” oltre misura, e masse di turisti sono andate in una città ai più ignota, salvo che per il calcio. Grande è pure la creatività di Ghery nel sapersi fare propaganda, nel saper sfruttare con grande capacità la sua bella faccia rugosa e allegra da vecchio saggio e scapigliato allo stesso tempo, nel farsi fare il suo bel film da un grande regista, nel lanciare ai giovani insegnamenti tanto creativi quanti inutili, tipo quello arcinoto del foglio di carta accartocciato entro cui guardare con una telecamera per esplorare spazialità “nuove”.

Se Ghery è grande in questo, per esserne stato anche il capostipite del genere, altrettanto lo è Zaha Hadid la cui condizione di donna, in un universo di architetti uomini, e di irachena, in un ventennio in cui questo paese è stato al centro dell’attenzione mondiale, ha costituito un ottimo viatico, sicuramente casuale, nel conferirle un’aura di novità, mistero, esotismo, curiosità, eccezionalità, unito ovviamente alla sua creatività che consiste nel disegnare forme dinamiche nello spazio mettendo a frutto le innovative tecniche del software, che però nel passaggio dalle patinate copie a sublimazione alla dura materia edilizia, stentano a conservare la loro capacità attrattiva. Non risultano infatti per lei pellegrinaggi come a Bilbao.

Ma è giusto citare anche il nostro Renzo Piano il quale tra tutti è, in questo senso, il più intrigante e il più sapiente, con un approccio mediatico molto “contestualizzato”, che io definirei “genovese”, perché è “oculato” nel proporsi e, quando lo fa, riesce a mantenere un garbo ed un aplomb molto understatement, in cui bisogna essere veramente del mestiere per capire se ti sta prendendo in giro oppure se fa sul serio, e comunque ti lascia davvero sempre il dubbio; cosa invece che negli altri è più semplice discernere, se tanto tanto uno non è avvezzo ad abboccare a tutta la pubblicità che gli viene propinata.
Anche umanamente Renzo Piano è una miscela di romanticismo(il suo amore per il mare) e di concretezza (il suo battere sul mestiere e sulla ricerca) ed è perciò italianissimo in questo, perché è “ruffiano” come la sua architettura: non ti lascia senza fiato né ti indigna ma sei costretto ad accettarla anche contro voglia non riuscendo a capire cosa ci sia di giusto o di sbagliato. Al che, viene da pensare, ma non ho fatto alcuna indagine in materia, che il Beaubourg sia più opera di Rogers che sua, tanto è esuberante e eccessivo (per questo dubbio vedi anche www.prestinenza.it).

Mi piacerebbe anche parlare di Libeskind ma ho divagato troppo e sono anche andato fuori tema rispetto alle riflessioni finali di Vilma Torselli che condivido. Non c’è dubbio infatti che i media, nella loro fame mai appagabile di notizie sensazionali ad ogni costo, per valorizzare il loro spazio pubblicitario, lasciano poco o punto tempo e spazio alla riflessione meditata, a tutto vantaggio dell’immagine flash, della spettacolarizzazione, della “invenzione” straordinaria.
Anche la critica specializzata, sempre attraverso i media ma anche in gran parte attraverso l’università, ed è quella che lascia il segno più profondo, svolge un decisivo ruolo di mediazione tra il soggetto creativo e il pubblico.

E’davvero possibile bypassare questo sistema? Io credo proprio di no, si può solo sperare che cambi il prodotto ma il metodo resta lo stesso. Questo vale però per le punte dell’iceberg, per l’occhio dei media, per la notizia globalizzata. Esiste invece un grande bacino di consenso o dissenso che non sta sotto gli occhi del mondo ed è quello della provincia dove io credo sia possibile oltre che necessario, mettere in rapporto diretto soggetto creatore e pubblico, opere e città.

Lo si può fare, basta che lo si voglia fare ed è una forma di rapporto così profondamente coerente con la nostra società che si dice essere democratica che quasi stupisce non sia presa in alcuna considerazione. E’ il metodo del voto popolare, ma non quello fatto attraverso la TV digitale, che è manipolabile perchè influenzato da fattori incontrollabili, ma quello fatto proprio con una scheda o una firma, che richiede un interesse reale che smuova il cittadino ad andare in un luogo, a guardare cosa si sta pensando di fare della propria strada, del proprio quartiere, della propria città e decidere che cosa sia più giusto o, semplicemente, cosa gli piaccia di più.

Nel mezzo possono esserci manipolazioni politiche; è possibile, anzi sicuro, ma politica significa arte di governare la città, quella però fatta al cospetto di persone fisiche, di cittadini-elettori in carne ed ossa non passivi spettatori o lettori o nickname della rete. Quindi non ha senso parlare di manipolazione quanto di normale dinamica della politica, cioè di scelte per la città.
Un concorso per un nuovo edificio pubblico, una piazza, la sistemazione di una strada, un edificio privato di grande impatto, tanti sono i campi in cui è doveroso che vi sia il parere “scritto” dei cittadini.

In realtà la decisione su quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi della città”, fatta in base ad una intenzione estetica è caratteristica comune e peculiare della città europea almeno fin dagli inizi del medioevo.

Ma l’intenzione estetica collettiva, cioè la volontà di determinare ciò che è bello e ciò che è brutto per la propria città, pur appartenendo ad una società chiusa di tipo organico, perciò disposta a muoversi entro un universo di canoni condivisi, contrariamente alla nostra società aperta in cui la scelta individuale e le spinte centrifughe sono nettamente prevalenti sull'unità, ha determinato tuttavia la formazione di un diritto architettonico secondo il quale la città appartiene a tutti. Il fatto che vi sia una separazione dei compiti tra coloro che sono deputati alla redazione del progetto e coloro che di tale progetto dovranno essere i fruitori non esclude l’esistenza della figura del committente, di colui cioè che paga per l’esecuzione dell’opera.

Nel caso delle opere pubbliche non c’è alcun dubbio che tale committente sia la città.

Si tratta di decidere, perciò, se lasciare tale decisione al livello della democrazia rappresentativa, come avviene "teoricamente" oggi, cioè ai Consigli Comunali e Provinciali, oppure se rimetterla ad una forma più diretta, cioè direttamente dei cittadini.

Allo stato attuale la decisione è sempre e comunque frutto di una mediazione di interessi diversi e contrastanti tra una pluralità di soggetti:
- l’ente preposto che, consapevole della propria debolezza e incapacità di assumersi responsabilità che potrebbero influire sul meccanismo del consenso, si affida agli “esperti”;
- gli “esperti”, nominati anch’essi con assurdi metodi di garanzia che, per dover essere impersonali, finiscono per diventare o casuali o frutto di scelte opache;
- gli architetti che rivendicano il loro diritto alla libertà di espressione e alla creatività che è culturalmente l’opposto del rispetto dei luoghi e degli uomini;
- i cittadini direttamente interessati all’opera che vengono formalmente fatti sfogare nelle varie forme in cui si esercita la così detta partecipazione e trasparenza ma cui alla fine non resta che la formazione di comitati di protesta e del no; questa procedura, che in termine tecnico si chiama “presa in giro”, allunga a dismisura i tempi, inquina il clima, sotto ogni profilo, fa guadagnare qualche posticino in municipalizzate a qualche presidente di comitato e dà sempre, alla fine pessimi risultati.
Risulta perciò chiaro che la soluzione corretta è affidare la scelta dell’opera direttamente alla città.
Dunque, in campo urbanistico, come in quello artistico, è necessario trovare strade capaci di stabilire una relazione diretta tra autore e pubblico e direi meglio tra prodotto e pubblico, dato che l’autore interessa solo agli architetti e ai media. Ma qui c’è da superare un doppio ostacolo: quello degli architetti, cui torna comodo il filtro dell’establishment culturale e politico, più manipolabile che non il giudizio di massa e torna comodo anche ad una politica che, incapace da tempo di assumersi la responsabilità di scelte autonome, preferisce coprirsi le spalle con parodie di scelte democratiche.

Una prova di tutto questo lo avremo proprio con la ricostruzione in Abruzzo: voglio proprio vedere se quella gente così colpita nei propri affetti, nella perdita della propria casa e dei propri ricordi più intimi permetterà di essere espropriata della decisione sul che fare delle loro città. Voglio proprio vedere se il dibattito rimarrà a livello politico e di esperti urbanisti e architetti o sarà costretto a confrontarsi con i veri protagonisti della ricostruzione.

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27 dicembre 2008

IL METODO E' TUTTO

Pietro Pagliardini

Leggo sul Corriere delle Sera che l'Ordine degli Architetti di Milano ha fatto ricorso contro CityLife. Caspita, penso, cosa è successo? Si sono accorti che i grattacieli pendono e il museo ricorda un WC?
No, troppo bello, fanno un ricorso per le procedure relative all'incarico di progettazione del Museo d'Arte contemporanea, quello di Libeskind, quello che qualcuno ha rinominato WC, insomma.

Queste le motivazioni:"... siamo chiamati a difendere l'applicazione delle leggi comunitarie e ribadire il valore culturale di un concorso di progettazione che permette a tutti i professionisti di accedere, con pari opportunità, alla progettazione di opere di grande interesse collettivo". Notevole quel paludatissimo "siamo chiamati", sintomatico di una visione del proprio ruolo istituzionale più consono, però, a quello di una Corte Costituzionale o di una Presidenza della Repubblica che non a quello di un Ordine professionale.
Siamo alle solite: un bel concorso, una bella commissione di esperti indicati dall'Ordine con un paio di consiglieri (garanzia di serietà) e un professore (garanzia di cultura) e così al posto del WC potremmo avere un bel bidet, ma la pari opportunità potenziale è garantita. Cosa c'entri poi il "valore culturale del concorso" con la "pari opportunità" resta un mistero. La pari opportunità è (dovrebbe essere) la normale condizione di svolgimento e di esito di un concorso, non il suo scopo, essendo questo il miglior progetto possibile a vantaggio della collettività. E' solo questo il motivo per cui, storicamente, la forma concorso esiste esclusivamente in campo architettonico.
Che i concorsi siano merce avariata, dato il sistema degli scambi, lo sanno tutti ormai ma "Lex dura lex sed lex".
Il merito non conta niente, è il metodo il motore della realtà.

Il miglior commento, spiace quasi dirlo, è dell'assessore Masseroli: "L'Ordine degli architetti deve decidere se fare giurisprudenza dell'architettura o giocare la partita e aiutare i giovani progettisti a crescere".
E' proprio vero: gli Ordini non giocano la partita, perché per giocare bisogna muoversi e l'immobilismo, invece, paga.


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25 dicembre 2008

RICICLAGGIO DI ARCHISTAR

Nicolai Ouroussoff è il critico di architettura del New York Times. E’ un convinto e competente amante dell’architettura moderna, spera che New York riesca a rinnovare il suo antico primato in questo campo ma non si nasconde i fallimenti e i problemi degli ultimi anni, a seguito della moda degli Archistar.
La crisi gli ha fatto cambiare, in parte, opinione o almeno mi sembra esprima un certo disorientamento.
Questo articolo recente ne è una prova:

ERA DIVERTENTE, FINCHE’ NON SONO FINITI I SOLDI
di Nicolai Ouroussoff, NYT del 19 dicembre 2008

Chi poteva sapere un anno fa che ci stavamo avvicinando alla fine di una delle epoche più deliranti nella storia architettonica moderna?
Ancora di più: chi avrebbe predetto che questo passo indietro, determinato dalla più grande crisi economica in mezzo secolo, avrebbe trovato dietro l’angolo un colpevole senso di sollievo? Prima del cataclisma finanziario, la professione è sembrata essere al centro di una importante rinascita. Architetti come Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Frank Gehry e Jacques Herzog e Pierre de Meuron una volta ritenuti troppo radicali per la corrente più tradizionale, sono stati celebrati come le maggiori figure culturali. E non solo dalle istituzioni culturali più aperte; sono stati corteggiati dalle società immobiliari che una volta disprezzavano quei talenti come presuntuose teste tra le nuvole. Aziende come Forest City Ratner e le società collegate, che una volta lavoravano esclusivamente con i gruppi più esperti a trattare i grandi budget piuttosto che l’innovazione architettonica, si basarono su questi innovatori come componente di una accorta strategia aziendale.

Il prestigio dell'architetto non solo avrebbe vinto sulla capacità di discernimento dei consumatori ma inoltre avrebbe persuaso le commissioni urbanistiche ad aderire a progetti urbani su grande scala come per esempio Atlantic Yards di Gehry a Brooklyn.
Ma in qualche luogo lungo la strada il capriccio ha preso una curva sbagliata. Come si sono moltiplicate le commesse per palazzi multipiano residenziali di lusso, boutique di qualità superiore e uffici di società in città come Londra, Tokyo e Dubai, i progetti più attenti al sociale raramente sono stati realizzati.
L'edilizia popolare, un articolo del Modernismo del ventesimo secolo, non era all’ordine del giorno in nessun posto. Né vi erano le scuole, gli ospedali o le infrastrutture collettiva. L'architettura importante stava cominciando ad assomigliare ad un servizio per il ricco, al pari dei jets privati ed dei trattamenti nelle spa.

In nessun posto c’era quel cocktail tossico di vanità e di auto-illusione più visibile che a Manhattan. Anche se sono stati commissionati alcuni progetti culturali importanti, questo periodo, probabilmente, sarà ricordato tanto per la volgarità quanto l’ambizione.

Sembrava che ogni architetto importante nel mondo stesse progettando qui un esclusivo edificio residenziale.
Daniel Libeskind, di UNStudio, di Koolhaas , Zaha Hadid e di Norman Foster. Questi progetti hanno tutti insieme minacciato di trasformare l'orizzonte della città in una tappezzeria fatta di ingordigia individuale.

Ora la bolla senza fine è scoppiata ed è improbabile che ritorni presto.
La torre residenziale di 75 piani di
Jean Nouvel in ampliamento al Museo di Arte Moderna è stata rinviata indefinitamente. E le società immobiliari ora sembrano restie ad intraprendere simili progetti. Anche se l'economia ha una brusca inversione di tendenza, la tolleranza del pubblico per le dichiarazioni sulle architetture fuori misura che sono al servizio del ricco ed ad auto-assorbimento, è ormai praticamente esaurita.

Queste non sono tutte le buone notizie. Molta buona architettura sta andandosene con quella cattiva. Anche se la maggior parte della torre del
MoMa di Nouvel sarebbe stata destinata ad appartamenti di lusso, per esempio, avrebbe permesso che il confinante museo ampliasse significativamente lo spazio della sua galleria. Inoltre sarebbe stata una delle aggiunte più spettacolari del profilo di Manhattan dal tempo del Chrysler Building.

E sarebbe un’infamia se la recessione facesse deragliare progetti culturali promettenti come il nuovo
Whitney Musuem of American Art di Renzo Piano nel distretto di imballaggio della carne o la ristrutturazione interna di Norman Foster della Biblioteca Pubblica di New York di Beaux-Arts sulla Quinta Strada.

Gli studi di architettura, nel frattempo, stanno soffrendo come tutti gli altri. Con tanti progetti rinviati e così pochi nuovi in entrata, molti già stanno licenziando gli impiegati. Gli aspiranti architetti appena laureati, che potrebbero prendere il posto di un pool di talenti minori, probabilmente si orienteranno verso professioni più sicure.

Eppure, se la recessione non uccide la professione, potrà avere alcuni effetti positivi a lungo termine per la nostra architettura. Il presidente eletto
Barack Obama ha promesso di investire molto nelle infrastrutture, comprese scuole, parchi, ponti ed edilizia popolare. Un maggiore riconversione delle nostre risorse creative può diventare a portata di mano.

Se molti dei talenti architettonici di prim'ordine assicurano di non sapere come cavarsela, perché non arruolarli nella progettazione dei progetti che interessano di più?
Quello è proprio il mio sogno.


L'edificio in fotografia è al n° 40 di Bond Street, di Herzog e de Meuron.La foto è tratta dal New York Times

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23 dicembre 2008

LETTERA A BABBO NATALE

Caro Babbo Natale,

Veramente io sarei fuori età per chiederti un regalo però, anche per un futuro migliore dei nostri bambini, risparmiaci nel 2009 prossimo venturo almeno la beffa, se proprio non puoi salvarci dal danno.

Grazie
Piero


UN ANNO DI... FUFFA

Rem Koolhaas, Il Corriere della Sera:
“I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.

Massimiliano Fuksas su Savona da Il Secolo XIX:
“Il cemento, con i miei progetti, non c’entra proprio nulla. Io non sono un cementificatore. Io, per essere chiaro, non ho mai accettato un incarico da Ligresti, da Caltagirone o da Zunino. Il mio lavoro è un altro. È fare architettura, fare sperimentazione: da questo punto di vista, la Margonara è più emblematica che altro”.

Arata Isozaki su CityLife, da Il Corriere della Sera:
Questa Torre di Milano è una sfida alla crisi? «Non direi». Quale, allora, il suo significato?: «Ho scelto come modello la Endless Tower di Brancusi. E quindi mi sono ispirato in primo luogo all' arte, coniugando però questa mia ispirazione con l' intera esperienza urbana di Milano: con la sua Torre Velasca, con il suo Grattacielo Pirelli, con la "scuola" di Gio Ponti. Ho voluto lanciare un segnale, ma non contro la crisi. Piuttosto ho pensato ai campanili delle cattedrali e, dunque, a qualcosa che fosse visibile da lontano, a un vero e proprio "punto di riferimento"

Daniel Libeskind su CityLife, da Il Corriere della Sera:
“Solo un' architettura realmente democratica può portare all' emancipazione dell' individuo e all' affermazione di una comunità multiculturale: sentimentalisti senz' anima e tecnicisti senza cuore non contribuiscono ad arricchire le nostre vite”.

Arata Isozaki classicista, da Il Corriere della Sera:
«I giovani oggi vogliono occuparsi soprattutto di design, hanno perso quell' idea di progetto classico, alla Brunelleschi che non a caso costruiva i propri edifici guardando alla classicità e direttamente sul cantiere». Ancora una volta la classicità come modello? «Direi di sì»

Massimiliano Fuksas su Milano, da Il Corriere della Sera:
Su Milano [Fuksas] non propone ricette. Invita, soltanto, a «prendere atto, una buona volta, che la città ormai non è più una città. Nel senso che è una megalopoli. Che si estende oltre i suoi confini geografici. Una megalopoli di cinque, sei milioni di abitanti»

Daniel Libeskind su CityLife, da Il Corriere della Sera:
“In questo contesto, la forma della torre da me progettata ha come obiettivo una riduzione del consumo energetico, con la sua curvatura in grado di farsi ombra da sola. Inoltre l' uso organico dei materiali, la loro robustezza e la cura nell' esecuzione confermeranno quei criteri che sono stati da sempre la firma dell' architettura di Milano nel corso di quasi due millenni. Lo stesso vale per le residenze e per il museo, e per ogni costruzione di questo luogo unico che sarà CityLife. Ma la curvatura della torre ha ben altra identità, ispirandosi al progetto della cupola proposta da Leonardo per la copertura del tiburio dell' erigendo Duomo di Milano”.

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17 novembre 2008

UNO SPETTRO SI AGGIRA PER L'EUROPA...

Pietro Pagliardini

Tre coincidenze sono una prova di colpevolezza. Figuriamoci quattro.
In ordine cronologico:
Aragonbiz su Bizblog (il suo nome vero è ovviamente un altro, ma lui preferisce così): "Due approcci del moderno-post";
Vilma Torselli, su Artonweb, con il suo articolo: “Architettura d’autore”;
Giorgio Muratore su Archiwatch con il suo post: "Skyscraper city-no grazie";
PierLuigi Panza sul Corriere della Sera: "L’architettura processa Derrida".

Nessuno dei quattro autori può essere accusato di essere “antichista”, nè seguace del Principe Carlo nè di Lèon Krier. Solo Aragonbiz apprezza certi aspetti del Krier urbanista, ma solo quelli.
Tutti, a vario titolo e con diverse sensibilità e sfumature, apprezzano e nutrono speranze nell’architettura moderna. Vi è chi la pratica, vi è chi la insegna e la pratica, vi è chi l’analizza, la commenta e la spiega, associandola all’arte contemporanea con una funzione divulgativa via Internet, vi è chi periodicamente se ne interessa in relazione al costume, come è d'uso per un grande quotidiano nazionale.
In ognuno di questi scritti usciti tutti nell’arco di pochi giorni è palpabile la stanchezza e la noia, talora il disgusto, verso il dilagare di un sistema di fare architettura che appare tanto vuoto nelle forme quanto consistente nella forza economica e di pressione mediatica di cui è espressione.
Non penso nemmeno lontanamente di accomunare gli autori di quegli articoli in qualcosa d’altro che non siano solo la comune passione per l’architettura, che per alcuni è anche professione, e questa fortuita coincidenza nella denuncia dello "star system" dell'architettura.

Ho detto fortuita solo nel senso che dietro non c’è sicuramente nessun disegno organizzato, tanto i personaggi sono distanti tra loro, sia geograficamente, sia caratterialmente che come interessi professionali; ma non c'è nessuna casualità e non è possibile non leggervi un vento di cambiamento.

Estraggo qualche brano da ciascun testo:

Aragonbiz su Bizblog parla di un grattacielo di MVRDV:
Totale irrazionalità statica, abitativa, urbanistica, di dispersione energetica, unita però ad un concettualismo rigido, anche questo da "artista", non difficile da realizzare. Tentativo di combinare una standardizzazione ma in modo irregolare, per unità e non per insieme.
Santo cielo, non riesco più a scrivere, per quanto li odio, questi stronzi figli di Rem Koolhaas. Guardo le loro cose e mi sento male fisicamente”. “L'altro approccio
(quello di MVRDV) è la peste bubbonica, è molto vicino al "male assoluto". Va combattuto ad ogni costo”.Si può essere più espliciti di così? E sì che quando vuole biz sa fare distinguo, analizzare sottigliezze, capire le ragioni di ogni progetto. L’estrapolazione di questo brano dal contesto e dal’insieme degli altri post è come l’intercettazione di una telefonata: falsa completamente le situazioni e il personaggio. Ma non falsa affatto il pensiero specifico e quello che c’è scritto è esattamente quello che voleva dire.

Vilma Torselli su Artonweb:
Il fatto che oggi il mondo, per l’affermarsi di una aristocrazia anziché di una democrazia globale, sia politicamente ed economicamente organizzato (o globalizzato) in modo che relativamente pochi centri di potere, in relativamente poche città del mondo, possano determinarne il destino, ha parallelamente favorito il diffondersi di un’architettura dal significato totemico concretizzata in un linguaggio che per essere di valenza universale deve anche essere inevitabilmente generico”.
“La quale
(l’architettura d’autore) trae dalla rappresentazione per immagini (fotografiche o da sofisticati processi di rendering) il massimo vantaggio perché è, prima di tutto, un’architettura da guardare, un’architettura narcisistica ed autorappresentativa che riflette sé stessa, un’architettura spesso vuotamente estetizzante che dirige il suo potenziale comunicativo inter e sovra-culturale a “cittadini del mondo”, anche di quello più geograficamente lontano, nei quali produce emozioni che non hanno nulla a che vedere con quelle degli abitanti locali, non condividendone il contesto e la storia”.
Omissis
C’è una sostanziale differenza tra architettura ed immagine dell’architettura, un irrisolto conflitto, per parafrasare Jacques Herzog/Jeff Wall, tra immagini d’architettura e architettura d’immagini, tuttavia ciò che pare certo è che l’architettura rischia di diventare l’interfaccia tra vita reale e vita virtuale, anziché fungere da tramite tra mondo naturale e mondo antropico, ruolo che la storia le assegna da sempre.
Abitanti involontari di uno scintillante Truman Show, ci stiamo dimenticando che l’architettura ha memoria e vissuto, ma anche corpo, suono, colore, odore, durezza, trasparenza, fisicità: " ..... è solo quando ci troviamo fisicamente nel luogo che possiamo avere esperienza della verità del luogo……." , una verità sperimentata e toccata con mano, che l'immagine non saprà darci mai
”.

Il lnguaggio colto e raffinato non attenua, anzi amplifica la condanna senza appello.

Giorgio Muratore su Archiwatch:
Si assiste quindi, e non da oggi, al proliferare di grattacieli di tutte le taglie e di tutte le fogge, un po’ in tutto il mondo, dai distretti commerciali delle metropoli occidentali alle sempre più numerose città nuove che si affollano a decine dall’oriente estremo fino alle, un tempo, desolate e pastorali plaghe dell’asia centrale, dalle assolate, assetate e desertiche realtà del Golfo fino alle più remote e paradossali situazioni latino-americane, tutte località, a vario modo, assoggettate a questa nuova forma di colonialismo tipologico, ove il protagonismo di massa del grattacielo la fa ormai da padrone indiscusso. Migliaia di grattacieli, una volta confinati in rari esemplari nei distretti finanziari delle grandi metropoli statunitensi, dilagano ormai senza freno dai deserti alle praterie, dalle spiagge alle savane del mondo intero. Soprattutto nei luoghi dove è più debole la storicità e la memoria stessa dei siti al grattacielo sembra affidato il ruolo fondante di edificio-pioniere, quasi a segnalare una nuova presenza, a testimoniare con arroganza una presa di possesso, a testimoniare l’orgoglio volgare di un finalmente raggiunto dominio simbolico e materiale sui luoghi”.
E ancora:
Purtroppo però in questi ultimi anni sull’onda di un laissez-faire di stampo anarco-liberista, molte barriere, anche etico-psicologiche sono crollate e sono quindi sempre più numerosi i casi in cui il nostro patrimonio ambientale e paesaggistico viene aggredito in forme concitate, avventate e agressive in nome di una sedicente modernizzazione che trova, proprio nel grattacielo, la sua formula più immediata, sbrigativa e redditizia, perciò, vincente”.

Questo estratto non rende giustizia alla qualità del testo completo, che fa una rapida ma preziosa sintesi della storia del grattacielo. Anche in questo caso il verdetto è chiaro.

Pier Luigi Panza sul Corriere, con l’articolo dal titolo: L’architettura processa Derrida:
Per Derrida questa assiomatica, che coincide con l' intera storia del vitruvianesimo, ovvero quella che il critico inglese John Summerson ha definito Il linguaggio classico dell' architettura (1966) è da decostruire. A distanza di una ventina d' anni da queste proposte teoriche, l' uscita in italiano di questi testi è l' occasione per una prima verifica della stagione alla quale hanno fornito supporto teorico, prima che tutti gli studenti di architettura si mettano a laurearsi solo su edifici storti. Questa stagione è fatta di «oggetti» riusciti (Guggenheim di Bilbao di Gehry), parzialmente riusciti (Museo ebraico di Berlino di Libeskind), falliti (uffici al Mit di Gehry), in arrivo (grattacieli storti di Libeskind, Isozaki e Hadid a Milano), edifici riusciti e altri mostruosi nella provincia italiana. Decostruire il vitruvianesimo ha voluto dire superare la storia della trattatistica, dimenticare abdicare di fronte a metodi, tipologie, logiche urbanistiche per aprirsi a alla «chance», all' heideggeriano «far spazio». Una direzione scelta ancora da Aaron Betsky nell' ultima Biennale di architettura, nella quale si vuole «andare oltre l' edificio perché gli edifici ormai sono tombe», afferma Betsky, che vede in Derrida una carica di utile utopismo. Si tratta di una dimensione nella quale il relativismo nichilista si presenta come alternativa alla costruzione razionale. Il gioco, prende il posto della meccanica razionale e la dimensione nietzschiana della Gaia scienza e del dionisiaco il posto dell' illuministico «rigorismo» architettonico”.

Che altro aggiungere se non una sola, piacevole sorpresa: sul blog BOVISIANI, curato da studenti del Politecnico di Milano è apparso, e non è il primo del genere, un post di Giancarlo Consonni dal titolo: Il principe è nudo. Rem Koolhaas a Bovisa :
Per quelli che hanno le redini del potere, le fantasmagoriche restituzioni virtuali sono l’incenso con cui si avvolgono: il sostituto di ogni discorso, di ogni giustificazione. Non solo la comunicazione, ma il mezzo a cui essa si affida è tutto (di nuovo McLuhan): dietro non c’è niente. Non un pensiero, un’argomentazione. Non un logos che possa essere oggetto di discussione nella polis. Così l’attacco si svolge su due piani: la città reale e la città ideale (nel senso non dell’utopia ma della civitas definita dalla convivenza civile e dalla condivisione delle ragioni su cui si fonda). Un punto su cui le restituzioni virtuali lavorano è l’immaginario. Che viene destrutturato e sganciato dalle ragioni civili. È anche così che si distrugge la città. Esemplare è il lavoro svolto da una pubblicistica storicamente e formalmente attribuita a un’area di centro-sinistra e che in passato ha svolto un ruolo importante sul piano della difesa/costruzione di un cultura civile. Si pensi al lavoro di Antonio Cederna. Sì: sto parlando dell’«Espresso» e anche di «Repubblica», dove accanto all’ottimo lavoro svolto da un Francesco Erbani, troviamo il dilagare di maître à penser che hanno dirette responsabilità nella distruzione della città. O dove alcune star internazionali dell’architettura hanno un lasciapassare assicurato, avvalorato da giornalisti che si sono eletti a loro alfieri/maggiordomi. Per non dire delle pagine locali di «Repubblica», dove, come anche sul «Corriere della Sera», alcuni servizi su complessi edilizi in programma si presentano in tutto e per tutto come pagine pubblicitarie a pagamento: una prosecuzione della pubblicità immobiliare”.Omissis
Al centro dell’articolo è il progetto di Rem Koolhaas per l’area dei gasometri nel quartiere milanese della Bovisa. Il termine progetto è in questo caso un eufemismo. Si tratta più propriamente del divertissement di un individuo che evidentemente non ha giocato abbastanza da piccolo. Butta sull’area, a manciate, dei pezzi presi da una scatola di giochi d’infanzia e dopo averne cavato un assemblaggio che gli pare abbastanza stravagante da sorprendere gli allocchi, mette la sua firma sotto questo affastellamento, lo chiama masterplan e lo manda, con relativa parcella, al committente diretto”.

Se anche gli studenti, o almeno una parte di essi, sono così insensibili al fascino ammaliante delle Archistar e comprendono così lucidamente il trucco che c’è dietro questo sistema, esistono motivi di speranza.

Avere fatto questa "associazione d'idee" non vuol dire aver tentato di arruolare nessuno degli autori di cui sopra nelle truppe antichiste, tradizionaliste, classiciste, vernacolari, conservatrici e reazionarie e quant’altro. Non sarebbe stato proprio possibile.
Però si può legittimamente pensare che un pezzo di strada insieme, almeno per la pars destruens, la possiamo fare. Dopo, chissà!

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