Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


Visualizzazione post con etichetta globalizzazione. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta globalizzazione. Mostra tutti i post

9 dicembre 2011

BRUTTI SIMBOLI PER UNA BRUTTA EUROPA

I simboli con cui le istituzioni si presentano ai propri cittadini e al mondo hanno la loro importanza, nonostante vi siano coloro che non vedono o non vogliono vedere questa relazione.
I simboli dell’Istituzione Europea sono senza tempo, senza luogo, senza identità, senz’anima e rappresentano, appunto, un immenso non-luogo istituzionale e politico. L'annullamento dell'identità dei popoli può essere causa di conflitti tanto quanto l'esasperazione identitaria.
L’architettura fisica con cui l’Europa si celebra, rappresenta al meglio, o al peggio secondo i punti di vista, la sua architettura istituzionale e politica: una pura astrazione avulsa dall’Europa delle nazioni e dei popoli. Per rappresentare tutti si è scelto di non rappresentare nessuno, si è scelta una generica e brutta modernità priva di contenuti che non siano quelli della finanza, che è economia virtuale privata della componente del lavoro e quindi della componente umana. Una finanza delocalizzata per un’istituzione che non ha radici nei territori e nel cuore della gente.
Niente a che vedere con il Palazzo del Parlamento Italiano o con quello del Quirinale o con l’Eliseo o con Il Palazzo di Westmister o con la Casa Bianca.

Le stesse banconote sono le più brutte del mondo, disegnate con architetture ideali e inesistenti in cui nessuno si potesse riconoscere per non dare il senso della primazia, ma sperando, chissà perché, che tutti ci si potessero riconoscere. La statua davanti al Parlamento europeo è una pessima e triste scultura che sostiene il simbolo dell’euro, a fronte della statua della Libertà che sostiene una fiaccola accesa, simbolo di fede e speranza. Quella € potrebbe stare bene sopra il forziere di Paperone, non al Parlamento. La speranza d’Europa è quindi una moneta più artificiale di qualsiasi moneta, già di per se stessa artificiale e convenzionale. Se cade la moneta cade perciò la costruzione politica e istituzionale nel suo complesso.
L’architettura dell’Europa ha rifiutato la bellezza perché non poteva fare diversamente. In questo possiamo riconoscere, amara soddisfazione, che i simboli scelti sono sincera espressione di una misera realtà costruita su un ideale di universalismo politico, economico e culturale di cui, ironia della sorte, l’attuale, anomala situazione politica italiana sembra quasi manifestazione e sottoprodotto.

Leggi tutto...

29 novembre 2011

GIORGIO MURATORE SUI GRATTACIELI

E' raro avere la capacità di condensare in poche righe la storia e contemporaneamente fotografare la forma grattacielo e la società che la esprime. Il prof. Giorgio Muratore ci è riuscito, anzi ci era già riuscito, visto che l'articolo è del 2008.
Davvero è difficile aggiungere altro alla denuncia di questa condizione che è, prima di tutto, politica ad un sistema di potere che oggi è molto più riconoscibile, vicino e incombente.


Leggi tutto...

15 agosto 2010

PARMIGIANO E IDENTITA'

Pietro Pagliardini

Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.

La globalizzazione è un fenomeno davvero complicato, che ha origine prevalentemente economica, ma che ha ricadute profonde nella società sotto il profilo politico, sociale, culturale ed anche sociologico, perché cambia la percezione che un popolo e i singoli individui che vi appartengono hanno di se stessi all’interno della comunità umana globale.

Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.

Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.

La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.

Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.

Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.

In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.

Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.

A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).

Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.

1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari
”.

Leggi tutto...

12 aprile 2010

LUOGHI, NON-LUOGHI E...PADANIA

Pietro Pagliardini

Vilma Torselli ha scritto un bell’articolo su Artonweb: La fine dei luoghi, che mi ha procurato una strana suggestione, probabilmente figlia della lunga e noiosa campagna elettorale e della consueta lunga e noiosa fase post-elettorale: un accostamento tra luoghi, non-luoghi e Lega. Sì, proprio quella, proprio il partito italiano più “legato” al territorio, più “legato” ai luoghi.

Mi rendo conto che coinvolgere l’ansia di comprensione di Vilma in un argomento così quotidiano, inflazionato e molto spesso sciatto come la nostra politica può sembrare irriverente e “fuori luogo” ma forse qualche relazione c’è e può aggiungere un tassello alla comprensione del rapporto tra luoghi e non-luoghi, soprattutto nella percezione del rapporto tra modernità e tradizione.

La Lega è un fenomeno, da tre decenni, assolutamente unico e straordinario per la molteplicità di temi diversi e apparentemente contrastanti che è capace di tenere insieme e sintetizzare in un amalgama fortissimo e vincente.
Dovendo indicare le parole d’ordine che caratterizzano questo partito/movimento culturale (aldilà dei noti slogan propagandistici) direi: localismo-globalità, identità-accoglienza, tradizione-modernità.
I termini di ciascun binomio vengono normalmente utilizzati dalla politica e dal mondo culturale, come opposti e anzi, come bandiere delle diverse “identità” politiche per distinguersi dagli avversari, ma nella Lega si coniugano, invece, miracolosamente bene.

In una logica europea in cui l’idea di nazione si depotenzia a vantaggio di un potere sovranazionale, le grandi ideologie al lumicino, la Lega ha compreso da subito, unico partito fra i tanti, che le radici sono necessarie e che queste andavano ritrovate in ambito locale. Evidentemente devono aver previsto che l’Europa non avrebbe avuto anima, se non finanziaria.
Infatti il nord è senza dubbio l’area economicamente più globalizzata d’Italia, ma allo stesso tempo quella che di buon grado accetta non tanto il bizzarro e pagano rito dell’ampolla delle sorgenti del Po (senza trascurarne tuttavia il forte valore simbolico di unità geografico-antropologica da ovest a est, dalle Alpi agli Appennini), quanto la valorizzazione delle tradizioni locali del dialetto, dei prodotti della terra, dei prodotti industriali, della laboriosità sempre in chiave antropologica, del paese, del campanile, dei luoghi insomma.
Paese e metropoli, così come la intende Vilma nel suo articolo, unite allo stesso tempo e non opposte. Luogo, non-luogo e anche super-luogo che convivono senza creare turbamenti o contraddizioni.

Fantasie o slogan propagandistici? Niente di tutto questo, ma il frutto di una lettura e di una analisi molto precisa di una realtà economica e sociale che caratterizza la “Padania”, e la riprova sta nel fatto che alla Lega non riesce, e forse non le interessa nemmeno, se non in termini di puro mercato politico, varcare gli Appennini, perché in quest’area geografica l’ambiente economico, sociale e culturale è completamente diverso: c’è vivacità d’iniziativa, c’è legame con il territorio ma tutto è molto più istituzionalizzato, tutto è più lento e burocratizzato e ogni attività è regolata più dal ritmo delle leggi, dal pubblico, piuttosto che da quello della società civile. La Toscana è terra di esportazione non solo di vini, di lardo di Colonnata, di prosciutto di cinta senese, di paesaggi da cartolina, ma anche di leggi, che le regioni del nord mutuano ma che poi sanno applicare con efficienza e senso di realtà, mentre qui diventano camicie di forza dalle quali non riusciamo a liberarci più, se non con nuove e peggiori leggi. Se c’è un luogo dove acquista pregnanza di significato il termine società civile, questo è la Padania, grazie alla Lega.
Non è, evidentemente, solo un fatto politico ma una “diversità” etnico-antropologica se le stesse leggi producono effetti totalmente diversi in luoghi diversi anche a parità di colore politico delle amministrazioni. Ma non la superiorità antropologica imposta e voluta dall'alto dalla sinistra, quanto una reale diversità di approccio alla realtà.

Ma ho divagato troppo. Colpa della Lega e della sua spesso ruvida ma coinvolgente anomalia. Unico partito che afferma con fierezza e convinzione la propria appartenenza ai luoghi ed anche alla comune religione cattolica, intesa più in senso di tradizione che di fede, e guai a chi tenta di minacciarla, ma che allo stesso tempo accoglie, con decoro, altri popoli con altre fedi, dando ad essi un lavoro e una casa ed esigendo, in cambio, conoscenza e rispetto dei luoghi e delle loro tradizioni. Unico partito capace di esprimere una vera e nuova cultura della modernità, non del modernismo, con l’operosità e l’efficienza dei suoi amministratori ma soprattutto del suo popolo aperto ai mercati globali e alla delocalizzazione, e della tradizione dei luoghi, in una miscela in cui è difficile capire quale sia l’ingrediente più importante, tanto l’uno è necessario all’altro. Un partito che risolve nella prassi il problema della multiculturalità e della convivenza.

La domanda che si impone, e che in altro modo anche Vilma si pone, è: sarà la Lega ad aver creato il mercato dell’identità locale intriso di globalità oppure c’è una esigenza profonda di radici, di appartenenza, di identità che non confligge affatto con la globalità economica e di cui la Lega si è fatta espressione politica, amplificandola?
Naturalmente io propendo per quest’ultima risposta, pur con tutte le incognite e i distinguo del caso. Propendo per questa ipotesi non solo per convinzione personale ma perché il legame tra la Lega e il suo capo, da una parte, e il suo popolo, dall’altra, è profondo e viscerale e non dettato da immediato interesse politico, almeno nella sua base stabile.

Se questo fosse vero ci dovrebbe essere una ricaduta in ambito urbano e architettonico, dato che la città è il luogo deputato ad accogliere le istanze prime di una comunità di persone e non può restarne indifferente. Quali possano essere le forme in cui queste istanze locali e globali si dovranno esprimere è tutto da scoprire.


POST SCRIPTUM
Ho parlato di noiosa campagna elettorale, ma non mi riferivo certo a quella della Lega. Ascoltando la rassegna stampa alla radio ho verificato che la Padania, il quotidiano di quel partito, ha ignorato quasi del tutto le notizie sulla par condicio, sui fatti giudiziari, sulle intercettazioni, su Santoro, ecc. ma ha sempre affrontato temi legati al territorio, ai suoi problemi, alle soluzioni possibili. Sembrava il giornale di un altro mondo. Quello vero.


Leggi tutto...

27 settembre 2009

APPENDICE AL POST PRECEDENTE

Stamani compro il Giornale e trovo un’intervista a Frank Gehry che viene, come si usa dire, come il cacio sui maccheroni: nel precedente post osservavo la consuetudine di molti architetti di risolvere i problemi in base alla banale discriminante progetto-buono, progetto cattivo, cioè architetto-bravo, architetto-incapace, ed ecco cosa risponde Gehry a Luigi Mascheroni, autore dell’intervista:d
Archistar! Chi cazzo l’ha inventata questa parola? Che cazzo vuol dire questa parola? L’avete inventata voi giornalisti e non significa nulla: io non sono un’archistar, sono un architetto e basta. Non esistono le archistar, esistono architetti che progettano e realizzano opere, a volte buone, altre meno buone, a volte funzionali, a volte catastrofiche dal punto di vista architettonico o da quello economico”. I suoi edifici (questo lo sintetizza il giornalista) sono tra quelli “buoni” (quindi lui è un bravo architetto).
Eccoci qua, dunque è il progetto che conta e perciò il progettista. Ogni progetto va bene purché sia un buon progetto. Continua, come dicevo, la fiera dell’ovvio, della tautologia, del non significante.
Però Gehry ha anche una sua filosofia e la spiega:
La contaminazione è inevitabile e inarrestabile. La fusione tra culture è arrivata a un punto tale che è impossibile opporvisi, bisogna seguire il flusso e cogliere gli stimoli”.
Relativismo assoluto e assolutamente strumentale all’affermazione precedente: va bene tutto, tutto va così perché c’è il flusso da seguire e non potrebbe andare diversamente, quello che conta è la qualità del progetto e del progettista.
Non risponde alla domanda sulle accuse mossegli da John Silber nel suo libro Architetture dell’assurdo ma dice che “l’architetto deve fare i conti con i luoghi e i tempi in cui vive e lavora”.
Mah!


N.B. Non posso fare il link all'articolo in questione perhè ancora non l'ho trovato in rete

Leggi tutto...

23 maggio 2009

PRATICHE PRE-MODERNE DELL'URBANISTICA MODERNA

Pietro Pagliardini

Una serie di commenti piuttosto critici agli ultimi tre post hanno affrontato il rapporto tra l’urbanistica, ma direi meglio l’abitare, e la libertà. In realtà credo che questi commenti fossero lo strascico di un precedente post, quello dell'Arch. Pier Lodovico Rupi, nel quale si sosteneva, in maniera esplicita, che le principali scelte urbanistiche fatte dal dopoguerra ai giorni nostri sono state influenzate da precise e consapevoli scelte politiche e ideologiche. Premesso che io condivido i contenuti di quel post, altrimenti non lo avrei pubblicato o almeno l’avrei fatto prendendone le distanze, non intendo proseguire quel discorso che mi sembra svolto in maniera egregia, esauriente e documentata dall’autore, quanto di riaffermare, più in generale, che la visione politica di una società si ripercuote in maniera consistente e diretta nella visione della città e nel rapporto, infine, tra stato e cittadini.

Non che io pensi che questa sia una mia grande scoperta, anzi direi che a me sembra così ovvio e scontato da apparire perfino banale doverci ritornare, ma sembra invece che questo aspetto sia dimenticato o rimosso al punto che, quando se ne è parlato, sono stato sospettato di farlo strumentalmente, in funzione di subdoli fini elettorali.
Giova perciò ricordare, per l’ennesima volta, che politica deriva da polis, città, e dunque la politica altro non è che l’arte di amministrare la città e in quest’arte rientra, a pieno titolo, la modificazione fisica della città la quale ha, ovviamente, influenza diretta sulla vita dei cittadini; perciò l’urbanistica, almeno per certi aspetti, è il metro per misurare il rapporto che esiste tra stato e cittadini e, in ultima istanza, per giudicare il grado di libertà che una società esprime.

Francesco Finotto, nel suo bel libro “La città aperta”, saggi Marsilio, 2001, ha mirabilmente sintetizzato questo rapporto stato-cittadini con questa frase ad inzio libro:
In che cosa consiste l'urbanistica moderna? Nella possibilità di condurre una pratica premoderna in una società moderna. Di fare una politica premoderna in una società moderna”.
La pratica pre-moderna è certamente quella che costringe gli individui a sottostare a limitazioni e controlli della collettività nell’uso del bene privato, in una società fortemente individualistica.

L’urbanistica moderna è il risultato del conflitto continuo tra il diritto alla libertà dell’individuo, che è anche diritto di disporre della proprietà privata, e l’esigenza di imporre limitazioni a questo diritto. Questo limite è connaturato all’idea stessa di città, che è spazio collettivo in cui si devono armonizzare interessi diversi, per cui esiste una soglia oltre la quale il diritto dell’individuo collide con quello degli altri e, infine, con la collettività. L’esempio più semplice è, ovviamente, quella parte del Codice Civile che impone determinate regole tra i confinanti.

Continua il libro di F.Finotto:
Si tratta di un vero e proprio rovesciamento di termini: prima era la libertà a doversi giustificare; la politica era di per sé legittima. Ora accade il contrario: è la libertà ad essere legittima; la politica, anche quella urbanistica, deve legittimarsi, fornire spiegazioni, darsi una teoria credibile, accettabile”.
Non si pensi, da queste poche righe, che il libro appartenga alla categoria dei libri militanti; è invece un serio esame storico delle varie teorie urbanistiche nate con la rivoluzione industriale e del conflitto tra la libertà dei cittadini e il disegno urbano.
Contrariamente ad altre realtà, quali ad esempio gli USA, dove esistono vaste aree il cui territorio non è sotto la giurisdizione di nessuna Contea o ente territoriale e in cui comunità di privati possono auto-organizzarsi (1), in Italia non esiste cmq di territorio che sia libero da tale giurisdizione e si può anche affermare che non è data città europea che possa ammettere una totale assenza di regole. Ciò che non è affatto naturale è il metodo con cui avviene questa limitazione.
Una breve citazione:
"La prima imposta (sulla casa), di questo genere fu il denaro del focolare, ossia un’imposta di due scellini per ciascun focolare. Per accertare quanti focolari vi fossero nella casa era necessario che l’esattore entrasse in ogni camera della casa. Questa odiosa visita rendeva odiosa l’imposta. Perciò, subito dopo la rivoluzione, essa fu abolita come segno di servitù". (Adam Smith- Ricerche sopra la natura e le cause della ricchezza delle Nazioni).
L’odiosa visita è esattamente l’atteggiamento prevalente nel rapporto tra stato italiano e cittadino. Uno stato occhiuto e invadente è preoccupato di ogni intervento, anche minimo, che viene fatto entro le mura domestiche. In realtà lo stato, attraverso norme di questo tipo, esercita un controllo sociale capillare proprio nello spazio sacro ed inviolabile di ciascun individuo, la casa, che la stessa Costituzione Italiana tutela, dichiarandola appunto inviolabile (art. 14 - Il domicilio è inviolabile).
Paradossalmente, tanto è curioso lo Stato di quanto accade dentro casa quanto è indifferente a ciò che avviene fuori di essa. Sembra avere dimenticato che “l’opera esterna non appartiene al proprietario quanto alla città”, e così ha fatto norme che rendono superflua la Commissione Edilizia e ha inventato la DIA che non è soggetta a valutazione di merito. Le procedure burocratiche sono aumentate a dismisura ma l’unica che è stata tolta è proprio l’ultimo residuo di un passato capace di dare senso alla scelta di condivisione del progetto, da sempre, specie per le opere importanti, appannaggio della civitas.
Controllo sociale in casa, indifferenza al valore della qualità della città.

C’è, inoltre, l’esclusione dei cittadini dalle scelte importanti per la città.
Almeno dal 1200, le principali scelte per quelli che Marco Romano chiama i “temi collettivi” non sempre sono state imposte alla città, anzi spesso sono state rimesse nelle mani dei cittadini in varie forme, tra cui quella del concorso. Osservo dunque che nella società pre-moderna l’urbanistica presentava qualche segno di maggiore modernità che non in quella moderna.
Senza voler mitizzare il passato non si può cioè non constatare che la “forma” della città era decisa con metodi più democratici di quanto avvenga oggi.

Sul piano della libertà individuale, il fallimento dell’urbanistica moderna è dovuto anche all’imposizione dall’alto delle idee elaborate da architetti ed urbanisti che, dal Bauhaus in poi, passando per Le Corbusier, sono riusciti ad imporre l’idea di essere loro gli unici depositari della conoscenza e della verità. Questa cultura architettonica elitaria, che ben si sposa oggi con la globalizzazione economica e culturale, configura l’idea di un potere non democratico e rifiuta con disprezzo la possibilità che i cittadini abbiano qualsiasi capacità di decidere.
Scrive Le Corbusier in una lettera del 1946:
L’alloggio è lo specchio della coscienza di un popolo. Saper abitare è il grande problema, e alla gente nessuno lo insegna”.
Anche Platone nel Politico afferma:
Non crederemo certo che sia possibile che una moltitudine in una città possa acquisire questa scienza?..Una moltitudine di persone di qualunque genere non diverrà mai in grado di amministrare la città con intelligenza per avere acquisito tale scienza”.

La sintonia è perfetta e dunque di pre-moderno in campo urbanistico non c’è solo la limitazione dell’uso del bene privato ma c’è anche il patto tra sapere e potere, appannaggio degli esperti e della politica, e da cui il popolo è escluso in quanto ritenuto ignorante.

Di un’applicazione diretta e grossolana di questo pensiero ne è testimonianza l’uso invalso nella Russia di Stalin di costruire abitazioni con servizi collettivi e comunitari, al punto che i singoli alloggi erano progettati privi di cucina, allo scopo di fare forzosamente convivere insieme gli abitanti anche in uno dei momenti più intimi della famiglia, quello cioè dei pasti, annientando così la libertà individuale ma anche scardinando la famiglia stessa, annullata e assorbita nel bene supremo che è la collettività, cioè lo Stato. Un sistema che è stato veicolato dalla critica urbanistica occidentale al mondo come una forma superiore di vita collettiva, suffragando questa idea con il fatto che essa è nata proprio nell’occidente stesso, dove analoghi concetti furono poi applicati e magnificati nell’Unitè d’habitation di Le Corbusier.

Ecco dunque che si giustifica, all’uscita della proposta di legge del Piano Casa , la reazione immediata e viscerale di alcuni governatori, con il loro: “Noi non lo adotteremo”. Perché tanta reattività, poi in parte rientrata, pena la defenestrazione da parte della base? Perché il diritto automatico all’ampliamento del 20%, piccola cosa in verità, mette in discussione il potere di controllo della politica su milioni di proprietari di case. Il piccolo proprietario avrebbe ottenuto, probabilmente, lo stesso incremento nel corso del tempo, al piano regolatore successivo, ma passando, in questo caso, per tutta una serie di procedure in cui sarebbero stati i vari enti ad elargire, al termine di quell’estenuante rito collettivo che è la trattativa del piano, durante il quale il cittadino viene portato ad essere totalmente alla mercé della politica e della tecnica (in genere architetti e geometri).
In questo senso il Piano Casa ha destabilizzato uno schema politico consolidato, è stato cioè un gesto dal forte significato liberatorio.

Se dunque è inevitabile che l’urbanistica sia praticata attraverso strumenti pre-moderni è anche vero che si tratta di dosare tale strumenti in modo tale che si ribaltino i ruoli, e l’onere della prova, per poterli applicare, spetti allo Stato. Deve insomma avere fine l’atteggiamento punitivo che caratterizza il tono, lo spirito e la sostanza di molte leggi.
L’interesse pubblico esiste in campo urbanistico ma le limitazioni all’uso del bene, e dunque alla proprietà privata, per essere accettate devono essere fortemente motivate da un interesse pubblico e trovare contropartite in efficienza dell’amministrazione pubblica, in incentivi e in partecipazione dei cittadini alle scelte fondamentali della città.

Perciò la città deve essere chiamata a prendere le decisioni importanti, come è avvenuto, ad esempio, per la tramvia in Piazza Duomo, a Firenze. Possono essere trovati anche metodi più informali ma ciò che conta è che passi questo principio: la città appartiene a tutti i cittadini e non solo ai politici e tanto meno ai gruppi economici e agli architetti; nel caso di nuovi importanti insediamenti, di opere pubbliche, di progetti di concorso, si affianchi al giudizio degli esperti quello dei cittadini, senza bollare la democrazia come populismo dato che il suo contrario è proprio l’autoritarismo platonico.



Nota 1) vedi questo link all’Istituto Bruno Leoni sul caso Partigliano:

http://brunoleonimedia.servingfreedom.net/Focus/IBL_Focus_134_Boccalatte.pdf

Leggi tutto...

10 gennaio 2009

EXPO 2015: LA “CITTA’ IDEALE” DI MOZZONI

Pietro Pagliardini

Sul Corriere della Sera leggo un articolo di Guglielmo Mozzoni, architetto, il cui nome confesso essermi fino ad ora sconosciuto, certamente per mia ignoranza.
Immagino subito che non deve essere giovanissimo dal paragone che fa tra le cose difficili della vita e l’Expo, in cui si legge l'appartenenza ad una generazione che apprezza espressioni goliardiche e un po’ rodomontesche, e ciò me lo rende simpatico.

Mozzoni si rivolge al Sindaco di Milano e presenta una intrigante proposta per l’EXPO2015 che mi appare come una piacevole novità.
Dice Mozzoni: “L' importante per una vita in comune, e quindi per l' Expo (anche se nessuno sembra aver voglia di dirlo), è poter vivere oggi in maniera adeguata alle nostre conoscenze attuali, risolvendo in primo luogo il problema urbanistico. Anche perché l' urbanistica racchiude in sé i problemi della vita: dal lavoro alla logistica, dalla fame alla cultura e all'ambiente, dall'inquinamento alla capacità di resistere ai sismi, dalla captazione alla produzione di energie alternative”.

Questa proposta mi sembra una ventata di aria nuova nel panorama delle ultime edizioni delle Esposizioni Universali, fatte di stands, oggetti provvisori e inutili architetture tutte uguali in cui per riconoscerne la provenienza occorreva leggere il cartello, oppure riconoscibili solo dall’autore, il solito “maestro” o “archistar” o aspirante archistar di belle speranze, quasi tutte destinate poi all’abbandono e all’oblio.
Invece Mozzoni propone una cosa seria che ha il solo difetto di chiamare “città ideale”, ma che io ho immaginato come una sorta di “manifesto“ dell’urbanistica cui egli attribuisce giustamente un ruolo primario e necessario per la città, prima dell’architettura, la quale sembra invece diventata, da anni, la creatrice delle città stessa.
Proseguo nella lettura e qualcosa non mi convince ma, avendo letto l’articolo in Corriere.it, non ci sono immagini di questa “città ideale” e non posso capire bene.
Conclude offrendo il suo progetto, a cui dice di lavorare da anni, e si capisce, tanto è ingenua, che è un’offerta sincera, fatta per coronare un lungo lavoro in cui Mozzoni crede e spera, comprensibilmente, di vedere concretizzato.

Cerco subito su Google notizie di Guglielmo Mozzoni e scopro che ha la bella età di 94 anni. Letta anche la biografia ne apprezzo ancora di più l’energia e lo spirito di servizio.
Cerco le immagini della città ideale, le trovo e ….… rimango basito: vedo una sfera di dimensioni grandiose (circa 250 m di diametro) intorno a cui si avvolge una specie di nastro a spirale sul quale si intuisce esservi collocati edifici vari. Approfondisco meglio: ci sono siti e blog che ne parlano, vedo disegni quasi a fumetti di fantascienza, belli in sé, freschi e colorati ma la mia delusione resta grande.
Trovo poi, sempre sul Corriere, un commento molto positivo su quel progetto da parte di Mario Botta. Se alcune considerazioni sono condivisibili, non comprendo le conclusioni: “Si configura quindi per Milano un' «utopia concreta» da proporre al mondo, irripetibile al di fuori dell' evento straordinario dell' Expo; un unicum che si allontana con forza dai modelli offerti dall' attuale globalizzazione. Per le generazioni future Expo 2015 potrebbe divenire così il segno di una nuova speranza urbanistica”.

A me sembra invece che siamo esattamente dentro il modello offerto dall’attuale globalizzazione”, dove la sola differenza consiste nel fatto che a tanti oggetti sparpagliati e indifferenti al contesto, ve ne è uno solo, una macro-struttura, che ne contiene altri. E’ una logica comunque anti-urbana, è l’urbanistica risolta con oggetti, è una sintesi da romanzo di fantascienza della rappresentazione di una città del futuro.

Perché poi il futuro debba essere così rappresentato in forma utopica mi sfugge completamente, tanto più che non credo alle previsioni futurologiche di nessuno, figuriamoci a quelle degli architetti. Quale motivo c’è per andare a fare invenzioni del genere?
Se è vero ciò che dice Mozzoni in premessa, e secondo me è vero, allora la novità dovrebbe essere sì disegnare una città manifesto, ma senza inutili fantasie utopistiche, piuttosto mostrando al mondo che Milano, l’Italia è ancora capace di proporre una città che il mondo stesso ci deve invidiare, come ci invidia Roma, Venezia, Firenze e le migliaia di borghi sparsi su tutta la penisola e le isole, certamente reinterpretato alla luce delle tecnologie che devono caratterizzare una Esposizione Universale del 3° millennio, ma che poi, come dice Mozzoni stesso, possa essere abitata realmente e non rimanga uno spettrale cumulo di rovine.

Insomma l’EXPO2015 dovrebbe essere una vetrina dell’Italia non solo con la Ferrari, la moda, il design, lo spumante e i prodotti alimentari locali, ma soprattutto con l’urbanistica che sia capace di coniugare la storia della città, per la quale il mondo ci apprezza, con la tecnologia. Per fare un banale paragone: qualcosa di simile alla insuperata cerimonia inaugurale delle Olimpiadi di Atene, in cui si fondeva una grande capacità tecnologica alla rappresentazione e al richiamo della storia e dell’arte greca. Riuscire a fare una sintesi della città italiana che serva di esempio anche per il nostro paese e per i nostri amministratori pubblici e i loro architetti, questa sarebbe la novità!

Per questo è necessario fare una città vera, con un tessuto viario a terra e non per aria, una città che funzioni, che limiti l’uso dell’auto, che non obblighi a lunghi spostamenti casa-lavoro, che preveda distanze pedonali contenute, che ricrei la strada con i fronti chiusi, la “rue corridor” che Le Corbusier voleva uccidere e ha ucciso, che preveda spazi di gioco per i bambini senza pericoli, che abbia, soprattutto, una quantità consistente, e collocata nei luoghi nodali giusti, di temi collettivi che siano capaci di dare dignità e senso di appartenenza ai suoi abitanti; dimenticando gli scenari da Flash Gordon.

Quanto al fatto che Botta apprezzi questa proposta, forse è dovuto al fascino che sercita su di lui la forma sferica in sé, vicina alle geometrie elementari, cubi, tronchi di cono, cilindri, semi-sfere di cui Botta fa largo uso. Un motivo in più per capire che siamo sempre nel campo delle forme architettoniche astratte e non nel campo dell’urbanistica.

Mi spiace per l’architetto Mozzoni, ma su quel nastro a spirale si può vivere solo a Dubai per una settimana di vacanza organizzata da un Tour operator, con il casinò al centro, i negozi in cui lasciare lo stipendio, qualche spa e quant’altro, non certo per trascorrere la propria vita normale.
Resta valida tuttavia l'idea essenziale di Mozzoni che dovrebbe essere l'urbanistica a guidare l'Expo.

Dice Nassim Taleb nel suo “Il Cigno nero”: “Non riuscirò mai a conoscere ciò che è sconosciuto perché, per definizione, è sconosciuto. Tuttavia posso sempre indovinare quali conseguenze può avere su di me, ed è in base a questo che devo prendere le mie decisioni”. Ebbene, nessuno può affermare con certezza se in futuro l’uomo sarà costretto a vivere appollaiato ad una città sferica ma possiamo dire, fin da ora, che le conseguenze di questo distacco da terra non sarebbero affatto positive: un motivo in più per scartare questa possibilità.

Se poi il futuro sarà come prevede o piace a Mozzoni e anche a Botta, vorrà dire che avranno avuto ragione loro, ma ne dubito e comunque non credo che lo potremo verificare mai né io, né Mozzoni, né Botta, né chi ha letto questo post.


N.B. Non posso riportare foto della città ideale di Mozzoni perché le immagini sono protette da copy-right.


Riporto però alcuni link:
Su Archiwatch questa proposta di città ideale aveva fatto un passaggio: http://www.archiwatch.it/2006/03/02/nel-mondo-di-papalla.html
http://www.cittaideale.it/
http://cittaideale-gm.blogspot.com/


Leggi tutto...

11 dicembre 2008

SOCIETA' LIQUIDA, CITTA' SOLIDA (2)

Concludo con questa 2° parte il resoconto del convegno URBS2008.
Essendo già molto lunga la trascrizione degli interventi di Paolo Portoghesi e di Orazio Campo, non aggiungo alcun commento, solo una precisazione: purtroppo nella registrazione di Portoghesi alcune parti non sono ben comprensibili al registratore e quando questo avviene ho inserito dei puntini. In alcuni casi avrei potuto interpretare ma ho preferito lasciare il compito a chi legge.

PAOLO PORTOGHESI
Bauman è un analista della contemporaneità e ha la forma mentis di chi leggendo il presente dà anche un’idea del futuro. …. Ha una visione che si basa sulla prevedibilità: è un errore perché i secoli hanno dimostrato una capacità di contraddizioni interne, di cambiamenti che rendono la storia assolutamente imprevedibile, fanno parlare i filosofi di destino, cioè qualcosa che supera la prevediblità, il meccanismo di un fenomeno nato ad espandersi all’infinito. Per esempio la mondializzazione....: è proprio sicuro che sia la prospettiva del futuro? Secondo me è legittimo farsi la domanda soprattutto di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo in questi giorni. In fondo la mondializzazione è stata creata da una idealizzazione del mercato. I produttori si sono mossi alla ricerca del minimo costo di produzione. Questo ha prodotto una vera e propria rivoluzione nei rapporti. Con questo può darsi che continui all’infinito, può darsi anche che abbia una inversione.
D’altra parte noi parliamo di architettura che è una disciplina che ha sempre avuto molta difficoltà a sposarsi con la democrazia. Per esempio l’architettura moderna è nata proprio come rivolta di una piccola minoranza di persone contro la stragrande maggioranza della borghesia dell’ottocento che era arretrata nel gusto e continuava per la sua strada ad autocelebrarsi. Poi l’architettura moderna ha scoperto la democrazia e si è resa conto che i bisogni, i desideri delle persone sono importanti, non basta soltanto imporre il proprio punto di vista di minoranza. Questo discorso della maggioranza e della minoranza è importante finché la democrazia si basa sulla maggioranza io trovo che sia legittimo che l’identità di base di una città continui a svilupparsi e non si debba invece arrestare di fronte a questa tematica del dialogo. Il dialogo è necessario io ho costruito una moschea e sono felice di averlo fatto perché ho visto come abbia risolto dei problemi concreti
però io ho cercato di costruire a Roma una Moschea romana. Non mi sono fatto imbavagliare dal discorso del dialogo che ha un senso finché è sincera e concreta, quando invece diventa una volontà diciamo pure politica, tra virgolette, rischia moltissimo.

Prima di decidere del futuro della città bisogna soprattutto guardare alla città, ascoltarla. Ascoltare la città nel suo divenire storico è fondamentale. In fondo il futuro non è altro ciò che noi costruiamo con le nostre mani adoperando i materiali necessari …. Roma, per esempio, è una città in cui noi possiamo vedere mummificate, sintetizzate tracce di epoche storiche diversissime e il dialogo di Roma è di essere una città eterna …..mantenendo ovviamente una coerenza che non ha nulla a che fare con le forme…..
L’architettura è legata alla terra. Quando si parla di liquidità dell’architettura si parla di qualcosa di paradossale perché il liquido tende a spandersi dappertutto. I fiumi sono in un certo senso il tessuto formativo della terra e rappresentano un’ambiguità alla permanenza e alla stabilità del luogo.
Io penso che, se si deve pensare al futuro di Roma, la cosa più sbagliata sia quella di cercare di adeguarsi, senza uno sguardo critico, a ciò che sta succedendo in tutto il resto del mondo. In questo modo Roma potrà essere soltanto l’ultima degli ascoltatori senza poter in nessun modo intervenire e dire una parola propria.

Per questo secondo me è molto importante che si riportino .... dell’architettura in italia che è stata un’architettura che ha accettato l’influenza e ha assorbito criticamente, tranne forse il più celebre architetto della vicenda italiana, Terragni, un personaggio che ha vissuto l’identità italiana dell’architettura moderna in modo drammatico, profondo….

Ben vengano le riflessioni dei sociologi che ovviamente sono uno strumento che ci consente di conoscere meglio la (realtà) ma non pensiamo che la mondializzazione possa essere un modo per sfuggire alla grande responsabilità di opere per la città come quelle.
Abbiamo visto chi è venuto da fuori, abbiamo visto Meier, abbiamo visto Zaha Hadid: io francamente non credo che abbiano aggiunto granché. Sono stati scelti gli architetti che alle sorti di Roma erano totalmente disinteressati. Se noi avessimo scelto Louis Khan, ad esempio (applausi prolungati in sala) se avessimo scelto anche Robert Venturi il risultato sarebbe stato molto, molto diverso.
Roma è una città che continua a insegnare architettura a tutto il mondo, noi volenti o nolenti. Chi studia architettura si trova di fronte a questo straordinario fenomeno di un momento unificante che ovviamente è proprio il contrario di questo frammentarismo.
Mi dispiace di non poter colloquiare (Nota: si riferisce al fatto che non è previsto dibattito con il pubblico).

*******************************************

Interviene a questo punto la coordinatrice che torna a Bauman e osserva che, se è vero che lo stesso Bauman non ha mai parlato di liquidità dell’architettura, è anche vero che esistono fenomeni, sociali più che di cultura architettonica, come la provvisorietà di intere città (si riferisce a baraccopoli e favelas) che è in fondo una forma di liquidità dell’architettura. Domanda che relazione c’è tra questi fenomeni e l’architettura.

ORAZIO CAMPO
A questo punto risponde Orazio Campo, che riassumo velocemente:
L’architettura si è mossa distruggendo quei punti fissi che erano accettati. Questo cambiamento ha portato l’architettura ad essere moda e hanno portato una serie di problemi nelle città. Campo non parla di linguaggi architettonici ma, ad esempio, Meier a Roma si è posto con grande arroganza come a voler cancellare ciò che esiste e rendersi protagonista. Un altro aspetto è che questi tipi di interventi sono insostenibili economicamente. Questi interventi si portano dietro un costo in termini di cubature sempre maggiori. E cita il caso delle torri di Renzo Piano all’EUR. 

Cita inoltre il caso del Ponte di Venezia che è costato quattro volte il preventivato e una durata quattro volte superiore a quella prevista. Ciò avviene in deroga alle leggi che impediscono che questi fatti possano avvenire. Se invece l’opera è griffata questo può succedere. Allora che si dichiari apertamente che in presenza di opere firmate da archistar si può tranquillamente deregolamentare sia in termini di parametri urbanistici che di costi.

Sul problema dei centri commerciali racconta di come questi si stanno modificando e stanno trasformando arte della loro volumetria in residenziale, cioè stanno nascendo veri e propri quartieri con un mix di funzioni, alla socialità della piazza e delle strade. Dunque attenzione alla sperimentazione perché questa è “fatta sulla pelle dei cittadini, e penso al Corviale, che devono poi sperimentare quanto qualche architetto fantasioso ha pensato”.
Orazio Campo conclude con una battuta sui concorsi i cui giudizi risentono del continuo scambio delle parti tra giurati e concorrenti (grandi applausi a questa affermazione) e propone che le giuria non siano costituite solo da architetti, ma anche da altri soggetti quali i cittadini, qualcuno rappresentativo, ecc.

Devo dire che non potrei riportare il testo esatto di quanto detto da Campo perché è stato più volte coperto dagli applausi in sala, sia sul tema dei concorsi, che sulla responsabilità degli architetti, che sul tema delle periferie.

SESSIONE POMERIDIANA-FARE E DISFARE

PAOLO PORTOGHESI
Partiamo da Roma come esempio che conosco meglio. Per molti anni non si è pensato a sostituire alcunché ugualmente è sorto quello che era opportuno conservare ogni momento della vita architettonica della città congelando il centro storico poi ampliando il circuito del centro storico e quindi in un certo senso imbalsamando la città e ci siamo battuti perché questa intangibilità della città che contraddice la sua storia fosse eliminata quindi in molte occasioni io ho difeso il diritto di entrare nel centro storico soprattutto per risolvere i problemi che erano rimasti insoluti. Quando Carlo Aymonino era assessore al centro storico io accolsi con entusiasmo quella sua idea di risolvere i problemi del centro storico lasciati insoluti dalle demolizioni dell’epoca fascista, i famosi buchi. Il progetto fu drasticamente interrotto dal cambio di amministrazione, per cui non si può giudicare per i risultati che ha avuto, si può giudicare solo attraverso le intenzioni. 
Di questi buchi pochissimi poi sono stati riempiti. Recentemente quello che sta ai piedi del Pincio dove si imbocca la galleria …. Quella ferita è stata riempita nel modo più banale e insignificante.
Contemporaneamente stanno avvenendo sostituzioni di notevole peso come quello dell’Ara Pacis in particolare … 
Vorrei dire questo: che mentre ostinatamente continuo a difendere il diritto dell’architettura moderna di intervenire all’interno, nel corpo della città e della necessità che questo avvenga, devo dire che nessuno degli episodi recenti mi sembra (l'abbia fatto) in forma accettabile
E in effetti queste sostituzioni sono state basate su un’indifferenza verso Roma e come ho detto questo mattina, come Roma sia una città che pretende da chi si propone di trasformarla una coscienza profonda. Per ammettere una sostituzione ritengo sia indispensabile questa conoscenza analitica, questo tentativo di entrare in sintonia.

In effetti Roma è una città che continua ad essere maestra di architettura. La lezione di Roma, diceva Le Corbusier, è un lezione difficile.
Tuttavia anche Le Corbusier che la chiama rischiosa l’ha accettata: Chandigarh è un’ipotesi di città che tiene conto di questa lezione. Indubbiamente quelle che sono avvenute (le sostituzioni) appaiono clamorosamente indifferenti, nel senso che nemmeno entrano in contrasto, perché tutto sommato è una lezione che si può rifiutare e probabilmente potrebbe essere anche esplicativo come la lezione di Roma ha operato all’interno del tessuto. Questo rifiuto però deve essere un rifiuto intellettuale, con una sua forza, una sua chiarezza che non appare nell’intervento di Meier.

Ma visto che siamo all’EUR vorrei parlare della tragedia dell’EUR che è nata per ospitare le Olimpiadi della Civiltà, così furono definite a quel tempo, cioè un’Esposizione Universale tutta puntata sulla cultura e in cui si doveva esporre all’interno di un pezzo di città che tenesse conto della grande tradizione. L’ipotesi di Piacentini, come tutti sanno, è nata politicamente, sbarazzandosi dei suoi compagni di strada, Piccinato e Pagano, che tendevano all’internazionalità e quindi avevano proposto un Piano regolatore molto simile a quello delle altre città del tempo. Piacentini ebbe la meglio anche perché soffiava il vento del nazismo, dell’alleanza tra l’Italia e la Germania, ma se guardiamo l’EUR dalla distanza ormai storica, dobbiamo riconoscere che questa occasione, non per realizzare un compromesso tra razionalisti e tradizionalisti, ma invece questa occasione affidata nelle mani di un tradizionalista, più o meno illuminato a seconda dei tempi, molto sensibile alle politiche, ha dotato la città di uno dei suoi elementi di modernità.

Paradossalmente se c’è un quartiere a Roma che può rappresentare la modernità è proprio l’EUR nel senso che somiglia poco alla città storica, prende lezione soprattutto dalla città romana antica e per certi aspetti è estranea al carattere di cordiale tessuto storico, però ha una sua forza d’immagine, una sua complessità, una sua logica interna indiscutibile.

Una logica interna che oggi viene turbata da una serie di sostituzioni sbagliate, anche se credo che siano state fatte con la buona intenzione di continuare la tradizione di questo quartiere di avere ospitato funzioni importanti e di avere svolto rispetto alla città una funzione di centro (…..). Innanzi tutto devo dire che mi ha meravigliato della demolizione del Velodromo che era un’eccellente opera architettonica di cui il CONI sentiva più il peso che la fierezza e che, gradualmente lasciandolo degradare, ha creato le condizioni per la sostituzione che avrebbe potuto avvenire in tempi diversi senza quella implosione, paradossalmente vietata dalla sovrintendenza che di solito ha un grandissimo potere ma poi autorizzata per ragioni di ordine pubblico. Così abbiamo perso un edificio importante per la tradizione moderna per un cavillo burocratico: c’erano già le cariche per le esplosioni e così per misure di protezione dell’incolumità pubblica si è distrutta una testimonianza significativa.

Ancora più grave è secondo me il fatto che le torri del Ministero dell’Economia siano state distrutte e la possibilità che vengano sostituite da un edificio che non ha le logiche previste dal piano dell’epoca ma adotti una tipologia invece completamente diversa. Questo dopo che è avvenuto, qualche anno fa, un altro errore urbanistico: c’era un terreno dell’EUR destinato a quei servizi di carattere pubblico che mancano al quartiere il quale, proprio per essere nato in funzione di un’Esposizione Universale, manca di quel tessuto di carattere commerciale e anche di carattere …., fondamentale per un quartiere che ha ormai assunto anche una forte impronta residenziale.
Questo unico terreno rimasto per realizzare i servizi necessari per la vita del quartiere è stato sacrificato ad una duplicazione del Palazzo dei Congressi…..
(la Nuvola).
Oggi la demolizione delle torri …qui c’è un errore clamoroso secondo me perché questo quartiere ha una sua logica che è stata fondamentalmente seguita negli anni sessanta, anche perché Piacentini ….. ha perseguito la continuità della gestione ed era quindi una visione abbastanza coerente e chiara di una impostazione della struttura urbana.

L’eliminazione delle torri indubbiamente, che hanno tra l’altro una compensazione di carattere volumetrico nell’ex Ministero delle Poste, dice veramente come la mancanza di un dibattito, di una assimilazione, anche forse la mancanza di una partecipazione reale possa aver creato una situazione in cui la sostituzione, valore sicuramente positivo per la vita di una città, si è realizzata non soltanto lasciando quella ferita inevitabile che la sostituzione comporta , ma dando a questa ferita ha il carattere di una mancata sensibilità nei confronti di un forte significato di un certo assetto che la città aveva acquisito.

Ecco quindi per concludere quello che secondo me è utile acquisire: per una città come Roma il problema della conservazione è un problema vitale. Roma non sarebbe eterna se non fosse un esempio di continuità e discontinuità nello stesso tempo, una città che ha saputo rinascere (molte) volte, sempre con una certa coerenza, non nel rispetto assoluto dell’eredità ricevuta che è casomai una conquista moderna ma nella capacità di reintegrare la propria etnia, la propria identità, i valori delle epoche precedenti, anche quando questi valori sono stati rovesciati come è avvenuto …. che rappresenta da una parte proprio la negazione dei valori logici dell’architettura precedente, dall’altra una continuità materiale impressionante che ha poi il suo culmine nel ….. Edifici di Roma che parlano più chiaramente raccontandoci questa storia di continuità.

Ecco quindi che emerge la necessità che la città ridiscuta sulla propria identità e dia spazio a delle sostituzioni che non siano avventate, che non contraddicano l’esigenza fondamentale di conservare il significato del valore della varie parti della città.

Sicuramente ci sono a Roma quartieri che potrebbero essere sostituiti senza problemi ma, se oggi si dovessero identificare sono sicuro che si commetterebbero degli errori perché non è mai stato fatto un lavoro analitico di individuazione. Le sovrintendenze che in fondo in molti casi hanno negato autorizzazioni, hanno però assunto spesso atteggiamenti incoerenti e non hanno soprattutto mai continuato quel lavoro meritorio che era stato iniziato alla fine degli anni trenta di catalogazione degli edifici di grande significato storico.

Indubbiamente in questi ultimi trent’anni il lavoro di ricerca e di acquisizione storiografica e di conoscenza è stato di una quantità impressionante e quindi oggi ci sono le basi per poter dare un giudizio sul grado di sostituibilità delle varie parti della città. E’ chiaro che nessuno si è preoccupato di fare questo e io credo che sia giusto invitare le autorità responsabili ad aprire il dibattito e cercare di identificare con sicurezza quelle parti della città in cui la sostituzione è propizia. Il dialogo, per dare una risposta alla domanda di case a basso costo di cui si discute in questi giorni, potrebbe essere anche un’occasione per realizzare questa individuazione delle parti eseguibili senza danno, sempre in funzione di un discorso fondamentale che è quello sulle infrastrutture perché Roma è una città sicuramente che sa ospitare e assimilare molti valori della contemporaneità ma quel sacrificio di tempi umani che implica la tragedia del traffico è un elemento di fronte al quale non si può assolutamente assumere un atteggiamento di indifferenza.
Basta pensare all’episodio della tangenziale urbana, all’errore di fare una metropolitana all’interno del centro storico allungando enormemente i tempi e adottando tecnologie sbagliate.

Per parlare anche di sostituzioni io ho visto sparire la settimana scorsa una quindicina di pini secolari messi a dimora all’epoca di Renato Ricci per quell’inquadramento scenografico dell’Altare della Patria che aveva preso il nome di Foro Italico poi il nome è passato a Foro Mussolini. Nessuno si è accorto di questa sparizione che indica una indifferenza e anche, se vogliamo, la complicità della cultura archeologica nel dimostrare la settorialità dell’approccio che è sicuramente dannosa.
Mi limito a rivolgere un invito: già stamattina ho segnalato la sparizione della Direzione Generale del Ministero dei Beni Culturali che si occupava di arte moderna e qualità urbana. Praticamente nelle istituzioni culturali della Repubblica non c’è più un’istituzione che possa dare voce alle esigenze della qualità architettonica e all’esigenza anche di contrapporre a una cultura della conservazione ad ogni costo, una cultura della trasformazione, del rinnovamento.


Leggi tutto...

15 novembre 2008

ETICA IN ECONOMIA-ETICA IN ARCHITETTURA

Pietro Pagliardini

La parola “etica” va usata con molta cautela. Un uso indiscriminato di essa può portare all’inflazione, e quindi al suo svuotamento, e può anche avere effetti collaterali e controindicazioni piuttosto pericolose.
In questi tempi di crisi mondiale dell’economia con il mondo spaventato e incerto su come affrontarla e sulla sua evoluzione ritornano concetti che sembravano dimenticati e obsoleti: l’etica del lavoro, la politica dirigista in economia, l'ipotesi di un governo mondiale della finanza e dell’economia stessa, l’intervento pesante dello Stato nel mercato. Siamo agli antipodi dalla sfrenata libertà di movimento di capitali e merci della globalizzazione, dove si dava per scontato che non potessero esserci limiti di alcun tipo.

E tutto nel breve lasso di tempo di qualche giorno. Abbiamo provato tutti, sulle nostre tasche, l’effetto farfalla che sbattendo le ali nella foresta tropicale può generare un ciclone a migliaia di chilometri di distanza.
Il lato tragi-comico di questa vicenda è che lo stesso effetto farfalla è avvenuto nella mente di analisti, opinionisti e giornalisti pronti a cambiare idea dimostrando di essere in balìa degli avvenimenti e di essere poco capaci di dominare le situazioni.
Per quel poco che vale, io penso che (quasi) tutto tornerà sostanzialmente come prima e i soliti esperti ricambieranno idea velocemente.

Però c’è qualcuno che non segue le mode e che, come riconosciuto da tutti, aveva previsto tutto mentre tutti gli davano del dirigista. Parlo, ovviamente, di Giulio Tremonti.
Perché lo cito e cosa c’entra con questo blog? Non per scelta “di parte” ma perché alcuni suoi ragionamenti, passati e presenti, mi hanno fornito argomento di riflessione anche per l’architettura.

Mi riferisco all’etica, appunto.

Tremonti, che proviene da cultura politica socialista ma non è certo un collettivista come molti vogliono far credere, ha sempre associato etica ad economia, non in senso banalmente moralistico ma rimettendo le cose apposto, cioè attribuendo importanza ai fondamentali, cioè al lavoro, quello che produce prodotti reali e non prodotti finanziari, quello dietro cui c’è gente che si alza presto, prende il treno o l’auto e va in fabbrica, operaio o dirigente, a dare corpo e sostanza a quei prodotti che poi verranno scambiati, piuttosto che a coloro che si alzano presto ugualmente, ma per andare a vendere artifici finanziari che molto spesso altro non sono che fogli di carta, o forse solo mail, dietro cui ci sono debiti, finché, gira, gira, qualcuno rimane con il cerino in mano e comincia l’effetto domino.

Tremonti è uno di quelli che si augura che sia possibile in futuro limitare, se non eliminare, queste situazioni e se lo augura, appunto, in nome dell’etica del lavoro.
Può darsi che egli sia un utopista. Può darsi che questa società così complessa, così a rete, così incontrollabile sfugga ad ogni possibile governabilità, salvo situazioni episodiche di emergenza. Ma può darsi di no e poi è difficile non riconoscere un certo fascino a questo approccio.

In questa situazione io trovo alcune analogie con il mondo dell’architettura.
Oggi si accetta come inevitabile l’esistenza di uno stato di assoluta libertà progettuale individuale senza vincoli di alcun genere, un disordine assoluto giustificato proprio dalla complessità della società di cui l’architettura sarebbe niente altro che lo specchio in un rapporto un po’ troppo deterministico di causa-effetto.

Tale visione sembra escludere in maniera assoluta la possibilità che le scelte dei singoli possano riuscire ad invertire la rotta e perfino di andare contro corrente ma, per colmo di contraddizione, sono proprio i singoli architetti di grido, le Archistar, ad essere esaltati e ad esaltarsi come coloro che sono capaci di interpretare le istanze della società e di prevedere i suoi nuovi bisogni; sono proprio loro per primi a parlare di libertà di sperimentazione e di ricerca; sono proprio loro a darsi l’immagine di superarchitetti che fanno del loro smisurato ego un oggetto di rispetto ai limiti del culto. Loro sarebbero i demiurghi in grado di scegliere e decidere per tutti. Quindi riconoscono che l'uomo è "libero" di cercare e di scegliere e di intervenire a modificare il corso degli eventi.

Delle due l’una: o l’individuo conta o non conta. Loro risolvono il problema così: l’individuo conta, eccome, ma solo per fare ciò che la società richiede o meglio, che loro pensano che la società richieda. Il nodo è qui: quando parlano di società, di quale società parlano, a chi o a cosa si riferiscono, a chi o a cosa si rivolgono?
La loro visione della società è estremamente parziale, anche se potente, limitata com’è ai grandi investitori e al mondo che li circonda, quello dei media, dell’immagine, della comunicazione.

Insomma, anche in architettura, al pari dell’economia, si trascurano i fondamentali, il mondo reale, la vita che si svolge nelle città, i cittadini che ci vivono e che lavorano nell’economia in genere e non solo quelli che operano nell’economia dell’informazione. Mi sembra che abbiano una visione di un mondo come racchiuso in una bolla che trascura tutto ciò che sta fuori, che costituisce, però, la gran parte del reale.
Significativo di questo atteggiamento è il motto: più etica e meno estetica.
Questo motto di Massimiliano Fuksas per una delle tante inutili Biennali, non riesco a dimenticarlo, sarà per l’assonanza che si fa ricordare, sarà perche è uno slogan pubblicitario tanto efficace quanto vuoto di contenuti, sarà per il fascino mefistofelico dell’inganno che c’è dietro!
Ma cosa significa questo slogan? Niente, non significa assolutamente niente, perché l’architettura riveste un valore civico, il cui significato è che chiunque sia il suo produttore, committente, costruttore o progettista, essa appartiene sempre e comunque alla città e ai suoi cittadini e perciò l’estetica di ogni edificio possiede intrinsecamente un valore etico.

Quanto più bella, cioè più rispettosa del contesto e della città, essa sarà, quanto più condivisa sarà la sua estetica, tanto più quell’opera potrà dirsi etica.
L'etica dell'architettura, cioè, non sta tanto nel soggetto (il produttore) ma nell'oggetto stesso (il prodotto).

Dichiarare la prevalenza dell’etica rispetto all’estetica, come suggerito da quel motto, significa non solo attribuire al ruolo di architetto un compito diverso da quello che gli è proprio, cioè quello del politico, del predicatore, del moralista, ma anche non aver capito il legame inscindibile e la gerarchia che tiene uniti i due termini tra loro e, soprattutto, ignorare il principio essenziale delle regole non scritte che stanno all’origine di una comunità che vive in una città.
Direi che è un principio base dell’educazione civica: il rispetto dei diritti altrui, in questo caso il rispetto del diritto a non dover subire edifici che vanno contro il senso comune dell’urbs e quindi della civitas.

Per questo, solo per questo e non per dirigismo o collettivismo o corporativismo, i progetti vengono giudicati da organismi espressione, a vario titolo, delle varie componenti della società. Per questo esistono le commissioni edilizie, le commissioni urbanistiche, i consigli comunali che deliberano o danno pareri su tutto ciò che riguarda la costruzione e la modificazione della città.

Se per gli architetti c’è una lezione da prendere da questa crisi economica è proprio questa: ripensare alla relazione che esiste tra bellezza e “convenienza” e recuperare il valore civico dell’architettura.


P.S. A post ormai finito sono stato andato ad una cena-incontro con Alberto Mingardi, giovane e brillantissimo Direttore dell’Istituto Bruno Leoni, liberista convinto e niente affatto pentito anche in questa situazione di crisi economica. Almeno lui non ha cambiato idea. Naturalmente l’argomento centrale del suo intervento è stata proprio l’attuale situazione dell’economia mondiale. Al termine avrei voluto porgli la seguente domanda: “Come si pone il liberismo rispetto al mondo dell’edilizia e come può esserci libero mercato se la scelta dei luoghi, le quantità in gioco e le destinazioni d’uso sono stabilite dall’ente pubblico?”. Non ho potuta formularla la domanda perché, in quanto ospite, avrei dovuto prevaricare le numerose domande dei soci del club di cui ero ospite. Mi ripropongo di formulargliela per scritto, in un modo più chiaro ed esteso. Se otterrò risposta la riproporrò.

Leggi tutto...

26 giugno 2008

GRATTACIELI SOSTENIBILI E .... SOSTENUTI

Pietro Pagliardini

Ho come l’impressione che il libro di La Cecla su moda e architettura sia già roba da archivio, e con esso i miei post sul tema, superato nel breve volgere di un click dal nuovo verbo per veicolare architetti e grattacieli: SOSTENIBILITA’.

Ce ne fosse una di queste offese al buon senso che non è sostenibile! L’ultimo è quello girevole di David Fischer che verrà prodotto in scala industriale (questa è la vera novità) prima a Dubai e poi nelle varie metropoli smaniose di apparire, somma espressione di globalizzazione culturale. Anche la sindaca di Milano ha detto che le piacerebbe che uno di questi divenisse il simbolo di Expo201, non so dire se per il fatto che gira, o perché è sostenibile o perché si tratterebbe di un prodotto industriale e a lei magari ricorda la Milano operaia. Fatto sta che ne è rimasta folgorata. Mi permetto comunque di osservare che andare a prendere come simbolo dell’Expo2015 un progetto che a quel momento sarà già “usato”, a prescindere da ogni altra considerazione, non mi sembra gran cosa dal punto di vista dell’immagine.


“Sostenibilità” apre tutte le porte, allarga i cuori di chi è terrorizzato dal global warming, mette gli amministratori in pace con i propri elettori, tappa la bocca dei critici e pare siano contenti anche i cittadini (che cosa gliene freghi poi ai cittadini che sia sostenibile un grattacielo se non sono loro a comprarci casa, c’ho da capirlo: i proprietari risparmiano sulla bolletta e loro si beccano il birillo davanti casa. Potenza del nuovo credo!).
Ho letto perfino che è sostenibile quello storto di Libeskind a Milano perché, essendo incurvato, si farà ombra da solo, senza aggiunta di niente, cioè è sostenibile “per forma”. Trovata, questa, assolutamente grandiosa, la migliore dell’anno in assoluto; però speriamo che venga davvero il caldo anche d’inverno, altrimenti i piani alti non li vedo messi bene senza un rinforzino di riscaldamento.

Perché tanto sarcasmo da parte mia, perché sono così cinico nei confronti dei destini del nostro pianeta?

Il fatto è che questa dei grattacieli sostenibili e autosufficienti mi sa tanto di bufala mediatica, di trucco per ammorbidire le resistenze di eventuali oppositori perché se c’è una tipologia di edifici che è il contrario del risparmio energetico è proprio quella dei grattacieli. In base a quali dati faccio questa affermazione? Oltre che su un pò di "letteratura", in base a semplici leggi della fisica le quali insegnano che: mandare l’acqua a tre o quattrocento metri di altezza, veicolare in su e in giù fluidi per riscaldamento e raffrescamento (a parte quello storto che si fa ombra da solo, ovviamente), scaricare reflui da quelle altezze richiede interruzioni della linea e quindi ulteriori impianti, movimentare ascensori veloci ecc. brucia tanta di quell’energia che parlare di sostenibilità mi sembra una beffa. In tema di isolamento termico, inoltre, un grattacielo non può che essere costruito con materiali di tamponamento leggeri i quali, come è noto, hanno poco massa e quindi scarsissima inerzia termica, per cui gli apporti energetici sono molto superiori a quelli con materiali tradizionali (si parla di “effetto baracca”).
Esistono poi altri fattori non secondari quali la grande quantità di energia necessaria alla costruzione e alla manutenzione, dato che tutti i materiali e le persone devono essere movimentati ad altezze considerevoli.

Ma, si dice, a fronte di questi consumi, si farà largo impiego di energie rinnovabili che garantiranno l’autonomia o almeno una percentuale dell’energia necessaria. Ora, a parte il fatto che sarebbe buona cosa poter verificare a posteriori gli apporti esterni di energia in grattacieli già costruiti e decantati per la loro sostenibilità, la domanda vera è: ma se quell’energia alternativa prodotta per alimentare un grattacielo calcolato per, diciamo, 3000 persone fosse adoperata per alimentare edifici normali, quante persone alimenterebbe? Lo stesso numero di 3000 oppure 3000 x n, dove n è un numero maggiore di 1? La risposta giusta è l’ultima, quindi dichiarare che un edificio è sostenibile perché autoalimentato è una presa in giro. Ci dimostrino piuttosto che a parità di unità di misura (metro quadro, metro cubo, abitante, ecc) un grattacielo consuma meno di un edificio di due o quattro o sei piani e allora, anche se a malincuore, mi convincerò della loro effettiva sostenibilità.
Esistono anche altre varianti di grattacieli sostenibili: una delle ultime (è difficile dire quale sia l’ultima perché ce n’è una al giorno) è il “bosco verticale”.
Questo è proprio bello. Si tratta di due grattacieli previsti a Milano su progetto di Stefano Boeri con la consulenza di “esperti”. Si chiama bosco verticale perché il grattacielo è completamente ricoperto all’esterno da una barriera di alberi, non piante rampicanti o gerani, ma veri e propri alberi.


Il progetto si presta a varie interpretazioni.
Intanto c’è una certa suggestione in questo bosco verticale dentro la città perché la natura, per quanto manipolata, ha sempre un suo potere evocativo per l’uomo; poi vi si legge un senso di ritorno alle origini, di risalita sugli alberi da cui vi è chi ritiene che noi proveniamo ma, più forte di tutti, io vi leggo il rifiuto della città, la rinuncia, direi quasi la vergogna, il senso di colpa, alla costruzione dell’artificiale, mascherandolo con l’elemento naturale più amato dall’uomo, l’albero.
Immagino che i residenti non avranno molta possibilità di apprezzare il panorama di Milano e forse è proprio questo il significato vero dell’edificio: la città è brutta, è cattiva, è violenta, è artificiale, inquina ed è meglio chiudersi nel bosco per non vederla. È il segno di una sconfitta totale della civiltà urbana e dell’ambiente costruito dall’uomo.

Questo grattacielo ha raccolto consensi unanimi, pare, e ha perfino la benedizione di Lega Ambiente che, non so bene a quale titolo, sembra costituire un vero e proprio marchio di qualità (a proposito, Lega Ambiente ha mai protestato per il fermo del termovalorizzatore di Acerra?).

Preferisco trascurare alcune considerazioni in ordine alla fattibilità di quell’edificio, alla manutenzione dello stesso, ai problemi di sicurezza legati al vento (che talvolta sradica gli alberi), ai carichi enormi dovuti alla terra, ecc. perché immagino che siano stati tutti considerati: vedremo. Mi interessa di più capire cosa la parola sostenibilità sottintenda e se non sia diventata ormai uno dei tanti luoghi comuni di cui ci nutriamo, parola d’ordine vuota e priva di senso, utilizzata un po’ ad arte e un po’ come un automatismo, ma sempre utile per coloro che la propongono.

Sostenibilità viene usata:
-per favorire o bloccare nuovi insediamenti edilizi;
-per l’utilizzo di energie alternative;
-per fare nuovi parchi in città;
-per fare nuovi grattacieli in città;
-per vendere case a basso consumo energetico;
-per favorire la bio-architettura;
-per ridurre il traffico veicolare e il relativo inquinamento;
-per fare piste ciclabili;
-per le nuove collezioni di moda;
-per favorire la nascita o lo sviluppo di poli tecnologici;
-per risolvere il problema dello smaltimento dei rifiuti;
-per sostenere il turismo nelle campagne;
-per sostenere qualche architetto;
-per creare nuove associazioni;
-per fare ricerche finanziate dallo stato o da aziende che inquinano come matte;
-per promuovere la qualità di cibo e vino locale;
-per giustificare nuove leggi urbanistiche ed edilizie;
-per fare nuovi piani regolatori;
-per inventare nuove figure professionali;
-per fare corsi di aggiornamento;
-per dare certificazioni alle aziende;
-per creare aziende che aiutano altre aziende a prendere le certificazioni;
-per condannare i paesi emergenti;
-per fare spedizioni in Antartide;
-per assegnare premi Nobel;
-per fare film;
-perfino per giustificare gli autovelox in città;
insomma per quasi tutte le atività, per quelle buone e per quelle meno buone.

E’ un passepartout, è la parola-motore di una bella fetta dell’economia.
Io avevo la netta sensazione che la sostenibilità presupponesse una natura buona e un’umanità cattiva, che avesse ragione chi sostiene, come Paul Driessen nel libro Eco-imperialismo. Potere verde, morte nera, che si tratta di una nuova ideologia per gli orfani del comunismo ma mi rendo conto, che la realtà si è evoluta e si è trasformata in una delle tante strategie di marketing fatte proprie, con notevole abilità, da gruppi economici per vendere meglio i loro prodotti.

Di seguito qualche link utile:

Michael Mehaffy sul Corriere della Sera: CITTA' SOSTENIBILE SENZA GRATTACIELI

Lucien Steil su archimagazine: La ricostruzione di Manhattan senza grattacieli

Nikos Salingaros intervista Leon Krier, su archimagazine

Architettura sostenibile-Nella trappola solare

A VISION OF EUROPE: Scambio di lettere con il Sindaco di Torino

Italia Nostra

Leggi tutto...

Etichette

Alemanno Alexander Andrés Duany Angelo Crespi Anti-architettura Ara Pacis Archistar Architettura sacra Archiwatch Asor Rosa Augé Aulenti Autosomiglianza Avanguardia Barocco Bauhaus Bauman Bellezza Benevolo Betksy Biennale Bilbao Bontempi Borromini Botta Brunelleschi Bruno Zevi CIAM Cacciari Calatrava Calthorpe Caniggia Carta di Atene Centro storico Cesare Brandi Christopher Alexander Cina Ciro Lomonte Città Città ideale CityLife David Fisher Deridda Diamanti Disegno urbano Dubai E.M. Mazzola EUR Eisenmann Expo2015 Frattali Fuksas Galli della Loggia Gehry Genius Loci Gerusalemme Giovannoni Gregotti Grifoni Gropius Guggenheim Hans Hollein Hassan Fathy Herzog Howard Il Covile Isozaki J.Jacobs Jean Nouvel Koolhaas L'Aquila L.B.Alberti La Cecla Langone Le Corbusier Leon krier Leonardo Ricci Les Halles Libeskind Los Léon Krier MVRDV Maffei Mancuso Marco Romano Meier Milano Modernismo Movimento Moderno Muratore Muratori Musica Natalini New Urbanism New York New York Times New towns Nikos Salìngaros Norman Foster Novoli Ouroussoff PEEP Pagano Palladio Paolo Marconi Petruccioli Piacentini Picasso Pincio Pittura Platone Popper Portoghesi Poundbury Prestinenza Puglisi Principe Carlo Purini Quinlan Terry Referendum Renzo Piano Ricciotti Robert Adam Rogers Ruskin S.Giedion Sagrada Familia Salingaros Salzano Salìngaros Sangallo Sant'Elia Scruton Severino Star system Stefano Boeri Strade Tagliaventi Tentori Terragni Tom Wolfe Tradizione Umberto Eco Valadier Valle Verdelli Vilma Torselli Viollet le Duc Vitruvio Wrigth Zaha Hadid antico appartenenza architettura vernacolare arezzo bio-architettura cervellati città-giardino civitas concorsi concorsi architettura contemporaneità cultura del progetto cupola densificazione falso storico globalizzazione grattacielo identità leonardo levatrice modernità moderno naturale new-town paesaggio periferie restauro riconoscibilità rinascimento risorse scienza sgarbi sostenibilità sprawl steil toscana università zonizzazione