Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


23 dicembre 2012

BUON NATALE A.....

A tutti i lettori di questo blog
a chi commenta
a chi non commenta per motivi suoi
a chi manda contributi
a chi non li manda perchè non li vuole mandare
a chi è d'accordo con me
a chi non è d'accordo con me e lo dichiara
a chi  non è d'accordo e se ne frega di dichiararlo
ai modernisti educati
ai modernisti moderatamente educati
anche a quelli maleducati perchè a Natale bisogna essere buoni
agli architetti che vivono un brutto momento
a molti dei quali augurerei di passarlo in tempi normali ma non in questo
ai giovani architetti per legge naturale presuntuosi
ai giovani architetti presuntuosi a causa dei loro Maestri
a tutti gli amici
ai miei familiari praticamente ignari dell'esistenza di questo blog
Auguro Buon Natale
Pietro Pagliardini

Andrea della Robbia: Natività - Basilica di San Francesco- La Verna, Chiusi della Verna  (AR)


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19 dicembre 2012

SULLA PRESUNTA "RIQUALIFICAZIONE ARCHITETTONICA E ARTISTICA"- PIAZZA VERDI A LA SPEZIA

Sulla presunta "Riqualificazione Architettonica e Artistica" Piazza Verdi a La Spezia
di
Ettore Maria Mazzola



Premessa

Nello sconfinato patrimonio artistico italiano non v’è manifestazione artistica che non risulti passata in rassegna. Dalle opere rupestri dei popoli preistorici a quelle delle popolazioni italiche preromane, dall’impressionante mole di opere lasciateci dai romani fino alle manifestazioni futuriste, il nostro Paese vanta un patrimonio che nessun altro luogo del pianeta può avvicinare!

… Ciò nonostante, un certo genere di artisti e architetti suppone che il nostro patrimonio necessiti di una riqualificazione!

Il motivo di questa supposizione risiede nel disastro accademico post bellico che, specie a partire dai primissimi anni ’60, ha portato l’insegnamento a divenire profondamente ideologico … nonostante le promesse libertarie, ergo profondamente ignorante. Ecco quindi che la storia, laddove sia stata insegnata, risulta esser stata vergognosamente manipolata a tutto vantaggio di una presunta élite colta che ha gradualmente acquistato un potere infinito in materia decisionale. In questo contesto, la gente comune è dunque stata costretta a subire ciò che quell’élite le imponeva dall’alto (o dal basso … fate un po’ voi) delle proprie conoscenze!

Tutto ciò ha gradualmente generato tre categorie di persone: 1) coloro i quali restano spaesati ma accettano passivamente; 2) coloro i quali – per snobismo – per non sentirsi estromessi da quell’élite, fingono di comprendere ciò che non ha alcun significato; 3) quelli che si ribellano a questi soprusi unendosi in comitati di quartiere, e/o in associazioni a difesa del patrimonio artistico e ambientale, scendendo in piazza per manifestare contro le violenze che si intendono infliggere al territorio.

Rendering del progetto per Piazza Verdi a La Spezia. Artista: Daniel Buren _ Architetti: Arch. Giannantonio Vannetti (Capogruppo) con Arch. Christian Baglioni, Arch. Elena Ciappi, Arch. Claudio Dini, Arch. Franca Cecilia Franchi. Collaboratore: Emiliano Lascialfari

Volendo dare una definizione a queste tre categorie potremmo definire la prima quella degli abulici i quali – con il loro immobilismo – consentono all’élite di fare i propri sporchi interessi; la seconda categoria è invece quella degli intellettualoidi che fingono di intendere ciò che non ha alcun significato; l’ultima è invece quella degli intellettualii quali, per ovvie ragioni culturali, rifiutano che una presunta élite, arrogante ed ignorante, possa sfregiare a proprio piacimento il patrimonio.

C’è da dire che molti architetti, specie quelli più giovani, agisce in totale buona fede! Essi infatti, si sono formati in Facoltà Universitarie dove l’omogeneità dei corsi ha praticato una sorta di lobotomia che impedisce loro di poter divergere dalla “cultura egemone”.

Per meglio comprendere il significato di questo concetto è utile, per analogia, rileggere un breve passaggio della lettera scritta nel 1885 da Giulio Magni a Raimondo D’Aronco: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone […] affrontare l’impopolarità è certo un eroismo e chi si sente forte nella battaglia da combattere, scenda in campo con quel coraggio che dà la sicurezza della vittoria. E noi giovani che coltiviamo questo ideale nella nostra mente, dobbiamo difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze, studiando alacremente con la ferrea volontà di riuscire!»

… Peccato quindi che i giovani di oggi non abbiano alcuna voglia di combattere. A differenza dei tempi di Magni e D’Aronco infatti, la nostra società è permeata dal consumismo a tutti i livelli, sicché anche l’arte e l’architettura vengono intenzionalmente confusi con manufatti usa e getta che non richiedono alcuno sforzo intellettuale (anche se poi ci si costruisce intorno una spiegazione, pseudo-intellettuale, atta a far credere che sia bella e sostenibile un’opera orrenda e insostenibile). Niente regole, siamo artisti contemporanei! Se non ci capite non è colpa nostra … siete ignoranti!

In un clima del genere, va da sé che chi ami confrontarsi con le regole classiche e col rispetto dei luoghi dia fastidio e debba essere condannato al silenzio per evitare che la gente comune possa fare un confronto. Ma la gente comune è stufa di queste battaglie ideologiche!

L’intervento di La Spezia

La Spezia può, senza ombra di dubbio, definirsi una capitale dell’Italia Liberty e Decò, una splendida realtà dove gli ultimi grandi episodi dell’arte e dell’architettura che possano annoverarsi nei libri di storia hanno generato un incantevole unicum italiano. In questo unicum sorge anche la Piazza Verdi, un luogo che, a causa delle trasformazioni del 1933, risulta difficile poter ancora definire “piazza”. Tuttavia, data la forza del carattere, unitario ma non uniforme, degli edifici che la definiscono, è senz’altro un luogo che possiamo ritenere abbondantemente “qualificato”.

Di qui lo stupore, e la rabbia, dei tanti cittadini spezzini che hanno appreso della prossima realizzazione di un intervento di "Riqualificazione Architettonica e Artistica".

L’ipocrisia delle parole che hanno accompagnato il progetto, parole che meritano di essere discusse con la cittadinanza per comprenderne la veridicità, non ha fatto altro che ingigantire il senso di rifiuto da parte della cittadinanza rispetto a quest’opera inutile quanto brutta.

Sebbene nel testo si parli di “ridurre drasticamente il carico del traffico veicolare urbano” (unico argomento condivisibile), guardando il progetto si comprende che la “piazza” verrebbe a configurarsi come una lunga isola delimitata dal traffico veicolare: quantunque si possa supporre una limitazione al solo transito del trasporto pubblico, ci si troverebbe comunque davanti ad un’esplanade più che a una piazza, che non presenta alcuna protezione totale dai veicoli su almeno uno dei suoi lati; una spianata che non presenta alcun senso di contenimento dello spazio stesso, ovvero priva del senso ultimo della piazza italiana. Il progetto, più che ad una piazza italiana è assimilabile a quegli orribili spazi sconfinati che gli americani chiamano “plaza”.

La Spezia - due immagini storiche che ritraggono il Teatro Politeama di Pontremoli demolito nel 1933 quando fu realizzato l’edificio postale di Mazzoni. Il teatro, facendo da sfondo all’asse di via Chiodo, creava uno spazio concluso che definiva la piazza

Prima della demolizione del Politeama, teatro che faceva da fondale a via Chiodo, e nonostante le dimensioni della strada, lo spazio veniva a configurarsi come una piazza ottocentesca italiana, risultando perfettamente coerente con l’urbanistica e l’architettura del periodo. Perché quindi ignorare aprioristicamente il passato?

I progettisti, piuttosto che trincerarsi nella loro visione, personale e distorta, della modernità, e affermare di voler dare a quel luogo una “definizione di ordine spaziale non monumentale ma ludica”, oppure di sottolineare che “nella nuova immagine del progetto non vi è nostalgia del passato ma fiducia nel tempo che avanza rinnovandosi”, avrebbero potuto riflettere sul codice genetico delle piazze italiane … il che non equivale ad essere nostalgici del passato – se mai questo fosse un problema – ma realizzare uno spazio decoroso per quel luogo e riconoscibile come piazza!

La piazza dovrebbe essere un luogo accogliente e protetto, un luogo coerente con l’intorno, dove viene ad instaurarsi un rapporto privilegiato di relazione tra lo spazio aperto e uno o più edifici emergenti lungo il suo perimetro.

La decisione di non rispettare l’ordine spaziale esistente, creandone uno nuovo “ludico” (ove 14 discutibili portali verdi e rossi – all’interno dei quali ci saranno dei nebulizzatori d’acqua – e vasche allagate intransitabili se non con sistemi di guado), trasformerà questo simbolico luogo spezzino in un pessimo esempio di kitsch, degno dei peggiori outlet che infestano l’Italia … e menomale che i progettisti avevano voluto ribadire di non voler scadere nella falsificazione storica e nella “nostalgia”! Ma cos’è più falso?

Piuttosto che temere di essere “nostalgici”, i progettisti avrebbero potuto immaginare come rendere maggiormente fruibile e sicuro lo spazio pedonale, magari limitando lo stesso volume di traffico veicolare che intendono mantenere lungo il lato mare, proteggendo quindi la piazza lungo il lato dell’ufficio postale mazzoniano; soprattutto, se avessero studiato meglio lo spazio dotato di fondale prima del 1933, avrebbero potuto trovare l’ispirazione (non nostalgica) per comprendere come oggi risulti indispensabile frazionare quello spazio a monte e a valle, creando degli episodi costruiti che facciano da quinta scenica – ovviamente aperta per mantenere l’importanza dell’asse strutturante di via Chiodo/via Vittorio Veneto – alle tre piazze, delimitate dalle vie Niccolò Tommaseo, Pietro Micca e XX Settembre, tre piazze che risulterebbero relazionate agli edifici prospettanti su di esse.

La verità è che, nella totale incapacità di dialogare con il passato, certi progettisti preferiscono intraprendere delle battaglie – perse in partenza, agli occhi della stragrande maggioranza della gente – nelle quali giustificano, in maniera poco credibile, delle opere fini a se stesse come opere di “riqualificazione”. Nel caso in oggetto, la giustificazione vedrebbe La Spezia come “la rappresentazione di una profonda aspirazione alla modernità” … Ma la modernità è ben altra cosa che non il modernismo! … non è che questa aspirazione risulti solo appannaggio dei progettisti?

Nell’infinita serie di punti discutibili di questo progetto, c’è la scelta di coinvolgere Daniel Buren, un “artista” già resosi responsabile di numerosi scempi in giro per il mondo, primo tra tutti l’abominevole serie di rocchi di colonne scanalate bianche e nere, disposti nel cortile d’onore del Palais Royale di Parigi, un’opera orrenda che nessun parigino sano di mente ha mai compreso, né amato; una sorta di pista con paracarri per svolgere una gimkana con i go-kart all’interno di un luogo splendido della Ville Lumière. … Ma che in Italia non avevamo artisti disponibili?
Parigi – Il cortile d’onore del Palais Royale ormai inutilizzabile grazie all’orribile e costosa installazione di Daniel Buren

In pratica, come già accaduto per il Palais Royale, l’operato di questo artista, coadiuvato dagli esterofili progettisti nostrani, porterà Piazza Verdi a non essere più fruibile dagli esseri umani, perché ridotta ad una spianata utile solo alla mostra dei 14 portali – 7 prima e 7 dopo la “piazza scavata” davanti all’edificio postale.

Nella Piazza, i progettisti dicono di voler realizzare una “interpretazione dell’assenza come segno morbido scavato per un teatro centrale” … è arduo comprendere il senso di questa frase, ma è facilissimo capire due cose: 1) i progettisti non conoscono la differenza tra un teatro e un anfiteatro, visto che quello che propongono è un ambiente rettangolare gradonato su tutto il perimetro, ovvero non assimilabile né al primo, né al secondo, e che semmai potrebbe avvicinarsi all’idea di quest’ultimo; 2) un disabile non potrà mai più pensare di potersi avvicinare al centro dell’ambiente, a meno cha non intenda sfracellarsi cadendo dalle gradonate!

… Ma una “piazza” non dovrebbe essere accessibile a tutti?? … E dire che i progettisti hanno perfino affermato che “nel nostro progetto l’arte è intesa come utile, cioè non come pura immagine ma come strumento di realizzazione di spazi fruibili e contemporanei in grado di creare nuove percezioni e riconnessioni ambientali”.

Peccato che il progetto risulti esattamente l’opposto delle loro stesse parole! Ma, si sa, tra i progettisti autoreferenziali non c’è alcun bisogno che tra le parole e i fatti esista una corrispondenza, l’essenziale è poter dire di aver detto certe cose. Del resto loro, in quanto appartenenti all’élite colta, sono i depositari del motto cogito ergo sum, tutti gli altri devono solo assistere al loro essere!

Sempre in materia di mistificazione della realtà, un’ultima annotazione risulta indispensabile. Sebbene infatti sarebbe utile far notare l’assurda affermazione che vedrebbe la nuova Piazza Verdi possedere una “scala tagliata sull’uomo, i cui intenti sono quelli di ricreare un luogo stimolante e di cui riappropriarsi per l’abitare”, è preferibile soffermarci sull’assurda ed ipocrita sostenibilità del progetto.

Nel capitolo intitolato “Comfort Ambientale E Sostenibilità” i progettisti affermano: “Non si dà un progetto di uso se non si realizza allo stesso tempo un livello adeguato di comfort ambientale. L’uso degli elementi naturali: tappeti erbosi, specchi d’acqua e nuove alberature per l’aumento dell’ombreggiatura, contribuiscono al miglioramento del microclima estivo locale secondo i principi della bioclimatica applicata agli spazi esterni. Altri criteri di sostenibilità applicabili sono: - il risparmio idrico attraverso l’uso delle superfici pavimentate per la raccolta e il riuso delle acque piovane per le fontane e l’irrigazione del verde; - l’uso di materiali naturali e locali per le pavimentazioni; - il controllo dell’inquinamento luminoso e l’uso di fonti a basso consumo (led incassati nel pavimento); - progetto sonoro e riduzione dell’inquinamento acustico; - uso di tecniche attive per il raffrescamento estivo (nebulizzatori inseriti nel percorso d’arte)” … Tutto qui? Un po’ pochino per definire il progetto sostenibile!

Come potete comprendere, anche in questo caso, non v’è alcun motivo per cui tra le parole e i fatti debba esserci alcuna corrispondenza … del resto quello della “sostenibilità” è l’argomento più abusato tra i progettisti di oggi. Per un “depositario del verbo” (l’architetto dell’élite colta), ovvero uno abilitato a dire le cose in quanto appartenente alla categoria di “quelli che sanno”, basta usare un termine per farsi bello e fingersi rispettoso. Quando il tempo dimostrerà il fallimento del progetto sotto tutti i profili, come abbiamo visto con altre progettazioni ideologiche in giro per il Paese, la responsabilità non sarà mai del progettista, ma di chi ha realizzato l’opera, oppure degli abitanti ignoranti che non ne comprendono il significato, oppure dell’Italia più in generale!

Ciò di cui non ci si capacita è l’atteggiamento della classe politica … sull’ottusità intellettualoide delle Soprintendenze che danneggiano il patrimonio storico consentendo e incentivando le cosiddette “contaminazioni” siamo ormai rassegnati.

C’è da chiedersi infatti come possa un sindaco, che dovrebbe mirare al più ampio consenso di pubblico, consentire che una sparuta minoranza di persone, senza alcuna cultura ed amore per la città da lui amministrata, possa violentarla a proprio piacimento strafregandosene del malcontento generale.

Eppure anche in Italia, finalmente, sarebbe necessario che per i progetti urbanistici venisse adottato il processo partecipativo con la cittadinanza tutta: dov’è quindi il rispetto della vox populi nel caso di Piazza Verdi?

E non si venga a dire che c’è stata una regolare commissione che ha aggiudicato il vincitore di un concorso, perché i concorsi, chi fa questo mestiere lo sa bene, sono una truffa-culturale gestita dalla presunta élite colta che se li fa e se li canta in nome dell’ideologia egemone.

Oggi come oggi la gente è stufa dei soprusi di questa casta! Se si vuol dare credibilità e consenso ad un progetto del genere, che si faccia una esposizione pubblica di ogni genere di progetto per quel luogo, creando una commissione esaminatrice che rappresenti le volontà popolari, e non solo e soltanto quelle degli architetti e artisti (o presunti tali) … solo allora si potrà vedere chi risulterà il reale vincitore! È sarà con grande sorpresa di tutti scoprire che nessun comitato anti-progetto nascerà più dal nulla.

Italia Nostra, facendosi portavoce del malcontento tra gli spezzini, ha scritto al sindaco invitandolo a comprendere le ragioni del movimento anti-progetto, l’augurio è che il Primo Cittadino si ricordi di essere il Sindaco di tutti i cittadini.

Speriamo quindi che il Sindaco faccia sapere ai suoi cittadini a quale delle tre categorie elencate precedente ritiene di appartenere: Signor Sindaco, Lei è un abulico, un intellettualoide, o un intellettuale?

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9 dicembre 2012

MARIO FAZIO: PASSATO E FUTURO DELLE CITTA'

Il processo di trasformazione del Bel Paese è avvenuto e sta avvenendo in modo sostanzialmente autoritario. Architetti, ingegneri, geometri, progettano su ordinazione di amministratori pubblici e di privati proprietari di aree da sfruttare; i progetti vengono approvati in stanze più o meno segrete. Al cittadino, considerato un “utente” al quale non si devono troppe spiegazioni, non resta che brontolare. Ma la colpa è anche sua se accetta che le decisioni restino nelle mani di pochi.
Dal canto loro gli amministratori comunali non sembrano avvertire il dovere di illustrare piani e progetti in modo documentato e comprensibile, per stimolare la partecipazione democratica (sottolineo l’uso della parola, contro le tentazioni della deriva rinunciataria).

L’esposizione al pubblico di un piano regolatore è una presa in giro: tavole costellate di segni enigmatici, zone a colori diversi. Spesso l’interesse si riduce ad accertare se il proprio terreno sarà edificabile. Manca inoltre nella stragrande maggioranza dei cittadini la conoscenza della storia della città, indispensabile per valutare il rapporto delle nuove costruzioni con quelle del passato. Quanto alle architetture, alle scelte delle forme, il cittadino si sente disarmato e intimidito.


Eppure strutture e forme urbane sono gli stampi in cui si solidificano le vite degli uomini. La città brutta e disgregata è incubatrice di violenza, di conflitti, di sofferenze non valutabili soltanto dal traffico caotico e dagli inquinamenti. La collettività paga prezzi altissimi per il naufragio urbanistico.

Il circuito “autoreferenziale

Sull’architettura contemporanea si è diffusa un’opinione così negativa da provocare una  crescente rivalutazione del passato. Non perché il moderno sia considerato un disvalore in assoluto ma perché i valori della modernità restano soffocati quando gli edifici non riescono a comunicare, quando non rispondono alle esigenze umane.Però gli architetti e i critici di professione ne parlano quasi esclusivamente all’interno di un circuito chiuso. Quello delle riviste, delle mostre, delle Università, dei saggi che in certi casi sembrano “elucubrazioni di architettura verbale” come diceva Giancarlo De Carlo vent’anni fa denunciando il distacco dell’architettura dalla dimensione umana e affermando l’esigenza di “renderla comprensibile, utilizzabile da tutti per generare gioia e identità”.

Gli architetti di fama e quelli che inseguono la fama progettano pensando ai critici e i critici scrivono per gli architetti, usando il linguaggio della critica artistica, come se il progetto di un nuovo quartiere fosse una composizione astratta da appendere a una parete oppure il tema di un gioco intellettualistico. Ma nell’architettura destinata a durare generazioni, condizionando la vita di milioni di esseri umani, l’autore non può appagarsi di concetti e di poetiche personali, imponendo agli “utenti” senza voce stilemi canonizzati con la benedizione di critici e cattedratici. Tangentopoli e l’abusivismo non sono al’origine di ogni male urbano: pesano anche le responsabilità di chi progettava e di chi insegnava a progettare. Soltanto il 4% del costruito porterebbe la firma di un architetto. Il 96% sarebbe dovuto ad altri, prevalentemente geometri. Ma le grandi opere, i quartieri mostruosi, furono progettati da architetti. E per disegnare villette e palazzine i geometri hanno avuto maestri gli architetti, nelle scuole come nella professione.


Questo brano è tratta da Mario Fazio, Passato e futuro della città, Einaudi.
Un libro del 2000 di Fazio, giornalista de La Stampa, scomparso nel 2004. Un libro acquistato ieri al prezzo di L.24.000. Si, ancora c'è stampato il vecchio conio, segno che non vi sono state ristampe dall'introduzione dell'euro. Non ne conosco le ragioni, ma potrei immaginare che l'essere stato Fazio Presidente di Italia Nostra abbia costituito un freno all'acquisto da parte di coloro che vedono questa associazione come un elemento di conservazione. Il libro è invece di qualità, scritto da un giornalista molto documentato che certamente risente, in positivo, della sua esperienza in Italia Nostra e che si pone rispetto al problema città con un atteggiamento molto più avanzato e con maggiore sensibilità di quanto non sappiano fare molti urbanisti e architetti. Si pone il problema del livello decisionale dei cittadini sulle scelte urbane e denuncia l'autoreferenzialità della cultura urbanistica e della casta accademica. Lui stesso fa un richiamo al Tom Wolfe di Maledetti Architetti, ma riferendosi più alla città che all'architettura.
Denuncia il circuito vizioso architetti-critica-Università, anche se a distanza di 12 anni questo si è spostato dal mondo delle riviste, ormai marginali, alla rete, in nulla però cambiando il metodo, semmai essendo peggiorato.
C'è una parte, che ancora non ho letto, espressamente dedicata alle stelle dell'architettura e al fenomeno, ormai sgonfiato, del così detto "effetto Bilbao".

C'è poi la previsione di una città trasformata dal mondo digitale e da Internet, con alcune previsioni azzeccate ed altre meno, in cui si intravvedono i primi germi della smart city, il nuovo fenomeno che si annuncia come una nuova illusione di risoluzione dei problemi urbani.

Propongo alcuni brani di questa "profezia", tenendo conto conto che 12 anni in questo campo sono un secolo e che facebook, ad esempio, è nato nel 2004:

Se la città del “Capitalism rampant” è preoccupante, quello della “città dei bit” non è oggetto di pura curiosità. La rivoluzione elettronica porterà cambiamenti epocali nel modo di lavorare, di comunicare, di abitare, come nei comportamenti sociali. I seguaci della nuova fede, fondata sull’avvento di un mondo dominato dalla telematica, profetizzano ambienti digitali, città virtuali, rapporti umani in cui il software prevale sulla fisicità e il dialogo interpersonale avviene via cavo o via satellite. La “bitsfera” e il “cyberspazio” si sovrappongono alla biosfera e ai paesaggi naturali. L’area informatica cambierà la geografia; sarà sempre meno importante trovarsi in un dato luogo alla data ora. Sarà possibile persino la trasmissione dello spazio steso, secondo i profeti dell’era elettronica.
Non ci saranno più le code per raggiungere il posto di lavoro, essi dicono, perché si lavorerà a casa di fronte a un computer. I siti Internet sostituiranno le piazze, i caffè, i punti di ritrovo. Non si andrà più a scuola, a teatro, in chiesa, in banca, al mercato: tutto a casa con rappresentazioni virtuali non affidate alle sole immagini sullo schermo ma anche a sensazioni trasmesse al cervello da impulsi comandati da un tasto……
Le case dovranno essere ristrutturate, per dotare ogni abitante di una piccola nicchia elettronica da cui fare la spesa, seguire le lezioni, lavorare nell’ufficio virtuale, farsi curare con la telemedicina, nuotare nel mare scelto premendo un tasto. E si potrebbe continuare.

Gli stessi profeti ella nuova era si domandano quali siano i fini della rivoluzione annunciata, quali i pericoli per la società civile e l’umanità intera, chi potrebbe e chi dovrebbe controllare il tutto. Quel che sta avvenendo con la diffusione di Internet preoccupa non soltanto i pantofolai e e i moralisti d’occasione. La perdita di funzioni della città, sostituiti da luoghi virtuali, è una minaccia gravissima per le civiltà maturate nei secoli all’interno degli organismi urbani. Non meno grave del pericolo di un “ordine mondiale” a carattere tecnologico. Il presidente della Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, Paul Virilio, intravvede questo ordine mondiale nelle forme di un “nuovo fascismo tecnico e futurista che alla democrazia reale, fondata sull’incontro di individui nell’agorà (piazza, teatro, stadio ecc) sostituisce la democrazia virtuale staccata dalla presenza umana. La democrazia automatica, fatta di tecnica e di pura immagine, con sbocco totalitario”. Come negli incubi di Orwell….
Ancora Paul Virilio, intelligentemente, invita a organizzare la resistenza non perché contrario alle nuove tecnologie ma perché contrario alla virtualizzazione totale che renderebbe irreali le persone, le città, l’eredità storica, con la conseguente morte della cultura e della società. Un mondo privo di specificità locali dove tutto diventa noto in forma virtuale, ridurrebbe l’esistente a oggetto di contemplazione sullo schermo; il patrimonio culturale verrebbe condensato in un catalogo elettronico e omogeneizzato come i cibi della catena MacDonalds.

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29 novembre 2012

VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA

di Pietro Pagliardini

Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.


La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.

Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.

Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.
Ma non era Bruno Zevi a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.

La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del Guggenheim di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.

La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.

Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.

Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.

A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per Zaha Hadid.
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di Fuksas, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare Fuksas per abbassare la Hadid già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.

Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.

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15 novembre 2012

SMART CITIES, CANGIANTI E SFUGGENTI

Pietro Pagliardini

Se ponessimo la domanda: “Cos’è una smart city?” a soggetti diversi, esigendo una risposta sintetica, probabilmente avremmo risposte generiche e sicuramente diverse tra loro in base alla specifica preparazione di ognuno: l’informatico risponderebbe che è l’applicazione della Information technology alla vita di tutti i giorni, l’architetto direbbe che serve a migliorare la fruizione della città, il politico direbbe bla, bla, bla, l’industriale che aumenta la competitività, l’ambientalista che controlla e ottimizza le risorse energetiche e ambientali, e così via.
Pur essendoci dietro questa definizione molta concretezza economica e tecnologica, non si tratta cioè di una dei tanti vuoti ed effimeri slogan della società dell’informazione, tuttavia l’uso indiscriminato e pervasivo che se ne fa rischia di ridurlo a slogan, parola d’ordine e fuorviante, in specie per gli architetti e per le aspettative che in essa potrebbero riporre.
E’ quella parola city a confondere le acque, con il desiderio di riempire di cose diverse lo stesso contenitore. Se la dovessi tradurre in italiano, non direi “città intelligente” ma “società intelligente”, perché di questo effettivamente si tratta, e nell’ambito della società ci sta anche la città. Rientrano nella categoria smart city progetti per la tracciabilità dei cibi, il packaging che faccia risparmiare involucri, la logistica, la domotica, e poi l’informatizzazione scolastica, i controlli in agricoltura e negli incendi boschivi, il monitoraggio e l’ottimizzazione dei consumi energetici, la mobilità urbana, la realtà aumentata, i rapporti tra cittadini e la pubblica amministrazione, il clouding, la sanità, il sostegno agli anziani, e molti altri ancora.



Quanti di questi temi riguardano propriamente la città e di conseguenza architetti e urbanisti? In un certo senso tutti, ma solo per il fatto che ogni attività umana si svolge nello spazio fisico, città o territorio che sia. E forse proprio per questo è stato scelto city, per offrire la concretezza di un luogo fisico a tanta diversità di contenuti. Società è forse termine troppo vasto che si presta ad equivoci di tipo politico-sociologico.

Restando alle tematiche propriamente urbane, il rischio è che si tenda ad attribuire alla smart city proprietà salvifiche che essa non può avere e che gli urbanisti vengano attirati nella sfera più strettamente ingegneristica della ICT (Information & Communication Techcnology) come risolutrice dei mali delle nostre città.
Favorire e semplificare l’accesso al flusso di informazioni da parte dei cittadini è una esigenza importante e non più eludibile. Sono i cittadini stessi a pretenderlo. Prendiamo il caso più noto, quello di Santander, in Spagna, dal Corriere della Sera:

Come si capisce dall’articolo, l’approccio è quello di creare un cervello urbano globale, che tenga sotto controllo in tempo reale qualsiasi evento avvenga, i cui recettori e utilizzatori siano in buona parte i cittadini stessi. Tralasciando le possibili conseguenze negative che potrebbero verificarsi con migliaia di persone che mandano informazioni, molte delle quali è ipotizzabili sbagliate o ridondanti o volutamente false, è chiaro che vi sono due obiettivi: rendere più sicura la vita e più partecipi i cittadini stessi alla vita della loro città.

Ma, e questa è la trappola per gli urbanisti, siamo nel campo del software, del più impalbabile e generico, l’informazione, per cui è necessario sapere se un evento avviene, ne siamo subito informati, ma poco o nulla si può fare per evitare quell’evento, mentre si può fare in modo di attenuarne alcune sue conseguenze negative.
L’informazione insomma, sembra essere un valore in sé, a prescindere. Un po’ come quando si sente in TV: il livello del fiume è salito di 6 metri, ma è sotto controllo. Controllo di che? Se deve esondare esonda. Ma uno sta tranquillo. Informazione anestetica.

Un  esempio sulla città: c’è un ingorgo di traffico, chiunque si organizza per non peggiorare la situazione. Ma il problema è: perché si è creato quell’ingorgo di traffico? Il caso che ci interessa non è l’evento eccezionale, ma quello ordinario, vale a dire una città impostata sugli spostamenti in auto, con poche strade di grande scorrimento che lambiscono zone monofunzionali le quali si riempiono e si svuotano tutte insieme a determinate ore del giorno. E’ un po’ come le piogge di questi giorni che creano inondazioni ed effetti violenti: una urbanizzazione esagerata che ha interrotto i flussi naturali di scorrimento delle acque, incrementati dall’abbandono e dall’incuria dei mille fossi e canali di scolo che distribuiscono le acque in una rete idraulica continua e capillare nel territorio e che, in occasione di precipitazione violente (corrispondenti a quelle ore di punta del traffico urbano), riversa tutta l’acqua in pochi canali che, per quanto capienti, non possono assorbirla tutta. Le auto in un ingorgo si fermano, l’acqua esonda.

Dunque la prima regola, prima del controllo, del monitoraggio e della comunicazione dei dati, consiste nell’essere smart  la città stessa nella sua parte hardware, cioè nella sua configurazione fisica e spaziale. Come la rete idraulica deve essere diffusa e gerarchizzata, così la città deve essere strutturata con una rete di strade gerarchizzate e che offrano il massimo delle alternative possibili, talchè il blocco di una di esse, per qualsiasi evento, sia assorbito senza traumi dalle altre. E qui l’ICT entra in gioco con la sua carica informativa che attenua ulteriormente i danni e gli inconvenienti.

Il rischio insomma è che l’idea di smart city si traduca in un surrogato dell’urbanistica, in una pezza a pessime città, e faccia, ancora una volta, allontanare l’obiettivo primario, cioè la sua forma. Architetti e urbanisti dovrebbero forse concentrarsi sulla città e lasciare il software ad altri, utilizzandolo semmai al pari della tecnologia che si utilizza negli edifici, senza per questo impostare gli edifici in funzione della tecnologia stessa o, peggio, progettare edifici  il cui unico valore sia quello tecnologico: la domatica può aiutare in casa, ma è destinata a rapida obsolescenza, mentre la casa resta e deve essere progettata per durare più a lungo possibile. E se qualcuno pensa il contrario, non si azzardi più a pronunciare la parola sostenibilità



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8 novembre 2012

SULL'AMPLIAMENTO DELLO STEDELIJK MUSEUM DI AMSTERDAM

di Ettore Maria Mazzola

Recentemente mi è stato ironicamente segnalato un articolo, firmato da Manlio Lilli, pubblicato il 4 novembre u.s. sul sito www.linkiesta.it. Chi conosca il progetto non può evitare di rimanere perplesso leggendo il titolo di quell’articolo: “Ad Amsterdam, lo Stedelijk Museum si fa attendere. Ora sappiamo che ne valeva la pena”.
L’articolo, a mio avviso, parte molto bene, lamentando la cialtroneria degli italiani che non sono in grado di tenere aperti i musei, a differenza di ciò che avviene in altro Paesi dove, nonostante la penuria di opere d’arte rispetto al nostro, i musei e i siti vengono super valorizzati. Come non dar ragione all’autore, visto che i musei italiani, come tutto ciò che ha a che fare col turismo, dovrebbero darci da campare?

Prima di andare avanti col discorso, è bene sottolineare il fatto che l’autore sia un laureato in lettere con indirizzo archeologico e che, recita il suo profilo biografico, fa l’archeologo per scelta, provando a mangiare (poco, naturalmente) con la Cultura. L’autore è una persona di tutto rispetto. Infatti, a quanto si apprende nel profilo, ha pubblicato tre interessanti monografie su centri del Lazio antico, oltre a numerosi contributi sull’Italia antica in riviste di settore, e collabora con una serie di siti culturali sparsi nel web, tra cui Libertiamo, Linkiesta, Il Futurista e l’Istituto di Politica.

È quindi un peccato, e non riesco a capacitarmi del perché, in questo articolo, egli abbia dovuto scadere nell’ideologia. Infatti, piuttosto che limitarsi a dare un eventuale benvenuto ad un nuovo museo, limitandosi al fatto che una nuova collezione possa esser stata aggiunta ad una preesistente, (indipendentemente dal fatto che possa o meno quella collezione essere apprezzabile), l’articolo è stato utilizzato come il luogo per sfogare tutta la rabbia possibile nei confronti di un presunto immobilismo italiano nel produrre opere architettoniche moderniste … quasi che i deprecabili interventi che vanno dal Museo dell’Ara Pacis, al MAXXI, passando per il MACRO – solo per citare gli esempi romani più recenti – non fossero mai esistiti. In pratica, l’articolo sembra esser figlio di un incomprensibile complesso d’inferiorità culturale verso certe cose che si fanno all’estero, un complesso che in Italia, dato il nostro patrimonio, risulta del tutto fuori luogo, tranne che nella mentalità di un certo genere di architetti cresciuti a pane e modernismo.
Del museo si racconta che, grazie alla nuova realizzazione, è stato possibile ampliare la collezione con nuove acquisizioni come, l’installazione luminosa di Dan Flavin dedicata a Mondrian e il ritratto di Bin Laden di Marlene Dumas … Se fossi Romolo Prince del programma comico Colorado commenterei con un finto apprezzamento dicendo: con certe opere possiamo dire che i 127 milioni di euro, all’incirca 20 più del previsto, siano stati davvero spesi bene!! …. Ma che …. sto a dì, sto a scherzà!!

Questo genere di spese, per la realizzazione di un museo, ricordano molto da vicino i 160 mln di euro spesi per costruire il MAXXI di Roma, per il quale ne sono stati spesi altri 60 per acquisire opere orribili e fallimentari che, come c’era da immaginare, non hanno suscitato alcun interesse, portando la struttura, come già accaduto per il MACRO, al fallimento ed al cambio del direttore, come se il problema fosse il solo direttore del museo, e non la concezione ideologica che lo abbia generato, nonché il genere di “opere” ivi esposte.
Ovviamente, ciò che sfugge a chi se la prende con il presunto immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea, è il fatto che “Mamma Italia” abbia generosamente dirottato fondi destinati ad altri beni culturali, più redditizi in termini di turismo, per il salvataggio di quell’orribile capriccio modernista, inclusi i fondi che avrebbero potuto consentire di tenere aperti dei musei! Si rammenta che, per bocca del precedente direttore del MAXXI, il budget annuale per tenere in piedi quella struttura è di circa 75 mln di euro, a fronte delle pochissime presenze giornaliere!

Alla luce di questa cosa, c’è da chiedersi come, un “archeologo per scelta” – come usa definirsi l’autore dell’articolo – possa accettare che avvengano certi dirottamenti di fondi, e soprattutto, come egli possa usare l’esempio olandese per lamentarsi dell’immobilismo italiano in materia di architettura contemporanea!
A quanto si apprende, la prima ragione dell’intervento sul preesistente Stedelijk Museum è stata la necessità di ampliare i suoi spazi espositivi. Ma anche di ripensarne il concetto. Pare che siano stati prima approvati e poi ripudiati ben due progetti (dei quali sarei davvero curioso di vedere come fossero concepiti … almeno in che modo si relazionassero con le preesistenze) poi, una volta fallita la prima impresa di costruzioni (cosa curiosa che meriterebbe qualche approfondimento), si è deciso di affidare l’incarico allo studio di architettura Benthem Crouwel di Amsterdam … a questo punto si è deciso di aggiungere e collegare al bell’edificio del 1895 un altro dalle linee moderne … (9000 mq aggiunti agli originari 10000!) evidentemente i titolari dello studio incaricato non potevano limitarsi a restare invisibili all’interno della struttura preesistente … agli architetti autocelebrativi è geneticamente impossibile evitare di mostrarsi violentemente al pubblico: è come se ad un pavone gli venisse impedito di fare la ruota!

Ecco quindi che – come nel caso del MAXXI nato senza una collezione da esporre – anche per lo Stedelijk è nata l’esigenza di “riempire il nuovo contenitore” con nuove collezioni … già, il contenitore, perché oggi il “museo”, tra gli adepti del modernismo, non si chiama più “museo”, ma “contenitore”! Riflettendo su questa “evoluzione semantica” viene da pensare che, quando si parla di “opere consumistiche usa e getta”, il termine più appropriato è effettivamente “contenitore” … chissà quindi se, tra non molto, questa costante evoluzione porterà a chiamarlo, per coerenza, “cassonetto”!

Sebbene la totalità degli abitanti non abbiano apprezzato affatto questo progetto, ribattezzandolo “la vasca da bagno”, a detta dell’autore dell’articolo, cito testualmente:

La gigantesca ala bianca disegnata dallo studio Benthem Crouwel, “immersa” nelle architetture storiche che la circondano, non sfigura. Tutt’altro. Il nuovo corpo dello Stedelijk, un gigantesco volume lungo cento metri e alto diciotto, anche cromaticamente “emerge”. Con il bianco del Twaron, la fibra sintetica che viene dall’aeronautica spaziale, e della fibra di carbonio Tenax”.
Sicché

Nel complesso va salutata con soddisfazione la nuova realizzazione. Che senza dubbio risponde all’esigenza “progressista” degli olandesi. Alla loro voglia di sentirsi al passo con i tempi. All’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia. Perché l’Olanda non è l’Italia”.

Ebbene, se queste sono le ragioni per cui dovremmo ritenere bello questo edificio, allora viva la bruttezza. Se l’Italia non è l’Olanda, allora viva l’Italia!!
A me questo museo, più che ricordarmi una “vasca da bagno” sembra un gigantesco “lavello da incasso per cucina”, o forse è un enorme “lavandino da barbiere” dove oltre ai capelli possa operarsi anche un lavaggio del cervello in nome del modernismo, che della modernità rappresenta la visione distorta.

 Personalmente penso che, prima di difendere l’indifendibile, sarebbe il caso di capire gli effetti collaterali di un certo tipo di “edilizia” (mi viene impossibile usare il termine “architettura” per certe cose), e mi fa specie che proprio un archeologo per scelta non se ne accorga.

Si rifletta sul fatto che, l’aver promosso questo modo di progettare e costruire anche in Italia, l’aver insegnato in maniera ideologica e monodirezionale, ha portato alla creazione di una massa di architetti che non sono assolutamente in grado di restaurare in maniera rispettosa il patrimonio storico! I crolli di Pompei e L’Aquila, ma anche quelli che di qui a breve rischiano di interessare sempre Pompei, ma anche Selinunte dovrebbero mettere in allarme chi vorrebbe “vivere di archeologia e cultura”. 


L’affannosa ricerca formale verso architetture aliene ”rappresentative dell’ambizione di molti architetti di disegnare edifici che siano riconoscibili. Insomma che provino a raccontare una nuova storia” è gravemente dannosa per quel patrimonio che dovremmo tutelare. Se progetti come quello di Benthem Crouwel dovessero iniziare a proliferare anche in Italia (se ce n’è uno perché non cento? O mille?) che cosa rimarrà nel nostro Paese ad attirare i turisti? e poi, indipendentemente dal turismo, perché gli architetti dovrebbero essere autorizzati a fare edifici autocelebrativi strafregandosene del concetto di bene e bello comune?? Ma soprattutto, se intimidiamo i nostri studenti e li convinciamo della necessità di non commettere “falsi storici”, se in nome di una impellenza di progettare solo architetture futuristiche, perché appartenenti al XXI secolo, non insegniamo più a disegnare e costruire anche in maniera filologica e rispettosa dell’architettura del nostro passato, anche più recente, chi mai più sarà in grado di mantenere in vita il nostro patrimonio?

Viollet-Le-Duc, preoccupato per il modo dittatoriale in cui si insegnava l’architettura al tempo dell’Academie des Beaux Arts di Parigi, perché a suo avviso metteva a rischio il patrimonio architettonico medievale francese, a causa dell’assenza di conoscenze tecniche in materia, disse: “per quanto riguarda la folla degli studenti, dopo aver progettato per dieci anni monumenti impossibili e indescrivibili, essi non hanno davanti a sé che la prospettiva di un posto in provincia, oppure il settore privato. Ora, bisogna riconoscere che essi non sono stati assolutamente preparati a svolgere queste funzioni. Poche idee pratiche, molti pregiudizi, nessuna conoscenza dei materiali del nostro paese e dei modi di impiegarli, il profondo disprezzo dell’ignoranza per le arti proscritte dalla scuola e difficili da studiare e conoscere; nessuna idea della direzione e dell’amministrazione dei cantieri, nessun metodo, e la mania di fare dei monumenti, quando si tratta semplicemente di edificare costruzioni solide, adeguate, adatte alle esigenze” (...) “dal fatto che fate costruire tutte le case di una strada o di una piazza con lo stampino, dal fatto che esigete che il vostro architetto riempia una facciata di finestroni simili, malgrado i servizi molto diversi contenuti nell’edificio, concludete di dar prova di rispetto per l’arte. Errore, voi la torturate; vi trasformate nel suo boia; (…) e cos’è dunque l’espressione del pensiero, se siete costretti a ripetere quanto dice il vostro vicino, o a dire bianco quando vedete nero?”.


Senza ombra di dubbio noi potremmo dire esattamente oggi le stesse cose relativamente ai danni culturali prodotti da una maniera del tutto distorta di guardare alla modernità (modernismo) e, soprattutto, di insegnare l’architettura in nome di un complesso di inferiorità culturale che non ci appartiene.
Osannare progetti come quello in oggetto, e criticare la nostra presunta limitata apertura al contemporaneo – specie da parte di chi, per scelta professionale, dovrebbe mirare alla tutela più assoluta del nostro retaggio culturale – equivale dunque all’auspicare la distruzione del nostro patrimonio … un po’ come quel marito che, per far dispetto alla moglie prese una decisione autolesionista alquanto discutibile!



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5 novembre 2012

PALAZZO SULLA FONTE: NO AL FALSO STORICO

Pubblico il commento al post precedente inviatomi dall'amico Franco Lani, Progettista e Direttore dei Lavori della ricostruzione del Palazzo sulla Fonte, a nome anche degli altri progettisti prof. Arch. Andrea Branzi e Arch. Antonio Bigi.
A fine commento un elenco incompleto di post correlati al "falso storico"

A Giulio Rupi

Di solito evito di polemizzare sull’architettura e specialmente on-line, per tanti motivi ma principalmente perché credo che qualsiasi produzione artistica (com’è anche l’architettura) debba essere considerata “opera aperta” (Umberto Eco) e che quindi ognuno ha il diritto di dialogare con essa a suo piacimento e di fare le considerazioni secondo le proprie sensibilità …..

Andrea Branzi

Ho pensato però che Giulio meritasse una risposta (che egli stesso chiede), non solo perché è un carissimo amico che stimo profondamente, ma per fargli presente che, in questo caso, ha di gran lunga frainteso le nostre intenzioni. Se avesse visto forse il progetto completo e non si fosse soffermato esclusivamente sulla “risega”, non avrebbe espresso questo giudizio ed avrebbe compreso ( anche se magari non apprezzato) il nostro intendimento.

Brevemente: mai e da nessuno di noi progettisti è stata pensata questa piccola discontinuità (circa 6 cm) delle pareti della ricostruzione rispetto all’esistente per “dare ….dignità di fatto storico alla bomba…”, ma, insieme ad altri accorgimenti quali: un intonaco diverso da quello dell’edificio superstite, un sottotono di colore, la previsione d’infissi esterni ad un’anta-ribalta in bronzo, ecc…, si vuole sottolineare semplicemente che questa parte dell’isolato non è coeva all’esistente.
Invece di riproporre cioè una ricostruzione-copia perfetta dell’edificio distrutto (anche se lo potevamo fare perché in possesso di foto e disegni antecedenti il bombardamento) abbiamo optato per una soluzione che, com’è stata definita dalla Commissione d’esperti del Ministero della Cultura, “ denunciasse garbatamente l’avvenuta ricostruzione mediante un consapevole intervento moderno, dove l’identificazione con il passato resta essenzialmente legata alla volumetria , all’articolazione dei prospetti e al modo di trattare le superfici……”.

Non si tratta quindi di aver voluto storicizzare drammaticamente l’evento distruttivo (come invece è stato fatto nella ricostruzione dei palazzo dei Georgofili a Firenze) ma non abbiamo però voluto aggiungere al nostro centro storico un ulteriore falso architettonico come successo ampiamente nei primi decenni del ‘900 su buona parte di esso tant’è che oggi d’autentico medioevale ha ben poco. Ci siamo in sostanza avvalsi della metodologia corrente nel restauro e ricostruzione delle opere d’arte (vedi il restauro degli affreschi di Piero o il recupero di bassorilievi o la ricomposizione dei reperti di vasellame) laddove si ricostruiscono e definiscono i volumi, le superfici e i colori delle parti mancanti tralasciando la definizione dei dettagli anche se conosciuti.

Vorrei infine tranquillizzare il simpatico Ettore Maria, che non ho il piacere di conoscere, ricordandogli che l’età di noi progettisti è tale da rendere improbabili “riseghe” ancorché “mentali”.

Franco Lani


POST CORRELATI AL "FALSO STORICO"

Riflessioni sul Falso storico
Il tabù del falso in archittetura
Ma solo l'antico è falso?
Gli architetti con il falso sempre in bocca
Dov'era, com'era
De corrupta aedificandi ratione, ovvero come progettare falsi e vivere felici

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31 ottobre 2012

RICOSTRUZIONE NEL CENTRO STORICO DI AREZZO: UNA DOMANDA

Una breve premessa informativa a questo post di Giulio Rupi.
Il progetto di cui si parla ha avuto una lunga e travagliata storia brevemente riassunta in questo articolo su www.arezzonotizie.it, Al via la ricostruzione del Palazzo della Fonte, dal quale sono tratte le due immagini dei prospetti del progetto in costruzione.
Il primo progetto, di cui ho immagini troppo piccole per essere pubblicate, voleva "denunciare" in maniera evidente la sua "modernità".
I progettisti sono:
il Prof. Arch. Andrea Branzi (Politecnico di Milano), il Prof. Arch. Michele Paradiso (Università degli studi di Firenze), il Prof. Arch. Giacomo Tempesta e i professionisti Arch. Franco Lani, Arch. Antonio Bigi, Ing. Gianni Cinelli, coadiuvati dalla struttura tecnica di Banca Etruria.


RICOSTRUZIONE DEL PALAZZO DELLA FONTE NEL CENTRO STORICO DI AREZZO: UNA DOMANDA
di Giulio Rupi

Ad Arezzo, nel 1944, nel corso di un bombardamento degli Alleati, una bomba ebbe a colpire, in pieno Centro Storico, un palazzetto posto a pochi metri dalla splendida Pieve romanica, lasciando quest’ultima miracolosamente illesa.
Era questo un edificio di quattro piani, posto d’angolo all’incrocio di due strade, adiacente, su ognuno dei due fronti, a palazzi altrettanto alti. Con la bomba ne era rimasto in piedi un solo piano, creandosi una visibile stonatura, come di un dente rotto in mezzo a una fila di denti sani.

In città, da allora, si è discusso e discusso su come ripristinare l’armonia perduta, riportando quell’edificio alla sua altezza originaria. Si son presentate svariate proposte finché finalmente, dopo quasi settant’anni, ha da poco preso avvio il cantiere della ricostruzione.

A quanto si sa il progetto è passato attraverso successive versioni e da una precedente versione “modernista” e poco contestualizzata si è fortunatamente addivenuti a più miti consigli con una operazione quasi di “mimesi” che riprende le caratteristiche dell’edificio preesistente (anche se non si è mai nemmeno presa in considerazione l’idea di non progettare alcunché e rifarlo esattamente come era, ma sarebbe stato pretendere troppo!).

E tuttavia, per quanto mi ha riferito uno dei progettisti (non conosco nei dettagli il progetto) si è voluto sottolineare la storia del palazzo evidenziando il nuovo attraverso uno sfalsamento tra i piani delle facciate del vecchio e quelli del nuovo: una sorta di “risega” che mostrerà ai posteri le due fasi di formazione dell’edificio.
A questo punto si inserisce, brevissimo, il mio commento, anzi una domanda che vorrei porre ai progettisti.

C’è proprio bisogno di dare tutta questa dignità di fatto storico a un grosso barattolo appuntito di metallo, riempito di materiale esplosivo (la “bomba”) per farne un evento da evidenziare nei secoli? Che differenza con, che so, lo spigolo di un muro d’epoca demolito per sbaglio da un camion in retromarcia?
Troppo onore, amici progettisti, per una miserabile bomba della seconda guerra mondiale! Storicizziamo tutto, ma evitiamo di dare alle bombe la gloria immeritata di un segno perenne proprio in uno dei punti focali del nostro meraviglioso Centro Storico.

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30 ottobre 2012

UNA RIMPATRIATA DI ANTICHISTI

Questo post è un commento scanzonato al precedente di E.M.Mazzola su Corviale. Scanzonato perchè mi sembra un modo serio di affrontare le corbellerie che sono scritte nel programma.

Il Belpaese, non pago della quantità di opere d’arte, di siti archeologici, di opere di architettura di ogni epoca, di musei che trasudano arte e storia di arte, di città e borghi tra i più belli del mondo, della più grande varietà di paesaggi naturali e antropizzati mozzafiato e da cartolina concentrati nella misera superficie di uno stivale, sottoposti all’attacco del tempo e alla pressione dell’uomo, con un crollo al giorno di opere di valore storico-artistico inestimabile, non pago dunque di questo immenso patrimonio che non sarebbe poi male conservare per tramandarlo ai posteri e per farci anche parecchi quattrini, si potrebbe addirittura arricchire di altri due capolavori dell’architettura che il mondo ci invidia e di cui, nella nostra italica trascuratezza, non ci eravamo accorti: le Vele di Scampia e il Corviale di Roma.

Delle Vele di Scampia, purtroppo, abbiamo già perso qualche pezzo, grazie al genio distruttivo di quel picconatore, per l’appunto, del Presidente Cossiga, che volle fortemente fosse perpetrato questo scempio. Ma un po’ di tempo fa il soprintendente di Napoli si è spinto, a più riprese, a dichiarare che le Vele rimaste (una, due, e chi lo sa, chi si azzarda ad andare a contarle senza l’esercito) sono meritevoli di vincolo e di tutela.
Del Corviale invece l’architetto Mazzola ci ha informato nel post precedente che c’è una iniziativa in corso per cui “Il 30 ottobre Corviale sarà riconosciuto progetto di rinascita a valenza nazionale al Ministero dei Beni Culturali”.
Dunque è imminente la rinascita nazionale grazie al Corviale. Angela Merckel, Olly Rehn e Standard &Poor’s non aspettavano altro per farci riavere la tripla A.


Ma forse no, forse vogliono intendere qualcosa d’altro. Ma che vorrà dire allora “rinascita a valenza nazionale”? Vorrà dire che la nazione intera dovrà impegnarsi a pagare per farlo rinascere il Corviale? Intanto, se bisogna farlo rinascere allora vuol dire che è morto, e questo non è buon segno, e poi se partono con queste intenzioni ho paura che caschino male, perché se c’è da scucire soldi agli italiani con il consenso degli italiani stessi hanno proprio sbagliato momento. Forse intendono che la nazione intera dovrebbe essere coinvolta emotivamente e culturalmente per la rinascita dello stesso? Ma figuriamoci, la nazione ha cose più importanti cui pensare in questo momento. Non fosse altro, per parlare di rinascite vere, al terremoto di Emilia e Lombardia, a quello in atto nel Pollino e alla ricostruzione de L’Aquila, che mi sembrano, anche ognuna separatamente, lievemente più importanti della rinascita del serpentone.

Possibile che abbiano inteso davvero una delle tre sciocchezze di cui sopra? Diamogli credito di non essere proprio sprovveduti. Ma allora, cosa vogliono davvero?

Vogliono fare una rimpatriata, tutto qui! E che sarà mai! Sono nostalgici, quasi antichisti. Hanno la testa girata indietro e non riescono a vedere all’oggi e nemmeno al domani. Al Pantheon ci sono i monarchici che fanno la guardia alla tomba del Re? E’ apprezzabile, ci credono, ne hanno rispetto e fanno la guardia. Questi invece sono fermi agli anni ’70, al sogno delle macrostrutture in salsa italiana che, unito ad una visione sociale e politica collettivista, era una sorta di coazione a ripetere le visioni utopistiche dell’ottocento. Rifiutano la società aperta dove l’individuo è centrale anche se inserito sempre e comunque in una comunità di persone. Sono conservatori, appunto, hanno fossilizzato le avanguardie del ‘900, con una punta di romanticismo però, questo sì, perché affondano le loro radici e tradizioni nell’800, concretizzato nelle forme degli anni ’70. In fondo sono veri tradizionalisti.
D’altronde in qualche modo, chi più chi meno, li hanno vissuti quegli anni oppure ne hanno respirato gli aromi, li hanno assimilati a scuola da zelanti, nostalgici professori e queste cose restano.

Come si fa una rimpatriata? Dipende: quelle scolastiche si fanno a cena al ristorante, e in genere sono piuttosto tristi perché qualcuno inevitabilmente manca all’appello, quelle invece dell’Accademia si fanno con un bel Convegno, con i manifesti con su scritti tutti i nomi dei partecipanti, con un occhio di riguardo a non sbagliare i vari titoli, ordinario, associato, ricercatore, direttore, presidente, coordinatore di qualche cosa, insomma tutto il medagliere sul petto.
E poi bisogna che il tema sia forte, originale, che colpisca l’immaginario collettivo del proprio ambiente, ed ecco dunque “la rinascita a valenza nazionale”, che il 30 ottobre sarà riconosciuta al Ministero dei Beni Culturali.

Cosa vorrà dire quel “al” Ministero, quando sarebbe più corretto dire “dal” Ministero, questo mi è oscuro. Fa pensare più ad una speranza che ad una certezza. Come se qualcuno portasse, il 30 ottobre, questa proposta di “valenza nazionale” all’Ufficio protocollo del Ministero sperando che l'impiegato lo trasmetta con solerzia. Ma certo non seduta stante, non esageriamo. Mica pretenderanno che la Commissione competente (ci sarà pure una Commissione competente!) sia riunita in seduta permanente e anche se lo fosse che riceva subito la proposta e la deliberi e magari l’accolga in mattinata!

Eeeeh, va bene l’Accademia, vanno bene i titoli, vanno benissimo i nomi e le provenienze accademiche e istituzionali ma insomma, anche la forma va salvata e le decisioni importanti, e questa è una di quelle, è nazionale addirittura, richiede le giuste procedure, richiede il giusto tempo di maturazione, insomma. Le decisioni frettolose non appaiono mai importanti, troppo emergenziali. Questa no, questa richiede riflessione profonda, anche se il risultato finale è certamente assicurato.

Quindi, in attesa della maturazione, questi distinti signori, che mi piace immaginare con l'eskimo, che però oggi è stato rivisitato in parka, e sciarpa di lana rossa, che oggi è più tipo pashmina, potrebbero farsi un giro in internet (l’hanno già inventato da tempo) per vedere che all’estero roba analoga, anche di Maestri riconosciuti, in genere la demoliscono per ricostruirla in modo più normale e, ahimè, più populista ma più adatto alle persone che ci devono vivere e più adatto anche alla situazione sociale e politica che non è particolarmente propensa alle comuni e dove, semmai, c’è l’eccesso opposto, quello che ognuno vuole fare quello che gli pare.
Di certo non vuole vivere in un edificio lungo un chilometro, e non basterebbero nemmeno i saldi con lo sconto del 50% riducendolo a 500 metri. Temo ci sia al massimo il "Tutto fuori",

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28 ottobre 2012

CORVIALE RICONOSCIUTO PROGETTO DI RINASCITA A VALENZA NAZIONALE

di Ettore Maria Mazzola

Martedì 30 ottobre 2012, presso il MIBAC, nel Complesso di S. Michele a Ripa, Sala dello Stenditoio, si svolgerà il Forum "La forza nel Segno. Corviale e il suo territorio 35 anni dopo".
Secondo gli organizzatori “si tratta di un'importante iniziativa con cui si apre formalmente il processo partecipato, che porterà all'elaborazione del Piano strategico del sistema locale di Corviale.

Il messaggio diffuso dagli organizzatori addirittura annuncia che “Il 30 ottobre Corviale sarà riconosciuto progetto di rinascita a valenza nazionale al Ministero dei Beni Culturali”!!

Ma ve lo immaginate il Corviale portato agli allori di un immobile vincolato alle Belle Arti?

Il programma prevedrebbe anche un “confronto” … per gli organizzatori mostrarsi pluralisti è importante … non sia mai si dovesse dire che sono lì per ragioni ideologiche!
E allora prendiamoci la briga di andare a leggere i nomi degli invitati al “confronto”, (Luca Zevi, Curatore Padiglione Italia Biennale Venezia 2012; Fabrizio Battistelli, Sociologo Università La Sapienza; Massimo Billia Direttore Generale ATER; Daniel Modigliani Presidente INU Lazio; Francesco Moschini, Segretario Generale Accademia Nazionale di San Luca; Coordina : Giuseppe Pullara, giornalista; Collegamento Skype da New York: Richard Plunz dalla Columbia University) così come quelli dei vari architetti e/o esperti di arte invitati a parlare e/o confrontarsi su diverse tematiche (Maria Grazia Bellisario, Direttore Servizio Architettura e Arte contemporanee – Direzione generale per il paesaggio le belle arti l’architettura e l’arte contemporanee; Piero Ostilio Rossi, Capo Dipartimento Architettura e Progetto Università La Sapienza Roma; Maria Maddalena Alessandro, architetto, Direzione Generale PaBAAC; Barbara Pizzo, ricercatrice Università La Sapienza; Bartolomeo Pietromarchi, direttore museo MACRO; Gianni Orlandi, Professore ICT La Sapienza; Giuseppe Imbesi, Ordinario Urbanistica La Sapienza; Giorgio Nebbia, Professore Emerito; Marco Maria Medaglia, Cattid La Sapienza & Miur; Stefano Boeri, Urbanista Politecnico Milano; Pino Galeota, Corviale Domani; Achille Bonito Oliva, Curatore progetto Parco Nomade Corviale) … ci rendiamo subito conto che più che di pluralismo ci troviamo, per l’ennesima volta, davanti ad un monologo monista.


Si vorrebbe far credere ad un processo partecipativo, ma le decisioni sono già prese. Chi conosce i proclami di Pino Galeota e dei suoi affiliati di “Corviale Domani” sa benissimo che l’unico obiettivo di queste persone che al Corviale non vivono, è quello di tenere in piedi l’ecomostro, le ragioni potete immaginarvele da soli! Chi conosce le loro battaglie sa benissimo che quello che loro chiamano “riqualificazione di Corviale” mira solo ed esclusivamente alla regolarizzazione delle unità immobiliari abusive del 4° piano!
Già, quel 4° piano che nella mente confusa del progettista avrebbe dovuto ospitare i negozi e che, ovviamente, non ha mai visto nessun impavido commerciante azzardarsi ad aprire un’attività fallimentare. Quei negozi avrebbero potuto funzionare solo nella mente malata di chi credesse fermamente nell’ideologia “funzionalista” post Le Corbuseriana, sicché oggi l’intero 4° piano risulta occupato abusivamente da abitazioni, da uno studio dentistico, dalle sedi di tutti i partiti politici, e tante altre situazioni assurde!
Ebbene, secondo i signori di Corviale Domani, tutti gli abusivi del 4° piano meriterebbero la spesa di oltre 27 milioni di Euro stanziati dalla Regione Lazio e bloccati dall’ultimo assessore di passaggio il quale, agli occhi di questi signori, si sarebbe macchiato del peccato di immaginare che sarebbe stato meglio bloccare questa spesa folle, e pensare ad investire quella somma in qualcosa che migliorasse la vita dei 6500 residenti regolari.
Ecco quindi che i promotori di un processo partecipativo dovrebbero considerare che sul Corviale esistono due posizioni radicalmente differenti:
1. I sostenitori dell’ecomostro che raccontano quanto sia bello e vitale “il Quadrante di Corviale”, mostrando immagini del Buon Pastore di Brasini e della campagna romana … un complesso architettonico ed un paesaggio che, semmai, risultano mortificati dalla presenza del Serpentone. Questa “fazione”, molto attiva, propone di tutto, e organizza convegni e mostre per i quali piovono soldi pubblici che potrebbero investirsi altrove, magari a beneficio dei residenti regolari … così si assiste a proposte che vanno dalle Olimpiadi a Corviale all’uso della campagna circostante il mostro per realizzare una mostra di “sculture” e “installazioni” di arte contemporanea, dalla realizzazione di un orto pensile sui tetti di Corviale (che già ha parecchi problemi di infiltrazioni per dover prendersi pure un “tetto verde” che non porta alcun beneficio alla natura ed alle falde freatiche) all’installazione di pannelli fotovoltaici, sempre sul tetto, ecc., fino alla folle idea di far vincolare l’ecomostro dal MIBAC affinché mai a nessuno venga più in mente di promuoverne l’abbattimento.
Per un approfondimento sulle iniziative e sulla recente storia di Corviale rimando a questo mio post: Toglietemi tutto ma non il Corviale dell’aprile 2012.

2. I sostenitori dell’abbattimento e sostituzione del mostro con un quartiere a dimensione umana dotato di tutti i servizi e gli spazi per la socializzazione. Un progetto che vedrebbe il graduale spostamento, senza traumi, per i residenti, i quali lascerebbero le proprie case solo quando, a pochi metri di distanza dall’attuale edificio, saranno pronte ed abitabili quelle nuove. Un progetto che non avrebbe costi, ma solo profitti per la pubblica amministrazione. Un progetto voluto a gran voce dai residenti chiamati ad esprimersi nel lontano 2001, tanto che venne organizzato un convegno – Recupera Corviale – sempre presso la Sala dello Stenditoio del Complesso di S. Michele a Ripa, che mostrò all’intera cittadinanza la volontà popolare di abbattere lo scempio urbanistico architettonico e sostituirlo con un quartiere di case a dimensione umana.

Ebbene, in un convegno che proclama l’intento di una progettazione partecipata con i residenti, dove sono i rappresentanti del secondo schieramento? Perché nessuno è stato invitato a far conoscere l’alternativa all’accanimento terapeutico sull’ecomostro?? In base a cosa, dunque, gli astanti potranno esprimersi correttamente su da farsi???

Sembra di rivedere il fantomatico “processo partecipativo” del sindaco Alemanno sul progetto di ricostruzione degli edifici di via Giulia, dove 7 progettisti da lui scelti a tavolino svilupparono dei progetti che, obbligatoriamente, avrebbero dovuto evitare la ricostruzione filologica degli isolati di Palazzo Ruggia e Palazzo Lais, voluta dai cittadini di via Giulia e proposta dal prof. Marconi e dal sottoscritto in occasione di un progetto sviluppato con gli studenti delle università di Notre Dame, Miami e Roma Tre … i cittadini, in pratica, avrebbero dovuto esprimersi su quale dei 7 progetti, simili per concezione ideologica, avrebbe dovuto realizzarsi lungo la storica strada (Vedi Il Covile, Via Giulia).

È come in quel film comico sulla mafia in cui il padrino di turno mette il suo interlocutore davanti ad una “doppia” soluzione dicendo: “puoi scegliere, ffaai come dico ioo, oppure …. laa sseconda possibilità? Miii, nno mmela rrricordo!”.

Personalmente ho sviluppato un progetto di rigenerazione urbana per Corviale, all’epoca lo feci semplicemente a scopo dimostrativo, e non avrei mai immaginato che la cosa potesse avere un seguito, invece il progetto, in occasione della 49^ Conferenza dell’International Making Cities Livable, tenutasi a Portland, Oregon nel maggio 2012, ha perfino ricevuto il “Premio Internazionale di Progettazione Urbana come progetto esemplare di rigenerazione urbana, come riconoscimento per l’illuminata proposta di sostituzione di un ‘gratta-terra’ con una cittadella neo-tradizionale a scala umana, fatta di edifici a destinazione mista e piazze, che migliora il paesaggio, il benessere sociale ed economico, senza danneggiare gli abitanti”.

Quel progetto è stato invitato ad essere mostrato a Mosca, in occasione della Biennale 2012 di Architettura, è stato presentato a South Bend, Indiana, in occasione del Convegno “Durability in Costruction” e pubblicato negli atti del convegno, è stato mostrato ad Helsinki in occasione del Convegno “SB11 World Sustainable Building” e pubblicato negli atti del convegno, a La Spezia, in occasione del Convegno “La Cultura della Città, valorizzazione e rigenerazione urbana e ambientale” … in pratica ovunque tranne che a Roma. Ma come il mio progetto, esiste anche quello sviluppato da Gabriele Tagliaventi, anch’esso basato sull’ipotesi di sostituire il mostro.

I progetti sono noti ai signori di Corviale Domani, i quali fingono di non sapere. Probabilmente, agli occhi dei residenti, il confronto potrebbe risultare devastante per propri scopi, sicché è meglio nascondere, o meglio “condannare alla pena del silenzio”, come diceva Viollet-Le-Duc.

Ma questo non è corretto. I cittadini regolari di Corviale meritano più rispetto, e solo loro, in quanto residenti, hanno il diritto di decidere cosa sarebbe giusto e non fare sulla collina del Corviale.
Il mio progetto, come quello di Tagliaventi, non vuole essere “il progetto”, ma “un progetto”, in base al quale sviluppare un dibattito che consenta ai cittadini di esprimersi in maniera serena e, soprattutto, completa.
Un giudice non può esprimere un giudizio senza aver ascoltato i testimoni di ambo le parti, né senza aver ascoltato le diverse versioni dei fatti. Chi opera diversamente si comporta da dittatore proclamandosi democratico!

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