Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


1 ottobre 2008

TOSCANITA'

Il testo che segue è stato scritto dall’Arch. Roberto Verdelli di Arezzo in occasione di un convegno su Qualità, Città e Territorio organizzato dall’Ordine degli Architetti di Arezzo nel giugno 2006. Il testo, che è stato depurato di poche parti strettamente tecnico-legislative, ha il pregio di saper coniugare, in un linguaggio accessibile a tutti, una compiuta visione teorica con la specificazione di fondamentali e semplici regole di progetto da osservare nei luoghi di cui tratta, e non solo.
In questo senso vi si legge l’impronta del suo autore che riunisce in sé una notevole preparazione teorica, una conoscenza approfondita del territorio e un’alta qualità progettuale, frutto di pratica professionale multidisciplinare, dai piani urbanistici alla progettazione architettonica. Il tutto pervaso dall'amore per la sua terra.
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Roberto Verdelli

LE SPECIFICITA' DEI PAESAGGI E DELLE CITTA' TOSCANE

La Toscana è bella, è unica ed irripetibile. E’ stata la culla del Rinascimento e, nel tempo, culturalmente resistente alle mode e ai cambiamenti che venivano da fuori. Non credo del tutto casuale che la Toscana sia l’unica regione ad avere un ordine architettonico proprio “Il Toscanico” appunto. Un ordine più semplice ed austero degli altri, meno ricco e privo di fronzoli, una sorta di ‘minimalismo” ante litteram.

E’ complesso individuare le specificità del paesaggio e delle città Toscane. Molte delle considerazioni che andrò a fare sono comuni anche ad altri territori e realtà urbane ed appartengono anche ad altri ambiti culturali. L’insieme di tutte le considerazioni appartiene, forse, solo alla Toscana e credo che proprio questo insieme costituisca la sua specificità.

1) Il rapporto città-campagna

La città è cosa diversa dalla campagna. Tra la città e a campagna è sempre esistito un confine preciso, le mura o il fossato. Le tecniche costruttive e le modalità di trasformazione sono diverse.
La città diffusa è un concetto che non appartiene alla cultura Toscana fatta: di centri, di borghi, di paesi, di campanili e di piccole autonomie. Il toscano è geloso custode delle proprie tradizioni, le difende sempre e comunque e tanto più la città, il borgo o il paese “nemici”, sono vicini tanto più aumenta la rivalità.

Le mura, le porte, i confini che sanciscono le nostre diversità sono rimaste nella nostra testa, talvolta invisibili ed incerte come negli sviluppi lineari che fondono frazioni da sempre rivali o nelle periferie ove diventa difficile marcare la separazione tra i rioni o le contrade che si sfidano in rievocazioni storiche sempre più amate nonostante Internet.
Gli sviluppi moderni tendono a “sfumare” la città lungo i vecchi o i nuovi tracciati viari in modo che il passaggio tra la città e la campagna risulta quasi impercettibile. Un proliferare di città lineari che non sono proprie della nostra cultura e che insidiano l’antico senso di appartenenza al luogo. E’ pur vero che i sobborghi e gli insediamenti “extra moenia” sono processi antichi, ma è anche vero che essi erano estremamente compatti ed aderenti il più possibile alle mura. Una sorta di speranza che al prossimo ampliamento delle stesse fossero anch’essi ricompresi dentro a cinta.
Le nuove mura, rappresentate dai cartelli stradali, le disegnano i vigili urbani su parametri talvolta astrusi e comunque non facilmente percepibili.
La mancanza di confini di queste città spalmate sul territorio giustifica l’inserimento, in qualsiasi luogo, di attrezzature e servizi che sono sempre stati di appannaggio esclusivo della città. Le uniche pregiudiziali per il collocamento diventano il facile accesso e la possibilità di parcheggio. Le grandi strutture commerciali e di servizio (ipermercati, outlet, multisale etc) non dovrebbero essere collocati fuori della città. Esse, forse, possono costituire elemento di riqualificazione del tessuto di più recente formazione ma mai polo di attrazione centrifuga che distrugge il tessuto economico dei nostri centri storici ed aumenta a dismisura la mobilità su auto.
L’ubicazione degli “asteroidi”, come qualcuno li ha efficacemente definiti, è un problema di grande rilievo e, come per tutti gli altri problemi che andrò a segnalare, c’è un impellente necessità di individuare il soggetto giuridico ed istituzionale che si deve far carico della sua risoluzione. In alcuni casi tale individuazione è semplice, nello specifico mi sembra più complesso. In Francia queste strutture sono state fortemente limitate con legge dello Stato. Siamo certi che non si debba fare altrettanto anche in Italia? Magari attraverso una disposizione regionale?

2) La città, i borghi, gli aggregati

La città si percorre preferibilmente a piedi. L’auto è nemica della città: inquina, è rumorosa ed occupa spazio.
All’interno della città il traffico pedonale va privilegiato rispetto a quello carrabile.

Le nostre città, borghi e gli aggregati sono sempre stati caratterizzati dalla prossimità’ delle funzioni. La bottega dell’artigiano è prossima a quella del fruttivendolo che, a sua volta, è vicina allo studio del notaio ed alla banca. Gli uffici pubblici sono vicini alle abitazioni che, a loro volta, sono vicini alle botteghe ed ai negozi.
Occorre facilitare la complessità delle funzioni dell’organismo urbano superando il concetto di zonizzazione.

La piazza è l’elemento nodale della città, il luogo di incontro e di ritrovo, che da ordine alla struttura urbana. Le nuove trasformazioni hanno dimenticato le piazze. Quando va bene sono parcheggi fuori scala ubicati nei posti sbagliati. Occorre invece riappropriarsi della cultura della piazza.
Anche il rapporto tra strada ed edificio ha perso i suoi originari connotati. In città l’edificio ha sempre avuto un rapporto diretto con la strada senza alcuna mediazione spaziale. La facciata sta sulla strada che costituisce elemento ordinatore del tessuto edilizio, al piano terra della facciata sono normalmente collocate le botteghe o e attività, su retro stanno gli orti ed i giardini, il giardino sul fronte demonizza la strada e con questa anche la città.

Le rotonde all’interno del tessuto urbano sono la negazione della città. Non so quanti di voi abbiano provato a percorrere in bicicletta una delle tante rotatorie che ormai prolificano in ogni ambiente urbano come soluzione di tutti i mali. Pericolose per anziani e bambini sono il frutto del totale asservimento alla mobilità meccanica, ormai bisogna arrivare ad ottanta all’ora anche dentro la cinta muraria.
Più la città si espande più aumenta il problema della mobilità. Aumentando la mobilità si rende necessario realizzare sistemi infrastrutturali sempre più funzionali al mezzo meccanico e sempre meno adatti alla percorrenza pedonale (vedi le rotonde).

Uno dei mezzi possibili per contenere l’espansione della città è quello di aumentarne la densità edilizia.
Maggiore densità comporta economie di scala nella gestione dei servizi puntuali e di quelli a rete. Maggiore densità comporta, inoltre, un probabile innalzamento della qualità architettonica ed urbanistica. Non è possibile, né ci possiamo permettere che in città si realizzino tipi edilizi riconducibili all’edilizia della campagna. Edifici puntuali, collocati al centro del lotto che contraddicono la nostra storia ed i processi di formazione delle nostre strutture urbane. Le città toscane non possono essere ricondotte alle periferie delle grandi città statunitensi caratterizzate da chilometri e chilometri di villette unifamiliari con piscina, una dopo l’altra, senza un negozio, senza una bottega, senza una piazza, senza nulla. Sembra ormai sancito il diritto di possedere ed il dovere di realizzare abitazioni in città con caratteristiche tipologiche e formali dell’edilizia rurale. Ciò non è possibile. Non abbiamo lo spazio, non possediamo le risorse necessarie e non credo sia un bene per la collettività.
Occorre restituire ai nostri insediamenti gli elementi che ne costituiscono il fondamento:

- le piazze;
- il rapporto con la strada;
- la prossimità delle funzioni;
- le permeabilità e la possibilità di goderla a tutte le classi sociali e non solo agli automuniti.


Non so come poter raggiungere tali scopi. Se con leggi o piani territoriali o se attraverso semplici atti di governo del territorio. Se attraverso rigidi impianti normativi o piani “progetto” disegnati nel dettaglio. Quello che mi sembra più importante è che si riescano a condividere tali valori e, rispetto a ciò, credo ci sia ancora molta strada da fare.

3) La campagna

Il paesaggio toscano è caratterizzato da una diffusa antropizzazione. A differenza che in molte altre regioni le abitazioni dei contadini sono collocate al centro del podere, non esistono masserie e le coltivazioni sono (o erano) caratterizzate da un fitto livello di appoderamento. Ormai da alcuni decenni si stanno verificando alcuni fenomeni, prevalentemente economici e sociali, che stanno mettendo in crisi gli antichi processi di trasformazione.
Essi si possono riassumere in:
- progressivo abbandono delle coltivazioni, nelle aree meno fertili e soprattutto nella montagna, con conseguente fagocitazione del bosco, degli immobili e dei coltivi;
- fine dei contratti mezzadrili e della coltivazione diretta dei poderi nelle aree di pianura e di collina. Perdita progressiva della identità di un paesaggio legato ad una forte frammentazione territoriale e ad una economia autarchica;
- sostituzione della coltivazione diretta con coltivazioni intensive frutto di successivi accorpamenti fondiari, conseguente distruzione della maglia agraria originale;
- per gli ambiti di maggior pregio, sostituzione della originaria classe residente, nel frattempo inurbata, con nuove classi costituite in un primo tempo da stranieri e, successivamente, da ceti indigeni abbienti che utilizzano il bene come seconda casa. Conseguente difficoltà per il mantenimento delle coltivazioni nel vecchio podere e per la conservazione del ricco patrimonio antropico esistente (muri a retta, viabilità, ciglionarnenti etc);
- per i soggetti precedentemente inurbati, nostalgia della campagna, che si manifesta attraverso la realizzazione di manufatti più o meno abusivi che non sempre sono utilizzati come rimessaggio degli attrezzi e che finiscono per diventare una sorta di seconda casa ove evocare o ricordare i tempi andati. Tali manufatti tendono a concentrarsi immediatamente a ridosso della città prevalentemente per motivi logistici ma anche in funzione di un loro possibile diverso utilizzo (vedi sanatorie). La realizzazione dell’annesso indipendente dalla abitazione costituisce novità dirompente in una realtà caratterizzata dalla vicinanza e dalla stretto rapporto tra la pertinenza e l’abitazione.

Credo sia assai complesso arginare il fenomeno della mutazione del paesaggio agrario sia per l’oggettiva difficoltà di eseguire controlli che per la mancanza di risorse economiche che possano agevolare interventi tesi al mantenimento e alla conservazione della antica struttura.
Per quanto riguarda la proliferazione degli annessi le legge regionale toscana ha individuato un criterio che, pur se enunciato in maniera embrionale, istituisce un principio condivisibile. Il principio per cui nuovi annessi, dopo aver svolto la loro funzione, dovranno essere demoliti. E’ in realtà un’idea che contraddice la nostra stessa storia fatta dell’amorevole conservazione di tutto ciò che ci proviene dal passato ed è un’idea che potrà far proliferare le strutture precarie. Ma è forse una delle poche strategie possibili in un momento in cui il fenomeno della realizzazione di nuovi annessi sta assumendo proporzioni sempre più vaste.

4) L’architettura

Discutere dell’architettura e della sua qualità significa toccare un nervo scoperto. Allo stesso modo la semplice individuazione delle specificità dell’architettura Toscana potrebbe urtare convinzioni maturate in anni di studi e di professione. Idee e convinzioni, peraltro, formate sempre in perfetta buona fede e con processi di assoluta onestà intellettuale.

Individuare le specificità dell’architettura toscana non significa esprimere un giudizio negativo su tutto quello che tali peculiarità contraddice ma può essere utile a condividere, almeno, le proprie origini e radici culturali.

Per interi decenni, sull’altare di un fantomatico diritto alla libertà di espressione, si sono consumati danni irreparabili che sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti e che hanno contribuito alla formazione del degrado che caratterizza gli sviluppi recenti delle nostre città, dei nostri borghi e anche di parte delle nostre campagne.

Troppe differenze tipologiche, troppi materiali, troppi linguaggi che si sovrappongono in maniera incoerente senza logica e senza un disegno complessivo.
Ormai ogni operatore dell’edilizia: dagli architetti ai geometri, dagli imprenditori agli agenti immobiliari, sentono il bisogno di lasciare il proprio segno distintivo nel territorio. Un po’ come il maschio del cane che ha necessità di lasciare il proprio odore per marcare il suo ambito di influenza. Eppure mai come oggi ci sarebbe la necessità di non farsi notare. Di passare inosservati. La migliore costruzione o trasformazione edilizia ed urbanistica che si possa fare è quella che non da nell’occhio, che non si fa notare, che non fa girare la testa perché sembra che sia sempre stata lì.

Mi si obbietterà che è una rinuncia totale alla modernità, a lasciare il segno del nostro tempo. Ma se i segni del nostro tempo sono quelli che abbiamo profuso negli ultimi sessanta anni, credo che dobbiamo avere almeno l’umiltà di accettarlo.

E’ difficile capire come uscirne fuori. Forse trovare alcuni valori condivisi potrebbe aiutare a riconoscersi in linguaggi comuni. Perché almeno di questo sono convinto: in uno stesso territorio ed in uno stesso periodo occorre parlare lo stesso linguaggio.

Ed è per provocare il dibattito su questi temi che voglio enunciare cinque principi semplici sui quali discutere. Essi non possono essere che semplici perché le regole che hanno contribuito a formare le nostre città e che stanno alla base delle nostre architetture sono semplici.
E’ evidente che alla base dei processi di formazione e trasformazione territoriale ci sono anche ragioni economiche, politiche e sociali, ma io faccio l’architetto e solo di quelle più semplicemente tecniche mi voglio occupare.

Vedrete che non sarà possibile condividere alcuna di queste regole. Non perché non accettate nelle loro ragioni di fondo, che eviterò di spiegare perché note a tutti, ma in quanto non è possibile “generalizzarle” cioè renderle sempre e comunque buone.
Di queste regolette semplici se ne potrebbero scrivere cento. Io ne enuncerò solamente cinque e qualcuna volutamente provocatoria, perché la cosa che più mi interessa non è tanto verificare la condivisione delle regole quanto l’insofferenza alle stesse.

Le regole sono:

a) nella organizzazione delle facciate il pieno prevale sul vuoto;
b) l’organizzazione funzionale interna deve essere leggibile sull’esterno, le facciate debbono essere gerarchizzate in ragione delle funzioni svolte;
c) lungo le strade principali il piano terra deve essere allo stesso livello della strada e non avere funzione residenziale;
d) gli edifici in generale e quelli dell’edilizia di base in particolare debbono avere la copertura a falde inclinate e la gronda;
e) gli interventi in campagna debbono essere, in tutto coerenti con i caratteri tipologici ed architettonici del tessuto edilizio di antica formazione
.

So che, nel frattempo, sono stati inventati: l’acciaio, le facciate continue, il PVC, l’alluminio e lo zinco titanio ma penso che la Toscana ne possa fare a meno.
Posso capire che rinunciare alla modernità sia un atteggiamento codardo ma, forse, negli ultimi decenni, di coraggio ne abbiamo avuto anche troppo.

Un'ultima cosa la debbo dire rispetto alla bio-architettura.
Sembra che tale tecnica sia divenuta la panacea di tutti i mali e che solo attraverso di essa sia possibile conseguire quel miglioramento della qualità edilizia, architettonica ed urbanistica da tutti tanto auspicato.
Credo che come in tutte le nuove esperienze ci siano aspetti positivi ed altri che meriterebbero ripensamenti o approfondimenti. Possiamo convenire che gli aspetti positivi superano largamente quelli negativi ma penso che si debba riflettere almeno su questi tre punti:

1. il corretto orientamento dell’edificio può costituire elemento vincolante per gli interventi in campagna ove l’edificio si rapporta con il campo e la tessitura agraria, ma non può essere altrettanto vincolante in città ove diventa preminente il rapporto con la strada e la piazza. E’ del tutto evidente che un reticolo stradale urbano risente di vincoli: storici, strutturali e orografici che prevalgono sul semplice orientamento. Allo stesso modo, tracciata la strada diventa fondamentale che l’edificio si allinei su di essa e non indipendentemente da essa per seguire il sole. Così è sempre accaduto e così è bene che continui ad accadere, in Toscana come altrove;
2. le pendenze delle coperture devono essere funzionali al tipo edilizio ricorrente e non alle esigenze di un migliore rendimento dei pannelli solari o fotovoltaici;
3. le serre solari nella facciate degli edifici tendono ad alterare il corretto rapporto tra i pieni ed i vuoti di una facciata. Il loro inserimento è spesso complesso e richiama elementi architettonici quali il bow-window che non hanno richiami o riferimenti nella nostra tradizione.

Concludo, citando un carissimo amico “In Toscana così come il gotico ha dovuto addolcire la cuspide del suo arco acuto, la bioarchitettura rinuncerà alle serre nella facciata e ad orientamenti contradditori con il tessuto edilizio”.

Roberto Verdelli

12 commenti:

Anonimo ha detto...

Vien da pensare che sia il territorio a fare gli architetti.

Anonimo ha detto...

concordo nell'analisi; anche se non so che valore abbia la mia approvazione...
Da un paio di decenni vado girovagando per il nostro paese e un poco anche in Europa; e, usando il camper, tendo a preferire le strade secondarie.
Ho, in modo spontaneo e mi rendo conto semplicistico, messo a punto un sistema di valutazione della qualità del territorio, che risente della cultura, del benessere, della qualità delle amministrazioni, eccetera eccetera.
Quando attraverso un paese o visito un borgo o una città, cerco di valutare la presenza...dell'alluminio anodizzato. Esiste un rapporto direttamente proporzionale tra i doppi vetri color oro e il deterioramento urbano.
nella mia ignoranza, e sapendo del sistema vigente nei nostri comuni, per cui è necessaria una autorizzazione anche per modificare il verso di apertura della porta del bagno di servizio, mi sono sempre chiesto chi e perchè ha permesso un simile scempio.(un corollario alla mia teoria dell'alluminio anodizzato, riguarda campanelli e citofoni. Soffro, fisicamente, quando vedo interventi di ripristino e di restauro di edifici, magari pregevoli, ben fatti, certamente costosi, in cui le facciate sono deturpate da miseri campanelli di alluminio grigio con bottone di plexiglas.... certo è da stigmatizzare chi, dopo aver speso magri qualche centinaio di migliaia di euro, ne vuole risparmiare qualche decina, ma è mai possibile che nessun assessore abbia mai pensato di imporre un minimo di decoro a certe scelte, marginali certo, ma anche certamente facili ed efficaci !)
L'altra estate ho percorso quasi tremila chilometri nella Francia centrale (Périgord, Limousin, Savoia...), giuro che non ho visto una sola controfinestra in alluminio anodizzato ! Qualcuno sa se i nostri cugini hanno emanato leggi al riguardo? non soglio credere che si tratti solo del buon gusto eei committenti....

Salvatore D'Agostino ha detto...

Perfetto per una conferenza di geometri toscani.
Regolette semplice per non commettere errori, non sia mai che il finto toscano possa essere toccato.
Non è codardia, ma arroganza e presunzione, in una parola atteggiamento misoneista.
Perché in Italia c'è una frangia cospicua di padri che odiano i propri figli? Gli stessi padri che negli ultimi quarant'anni hanno distrutto il patrimonio culturale/architettonico del 'belpaese'.
Basta con queste semplificazioni da primo anno universitario, l'architettura può e deve essere costruita con il linguaggio e le tecniche del suo tempo.
Salvatore D'Agostino.

Pietro Pagliardini ha detto...

Come aveva previsto e scritto Verdelli questo testo ha una fortissima carica di provocazione proprio perché dichiara non solo principi generali ma regole chiare, precise, non interpretabili. Dice il "come" dopo aver detto il "perché".
E allora avviene che i non architetti vi si ritrovano e le condividono, o almeno ne discutono senza pregiudizi, nell'unica maniera possibile, quella del buon senso di chi guarda e giudica con la mente sgombra da teorie pre-costituite mentre gli architetti, non tutti spero, rischiano sempre di essere auto-referenziali cioè di giudicare l'architettura come se essa fosse separata dal territorio e dagli uomini.
E allora avviene che quelle regole diventano buone per i geometri, quasi fosse un'offesa, sottintendendo una "superiorità antropologica" dell'architetto "creativo" sul povero geometra di campagna che fa le casine con i tetti.
Ma, guarda caso, la gente vuole le casine con il tetto e con le pulsantiere dei campanelli non in alluminio anodizzato; e allora il popolo è bue e l'architetto è il demiurgo capace di mettere ordine in tutto questo.
Su questi primi 3 commenti c'è la riprova del fatto su cui insisto e di cui sono sempre più convinto cioè che I CONCORSI DEBBANO ESSERE GIUDICATI DAI CITTADINI.
Questo è il grimaldello per scardinare un sistema di potere culturale, una mentalità consolidata, a-critica e anche un po pigra che ha permesso e permette di considerare le città un campo di sperimentazione; peccato che ci sia ben poco da sperimentare visto che il corpo era all'origine sano (con la necessaria approssimazione, dato l'incontrollato sviluppo edilizio dagli anni '60 in poi) e si è poi ammalato ANCHE grazie a chi ha voluto intervenire con cure peggiori del male, che Verdelli indica lucidamente.
A Salvatore dico che il suo discorso è esattamente da ribaltare: sono i figli ad odiare i padri visto che loro ci hanno lasciato un patrimonio che noi stiamo velocemente e allegramente dissipando.
Non posso che ringraziare Roberto per questo post che lui, per modestia, giudicava non adeguato: un motivo di più per chiedergliene un altro di cui si senta pienamente soddisfatto.
saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Nel mio commento volevo evitare fiamme ma, visto che D’Agostino è entrato di baionetta, aggiungo quello che avevo cancellato: se un luogo bello genera architetti capaci di riproporlo allora chi partorisce mostri da che storia barbara, di cultura o di educazione proviene?
Potrebbe essere questione da psicologi. In verità ho iniziato pensando ad un altro tema:
Fra padri e figli… attenzione ai cugini.
Forse è passato inosservato il breve intervento di un sociologo al TG2 di ieri sera.
Col pretesto del ponte di Calatrava ha distrutto in quattro parole l'immagine, l'anima e la ragione di essere degli architetti; senza fare tanta distinzione fra buoni e cattivi ha generalizzato per dare l’impressione che ogni opera strana venga da questi, mentre nessuna menzione c’è stata per il buono (che in qualche misura deve pur esserci).
Sento odore di zolfo.
Allo stesso modo che la prepotenza ha umiliato chi era impotente ad opporsi a costruzioni indigeste si avverte ora una reazione; potrebbe vedersi alla ribalta una nuova generazione di "scienziati" che, intuendo l'appoggio del pubblico, per soddisfare il proprio orgoglio e vendicarsi dei torti, vorranno demolire ogni ordine precedente.
La solita storia della rivoluzione francese quando manca una roccia su cui costruire.

Ponti, grattacieli, rotonde e supermarket, banche, torri di cristallo, viabilità controllata, sostenuta, trasversale… mi sono rotto i maroni. Vado a vivere in Toscana, spero di trovare un buon “Geometra”.

Anonimo ha detto...

La società di oggi è una società complessa, incessantemente spinta da manifestazioni disordinate, aleatorie e caotiche verso il cambiamento, su questo credo che possiamo essere d’accordo, anche se prevedo che sarà l’unico punto sul quale ciò accadrà. Non si può valutare questo momento storico, e non solo in campo urbanistico-architettonico, secondo concetti chiusi e chiari, ancor meno se regionalisticamente mirati ad un limitato pezzetto di territorio del nostro bel paese: dobbiamo accettare il cambiamento, sia della realtà che dei codici di lettura con i quali approcciarla. La prossimità delle funzioni è morta da tempo, con la chiusura del laboratorio dell’ultimo artigiano e del negozio del fruttivendolo, ormai decrepiti e senza apprendisti ai quali tramandare un mestiere, son rimaste giusto le banche, sempre più numerose, ma quelle meglio sarebbe che non ci fossero, con le loro insegne sguaiate, l’arredo cimiteriale e le vetrine cieche, la piazza è intasata di macchine, tutti vogliono parcheggiare fuori dalle vetrine dei negozi, altrimenti se ne vanno in un centro commerciale, basta non dover camminare, “l’amorevole conservazione di tutto ciò che ci proviene dal passato” è appannaggio di una generazione che sta appunto passando.
Ora, può anche essere che la Toscana più di altri luoghi abbia forti peculiarità che si sono salvate nel tempo e che, in parte, vanno salvate nel futuro, ma non sarà certo l’unica isola felice che potrà sottrarsi al cambiamento. L’articolo evidenzia le caratteristiche emergenti del territorio, sia antropiche che naturali, e si sforza fino all’inimmaginabile per trovare soluzioni che le conservino, pur dovendo ammettere in più punti una sconfitta annunciata: “Non so come poter raggiungere tali scopi”, “Credo sia assai complesso arginare il fenomeno della mutazione del paesaggio agrario”, “E’ difficile capire come uscirne fuori”, non certo con le ‘cinque regole cinque’ di lecorbusiana memoria, un vero e proprio condensato di assurdo conservatorismo.
Dev’essere a quelle che hanno pensato, fortunatamente senza metterle in atto, i veneziani felici abitanti di una città di facciate, di case di merletto leggere come quinte, quando Baldassarre Longhena ha calato su una lingua di terra di fronte a San Marco la pesante massa bianca di quello che sarebbe restato nei secoli come il capolavoro del barocco veneto, quando le ville palladiane hanno cominciato ad invadere la campagna vicentina con una tipologia architettonica mai vista prima, quando qualche architetto un po’ fuori di testa ha per primo edificato una facciata dicroma, a strane strisce bianche e nere, sulla scorta dei racconti di navigatori dall’oriente …… pensa a quanta bellezza dovremmo oggi rinunciare se tutti avessero dettato le loro regole!

Vilma

Pietro Pagliardini ha detto...

Una piccolissima osservazione a Vilma: è certamente vero che la realtà attuale è complessa, però le risposte alla complessità, non possono essere complesse ma semplici per il fatto che più l'argomento è complesso, cioè difficile, cioè ha molte variabili, più bisogna procedere per approssimazioni successive. Si risolve un primo problema, apparentemente piccolo, ma intanto si è tolta una variabile e la complessità del problema diminuisce. Avrei su questo da portare esempi in politica che è il regno dell'indeterminatezza ma non è il caso.
Il punto è: siamo d'accordo a risolvere quel primo, semplice, elementare, basilare problema fissato in quelle regolette?
Certo il campione di risposte non è significativo numericamente però osservo che, esclusi l'autore e me che sono fazioso, siamo 2 a 2.
2 architetti e 2 non-architetti.
Saluti
Piero

Anonimo ha detto...

La questione "che sarebbe successo se avessimo usato certi metri di giudizio in passato" è, in effetti, la madre di tutte le questioni. Tutti siamo bravi, con il senno di poi....
C'è però da dire che alcuni delle novità geniali che oggi ammiriamo incondizionatamente, non sempre e non sempre da subito sono state riconosciute tali !
Forse gli ospiti dei Piccolomini a Pienza apprezzarono da subito la praticità della disposizione delle stanze che evitava inutili passaggi tra ambienti infilati uno dopo l'altro; ma in molti casi particolari a noi graditi (oggi) furono effettivamente mal accettati e talvolta nascosti, intonacati, ricoperti....
L'anomalia dei nostri giorni è che sembra un reato, un'offesa, dire che le case sghembe di Gehry non piacciono, o che certi grattacieli-cetriolo fanno ridere.
Mi pare che la materia di possibile non-gradimento, nel passato, avesse per lo più a che fare con particolari decorativi che non con elementi strutural-filosofici (se posso permettermi il parolone...).
Le facciate a righe dicrome certamente a molti non saranno piaciute (a me tuttora non mi convincono appieno), ma certamente l'interno di quelle chiese si capiva e si capisce a che serve; si capisce dove si deve guardare; la luce entra da dove è logico che entri, le colonne fanno il loro dovere....

Anonimo ha detto...

Dico la mia.
Possiamo dire che esistono linguaggi non verbali. Fra questi, elementi che si riferiscono all'intervento degli uomini nell'ambiente, stratificati, con spessore storico e di tradizioni.
Tutto questo, forma un corpus, che per certi versi è analogo a quello delle lingue vere e proprie.
Con queste ultime, noi facciamo tanti discorsi: ben fatti, mal fatti, intelligenti o stupidi. In ogni caso, per farli facciamo riferimento ad un linguaggio comune, pena non essere capiti.
Ora, può anche esserci una eccezione, una licenza poietica, che va oltre il linguaggio comune.
Ma sono eccezioni, che si legittimano solo con il risultato, e se non sono una carenza, una ignoranza del linguaggio comune, ma un arricchimento, un andare oltre, contenendolo.

Torniamo al linguaggio architettonico.
Si è fatto credere che si potesse "essere poeti" sensa saper scrivere "una paginetta in buon italiano".
Ogni geometra, architetto, ingegnere, si sente autorizzato a fare qualcosa di "originale", e tanto più se è incosciente ... se non si rende conto degli strumenti linguistici offerti, che gli consentirebbero invece un discorso bello, preciso e ordinato, invece che esprimere una sequela di rutti, peti, urli e parolacce, o semplicemente dei "prisencolinensinanciusol" ossia orecchiamenti lessicali di parole straniere di cui non si conosce il significato.

Quindi, scritti come quello che tu hai proposto, sono importanti, perchè servono a definire in modo chiaro il "quadro linguistico" entro cui "fare un discorso".
Certo, non possiamo parlare come Boccaccio.
Ma nemmeno cavarcela, se l'abbiamo al suo fianco, con botte di "vaffanculo" e "orrait, yeah".

Anonimo ha detto...

Attenzione a non confondere la conservazione del patrimonio architettonico e paesaggistico con l'inerzia e la fissità: da millenni l'uomo trasforma il territorio per renderlo più abitabile e adatto alle attività umane (dall'agricoltura in poi non si può più parlare di natura incontaminata) e pensare di mantenere forma e aspetto di un territorio in eterno è semplicemente ridicolo. L'evoluzione e il progresso hanno bisogno di continui miglioramenti e cambiamenti spesso radicali che, grazie a Dio, ci sono stati altrimenti vivremmo ancora in caverne o palafitte. La campagna toscana è bellissima ma questo non vuol dire che non si possa fare di meglio. L'assoluta, e a mio parere molto stupida, sfiducia che molti hanno nelle attività umane fa sì che oggi si blocchi ogni tentativo di cambiamento, ogni rinnovamento che nella storia ha sempre rappresentato un momento di slancio per l'umanità è oggi considerato un male. In questo senso dò ragione a Vilma quando afferma che bisogna opporsi all'assurdo conservatorismo che se fosse stato applicato in passato avrebbe impedito la costruzione di opere d'arte meravigliose, di patrimoni dell'umanità. Pensate che Parigi fosse meglio prima che Haussman la sventrasse per costruire ampi viali e bellissime piazze? Oppure che Eiffel non dovesse costruire la sua torre (che è diventata il simbolo di Parigi)? Le nostre città cambieranno in futuro, in meglio o in peggio dipenderà da noi, ma di sicuro cambieranno. A noi stà il compito di creare città ancora più belle e non è conservando allo sfinimento quattro mattoni vecchi che le miglioreremo.

Pietro Pagliardini ha detto...

a master. Le cose che tu dici sono tutte vere ma non tengono conto di un fatto essenziale:
la pressione edilizia che c'è oggi sul territorio, agricolo e urbano, è enormemente più forte e potente di quella che ha creato quel paesaggio e quelle città;
non solo, è anche molto più selvaggio, incontrollato, sguaiato. La coscienza spontanea che ha modellato quei luoghi non c'è ovviamente più e non è sostituita da una cultura progettuale forte, sicura, con una idea alle spalle capace di dare un'impronta che non sia la pura occupazione e la costruzione di volumi speculativi. L'architettura non ha individuato una strada, vi sono mille spinte diverse, è tutta basata sulla sperimentazione. La Toscana è un territorio troppo prezioso per consentire migliaia di sperimentazioni. Non si tratta di costruire qualche villa ma migliaia, di ville, non qualche azienda agricola ma migliaia di aziende agricole.
La natura ha sempre subito un effetto antropico ma quando questo diventa eccessivo si fanno le riserve per animali e piante.
La conservazione diventa perciò un valore nella nostra civiltà.
Perchè il WWF che protegge il gallo cedrone è considerato benemerito e chi vuol salvaguardare il paesaggio antropizzato,che è la nostra storia, deve essere considerato un bieco reazionario?
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

La pressione edilizia è stata forte dalla Rivoluzione Industriale in poi, ci sono state città come Londra o Parigi che sono passate da alcune decine di migliaia di abitanti a un milione, se non sono forti inurbamenti questi! Eppure Londra e Parigi sono due bellissime città, diverse dalle città medievali e rinascimentali che erano ma comunque migliori, perchè si sono adattate perd assorbire un gran quantitativo di persone. Condivido la sua preoccupazione per la pressione edilizia "selvaggia, incontrollata e sguaiata" che ha prodotto scadenti periferie urbane ma se altri hanno sbagliato in passato non è detto che gli errori debbano ripetersi. La storia è piena di errori urbani, che poi sono stati corretti o demoliti e non vedo perchè non si possa fare lo stesso oggi. Riqualificare quartieri degradati e periferie suburbane è infatti il principale compito di ingegneri e architetti di oggi, diminuendo la spinta espansiva delle città verso la campagna cercando invece di aumentare densità e qualità urbana delle aree già costruite. Quello che serve a mio avviso non è l'inerzia totale, che uccide un territorio e allontana gli investitori, ma una regolamentazione legislativa chiara e univoca, indirizzata verso lo sviluppo territoriale e non verso il blocco totale di ogni attività. La "coscienza spontanea" che ha creato quei deliziosi borghi medioevali in toscana (Monteriggioni è il mio preferito ma ce nesono decine) non c'è più perchè il progresso e lo sviluppo umano hanno bisogno di ambienti più strutturati e specializzati, l'habitat umano è cambiato e infatti quei borghi si stanno spopolando velocemente, e molti sono proprio diventati paesi fantasma, perchè la gente preferisce vivere in un ambiente diverso, sia per comodità che per esigenze sociali (non sono in tanti a preferire la vita da eremita). Concordo però nell'assoluto valore storico e architettonico di quei luoghi e nell'attrattiva turistica che offrono, ma se le amministrazioni non incentivano lo sviluppo di quei paesi, magari trasformati in resort di qualità o in attrattive turistiche (ristoranti, musei e negozi di prodotti locali per esempio), perchè troppo spesso si ha paura di "rovinare" quei "gioielli" antichi e si preferisce lasciarli degradare e crollare perchè ovviamente il comune o la regione non ha abbastanza fondi per salvaguardarli. Le più belle città e le più belle architetture sono sempre state frutto di sperimentazione, altrimenti non sarebbero divenute così belle se si fossero mantenuti i canoni del passato. Se le città fossero rimaste sempre medioevali non avremmo avuto Parigi o Madrid e se non si fossero applicate nuove architetture non avremmo mai avuto la Mole Antonelliana o la Torre Eiffel, Gaudì avrebbe rinunciato a costruire la Sagrada Familia o gli altri suoi capolavori se le amministrazioni gli avessero imposto una architettura già consolidata e sperimentata e figuriamoci se Firenze non avesse dato la possibilità a Brunelleschi di mettere in pratica le sue rivoluzionarie idee nella costruzione della cupola di Santa Maria del Fiore. Guardare solo al passato come età dell'oro, idolatrando gli antichi architetti e denigrando quelli di oggi è uno sterile atteggiamento nostalgico, impedisce ogni sviluppo e ogni progresso. Non mi sembra per niente positivo.

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