Post senza pretese, solo una raccolta alquanto casuale di frasi raccolte qua e là in rete, nei commenti di questo blog e su facebook sull’idea della modernità e delle sue conseguenze in architettura.
Non tutti i “pensieri” hanno un autore, non per scelta ma perché alcuni non l’avevano proprio e altri li ho letteralmente persi per strada. Nel caso eccezionale che qualcuno lo riconoscesse come suo, basta scrivere e io lo inserisco.
- La contemporaneità non é una qualità, non é uno stile, non é una religione, non é una saggezza, non é un'abilità, non é una estetica, non é una promessa, non é un ideale e neanche una delusione!
Quello che é semplicemente la contemporaneità, é il fatto di essere qui, adesso!
La contemporaneità qualifica soltanto il momento nel quale viviamo...Ne possiamo essere entusiastici o no, e purtroppo rimaniamo tutti contemporanei! Lucien Steil
- "Intanto tutta la grande architettura é contemporanea al suo tempo, rilevante alla sua situazione nello spazio, nel tempo, nella società umana - ma anche eterna. Senza quest’essere eterna - quest'essere in armonia con il cosmos e l'evoluzione della vita - nessun'architettura può essere chiamata contemporanea." Hassan Fathy
- E poi mi piace guidare una macchina con navigatore satellitare e lo preferisco ad andare in carrozza, soprattutto per le lunghe distanze. Se potessi muovermi in elicottero sarebbe meglio ( anche se questo non vuol dire che non mi piaccia anche camminare o andare in bicicletta). Luigi Prestinenza Puglisi su facebook
- Nooo, la carrozza paragonata alla macchina noooo. Questa non me la dovevi tirare fuori. Pietro Pagliardini (risposta a LPP su facebook)
- L'evoluzione non si può certo fermare.
- Il dubbio che ho riguardo a questi argomenti è: il cosiddetto "moderno" in architettura, ha una sua autonomia reale, un suo sistema, oppure i suoi criteri, in realtà, si fondano per differenza su una negazione di criteri classici? (di cui avrebbe dunque sempre bisogno per riproporre la negazione?)
Sono sempre più convinto che è "la seconda che ho detto". Biz (Guido Aragona)
- «Confesso che non mi piace molto la parola modernità preferisco il verbo equivalente, modernizzare. Perché indica la creazione, quell' azione reale e concreta che ci porta a trasformare in continuazione ogni nostra forma di espressione. Modernizzare è, d' altra parte, una sfida continua». Una sfida che, in architettura, si può tradurre in... «Ad esempio nella ricerca di nuovi materiali. Come lo sponge, un "ibrido di aria e materia" che abbiamo sperimentato per questo nuovo spazio. Un "ibrido" messo a punto per l' occasione ma che va comunque ad aggiungersi agli altri materiali tradizionali che abbiamo utilizzato: l' alluminio, il legno e il vetro, anche se si tratta di un vetro che può cambiare trasparenza a secondo delle esigenze. Ma modernizzare è anche usare le nuove tecnologie digitali»- Rem Koolhaas intervistato da Stefano Bucci sul Corriere in occasione del nuovo spazio Prada a Los Angeles
- so anch'io che un tetto a due falde con una capriata "tradizionale" utilizzata come pensilina in una piazza volta è più comprensibile di un'altra struttura... MA è BELLA??????????????????????????????????????????????????????????? ...sarà pardaossale ma e o.....a!!!!!!! Ve lo assicuro io se non ve la detto ancora nessuno è proprio b....a, non si può g.....e! Il tempo è cambiato siete ancora fermi a qualche secolo fa... s.....a!!!! Luca Donazzolo da facebook
- La tanto vituperata modernità nasce dall’implicito confronto con ciò che è stato, nasce dall’elaborazione del passato, quand’anche negato, ineludibile nucleo promotore del cambiamento e della presa di coscienza di una moderna autonomia intellettuale, senza disconoscere i debiti di carattere formale o contenutistico verso chi ci ha preceduti. Ed in questi termini il passato non è un bagaglio inutile, è un elemento di confronto necessario e indispensabile che tuttavia non deve obbligatoriamente concretizzarsi in ripescaggi stilistici o imitazioni morfologiche anticheggianti, il che significherebbe solo mummificazione di linguaggi in un repertorio formale senza tempo, vecchio prima ancora di nascere.
Non è una scusa assolutoria dire che un architetto di oggi che progetti "in stile" “non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca”, può essere che non ci sia falsificazione, almeno nelle intenzioni, ma c’è senz’altro l’incapacità di parlare un linguaggio autonomo e innovativo, sapendo che la modernità non va copiata (da presunti “grandi modernisti”), va inventata. Vilma Torselli
- Modernità non consiste nell'adottare quattro mobili quadrati. Leon Krier
-Potremmo risalire anche ai saggi degli anni Settanta di Charles Jenks sulla fine della modernità, da cui sono derivati i riflussi reazionari di Léon Krier, non solo contro la modernità ma contro il progetto in generale. Andrea Branzi
- C'è probabilmente una tendenza più generale che tende a porre il singolo individuo in contrapposizione alla società nel suo complesso, laddove invece l'individuo può trovare una sua dimensione (anche in quanto individuo) solo in un contesto sociale, sia pure con tutte le tensioni che questo comporta. Il "contesto sociale", come l'ho chiamato, richiama la necessità del "linguaggio" inteso come terreno comune, entro cui l'individuo può esplicarsi ma in questo "contesto", contro la destrutturazione del linguaggio che invece è conseguente alla frattura fra individui singoli e società.
Si potrebbe anche dire che questa "destrutturazione" linguistica, sociale, è opera del nichilismo.biz (Guido Aragona)
- Quelli che danno tanta importanza alla questione della modernità, non é che si impegnano in un mondo artificiale di valori relativi e di frivolità, in un mondo dove il senso comune non fa più senso, e dove la ragione ha perso il lume della ragione? Lucien Steil
- Pensare che "il mondo era meglio una volta" è un discorso da "vecchi al bar", senza offesa ovviamente, ma lascia il tempo che trova. Non mi sembra neanche tanto deontologico e di sicuro non da professionisti che hanno l'obbligo morale di rimanere al passo coi tempi per dare al proprio committente sempre un prodotto all'avanguardia delle ultime conoscenze tecniche e tecnologiche. Master
- Gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della loro storia, in quello spazio si muovono e si ritrovano con una disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati, di modo che si può parlare al riguardo di un insieme di “luoghi”. Un luogo è un luogo nel senso pieno del termine se vi si può reperire un legame visibile con il passato e se tale legame è manifestamente presente alla coscienza di chi lo abita o lo frequenta. Marc Augè
- La modernità non è presunta, è un modo di essere (è inutile che ricordi che Augé è il filosofo della surmodernité), l'antropologia studia ciò che accade, ne indaga gli sviluppi e le ragioni, cercando di capire perché Milano costruisce Citylife, perché Fuksas progetta, perché Gehry sia ancora a piede libero.
E' determinante per aiutarci a capire il mondo in cui viviamo, non per cambiarlo. Vilma Torselli
- la pensilina di Isozaki, che De Carlo, non Krier, ha chiamato "tettoia", viene rifiutata per tutti i motivi possibili e quelli che non esistono dovrebbero essere inventati, pur di non farla. In quella pensilina lo stile E' il merito, e viceversa. Pietro Pagliardini
- Nessuno, pare incredibile a dirsi, s’era reso conto che il contesto civile, la cultura ed infine l’architettura, avevano origine ed esistevano al di là ed al di sopra delle sovrastrutture politiche ed economiche del momento, legati indissolubilmente allo spazio fisico, al territorio, alla geografia, anche minuta, dei luoghi, al linguaggio parlato ed infine anche a quello architettonico.
Nessuno parve ( e pare tuttora) rendersi conto che l’uomo è animale sociale che si aggrega per aree geografiche, culturali, linguistiche precise ed ha bisogno di sistemi comunicativi (…architettura inclusa… ) che lo mettano in relazione fattiva con i suoi simili ed i suoi “prodotti” passati presenti e futuri.
Un piccolo dettaglio secondario, sfuggito al quadro generale insomma : ciò che conta nella situazione presente sembrerebbe invece l’individuo, il demiurgo che rende “chiaro” ed inventa (…senza nemmeno conoscere bene significato ed etimologia…), cambia la storia, sogna e si batte contro la massa banale ed ignorante ; ripetitiva infine (.. peggiore incubo.!..) che vorrebbe ridurlo a se; senza, peraltro, sospettare che quella massa deprecata “è” lui. Memmo54
- già che ci siamo, Pietro, allora diciamocelo: il progetto di Pier Carlo e Léon è allucinante (progetto a Modena).
L'accusa di falso storico è infondata? Ma sì, è del tutto normale fare oggi palazzetti in stile rinascimentale, a patto che poi ci si mettano anche dei figuranti con mantelli, gamurre, giornee, cotte, naturalmente non solo a carnevale! Vilma Torselli
- Il pensiero "unico" è proprio quello di Marconi e di quelli che la pensano come lui, non ci sono progetti contemporanei e progetti non contemporanei, ci possono essere soltanto Progetti con la P maiuscola fatti da architetti e ricostruzioni filologiche per cui non c'è bisogno di architetti ma di storici.
- Perché vi ostinate a pensare che oggi, per la prima volta nella storia, non è mai successo nel corso degli ultimi 3000 anni, non si può esprimere la contemporaneità e bisogna soltanto copiare il passato ? Antonio Marco Alcaro
La lentissima, a volte impercettibile, evoluzione permette comunque di mantenere un rapporto costante e ricucire un’epoca con l’altra. La Maison Carrè parla ancora alle casine basse e modeste d’intorno; dialogava con il teatro antistante, inferiore ma non indegno. L’edificio di Foster, per altri versi ben fatto, ben costruito, ben realizzato, bello in fine, non dialoga affatto: è un estraneo e muto, quanto indecifrabile, segnale giunto per caso. Memmo54
- «Io sono per la legittimità del nuovo anche all'interno di un manufatto antico. Scarpa diceva che non c'è restauro senza trasformazione. Ma ci vuole qualità. La cosa certa è che deve essere autenticamente nuovo per rispettare la dignità del nostro tempo» Mario Botta in una intervista a Pierluigi Panza
- Caro Ettore (Ettore Maria Mazzola), hai ragione a dire che antichisti non è appropriato ma è un semplice problema di comunicazione: se io dico "sono un architetto moderno", dopo devo anche spiegare che moderno è diverso da modernista e quando sono arrivato in fondo non mi legge più nessuno. Pietro Pagliardini
- In questa polarizzazione tra modernisti e tradizionalisti (diciamo così per comodità schematizzante ben sapendo che esistono infinite sfumature) la mia simpatia va ai primi per il semplice fatto che giudicare un opera contemporanea, cercare di capire e interpretare se si é di fronte ad una bufala o ad un autentico capolavoro é estremamente più difficile e rischioso, mentre ricorrere a modelli storici consolidati ci si mette maggiormente al riparo da eventuali errori, proteggendoci in maniera consolatoria dalla frammentazione contemporanea, conducendoci peróinesorabilmente ad un mondo culturalmente chiuso, cristallizzato e privo di possibilità. Giulio Pascali
- Chiedo: se Leonardo avesse avuto a disposizione i programmi di grafica-architettonica, avrebbe continuato a progettare con il "carboncino"? Maurizio Zappalà
- Tu ritieni che il movimento moderno nasce per strappare l'architettura ad una elite e io credo che sia esattamente l'opposto, cioè il MM, come le avanguardie artistiche, è elite, e direi anche in modo assolutamente consapevole e non ritengo che l'architettura attuale sia una degenerazione del MM ma la sua naturale evoluzione. Pietro Pagliardini
- scusate se continuo a dire la mia, senza avere alcuna competenza specifica.
A Bologna, tra fine '800 e inizio '900 è nato un bel po' di architettura "medioevale" per spinta del Rubbiani. Anche il palazzo di Re Enzo, praticamente in piazza maggiore è, secondo un certo punto di vista, un falso. Ma è gradevole, si sposa bene al contesto..... enrico delfini
- i pseudo-cloni siccuramente sono un atto di pessima architettura senza personalita...
come i pseudo-cloni di le corbusier che inquinano le periferie moderne
o i pseudo-cloni classicisti o post-modernisti che vanno molto di moda in italia mentre per fortuna nel resto d'europa sono superati.
una pessima archiettura è una pessima archiettura sia che sia moderna , classicista , rinascimentale , gotica o romana. Anonimo (e meno male che è anonimo…)
Aggiungo un po' alla volta, quasi a pro-memoria per me, alcuni link preziosi sulla modernità:
Tradizione e Modernità nella pratica contemporanea, di Lucien Steil su Il Covile
L'illusione della modernità, di Stefano Borselli su Il Covile
Armando Ermini commenta L'illusione della modernità su Il Colvile
2 dicembre 2011
PILLOLE DI MODERNITA'
17 marzo 2011
DAMNATIO MEMORIAE
Segnalo questo articolo di Vilma Torselli su Artonweb, dal titolo
Per adesso lo segnalo ma spero prossimamente di commentarlo. Leggi tutto...
10 gennaio 2011
IL NON-LUOGO PERFETTO
Un articolo sulla cronaca locale de La Nazione, scritto da Salvatore Mannino, a commento di un progetto di massima per una grande e importante area di Arezzo redatto dallo studio 5+1AA, mi suggerisce una riflessione sul rapporto tra l’uomo, la città e l’auto, e sulla ormai crescente tendenza a cacciarla sotto terra, sotto forma di parcheggi e di strada.
In sostanza, la principale viabilità di accesso alla città, il raccordo autostradale che penetra diritto verso il centro e che è adiacente all’area oggetto del progetto, è stata prevista completamente interrata allo scopo, assolutamente condivisibile, di ricostituire una continuità tra questa e l’area adiacente. Si tratta di un lungo tratto di qualche centinaio di metri, non di un sottopasso; dunque una scelta importante, sia sotto il profilo tecnico che economico. Ugualmente, nell’area progettata, gran parte delle circolazione e dei parcheggi sono previsti interrati.
Scrive Mannino:
“Si tratta di una soluzione assolutamente innovativa, almeno per l’Italia…..All’estero, invece, è uno scenario sul quale si lavora da un pezzo.
A Madrid, ad esempio, è già in programma l’interramento di decine di chilometri delle tangenziali che lambiscono la capitale e delle direttrici che penetrano verso il centro. Alla luce del sole resta solo il prato dei parchi, il traffico viene ingoiato dalle viscere della terra, quasi fossemo nel ventre della città caro a Zola, quasi le auto fossero un oggetto un po’ osceno da nascondere il più possibile alla vista….I parcheggi, dunque, sono sotteranei sia quelli a servizio del triangolo del commerciale che quelli a disposizione delle torri del direzionale e residenziale, le strade asfaltate ridotte al minimo indispensabile, in favore di una rete molto estesa di piste ciclabili….”.
Una scelta, a prima vista, a favore della natura, della città e della salute mentale e fisica dell’uomo: liberarci dalla vista e dall’inquinamento prodotto dall’infame scatoletta meccanica protagonista assoluta degli ultimi cent’anni della nostra storia.
Liberarci da tutto, ma non dalla sua presenza, dato che tutto quanto oggi accade sopra, domani verrebbe semplicemente traslato sotto.
Astraiamoci dallo specifico progetto aretino e immaginiamo di estendere questa filosofia alla generalità dei casi di nuovi insediamenti e alla ristrutturazione urbana delle nostre città.
A questo proposito viene utile citare un articolo di Vilma Torselli su Artonweb, Anche l’urbanistica non è più quella di una volta:
“…..La metropolitana è il mezzo d’elezione di cui tutte le grandi città cercano di dotarsi per gli indubbi vantaggi legati ad una viabilità interrata rispetto ad una di superficie, ed è proprio la metropolitana che ha cambiato radicalmente quello che si potrebbe chiamare il ‘senso del viaggio’.
Perché il viaggio non si svolge più nello spazio, ma nel tempo, tanto che si comincia da più parti a parlare di progetto urbano time oriented.
"La città del futuro nella quale già viviamo [.......] - scrive Sandra Bonfiglioli (Convegno 'Il senso del tempo', Torino 20-21 novembre 2006) - è una città del tempo. [.....] I luoghi per eccellenza della città del tempo sono gli spazi della mobilità: i percorsi "viari" [......]
Il panorama urbano non esiste più, il percorso è un alternarsi di buio e lampi che non forniscono alcuna informazione sulla direzione, il tracciato, i luoghi, un viaggio cieco che termina con l’emersione alla luce in uno spazio urbano raggiunto senza sapere come. La maggior parte della gente percorre in metrò ogni giorno lo stesso tragitto, quasi sempre il percorso casa/lavoro (ma anche /centro commerciale, /università, /scuola, /ospedale ecc.), ignorando del tutto quale parte di città ha attraversato: niente sfilata di palazzi, di facciate note, di vetrine, piazze ed attraversamenti conosciuti, incontri, lo spostamento si concentra in un inizio ed una fine, in mezzo il buio delle gallerie e un tempo marginale ed improduttivo che deve essere il più breve possibile.
Il luogo di imbarco e quello di sbarco, il più possibile vicini alla destinazione in modo da ottimizzare l'abbattimento dei tempi di spostamento, rappresentano l’unico scenario urbano con cui si viene in contatto.
Brandelli di città fine a sé stessi, i luoghi sono riconoscibili per “quel” monumento o palazzo, indifferenziati “oggetti urbani” di grande impatto ambientale che fungono da cronotopi, sorta di matrici spazio-temporali in grado di generare e caratterizzare la dinamica della città e della sua “narrazione” (parafrasando Bachtin).
In questo quadro generale acquistano senso e giustificazione gli interventi delle tanto discusse archistar e la loro architettura autoreferenziale e decontestuale, portatrice di un messaggio personale frutto di un soliloquio che non cerca né confronto né dialogo. Perché l’abitante metropolitano la percepisce nello stesso modo segmentario e parziale con il quale essa viene concepita e calata nel territorio urbano, secondo un processo di interazione nel quale il fruitore chiede solo che quello spazio urbano sia riconoscibile ai fini dell’orientamento spazio-temporale.
Cosicché la presenza di un grattacielo storto piuttosto che di un museo/wc o di un’inaspettata installazione policroma, segni forti non necessariamente comprensibili, ma assolutamente caratterizzanti, possono determinare per ognuno una diversa strategia di “immaginabilità urbana”, in relazione alla individualità dell’esperienza….”.
Basta sostituire “metropolitana” con “rete stradale sotterranea” e il contenuto dell’articolo è perfettamente riferibile al caso nostro, con conseguenze, però, elevate all’ennesima potenza. E con una differenza sostanziale: la metropolitana viene vissuta come infrastruttura puramente tecnica e svolge una funzione prettamente collettiva, ed ha, a suo modo, una motivazione, una spinta etica accanto a quella utilitaristica, riassumibile in questa frase: “diminuisco il traffico in superficie, spendo meno e arrivo anche prima”. La metropolitana diventa una scelta corretta e utile, anche se non particolarmente gradita e amata.
Ma l’auto non è un mezzo collettivo, è il mezzo privato per eccellenza, è il moderno simbolo della libertà individuale di movimento. Relegarla al piano di sotto significa relegarvi chi la guida, cioè la generalità degli individui.
Significa fare una città parallela ma diversa da quella di sopra, anche se ad essa funzionale.
Significa, come scrive Mannino, che: “le macchine sono come il sesso per gli inglesi, qualcosa che c’è ma di cui non si parla (e non si guarda per decenza)”.
L’auto resta dunque e crea due città fasulle: quella di sotto, buia, pericolosa e irrespirabile, quella di sopra, luminosa e verde nell’immagine, ma morta nella sostanza, priva di vita perché la sua vita si svolge sotto, dove la gente trascorre una buona parte del proprio tempo per spostarsi, per recarsi al lavoro o al supermercato o a casa, o all’università o alla multisala.
I movimenti dei cittadini si svolgeranno tutti in ambiente artificiale e andare all’aria aperta sarà un’altra, non prevista, funzione aggiunta a quelle teorizzate da Le Corbusier e imposte dal sistema della produzione di massa. La zonizzazione non sarà dunque solo orizzontale ma anche verticale, ma non nel senso virtuoso del termine, cioè della stratificazione delle funzioni sui singoli edifici che determinano la vitalità della strada e della città europea, bensì estesa a tutta la città.
Il sogno di una città senz’auto si trasforma nell’incubo di una città senza persone perché a questo punto è chiaro che ha, e sempre di più avrà, ragione Vilma Torselli quando afferma che gli oggetti decontestualizzati progettati dagli, o in stile, archistar meglio si prestano a diventare il segno forte e riconoscibile da trovare quando si riemerge in superficie! Che senso avrebbe, infatti, una città costituita da sequenze urbane, da muri pieni e da spazi vuoti che si susseguono e si articolano in un tessuto continuo se tutto il sistema circolatorio, quello che conta e che fornisce la vita e il movimento, si trova in un piano diverso e in un non-luogo oscuro e malsano?
La città diventa un’imitazione degli outlet che imitano, a loro volta, il villaggio tradizionale e il sopra sarà dunque indifferente alla forma, al disegno, all’aggregarsi di spazi e funzioni; potrà avere qualsiasi forma essendo questa solo uno scenario senza vita o con una vita pianificata a intervalli. La città sarebbe schizofrenica e presenterebbe aspetti della personalità completamente diversi.
Non potrebbe più esserci, a questo punto, nessuno stimolo a riaggregare la città in un organismo vitale in cui ogni parte collabori con le altre, perché sarebbe come un corpo umano funzionante grazie alla circolazione extra-corporea, cioè alimentato da macchine.
Se la spinta iniziale di questa scelta è di tipo ecologico e ambientalista, i risultati la negherebbero del tutto perché una metà della città sarebbe completamente dipendente dall’energia, sia di giorno che di notte e l’inquinamento delle auto, che conserverebbe intatto il suo valore assoluto, sarebbe solo concentrato in determinati nodi.
Ho certamente estremizzano un concetto ma se la tendenza fosse questa la fine sarebbe segnata.
La sfida è invece quella di fare convivere civilmente l’uomo con le sue auto o con qualunque altra delle diavolerie che eventualmente le sostituiranno. La sfida è quella di fare una città vitale alla luce del giorno che sia capace di tenere insieme i vantaggi della modernità con quelli della forma tradizionale.
Concludo con un brano ancora da un articolo di Vilma Torselli, La fine dei luoghi:
“Ora, entrata in crisi l’idea di città come luogo rappresentativo di un ordine territoriale specchio di un ordine sociale, assistiamo al diffondersi di una sostanziale equivalenza di stili e di luoghi perfettamente intercambiabili, nei quali emerge l'uso funzionale ed efficientista del modello di città meglio rispondente alle esigenze di mobilità, libertà e flessibilità, unici valori riconosciuti da una cultura eminentemente tecnicista e a-finalistica, che si limita a rappresentare il presente, senza prospettive sul futuro e senza finalità alcuna”.
Chiaro, no?
Per vedere e leggere qualcosa di piacevole sulle città sotterranee seguire questo link:
http://www.fabiofeminofantascience.org/RETROFUTURE/RETROFUTURE12.html
Da questo sito è tratta la foto all'inizio
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15 agosto 2010
PARMIGIANO E IDENTITA'
Pietro Pagliardini
Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.
Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.
Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.
La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.
Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.
Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.
In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.
Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
“No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.
A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).
Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.
1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari”.
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28 luglio 2009
LE CORBUSIER E LO STORICISMO
Questo post è un commento ad un articolo di Vilma Torselli su www.artonweb.it che si riferisce al precedente post di E.M.Mazzola, Dietro il modernismo.
Per una lettura del post è assolutamente necessario leggere prima l'articolo di Vilma Torselli.
Popper dice: “La storia non ha nessun senso, siamo noi che le diamo senso”. Presa da sola,questa frase potrebbe significare l’assoluta indeterminatezza di ogni teoria storica dato che si potrebbe supporre esserci una storia per ogni individuo e dunque sarebbe inutile l’esistenza stessa del concetto di storia, dovendosi parlare piuttosto di “storie”. Le cose non stanno esattamente così: Popper fa una critica serrata allo storicismo ma non afferma l’impossibilità di leggere e interpretare la storia, piuttosto quella di “predirla”.
Dice Popper:
"a) Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana….
b)Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica…..
c)Perciò non possiamo predire il corso futuro della storia umana.
d)Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica cioè di una scienza sociale che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.
e)Lo scopo fondamentale dello storicismo… è quindi infondato. E lo storicismo crolla".
E la dedica del libro “Miseria dello storicismo” è la seguente:
"In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino storico".
Ma c’è di più: Popper afferma: “ciò che non esiste è la società. La gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale…. Uno dei peggiori errori è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia”.
“Cioè esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze inintenzionali. Sono gli uomini che esistono”. (Giovanni Reale e Dario Antiseri, Storia della Filosofia, Bompiani.
Questa premessa “filosofica” per affermare un dato essenziale: Ettore Maria Mazzola e tutti coloro che come lui, tra cui anch’io, attribuiscono a determinati soggetti, in base alla lettura e all’interpretazione dei fatti, in questo caso a Le Corbusier e alla sua ideologia predittiva che la “società” avrebbe dovuto essere regolata in un determinato modo piuttosto che in un altro, con ciò affermando il suo essere storicista (dato assolutamente coerente con il suo essere vicino alle grandi ideologie totalitarie del secolo breve), la capacità di avere influito fortemente sulla cultura di un secolo e quindi sugli accadimenti urbani, compie un’analisi del tutto lecita e possibile, ma non necessariamente corretta negli esiti, proprio sulla base del pensiero di Popper che è uno dei pilastri del pensiero moderno.
E non mi sembra che E.M. Mazzola attaccando LC voglia prefigurare un modello di società perché non afferma che la “storia” andrà in qualche direzione. Mazzola analizza fatti e ne deduce conseguentemente che il pensiero di LC ha influenzato in maniera determinante il corso dell’urbanistica del secolo breve ma anche di questo secolo, dato che vi sono moltissimi architetti, urbanisti e critici che ne esaltano tuttora le qualità e dato che quel pensiero è ancora forte perché influenza quotidianamente la formazione e il disegno dei piani, a qualunque scala di intervento.
Le azioni e le idee umane, come riconosce Popper e come io credo fermamente, influiscono nel corso degli eventi in maniera intenzionale e non intenzionale e cambiano il corso degli eventi stessi. Questo mi sembra un punto centrale di un atteggiamento non storicistico, non deterministico, che afferma la nostra libertà e che è in linea con la teoria del caos tanto citata da molti architetti quanto poco da essi afferrata. Evidentemente questi si lasciano affascinare dalla sola parola “caos”.
A maggior ragione influiscono le azioni di personaggi che hanno avuto la capacità di “interpretare” istanze e problemi reali presenti nella società (ma dovrei dire popperianamente tra la gente) non in modo scientifico, vale a dire facendo ipotesi da sottoporre poi a verifica o a falsificazione, ma trattando quelle istanze e quei problemi astratti come concreti, cioè agendo secondo “la peggiore ideologia”.
Mazzola non prefigura una nuova società ma, preso atto del fatto che le conseguenze del pensiero e delle azioni di LC non soddisfano, hanno fallito (non certo per quanto si illude debolmente di credere Rosa Tamborrino, cioè per colpa degli “altri”, i cattivi che non hanno fatto servizi ed infrastrutture, che è una palese ingenuità per non dire sciocchezza, dato che non è statisticamente possibile non vi siano piani e aree basati su quel modello che siano completi di quanto essa dice mancare e, comunque, se anche fosse vero, sarebbe la riprova che il modello è sbagliato dato che richiede evidentemente condizioni al contorno non realizzabili) indica una strada diversa che non è una fantasia o la costruzione mentale di un individuo o di un gruppo di individui ma è basata su ciò che esisteva ed esiste e che ha dato ottima prova di sé in passato e che non è affatto detto non possa non darlo nel presente e nel futuro, con le inevitabili correzioni e aggiustamenti dovute ai cambiamenti delle condizioni. Il buon senso, l’atteggiamento scientifico corretto suggerisce che sarebbe opportuno tentare quella strada, invece che rimanere arroccati nella difesa testarda di ciò che è fallito. E’ lo stesso Popper che lo dice (poi uno può non credere a Popper, per carità, ma adesso è il suo pensiero ad essere oggetto di discussione); quella teoria non solo non è stata messa in discussione ma è stata attuata per decenni e il suo fallimento non comporta nessun atteggiamento di cambiamento di rotta. Più ideologico di così….!
Concludo con la teoria del complotto, che non appartiene a Vilma Torselli ma che ad altri fa piacere attribuire a noi (per noi intendendo coloro che denunciano l’esistenza di un pensiero unico, incrollabile, inattaccabile e impermeabile ad ogni modificazione e contaminazione) e che in realtà è la solita cortina fumogena che viene alzata per non discutere criticamente dei fatti che vengono esposti, citando ancora Popper che si è occupato anche di questo:
“Le istituzioni e le tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura; esse sono il risultato di azioni e decisioni umane , e alterabili da azioni e decisioni umane…..solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran parte di esse semplicemente venute su, “cresciute” come risultato non premeditato di azioni umane. La teoria cospiratoria della società consiste nell’opinione secondo cui tutto quel che accade nella società, comprese le cose che la gente di regola non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui o gruppi potenti [come i saggi di Sion, i monopolisti, i capitalisti, gli imperialisti]. ……[ma] i cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione ….Poche di queste cospirazioni alla fine hanno successo”.
Mazzola dice esattamente questo, analizza le idee e le azioni di Le Corbusier e ne ricava che esse hanno avuto grandi conseguenze in ambito urbano. Dice anche che LC non era solo, se a bordo del piroscafo c’erano circa 100 persone, che molti non erano d’accordo sulle conclusioni ma che quelle conclusioni sono risultate vincenti. Se avessero vinto gli oppositori, chissà, le cose forse sarebbero andate diversamente. Dice anche che c’erano degli sponsor ma, da me sollecitato a farne i nomi, con serietà non fornisce risposta non essendo in possesso di dati certi. E se ci fossero sponsor non ci sarebbe comunque complotto ma azioni umane aiutate da altre azioni umane per conto di società o gruppi interessati ad ottenere un risultato, cosa del tutto normale dato che il lobbying è azione nota e regolata per legge, ad esempio negli USA. Solo i sepolcri imbiancati fanno finta di non vedere questa realtà che esiste, in modo lecito o illecito, è comune proprio nelle Istituzioni più importanti, quali ONU, OMS, UNESCO, CEE, FAO, ecc. e chi attribuisce ad altri strategie complottistiche in genere tende a mancare della capacità critica per discernere complotti da azioni umane finalizzate ad ottenere risultati (generalmente denaro e/o potere).
Mi rendo conto che, nell’essermi soffermato molto su quella citazione iniziale, che però potrebbe dare un senso completamente ribaltato a tutto l’articolo, sembra che abbia voluto eludere le obiezioni che Vilma Torselli fa al post di Mazzola, ma non è esattamente così:
1) intanto la visione “responsabilistica” assume una sua dignità e ragion d’essere nel fatto che “esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze in intenzionali”;
2)infine considerare la storia come entità autonoma e indipendente dagli uomini, dato che “la situazione economica, culturale e sociale di quel momento glielo permette, anzi glielo richiede” è assolutamente lecito e fondato, ma non popperiano, trattandosi di storicismo e determinismo allo stato puro. Io penso invece che se la situazione era quella che Vilma rappresenta, e certamente lo era, la risposta avrebbe potuto essere diversa e, visto come sono andate le cose, certamente non peggiore.
Personalmente non contesto affatto che siano le elite ad incidere in maniera profonda nella cultura, anche perché è sempre stato così, contesto le scelte di quelle elite quando sono sbagliate e quando le elite diventano inamovibili nonostante il loro fallimento.
Pietro Pagliardini
5 luglio 2009
UNA ARGOMENTATA OPINIONE CONTRARIA
Ho ricevuto da Vilma Torselli questo commento con osservazioni critiche al post sul falso di Ettore Maria Mazzola. Poiché mi sembra che riassuma molto bene la maggior parte degli argomenti "contro" lo pubblico come post. Il titolo al post l'ho aggiunto io.
La riflessione di Mazzola sul falso storico e sull’opera di Brandi è senz’altro esemplare, ma non posso fare a meno di rilevare, specie nella parte finale, affermazioni a mio parere largamente opinabili.
Tutta la storia dell’architettura è una storia "contro", ben prima delle avanguardie del ‘900, e non deve stupire che, freudianamente, anche in architettura diventare adulti voglia dire "uccidere il padre": il Rinascimento impone le regole della prospettiva contro gli spirituali misticismi del gotico, il Barocco combatte la rigida ingabbiatura geometrica del Rinascimento, il Neoclassicismo si volge al repertorio classico contro gli svolazzi barocchi, il Romanticismo esalta l’emotività contro le regole del classicismo, ciascuna di queste epoche è debitrice della sua stessa esistenza a quella precedente, sia che ne derivi sia che le si opponga.
E poi, chi l’ha detto che andare contro significa cancellare la tradizione? Ricordiamoci di Jorge Luis Borges, quando scrive ".....che tra il tradizionale e il nuovo, o tra ordine e avventura, non esiste una reale opposizione, e che quello che chiamiamo tradizione oggi è una tessitura di secoli di avventura."
L’importanza della tradizione sta nella sua funzione catalizzatrice di nuovi linguaggi, nella sua capacità di scatenare reazioni e produrre rinnovamento, nella sua proprietà di sintetizzare “secoli di avventura”.
Paradossalmente si potrebbe dire che la "tradizione" in architettura è proprio questa alternanza di conflitti, che qualunque passato è indispensabile premessa a qualunque presente e che se l’atteggiamento degli architetti fosse stato sempre quello della conservazione e del ripristino, l’Italia sarebbe piena di basiliche paleocristiane e di mura medioevali perfettamente ristrutturate e ricostruite e l’avventura eroica del rinascimento, del barocco, del neoclassicismo non esisterebbe.
Tutte le antiche città sono edificate su una fitta stratificazione di pre-esistenze, per fortuna il tempo e gli eventi hanno deciso per noi di distruggerle e di permettere alla storia di andare avanti e rinnovarsi.
La tanto vituperata modernità nasce dall’implicito confronto con ciò che è stato, nasce dall’elaborazione del passato, quand’anche negato, ineludibile nucleo promotore del cambiamento e della presa di coscienza di una moderna autonomia intellettuale, senza disconoscere i debiti di carattere formale o contenutistico verso chi ci ha preceduti. Ed in questi termini il passato non è un bagaglio inutile, è un elemento di confronto necessario e indispensabile che tuttavia non deve obbligatoriamente concretizzarsi in ripescaggi stilistici o imitazioni morfologiche anticheggianti, il che significherebbe solo mummificazione di linguaggi in un repertorio formale senza tempo, vecchio prima ancora di nascere.
Non è una scusa assolutoria dire che un architetto di oggi che progetti "in stile" “non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca”, può essere che non ci sia falsificazione, almeno nelle intenzioni, ma c’è senz’altro l’incapacità di parlare un linguaggio autonomo e innovativo, sapendo che la modernità non va copiata (da presunti “grandi modernisti”), va inventata.
Scontata la critica su Sant’Elia, che da tempo la storia ha relegato nell’ambito degli utopisti visionari, quanto alle ragioni addotte nella critica al razionalismo, che trovo piuttosto limitativa nella sua lettura in chiave politica (vogliamo buttare a mare, con Le Corbusier, anche Walter Gropius, Mies van der Rohe e tutta la Bauhaus?), va ricordato che da sempre l’architettura è stata connessa e collusa con il potere, economico o religioso, dato che re, papi, principi, signori e la loro disponibilità finanziaria hanno sempre fatto la differenza grazie a quella elegante e un po’ ipocrita forma di munificità che si chiama mecenatismo, il quale prevedeva sia la committenza delle opere che la gratificazione politica e sociale derivante dalla loro realizzazione. Cioè, non solo Benito Mussolini ha strumentalizzato l’architettura, si tratta di un fenomeno non solo moderno, e possiamo parlare di architetti “neo-razionalisti, neo-funzionalisti, neo-Terragniani, neo-LeCorbusierani, ecc.” così come in passato si è parlato di neo-classicisti, neo-barocchi, post-moderni ecc.
Mi sembra che lodare l’ “architetto tradizionalista” e demolire l’ “architetto modernista” sia una presa di posizione certamente poco costruttiva, oltre che anacronistica, volta a mantenere un ristagno culturale che non giova a nessuno.
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26 aprile 2009
COMMENTO DI VILMA TORSELLI SULLA CHIESA DI FOLIGNO
Ho ricevuto questo commento di Vilma Torselli sul progetto della Chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Come faccio spesso quando ho fretta l'ho dapprima pubblicato nello spazio dei commenti, riservandomi di leggerlo con calma. Dopo averlo fatto, pur nella diversità di opinioni, mi sono reso conto che quel luogo era troppo stretto.
Ogni attività creativa dell'uomo produce immancabilmente simboli: unendo significati lontani e sintonizzandoli su un significato comune, l’opera costituisce il medium per svelare intrinseci valori simbolici ed un segno o una forma possono far riferimento ad una realtà non raccontata, ma resa comprensibile alla nostra capacità percettiva al di fuori dei normali processi razionali.
Come afferma Freud, il simbolo è un'eredità filogenetica grazie alla quale l'uomo ha una disposizione mentale che lo mette in grado di relazionare le pulsioni e le emozioni psichiche con gli oggetti, il campo della rappresentazione visiva è quello nel quale queste capacità relazionali vengono utilizzate costantemente e al meglio.
Si dice che "ogni figura racconta una storia", e questa asserzione generale vale per gran parte dell’arte, se si eccettua la ’mera’ decorazione geometrica.", così scrive Gregory Bateson ( "Verso un’ecologia della mente", 1997), e vale, aggiungerei, per l’architettura, che come l’arte è chiamata a istituire un criterio formale che convogli il linguaggio verbale verso la codifica iconica dell’immagine.
Tutte le attività umane, l’arte, l’architettura, che si esprimono attraverso segni acquistano un valore simbolico al di là della rappresentazione pura e semplice, per addivenire attraverso il simbolo alla rappresentazione visibile dell’invisibile.
Se accettiamo l’idea che l’architettura debba immancabilmente organizzare lo spazio secondo una funzione e al tempo stesso rappresentare i modi e il senso nei quali la funzione viene espletata, in relazione al contesto culturale in cui si colloca e che in essa si riconosce (da cui il valore simbolico dell’architettura), si comprende come tutto possa essere simbolo, che lo diventi o meno dipende dal significato che l’uomo gli attribuisce, in determinate circostante, in determinati contesti, nell’ambito di una realtà culturale precisa.
La religione ha sviluppato una vera e propria teologia simbolica, incorporando il concetto che il simbolo è mezzo per denunciare ed al tempo stesso surrogare l’inadeguatezza della parola o dell’immagine ad esprimere il sacro, cosicché l’architettura religiosa è per eccellenza quella che più si esprime attraverso una grande ricchezza di contenuti simbolici.
Tuttavia l’esecutore dell’opera, l’architetto che progetta un luogo sacro, esprime, sì, nella forma architettonica precisi contenuti liturgici e dogmatici codificati dalla tradizione religiosa, ma anche il senso che in quel momento storico e in quel contesto sociale viene annesso a quel tipo di edificio, filtrandolo, e questo è un passaggio chiave, attraverso il suo vissuto umano e culturale conscio o inconscio.
Solo grazie a questo passaggio un’architettura ‘simbolica’ diventa ‘simbolo’ (vedi la La Chapelle Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp).
Detta in parole povere, nella chiesa di Foligno Fuksas ci ha ‘messo del suo’, egli stesso spiega il significato della modesta elevazione del terreno, del taglio trasparente alla base, “la sospensione di un volume all’interno di un altro”, ecc.
Questi sono innegabilmente contenuti ‘simbolici’ che si sovrappongono a quelli dogmatici con il rischio reale di prevaricarli (rischio peraltro di tutta l’architettura moderna) e con la possibilità di una reificazione dell’architettura in oggetto architettonico. Ma questo rischio c'è sempre stato e sempre ci sarà, finchè, per fare una chiesa, non decideremo di mettere tutti i dati (dogmatici e liturgici) in un computer che, dopo una bella ‘shakerata’, sfornerà la chiesa perfetta!
Ciao
Vilma