Giandomenico Amendola, sociologo, ha scritto un libro, Tra Dedalo e Icaro, Laterza, sottotitolo: La nuova domanda di città, 2010. Amendola analizza la città sotto 10 profili diversi e ad ognuno di essi attribuisce un nome come si trattasse di città ognuna diversa dall’altra: La città sostenibile, La città impresa, ecc. Poi è chiaro che, come egli stesso scrive alla fine, le città si sovrappongono e i confini di ognuna si confondono con le altre. E’ un metodo interessante e anche di piacevole lettura che tra l’altro consente di ridurre a relativa semplicità ciò che è invece molto complesso. Non è detto che non comporti forzature interpretative e anche che non si soffermi su suggestoni molto di moda, rischiando perciò di tralasciare altri aspetti che magari non sono adesso in voga, tuttavia io non sono un sociologo e non voglio entrare troppo nel merito.
Scrive Amendola della Città dell’Impresa:
“La creatività da sola non basta: l’obiettivo strategico è l’innovazione di cui la creatività diffusa è condizione necessaria ma non sufficiente. A differenza della semplice creatività, che può apparire anche in maniera fulminante ma può con uguale rapidità declinare e sparire, l’innovazione è caratterizzata da sequenzialità, irreversibilità e cumulabilità in quanto deve non solo avviare ma anche sostenere e radicare i circoli virtuosi dello sviluppo. Gli stessi casi di Glasgow e Bilbao, sin qui ritenuti esempi da manuale di esplosione di creatività urbana, vengono oggi riconsiderati criticamente. Le crepe che si sono aperte nelle loro economie dopo una felice ma breve stagione di crescita stanno mostrando come la creatività di per sé non sia sufficiente se non innesca un processo sequenziale, cumulativo e tendenzialmente irreversibile di innovazioni produttive, organizzative e politiche.
Il problema principale dell’innovazione è che essa deve radicarsi. Mentre, infatti, è abbastanza semplice individuare – quantomeno per grandi approssimazioni – i fattori capaci di attrarre soggetti creativi, è ancora aperta la questione su ciò che sia necessario perché questi talenti si radichino in una città e non la abbandonino al primo vento di crisi. Tra i fattori di radicamento centrali sono i network, che anche se gli attori dei settori più propriamente artistici tendono a disconoscerlo, legano sinergicamente i protagonisti della città creativa sia tra di loro che agli attori del sistema produttivo e politico tanto locale che nazionale. [….]
Nella logica della competizione tra città, un gran peso assume oggi l’architettura e in particolare quella iconica. Uno degli strumenti che gli amministratori ritengono, a ragione o a torto, fondamentale per affermare la propria città sulla scena internazionale è la grande architettura. La vicenda di Bilbao che ha trasformato il proprio panorama urbano facendo ricorso ai maggiori architetti del mondo, da Frank Gehry a Norman Foster, da Santiago Calatrava a Cesar Pelli, ha fatto scuola. Gli star-architects, gli architetti dalla firma prestigiosa e dalla visibilità mondiale, sono diventati ormai ingrediente costante di tutte le politiche di sviluppo delle città ed elemento di forza delle azioni di marketing urbano. Il rischio è che, paradossalmente, lo sforzo che ogni città fa di distinguersi con l’intervento del grande architetto, possa portare a un’omologazione formale della città.
Nello sforzo di piacere e di conquistare il mercato le città corrono il rischio di somigliarsi sempre più ricorrendo agli stessi architetti di grido, organizzando eventi simili, realizzando fronti mare e arredi urbani talmente uguali che i mercanti d’arte li chiamerebbero eufemisticamente multipli. Ciononostante sembra che il gioco valga la candela. Stazioni, aereporti, piazze, waterfront, banche, grandi magazzini: tutto viene ripescato dalla banalità funzionale per diventare icona e immagine. Sulla scena urbana sono apparsi i musei che, dopo un lungo periodo di disattenzione, sono tornati ad avere un ruolo simbolico starrdinario persino maggiore di quello che – in quanto luoghi dove si concentra e diventa visibile la storia culturale e politica della nazione – avevano svolto per un lungo periodo incoronando le città capitali. […]
L’aura del museo si estende fino a coprire e valorizzare qualunque cosa avvenga al suo interno, anche se priva di alcun rapporto con la cultura. There’s no party like a Museum Party titola il supplemento del “New York Times” del 25 settembre 2009. Il riferimento è ai numerosi party, per lo più promozionali, organizzati da corporation e da privati nei locali del Moma e del Guggenheim”.
Ed ecco un piccolo estratto dalla Città dello Spettacolo:
“Non solo la città produce e contiene spettacoli ed eventi ma, l’obiettivo finale, è che essa stessa diventi spettacolo. La città stessa, in definitiva, può essere un evento. Bilbao è evento così come Berlino è evento: perché evento è, recita il dizionario, “qualcosa che accade in un certo punto a un certo momento” e che merita attenzione. E che fa notizia. Vi sono perciò momenti in cui la città stessa può diventare evento come è accaduto per la Berlino della caduta del muro, la Bilbao del Guggenheim, la Glasgow delle politiche culturali, la Barcellona postolimpica, la Napoli del dopo G8. La città diventa evento ma “dopo”, dopo che è terminato l’evento vero e proprio e la città è riuscita – impresa certamente non facile – a metabolizzarne gli effetti e a farli propri”.
Anche da queste poche righe credo risulti chiaramente che il metodo della scomposizione tematica della città produce risultati apprezzabili. Ma veniamo al contenuto.
Intanto c’è la chiara presa d’atto che l’effetto Bilbao ha esaurito la sua “spinta propulsiva”. Cade così un mito, sul quale in verità da tempo è stata messa la sordina e qualche sospetto era venuto, e quei media e quei soggetti interessati che tanto lo hanno decantato e preso come esempio virtuoso da seguire hanno invece taciuto il rovescio della medaglia. Hanno fatto cioè disinformazione. Solo per questo è valsa la pena comprare questo libro, perché l’autore non è soggetto che sembra avere partito preso contro questo sistema e quindi lo si può ritenere del tutto credibile.
Nonostante questo pare che il mito dell’effetto Bilbao in Italia sia ancora forte, dato che sia per l’EXPO 2015 che per il Ponte sullo Stretto ci si affida a nomi altisonanti, quali Daniel Libeskind, che, tra l’altro, in quest’ultimo caso dove c’è da ottemperare ad un inserimento nel contesto ambientale, sembra una scelta doppiamente immotivata. Effetto Bilbao, che non funziona più, o provincialismo di ritorno, che non ha mai funzionato?
Amendola analizza poi un aspetto oggi dominante nel dibattito urbano, non solo nelle aree metropolitane, da cui ha origine, ma ormai esteso a centri medi e piccoli, almeno nelle intenzioni dei loro amministratori: la tentazione di ricorrere al grande creativo, alla firma dell’architettura, è utilizzata come una scorciatoia alla mancanza di creatività, ma direi di “politica”, da parte della “politica”. Ci si affida ad una o più figure esterne alla città, come in verità si è spesso fatto, che però adesso avrebbero quel quid plus costituito dalla fama mondiale indiscussa(?) e indiscutibile(?), non solo per firmare un progetto capace di fare marketing urbano a livello internazionale, ma anche per “trovare” l’idea capace di cambiare in meglio la condizione della città.
Ci si affida dunque all’architetto, o meglio all’archistar, non solo in quanto progettista famoso ma anche perché lo si ritiene capace, con un solo edificio, di trasformare una città mediante un’espressione architettonica ma anche “funzionale” - che in verità spetterebbe alla politica - capace di concentrare sulla città stessa un interesse esteso e di produrre capacità attrattiva e di stimolo per energie nuove e, naturalmente, creative.
La prima domanda da porsi è: come è possibile che una persona, un architetto, venuto da fuori a svolgere un incarico progettuale possa conoscere la realtà sociale, economica, produttiva, culturale di una città con quattro visite pubbliche e risolva tutti i problemi? Evidente che non può essere così, evidente che siamo nel campo della pura immagine e della propaganda.
Altra considerazione: quand’anche l’archistar di turno penetrasse davvero nell’anima e del corpo della città, cosa offre e cosa produce, in genere? Servizi, evidentemente: culturali, sociali, commerciali, dello spettacolo, del benessere, del tempo libero e quant’altro. Questa condizione presuppone una società di qualche tempo fa, forse solo immaginata più che reale, se non per poche limitatissime aree e città, in cui tutti consumano, si divertono e spendono, ma pochi o nessuno produce, se non i servizi che molti dovrebbero consumare. I fatti recenti legati alla FIAT insegnano però altro e cioè che se non c’è lavoro produttivo per molti i soldi da spendere per pochi, a meno che non speriamo che tutte le aziende de-localizzino e il nostro paese possa vivere, non si sa come, sul lavoro degli altri paesi. Non sembra proprio che questo sistema funzioni anzi sembra che sia stato fatto anche per troppo tempo. Il sistema economico basato solo sui servizi e sui consumi senza fine, sul tempo libero, sulla “cultura”, chiamiamola così, a gogò, mi sembra qualcosa di molto simile alla finanza creativa che ha portato alla crisi del 2008: ricchezza finta che genera povertà vera.
Non è possibile che in ogni città, in ogni paese addirittura, si possa pensare di fare un bel “centro” di qualsiasi cosa, sempre frequentato da gente disposta a spendere e che la storia possa durare.
Qui si immagina una città dello spettacolo, degli eventi continui, dell’effimero portato a condizione permanente. Non sono un economista, ma se due più due fa quattro, la città che ne esce non è per tutti, anzi è davvero per pochi privilegiati, ma il sogno di una vita fatta di eventi e novità continue viene alimentato ugualmente. E poi danno la colpa alla televisione che sarebbe cattiva maestra!
Ultima considerazione, facile da comprendere ma niente affatto scontata, e cioè l’omologazione delle città progettate allo stesso modo, con “multipli”, come eufemisticamente li chiama Amendola. In una città che dovrebbe essere caratterizzata dalla convivenza tra diversi, come scrive l’autore in altre parti del testo, e come è tanto allegramente quanto acriticamente decantato dalla vulgata buonista, tutte le città dovrebbero essere invece uguali tra loro piuttosto che rimarcare le proprie differenze, la diversità, la specificità di ciascuna storia e di ciascun contesto geografico.
Il tempo e lo spazio sarebbero omologati come se il primo dovesse fermarsi, non fosse esistito prima e non avesse lasciato segni caratteristici e il secondo, prodotto del primo, dovesse cambiare per confondersi in un amalgama indistinto e terribilmente anonimo, senz’anima e senza caratteri distintivi.
12 commenti:
Ho deciso, oltre che l'architetto abusivo, mi cimento anche come sociologo da strapazzo!
Leggendo gli stralci citati sulla omogeneizzazione dei contesti urbani, ho pensato a tante discussione intercorse con amici, sul modo di andare in vacanza, e sul modo di "vedere" città straniere.
E' indubbio che conoscere, capire, comprendere una realtà urbana e sociale diversa dalla nostra è cosa lunga e difficile. Lo è quando si tratta di città tutto sommato "sorelle" o "cugine", immaginiamoci quando andiamo in mondi e paesi davvero diversi !
Possiamo essere così presuntuosi da dire "sono stato a Londra una settimana: la conosco"?
Eppure è proprio quando cerchiamo di conoscere città simili, che riusciamo a vedere, capie e apprezzare le peculiarità, le caratteristiche.
Arezzo Siena e Perugia; Todi, Gubbio e Cortona; Trani, Barletta e Otranto, e si potrebbe continuare in lungo e in largo !
Ma è anche possibile un'altra scelta; la scelta di chi, viaggiando, ha il desiderio (il bisogno?) di mantenere un legame di sicurezza con la casa, la madrepatria. E scenderà , ovunque vada, nell'hotel della famosa catena internazionale, mangerà lo stesso cibo, vedrà gli stessi negozi negli stessi negozi nei centri commerciali uguali sotto ogni latitudine. Sono stato ad un congresso in sardegna in un resort a 5 o 6 stelle: bellissimo, ma che fosse sardegna lo credo come verità di fede. se mi avessero portato in Dalmazia, o nel mar rosso, o chissà dove, nessun segno distintivo poteva farmene accorgere (salvo forse l'accento delle cameriere, basse e dai capelli corvini !).
Chi viaggia in questo modo, è forse ben contento di trovare lo stesso waterfront a Bilbao come in Malesia, o in Messico; lo stesso museo a Bilbao e a Los Angeles.
Per stare sui ricordi personali, il mio primo soggiorno a Londra (due mesi nel lontanissimo 1970) mi mise a contatto con realtà molto più diverse dalla Bologna, o dalla Milano, dell'epoca, di quanto non lo siano le stesse città oggi.
La tipologia dei ristoranti e dei locali, la varietà dei tipi umani, gli usi, i costumi, gli odori erano quelli di Londra; nulla a che vedere con quel che avevo lasciato a casa.Ricordo che, avevo 18 anni, passarono varie settimane prima che trovassi il coraggio di entrare in vero "pub" inglese, per bere una birra, guardar giocare a feeccette, e assaggiare uno stufato di agnello con i cardi o del baccalà fritto. Significava entrare "in casa altrui", mi sentivo a disagio, ancorchè incuriosito proprio dalla diversità.
Oggi le differenze sono molto minori; in entrambi i sensi. A Bologna hanno aperto dozzine di ristoranti etnici o pseudo-etnici, in realtà anonimi e anodini. E anche sul Tamigi, molti alberghi offrono la "continental breakfast" al posto delle uova strapazzate e del bacon.
A me non piace; mi pare triste. ma non mi azzardo a dire che è sbagliato
caro enrico, la realtà che tu descrivi è vera e probabilmente è inevitabile che ciò accada.
Non piace neanche a me ma ormai da anni i negozi sono tutti eguali nel mondo e, al massimo, cambia l'assortimento dei prodotti: nelle grandi città ce n'è di più, in quelle piccole ce n'è di meno. Tutto qui la differenza. Ma questi fenomeni non sono facilmente controllabili e governabili, perché sono la conseguenza della spinta di molti individui diversi e la libertà di ognuno, nel rispetto delle leggi è chiaro, deve essere salvaguardata. Possono essere prese solo misure palliative, come fate voi medici quando non c'è rimasto niente da fare.
Ma l'edilizia, l'architettura se vuoi, è controllata e sempre lo sarà (da noi è troppo controllata ma le conseguenze sono ugualmente pessime, o forse proprio per questo, chissà). La città è il bene comune per eccellenza, appartiene a tutti e dunque una strategia è possibile farla. La città può scegliere quali strade prendere e infatti sceglie sempre...la peggiore.
Se oltre agli architetti, ai funzionari architetti, ai modesti politici di cui disponiamo (ma non è che quelli di oggi siano peggio di quelli di ieri, è solo che esibiscono la loro pochezza; è come il tempo, che sembra peggiorato perché idealizziamo sempre la nostra gioventù; nella città invece idealizziamo.... la vecchiaia, perché è semplicemente migliore) potessero scegliere un po' di più i cittadini le cose andrebbero un po' meglio.
Ciao
Pietro
Caro Pagliardini, del tuo post, che apprezzo molto, il passo che trovo più significativo è questo: "Qui si immagina una città dello spettacolo, degli eventi continui, dell’effimero portato a condizione permanente. Non sono un economista, ma se due più due fa quattro, la città che ne esce non è per tutti, anzi è davvero per pochi privilegiati, ma il sogno di una vita fatta di eventi e novità continue viene alimentato ugualmente. E poi danno la colpa alla televisione che sarebbe cattiva maestra!".
Essendo un ottimista credo (spero) che a Roma si stia tentando di cambiare passo,tornando finalmente a ripensare quelle mostruosità delle periferie romane. Ricordo un tuo commento ad un post sul blog di Amate l'Architettura" del 24/09/10 che è in linea con quanto si sta cominciando a proporre sia nell'ambito della Municipalità che nel dibattito architettonico. Noi del blog stiamo lavorando molto su questo tema. Vedremo inoltre cosa ne uscirà fuori da questo "controprogetto" su Tor Bella Monaca dell'Università che verrà presentato all'Inarch. E'il tema centrale degli anni a venire e tutti noi "blogger di architettura" dobbiamo concentrarci su esso.
Il tuo post apre la via a molte considerazioni, di cui te ne anticipo qualcuna: il concorso di architettura può rimediare all'omologazione da archistar?
Quale altro modello economico dopo la città-vetrina? Un'opera importante come il MAXXI di Roma, vale il costo di 30 musei?
Ti saluto cordialmente.
Giulio Paolo Calcaprina
Mi fa davvero piacere essere, una volta tanto, d'accordo con il blog amatelarchitettura e su un punto fondamentale come quello della città spettacolarizzata anche mediante l'architettura-spettacolo.
Alla tua domanda sui concorsi non posso che rispondere come ho sempre sostenuto, ma che non viene in genere condiviso dagli architetti: gli architetti, la stragrande maggioranza di loro, o meglio di noi, sono/siamo archistar in potenza, perché questa è l'educazione che abbiamo avuto e che ancora continuano ad avere i giovani studenti, dunque l'unico modo per ovviare a questo problema è rimettere ai cittadini, in un modo o nell'altro, la decisione sui risultati degli stessi concorsi. Nessuna legge potrà cambiare le cose se non cambia il riferimento culturale.
Quanto al MAXXI non è costato 30 milioni di euro ma 250 milioni con quelle opere che nessuno apprezza o conosce. Anche il MAXXI diventerà un luogo di spettacolo puro, di eventi, di party, di presentazioni commerciali, di feste e veglioni ecc. Cosa altro ci vuoi fare, d'altronde, in un museo su cui non si può attaccare un quadro alle pareti curve?
Roma come New York quindi! Io preferirei che si dicesse: New York come Roma perché vorrebbe dire che riusciamo a sviluppare una cultura autonoma.
Te lo dice uno per cui gli USA sono stati e sono tuttora un mito e un esempio assoluto. Però noi non siamo gli USA e se non ci piace perché non è adatto a noi il modello economico americano, come ci dicono, e anche a ragione, molti politici specie di sinistra (l'unica cosa buona che ricordo di Prodi è questa frase:" In Italia e in Europa abbiamo una tradizione di solidarismo e di mutualità che non può essere dimenticato"), non può essere che sia adatto a noi il modello culturale. Gli USA almeno sono coerenti ma a questi signori di sinistra bisogna insegnarli anche i rudimenti del marxismo?
Saluti e grazie
Pietro
Io davvero non so Bilbao, mi dispiace che tu misurata dal numero di copertine sulla stampa internazionale e che non è Bilbao.
Quello che vedete è la ciliegina di una torta che abbiamo beneficiato del pubblico. Nella nostra mente abbiamo la memoria di cui è stata una città industriale di industria pesante, che trasforma materie prime in poi trasformabile.
Per diversi decenni, Bilbao potrebbero essere tra le peggiori città del mondo, una città grigia, scura, treni, merci, prodotti chimici e di fumo, terre e acque inquinate.
oggi Bilbao, oltre ad avere un piccolo gioiello come un museo, fa sentire i suoi cittadini una città bella, bella.
Quando i media un'occhiata alla ristrutturazione di Bilbao, ignaro che questo progetto non era solo quello di Bilbao. Il recupero della catena dalle prime aree industriali nella parte interna verso il mare, il recupero è di circa il territorio, il centro sull'asse che è il fiume che attraversa il territorio, una ria che ha sofferto l'industria pesante, industriale e l'immigrazione condizioni di vita che hanno supposto di nativi e immigrati, l'acqua era marrone e di spessore, adesso abbiamo la vita, si può nuotare, è pulito. Abbiamo lasciato il decadimento industriale e la rovina del secolo scorso per entrare tecnilogica industria, medicale, aeronautica, ecc
Oggi abbiamo una terra più accogliente, l'inquinamento recuperato dal brutale, una società in cui ci piace la creatività e l'arte stessa e al di fuori, godersi l'ambiente naturale.
Abbiamo cambiato, abbiamo cambiato la città, abbiamo cambiato i settori produttivi, abbiamo cambiato da quello che abbiamo vissuto, abbiamo cambiato nei valori sociali, viviamo in una terra più gentile, con un museo come il ciliegio, ma è solo un segno che il resto della modifiche.
Noi non sappiamo se un evento, ma ci auguriamo che altri possano godere di questi eventi per trasformare le città e le società.
Google è l'italiano, scusate gli errori.
Saluti
Creemos que el Sr. Giandomenico Amendola se ha equivocado del todo al analizar lo que es el Efecto Bilbao. Al igual que se ha equivocado al decir que la transformación urbana de Bilbao se ha basado en grandes arquitectos. Hay grandes arquitectos, sí, para dar un valor añadido a algunas actuaciones. Pero las grandes transformaciones de Bilbao, y de toda su área metropolitana, están muy "lejos" del Guggenheim, esán el odas las actuaciones de estructuración urbana que ha hecho de esta ciudad una ciudad mucho más habitable. Por cierto Como decimos en neustro blog, NADA esencial habria cambiado con o sin Museo. Tendríamos menos preencia internacional, pero eso NO nos ha generado un incremento significativo de nuestra riqueda o desarrollo.
ubicazione del blogger: Euzkadi, Saint Pierre e Miquelonbe', il diretto parere di un basco deve senz'altro avere la sua importanza ..... contenti loro, che non sono certo degli esterofili, vuol dire che l'incursione di Gehry qualcosa di buono l'ha prodotto, se non altro in termini di autostima collettiva.
Nonostante il mio ottavo di sangue basco, ignoro totalmente l'euskara, comunque "agurrak Italiatik eta gure artean harrera"(Google permettendo)
Vilma
Ringrazio atxapunte per la sua precisazione del tutto comprensibile nonostante la non perfetta traduzione di Google. Vorrei chiarire che non era mia intenzione, e penso nemmeno dell'autore del libro, denigrare la città di Bilbao, cui atxpunte rivendica con orgoglio la sua appartenenza.
"Effetto Bilbao" è un'espressione riferita solo al museo di Gehry e alla sua capacità di attrarre turisti da tutto il mondo, e quindi di contribuire alla rinascita della città nel suo complesso.
Adesso pare che tale "effetto" sia finito.
Nel commento tu dici, invece, che il museo è solo una delle opere che hanno contribuito alla rinascita e che Bilbao adesso è bella, vivibile e si capisce bene che sei orgoglioso di viverci. Sono certo che tu abbia ragione e in fondo tu confermi quanto Amendola scrive, e cioè che non basta un'opera di architettura per risollevare e rilanciare una città. Infatti tu parli di industria teconologica, medica e aeronautica, quindi di sviluppo industriale, quello vero, e di un grande risanamento ambientale, che vi permette di godere di un ambiente ricco di cultura.
Molto bella l'espressione "con un museo come il ciliegio": non ho capito del tutto cosa significhi ma mi sembra comunque molto poetica.
Sarebbe bello ricevere commenti come questo da qualche città italiana, invece da noi prevale il pessimismo, il lamento e la rassegnazione.
Grazie
Pietro
Vilma a me pare che l'uno e l'altro commento, il secondo in particolare, affermino sì l'importanza del museo ma la rinascita e la loro soddisfazione di abitare a Bilbao non dipenda da quello ma da molti altri fattori.
Nel secondo commento di About Basque Country si dice espressamente che con o senza museo sarebbe stata la stessa cosa.
Forse a loro non è piaciuta l'analisi che fa Amendola il quale dice che a Bilbao non sta andando molto bene. Però confermano anche che Amendola ha ragione a dire che un'opera da sola non serve o non basta.
Però ribadisco il piacere che provo a sentire la soddisfazione, l'orgoglio e l'ottimismo che c'è in questi commenti, segno evidente e sicuro, più che i dati, di una città viva. E di fronte a questo fatto, per noi del tutto inconsueto, anche la questione museo mi sembra diventi secondaria.
Saluti
Pietro
Personalmente ho interpretato la metafora del ciliegio, come la versione "google" della ciliegina sulla torta.
Orgoglio di cittadino; ecco cosa sorprende. Come dice Pietro, in talia siamo adusi a parlar male di noi stessi. E purtroppo, spesso ne abbiamo ben donde.
Bella intuizione quella della ciliegina. Quindi anche nei paesi Baschi vale la metafora della ciliegina sulla torta.
Mi sembra anche che descriva il carattere dell'operazione Museo ma certo certifica il fatto che quel fenomeno è stato amplificato all'ennesima potenza dai media interessati o solamente al seguito di quelli interessati facendoli due scatole così per qualche anno ed utilizzandolo come base teorica per ogni operazione analoga in Italia.
Ciao
Pietro
Infatti gli amici baschi si riferiscono a un miglioramento urbanistico generale, una ristrutturazione urbana "assai lontana dal Guggenheim" e dove "NULLA di essenziale sarebbe cambiato con o senza il museo". W la città! W Bilbao! (e abbasso gli asini in mala fede che hanno speso i nostri milioni, in tempi di tagli all'università e agli ospedali, per il Maxxi nella splendida Roma!)
Stefano Serafini
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