Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


15 novembre 2008

ETICA IN ECONOMIA-ETICA IN ARCHITETTURA

Pietro Pagliardini

La parola “etica” va usata con molta cautela. Un uso indiscriminato di essa può portare all’inflazione, e quindi al suo svuotamento, e può anche avere effetti collaterali e controindicazioni piuttosto pericolose.
In questi tempi di crisi mondiale dell’economia con il mondo spaventato e incerto su come affrontarla e sulla sua evoluzione ritornano concetti che sembravano dimenticati e obsoleti: l’etica del lavoro, la politica dirigista in economia, l'ipotesi di un governo mondiale della finanza e dell’economia stessa, l’intervento pesante dello Stato nel mercato. Siamo agli antipodi dalla sfrenata libertà di movimento di capitali e merci della globalizzazione, dove si dava per scontato che non potessero esserci limiti di alcun tipo.

E tutto nel breve lasso di tempo di qualche giorno. Abbiamo provato tutti, sulle nostre tasche, l’effetto farfalla che sbattendo le ali nella foresta tropicale può generare un ciclone a migliaia di chilometri di distanza.
Il lato tragi-comico di questa vicenda è che lo stesso effetto farfalla è avvenuto nella mente di analisti, opinionisti e giornalisti pronti a cambiare idea dimostrando di essere in balìa degli avvenimenti e di essere poco capaci di dominare le situazioni.
Per quel poco che vale, io penso che (quasi) tutto tornerà sostanzialmente come prima e i soliti esperti ricambieranno idea velocemente.

Però c’è qualcuno che non segue le mode e che, come riconosciuto da tutti, aveva previsto tutto mentre tutti gli davano del dirigista. Parlo, ovviamente, di Giulio Tremonti.
Perché lo cito e cosa c’entra con questo blog? Non per scelta “di parte” ma perché alcuni suoi ragionamenti, passati e presenti, mi hanno fornito argomento di riflessione anche per l’architettura.

Mi riferisco all’etica, appunto.

Tremonti, che proviene da cultura politica socialista ma non è certo un collettivista come molti vogliono far credere, ha sempre associato etica ad economia, non in senso banalmente moralistico ma rimettendo le cose apposto, cioè attribuendo importanza ai fondamentali, cioè al lavoro, quello che produce prodotti reali e non prodotti finanziari, quello dietro cui c’è gente che si alza presto, prende il treno o l’auto e va in fabbrica, operaio o dirigente, a dare corpo e sostanza a quei prodotti che poi verranno scambiati, piuttosto che a coloro che si alzano presto ugualmente, ma per andare a vendere artifici finanziari che molto spesso altro non sono che fogli di carta, o forse solo mail, dietro cui ci sono debiti, finché, gira, gira, qualcuno rimane con il cerino in mano e comincia l’effetto domino.

Tremonti è uno di quelli che si augura che sia possibile in futuro limitare, se non eliminare, queste situazioni e se lo augura, appunto, in nome dell’etica del lavoro.
Può darsi che egli sia un utopista. Può darsi che questa società così complessa, così a rete, così incontrollabile sfugga ad ogni possibile governabilità, salvo situazioni episodiche di emergenza. Ma può darsi di no e poi è difficile non riconoscere un certo fascino a questo approccio.

In questa situazione io trovo alcune analogie con il mondo dell’architettura.
Oggi si accetta come inevitabile l’esistenza di uno stato di assoluta libertà progettuale individuale senza vincoli di alcun genere, un disordine assoluto giustificato proprio dalla complessità della società di cui l’architettura sarebbe niente altro che lo specchio in un rapporto un po’ troppo deterministico di causa-effetto.

Tale visione sembra escludere in maniera assoluta la possibilità che le scelte dei singoli possano riuscire ad invertire la rotta e perfino di andare contro corrente ma, per colmo di contraddizione, sono proprio i singoli architetti di grido, le Archistar, ad essere esaltati e ad esaltarsi come coloro che sono capaci di interpretare le istanze della società e di prevedere i suoi nuovi bisogni; sono proprio loro per primi a parlare di libertà di sperimentazione e di ricerca; sono proprio loro a darsi l’immagine di superarchitetti che fanno del loro smisurato ego un oggetto di rispetto ai limiti del culto. Loro sarebbero i demiurghi in grado di scegliere e decidere per tutti. Quindi riconoscono che l'uomo è "libero" di cercare e di scegliere e di intervenire a modificare il corso degli eventi.

Delle due l’una: o l’individuo conta o non conta. Loro risolvono il problema così: l’individuo conta, eccome, ma solo per fare ciò che la società richiede o meglio, che loro pensano che la società richieda. Il nodo è qui: quando parlano di società, di quale società parlano, a chi o a cosa si riferiscono, a chi o a cosa si rivolgono?
La loro visione della società è estremamente parziale, anche se potente, limitata com’è ai grandi investitori e al mondo che li circonda, quello dei media, dell’immagine, della comunicazione.

Insomma, anche in architettura, al pari dell’economia, si trascurano i fondamentali, il mondo reale, la vita che si svolge nelle città, i cittadini che ci vivono e che lavorano nell’economia in genere e non solo quelli che operano nell’economia dell’informazione. Mi sembra che abbiano una visione di un mondo come racchiuso in una bolla che trascura tutto ciò che sta fuori, che costituisce, però, la gran parte del reale.
Significativo di questo atteggiamento è il motto: più etica e meno estetica.
Questo motto di Massimiliano Fuksas per una delle tante inutili Biennali, non riesco a dimenticarlo, sarà per l’assonanza che si fa ricordare, sarà perche è uno slogan pubblicitario tanto efficace quanto vuoto di contenuti, sarà per il fascino mefistofelico dell’inganno che c’è dietro!
Ma cosa significa questo slogan? Niente, non significa assolutamente niente, perché l’architettura riveste un valore civico, il cui significato è che chiunque sia il suo produttore, committente, costruttore o progettista, essa appartiene sempre e comunque alla città e ai suoi cittadini e perciò l’estetica di ogni edificio possiede intrinsecamente un valore etico.

Quanto più bella, cioè più rispettosa del contesto e della città, essa sarà, quanto più condivisa sarà la sua estetica, tanto più quell’opera potrà dirsi etica.
L'etica dell'architettura, cioè, non sta tanto nel soggetto (il produttore) ma nell'oggetto stesso (il prodotto).

Dichiarare la prevalenza dell’etica rispetto all’estetica, come suggerito da quel motto, significa non solo attribuire al ruolo di architetto un compito diverso da quello che gli è proprio, cioè quello del politico, del predicatore, del moralista, ma anche non aver capito il legame inscindibile e la gerarchia che tiene uniti i due termini tra loro e, soprattutto, ignorare il principio essenziale delle regole non scritte che stanno all’origine di una comunità che vive in una città.
Direi che è un principio base dell’educazione civica: il rispetto dei diritti altrui, in questo caso il rispetto del diritto a non dover subire edifici che vanno contro il senso comune dell’urbs e quindi della civitas.

Per questo, solo per questo e non per dirigismo o collettivismo o corporativismo, i progetti vengono giudicati da organismi espressione, a vario titolo, delle varie componenti della società. Per questo esistono le commissioni edilizie, le commissioni urbanistiche, i consigli comunali che deliberano o danno pareri su tutto ciò che riguarda la costruzione e la modificazione della città.

Se per gli architetti c’è una lezione da prendere da questa crisi economica è proprio questa: ripensare alla relazione che esiste tra bellezza e “convenienza” e recuperare il valore civico dell’architettura.


P.S. A post ormai finito sono stato andato ad una cena-incontro con Alberto Mingardi, giovane e brillantissimo Direttore dell’Istituto Bruno Leoni, liberista convinto e niente affatto pentito anche in questa situazione di crisi economica. Almeno lui non ha cambiato idea. Naturalmente l’argomento centrale del suo intervento è stata proprio l’attuale situazione dell’economia mondiale. Al termine avrei voluto porgli la seguente domanda: “Come si pone il liberismo rispetto al mondo dell’edilizia e come può esserci libero mercato se la scelta dei luoghi, le quantità in gioco e le destinazioni d’uso sono stabilite dall’ente pubblico?”. Non ho potuta formularla la domanda perché, in quanto ospite, avrei dovuto prevaricare le numerose domande dei soci del club di cui ero ospite. Mi ripropongo di formulargliela per scritto, in un modo più chiaro ed esteso. Se otterrò risposta la riproporrò.

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