Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 agosto 2010

STRADE - 3°: RUDOFSKY E MUGNAI

Continua la serie di post dedicata alla strada: il primo è un testo di Bernard Rudofsky tratto da Strade per la gente, Laterza, 1981; il secondo è un articolo delle Norme tecniche di attuazione del Regolamento urbanistico di Arezzo, Coordinatore Arch. Antonio Mugnai.
Due testi completamente diversi, naturalmente, ma soprattutto due modi completamente diversi di trattare il tema strada, la città e, aggiungo, i suoi abitanti.


Bernard Rudofsky


Dalla Prefazione dell'autore
Quasi tutto ciò che ci pone al disopra dei selvaggi, affermava Samuel Johnson, è venuto dalle rive del Mediterraneo ......... Johnson però si riferiva alla propria isola, la Gran Bretagna, che, pur essendo meno remota dalla culla della civiltà, aveva avuto con essa pochi contatti da quando aveva cessato di essere una provincia romana. Se gli americani non hanno tratto profitto dalla tradizione umanitaria del Vecchio Mondo, la colpa sta tutta nella presunzione degli Wasp.
Tutto sommato, "l'anglossasomania" ha avuto sull'America settentrionale, negli anni della sua formazione, un effetto raggelante.


Per offrire una valutazione realistica di ciò che affligge l'America, questo libro risale alle origini della strada americana - sia pure sommariamente - sino all'epoca coloniale. New York è oggetto di particolare indagine perché è, per così dire, più città di tutte le città americane messe assieme. Esemplifica tutti i loro aspetti, i migliori e i peggiori. Posizione, topografia e latitudine l'avrebbero destinata a vera grandezza, se l'avessero plasmata persone con istinti migliori e con il gusto dela vita. Per rimescolare i luoghi comuni, più o meno radicati, sull'argomento, alle strade americane si contrappongono esempi tratti da una dozzina di paesi occidentali, e strade africane e asiatiche, grandi osservatori del comportamento umano. Se non altro per il fatto che incarna l'antitesi della strada americana, si documenta poi con ampiezza la strada intensamente italiana. Forse non indica il migliore dei mondi possibili, ma offre comunque, per citare un imparziale architetto americano, James Marston Fitch, "la più deliziosa esperienza di abbraccio e recinzione di uno spazio che esista sulla terra".

L'Italia è lo specchietto retrovisore della civiltà occidentale. Come le sue città sono sempre state modelli di vita urbana, così le sue strade - esempi apparentemente antiquati ma, anche a un breve esame, tuttora validi, e anzi orientati verso il futuro - esprimono soprattutto quel tipo di ispirazione che prescinde dalle teorizzazioni. Certo anche in Italia le strade pedonali son diventate rare, sin quasi a sparire. Solo di recente, dopo anni d'infatuazione per l'automobile, gli italiani hanno cominciato ad anteporre l'amore per la strada ai piaceri offerti dal giocattolo puzzolente. Un crescente numero di città.... ha preso i primi provvedimenti per escludere il traffico automobilistico dai centri urbani, recuperando così le strade al loro uso originario.
Lo stesso hanno fatto alcune città americane. Recentemente si sono creati viali pedonali (i "viali" con aria condizionata non sono strada: sono edifici) sostituendo puramente all'asfalto tipi di pavimentazione tradizionalmente associati a una velocità di due miglia o meno, e piantando alberi proprio in mezzo alla strada........ I risultati sono tutt'altro che memorabili, perchè la strada non è un'area, ma un volume. Non può esistere in un vuoto: è inseparabile dal suo ambiente. Non è insomma migliore della compagnia delle case che frequenta. La strada è la matrice: camera urbana, terreno fertile e luogo di cova. La sua vitalità dipende dal giusto tipo d'architettura quanto dal giusto tipo di umanità

La strada perfetta è uno spazio armonioso. Sia essa delimitata dalle case quasi ermetiche di una casbah africana o dai palazzi veneziani di marmo filigranato, ciò che conta è la continuità e il ritmo della sua recinzione. Si potrebbe dire che una strada è tale per cortese concessione degli edifici che la fiancheggiano. I grattacieli e gli spazi vuoti non fanno una città. E' bene notare che i trionfi dell'architettura occidentale non si celebrano nei singoli edifici (come vorrebbe farci credere il tipo più parruccone di storico dell'arte) ma nell'insieme delle strade e delle piazze di uan città. Gli edifici anonimi ne determinano l'aspetto non meno dei monumenti architettonici. Gli inestimabili objets d'art, i punti di riferimento, sono come i chicchi d'uva dell'impasto che serve a confezionare una città.....


Dal capitolo: Cosa c’è in un nome
In passato le strade prendevano spesso nome dal luogo al quale portavano: una città, una montagna o il mare. Questi nomi topografici favorivano l’orientamento e permettevano a una città di mettere, per così dire, radici nel paesaggio. Una strada come la via Nomentana di Roma si chiama così da migliaia di anni. La città di Nomentum è da tempo scomparsa, ma la strada segue l’antico percorso ed è oggi una delle principali vie di uscita dalla capitale. O, per citare esempi di strade parigine, le Avenues de Neully, Clichy e st. Ouen procedono diritte verso le località di cui portano il nome. Per qualche strana ragione questa maniera elementare di dare un nome alle strade non ha attecchito negli Stati Uniti. Alla punta meridionale di Manhattan c’è un’Albany street, ma non ha alcun rapporto con Albany, la capitale dello Stato, e potrebbe altrettanto appropriatamente chiamare Albania Street. E’ lunga solo due isolati e non porta in nessun posto.

Negli Stati Uniti, di regola, i nome delle strade non sono gravati di connotazioni geografiche, storiche o mitologiche. “A giudicare da come chiamiamo le nostre strade – ha scritto W.W.Crane – noi americani possiamo essere considerati il popolo meno estetico del mondo”………..

I nomi attribuiti alle strade rivelano a volte il posto che esse occupano nel cuore della gente. A Perugia, l’Eden delle strade, tradiscono un affetto evidente. Nella parte più antica della città le vie si chiamano Deliziosa, Graziosa, Quieta, Favorita, della Sposa, Solatìa – un vero harem stradale. Anche se possono apparire stravaganti alle orecchie di persone cresciute della Duecentocinquaduesima strada o in Avenue B, questi nomi corrispondono al carattere sensuale delle strade italiane.


Ancor più pertinente è il gran numero di termini generici che riflettono la varietà del paesaggio stradale italiano: vico, vicolo, via, viale, calle, corso, lista rio, riva, rua, ruga, rughetta, ramo, sacca, secco, scali, scalinata, salizzata, sottovia, ecc. Essi indicano che una strada è larga o stretta, piana o in pendio, a gradini, intransitabile, tortuosa, che sale o scende (s’intende verso il centro cittadino), che passa sopra o sotto un’altra strada, che è alberata o costeggiata dall’acqua, e così via. Certi termini, poi, sono propri di alcune città. “Fondamenta” (piattaforme sorrette da pali, e “rioterra” (canali colmati) sono specialità veneziane; “calata” (il luogo dove si calano le vele, cioè un approdo) appartiene a Genova, e “strada” è tipicamente napoletano. E’ raro confondere una di queste vie con un’altra: non ce ne sono due uguali, tranne che nei quartieri urbani sorti in epoche recenti.


Negli Stati Uniti si punta soprattutto sull’uniformità, anche se è vero che ci sono broadways e avenues, e persino boulevards. Le avenues furono introdotte per la prima volta dal francese L’Enfant che ideò la pianta di Washington (e non venne mai pagato). Le strade che attraversano Manhattan da nord a sudsono state fastosamente battezzate avenues benché non corrispondano alla definizione di questa parola, che indica una grande strada, fiancheggiata da alberi o contrassegnata, a intervalli regolari, da altri oggetti d’attrazione (in Egitto, dove non ci sono alberi, un’avenue potrebbe essere bordata da sfingi)………..


Per i monumenti architettonici le strade sono sempre state un ambiente assai migliore delle piazze. La navata di una chiesa acquisisce un’altezza torreggiante se ci si arriva da una strada corta e stretta, come avveniva per Notre-Dame di Parigi prima che venisse banalizzata da remoti risanamenti edilizi. Mentre una volta la sua grandiosa massa era visibile solo da vicino, ora è possibile coglierla da lontano, e la conseguenza è che appare rimpicciolita, come se la vedessimo dalla parte sbagliata di un telescopio. L’elemento sorpresa è sparito. Altra vittima di un’urbanizzazione grossolana è il Colosseo. Negli anni trenta, quando il cuore della città venne tagliato da via dei Fori Imperiali, una larga falciata di strada, il Colosseo, situato nel suo punto di fuga, fu ridotto ad un gingillo. Visto da un chilometro di distanza, assomiglia esattamente alle sue riproduzioni di latta in miniatura che si vendono nei negozi di souvenir.........


Arch. Antonio Mugnai, Coordinatore e altri

Art. 142 – Sottosistema M3: strade di distribuzione (urbane di quartiere)
1. Le strade appartenenti al sottosistema M3 corrispondono alle infrastrutture stradali definite dal Codice della Strada come Strade extraurbane secondarie e devono fare riferimento ai seguenti elementi ai quali tendenzialmente dovranno uniformarsi:
- strade ad unica carreggiata;
- con almeno una corsia per senso di marcia e banchine;
- con intersezioni che potranno essere organizzate a raso e dovranno garantire elevati standard di sicurezza e minimizzare gli effetti indotti dalle interferenze tra flussi di traffico.
2. Su tali strade sono ammesse le seguenti componenti di traffico:
a - movimenti di autoveicoli privati;
b - movimenti di autoveicoli in servizio pubblico, con fermate di linea;
p - movimento e sosta di pedoni.
………



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29 agosto 2010

PENSIERI SULL'ULTIMA BIENNALE DI VENEZIA

Ettore Maria Mazzola

Un uomo con i baffetti alla Hitler, un altro con la mano destra infilata tra i bottoni a metà camicia e il mignolo della mano sinistra infilato nell’orecchio, il terzo con maglietta a righe orizzontali bianche e blu, berretto a girandola e lecca lecca gigante. Potrebbe essere questa l’immagine della giuria di esperti, presieduta da Paolo Baratta che ha deciso, su proposta del Direttore della 12^ edizione Kazuyo Sejima, di dare il Leone d’Oro alla carriera a Rem Koolhaas.
Il sito web della biennale ne riporta anche la motivazione della giuria, che però risulta scritta solo in inglese … e già, siamo in Italia, o forse in “ailatI” – secondo l’organizzatore del Padiglione Italiano alla Biennale Luca Molinari – ma la lingua italiana non viene presa in considerazione! Chissà mai che gli italiani dovessero capirne la motivazione?

Rem Koolhaas has expanded the possibilities of architecture. He has focused on the exchanges between people in space. He creates buildings that bring people together and in this way forms ambitious goals for architecture. His influence on the world has come well beyond architecture. People from very diverse fields feel a great freedom from his work.”

E allora ecco perché Koolhaas meriterebbe il Leone d’Oro:

Rem Koolhaas ha allargato le possibilità dell’architettura. Si è focalizzato sull’interazione tra le persone nello spazio. Egli crea edifici che fanno socializzare la gente, e in questo modo forma degli obiettivi ambiziosi per l’architettura. La sua influenza sul mondo è andata oltre l’architettura. Gente appartenente ad ambiti assolutamente diversi sente la grande libertà del suo lavoro”.

Ma forse sarebbe stato meglio essere più onesti e, visto che si tratta di un premio alla carriera, avrebbero dovuto darglielo per la sua famosa frase intorno alla quale ha svolto tutta la sua opera: “Fuck the context”, ovvero “fanculo il contesto!
Vediamo allora qualcuna di queste opere “socializzanti”:

Si potrebbe andare avanti con le immagini, ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa. Verrebbe da chiedersi: che cosa avevano bevuto a cena questi giurati?.
Forse, se nella commissione ci fosse stato il grande saggista, giornalista e scrittore statunitense James Howard Kunstler, autore di “The Long Emergency” e “The Geography of Nowhere” il giudizio sarebbe stato “leggermente” diverso. Egli, infatti, su Koolhaas non è andato per il sottile quando, intervistato poco dopo l’incendio che il 9 febbraio 2009 distrusse l’edificio di Koolhaas definì l’edificio come “incomprensibile”, e la sua architettura come “Anti Sociale e Despotica”. Andando più nello specifico, Kunstler disse: “molti architetti famosi, incluso Koolhaas, spesso si sforzano di confondere la gente al fine di apparire soprannaturalmente brillanti. Ma tutto risulta concentrato nel loro pensiero di grandiosità e narcisismo. Piuttosto che tentare di disturbare le nostre aspettative, gli architetti dovrebbero sforzarsi di darci edifici neurologicamente comprensibili e che soddisfino il nostro bisogno di orientamento culturale”.

E allora, come è possibile che questa commissione di “saggi” abbia premiato l’architetto olandese per la sua architettura “socializzante”?

Purtroppo gli architetti, e i critici dell’architettura, animati dall’assurda idea che l’arte e l’architettura per poter essere “moderne” debbano risultare trasgressive, hanno perso il controllo della situazione. Ai convegni si presentano tutti vestiti di nero, come dei corvi (1), e discutono tra loro di quanto sono bravi, talvolta chiedendosi come mai, la massa ignorante non li capisca. Poi però, ricordandosi che – secondo un principio astruso che risale alle avanguardie ottocentesche – i “grandi artisti” devono, SEMPRE, risultare incompresi, e che quindi occorreranno anni perché si possa comprendere il loro messaggio, si sentono sollevati dal dubbio, e continuano per la loro strada, certi di essere nel giusto.

D’altro canto le riviste specializzate, opportunamente sponsorizzate dall’industria edilizia, pubblicizzano quanto di più astruso possa esserci, purché dimostri l’impiego delle tecnologie e dei materiali più moderni, non fa niente se un domani risulteranno nocivi. Con l’avvento della “città funzionale” voluta da Le Corbusier e compagni, si è persa l’idea di città, e gli edifici non hanno più una relazione con essa essendosi ridotti ad una serie di oggetti isolati, fini a se stessi. Gli edifici “moderni” non dialogano con l’urbanistica, non ne hanno bisogno! … Nonostante l’evidenza di questo aspetto, spesso e volentieri gli stessi architetti, o più spesso i critici, si permettono di scrivere lunghe – e rigorosamente contorte – descrizioni che esaltano gli aspetti urbanistici e socializzanti di determinati “starbuildings”, facendo si che la gente comune continui a sentirsi ignorante e, per paura di esser ritenuta tale, finga di comprendere ciò che non ha alcun senso.

A chi si chiedesse se c’è speranza per il futuro, rispondo che per il momento nutro seri dubbi. Se infatti il futuro dell’Italia è quello selezionato, e orgogliosamente presentato, dal Padiglione Italiano nella mostra “Ailati” non c’è che da essere preoccupati.
Per chi volesse comprendere il senso della mostra, cito pedissequamente ciò che pubblicizza il sito web:
Si legge «Ai lati», ma anche «Italia», al contrario. È il nome del padiglione Italia alla XII Biennale di Architettura a Venezia, che in questa edizione punta i riflettori su progetti innovativi ed emozionanti, realizzati da giovani talenti e non dalle «archistar». Luca Molinari, curatore di «Ailati. Riflessi dal futuro», esalta la capacità dei giovani progettisti italiani di essere internazionali e innovativi. Con una sorpresa: «la nostra architettura più evoluta nasce nei distretti regionali e provinciali ed è anche la rappresentazione di un tipo di committenza che lascia a chi progetta la libertà di esprimersi». La nuova generazione di architetti italiani proviene proprio dalla provincia, «ma ha attraversato l’esperienza dell’Erasmus: lo studio in paesi particolarmente sensibili alle tematiche dell’abitare: Olanda, Francia, Belgio, Spagna...».

Personalmente ritengo che, specie grazie alla spiegazione finale che ci dà Molinari, che l’ARCHITETTURA, ma preferirei dire l’EDILIZIA, presentata in questa mostra di “giovani talenti”, sia proprio il risultato di un insegnamento distorto di matrice modernista, operato in tutte le università d’Europa, esaltato dallo stupido complesso di inferiorità culturale che i nostri docenti di architettura vivono nei confronti delle altre nazioni, sicché è ben difficile che si trovino progetti che ricerchino il nuovo scavando nella nostra gloriosa tradizione, sarebbe impossibile, vista l’ignoranza in materia di chi dovrebbe guidare i giovani verso l’apprendimento di questa disciplina, così è molto meglio scopiazzare dalla riviste internazionali quanto di più distante possa esserci dalle reali esigenze umane, tanto gli uomini (quelli che non hanno studiato nelle facoltà di architettura) sono tutti ignoranti e non capiranno mai!

Sarebbe stato il caso che il sig. Molinari, in questa sezione dedicata ai giovani italiani, si fosse ricordato anche di tutti quei giovani architetti e ingegneri che, ormai da decenni, si dedicano a recuperare un modo di costruire gli edifici e le città in maniera più rispondente alle reali esigenze umane, nel rispetto delle tradizioni locali, nel rispetto del clima, dei materiali, e delle esigenze della “banalità quotidiana”, come il sociologo Richard Sennet le ha definite … ma purtroppo, al sig. Molinari e a tutti i “corvi” vestiti di nero che decidono chi e cosa debba esporsi alla Biennale, questo tipo di architettura non interessa … forse perché non fa gli interessi della lobby edilizia? … o forse perché non la comprendono essendo essa troppo all’avanguardia?

Allora qual è il senso delle Biennali. Ferma restando la critica sui contenuti e sulla sfacciataggine degli organizzatori – ricordo anni fa lo slogan di una Biennale d’Arte che titolava “Contro l’arroganza dell’osservatore” (sic!) – mi chiedo che senso abbia questa mostra, se non quello di confermare la confusione che si fa tra Architettura e Arti Figurative? Le Arti figurative, ormai dall’epoca delle avanguardie, passando per il Ready Made e la Pop Art, per arrivare alla Transavanguardia ed alle “istallazioni”, si sono trasformate in beni di consumo, pertanto la Biennale sembra più una fiera campionaria che non una mostra di Arte, mentre la Biennale di Architettura non può ritenersi come la celebrazione di quanto di meglio si possa progettare e costruire per migliorare la vita della gente, ma piuttosto come la triste conferma che l’Architettura non è più un qualcosa da tramandare ai posteri, essendosi modificata in un prodotto “usa e getta”.
Infine, in merito al luogo ove si svolgono le Biennali, mi viene da fare questa riflessione: se la Biennale si svolgesse in qualche orrenda periferia italiana – in perfetto stile con i contenuti della mostra – piuttosto che a Venezia, sono certo che ben poca gente, eccetto gli architetti e gli studenti di architettura, andrebbe a visitarla!


(1)Uso il termine “corvi” per ricordare agli adepti di Le Corbusier che, ironia della sorte, il vero nome del loro idolo era Charles-Edouard Jennaret, e che il suo pseudonimo era il nome con cui si definivano in epoca medievale gli addetti all’allontanamento dei corvi dalle chiese.


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25 agosto 2010

LA CADUTA DEGLI DEI

Desiderare una città migliore è di destra o di sinistra?
Comincio con una vera banalità ma di fronte all’articolo apparso su Repubblica in ordine alle esternazioni del Sindaco Alemanno sulla demolizione di Tor Bella Monaca, la domanda è davvero la prima che viene in mente.
Riassumo: Alemanno durante una manifestazione estiva a Cortina dice che è suo desiderio abbattere Tor Bella Monaca e ricostruire prendendo ad esempio la Garbatella. Per inciso, la Garbatella come esempio di qualità urbana ed edilizia è un cavallo di battaglia del prof. E.M. Mazzola che più volte lo ha scritto nei suoi libri, su Il Tempo, su Libero ed anche su questo blog.

Alemanno, uomo di destra, fa perfino un distinguo tra questo insediamento e il Corviale, edificio simbolo della cultura di sinistra, come a voler rimarcare il fatto che la sua non è una proposta ideologica né “contro” ma una constatazione che parte da considerazioni oggettive, quali il degrado edilizio (piove dentro le case, è scritto su Repubblica) e urbano. Ma dice anche altro: “oggi con le ultime sentenze della Corte Costituzionale espropriare costa troppo. Siamo passati dall'assoluta massificazione degli anni passati a meccanismi oggi troppo restrittivi: è necessaria una nuova legge urbanistica complessiva che consenta di costruire dove c'è bisogno e non solo dove c'è interesse di privato e di società immobiliari, se no continueremo ad avere città che si espandono in zona agricola. È necessario invece demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano”. E continua: “A Roma ci sono molte aree delle 167 che sono autentiche cisti urbane, penso al Tiburtino 3 e altre zone». Come appunto Tor Bella Monaca”. Affermazioni, insomma, che potrebbero essere uscite dalla bocca di Rutelli: un po’ di idealità, un pizzico di cultura urbanistica, molto realismo politico.

Il giorno dopo invece, apriti cielo, scatta la reazione, la “resistenza” al fascista demolitore, tant’è che il titolo di uno degli articoli è “Se il Sindaco impugna il piccone di Mussolini”(addirittura!) e il giornalista non è uno qualsiasi, ma Miriam Mafai, firma storica del quotidiano, le cui qualità professionali sono riconosciute ben oltre l’ambito delle tifoserie. Come è possibile che una giornalista così attenta possa commettere l’errore di paragonare Alemanno a Mussolini e l’idea di demolire un quartiere disumano agli sventramenti fascisti, ricorrendo all’artificio retorico di affermare che Alemanno non riuscirà a fare altrettanto? Da cosa può nascere questo riflesso condizionato contro il “fascista” (lei non lo appella così, ma dal paragone risulta chiaro) se non dal sentimento di frustrazione per una sconfitta politica e culturale ormai esplicita?

Ma non è finita: Asor Rosa fa dello spirito e, con aria di chi la sa lunga, afferma che oltre a Tor Bella Monaca ci sono decine di altri insediamenti da riqualificare. Come a dire: quella persona è stata condannata a morte, non perdere tempo per cercare di salvarla, tanto ce ne sono centinaia di altri nelle stesse condizioni!
Io so che, in genere, si comincia a contare da uno.

Atteggiamento largamente diffuso questo di rinviare i problemi alla totalità invece di affrontarne uno per volta nell’ambito di una visione più ampia. Malattia, questa, da cui la cultura di sinistra è gravemente affetta, essendo storicamente abituata a discutere dei massimi sistemi ma, nella ovvia impossibilità di risolvere tutti i problemi insieme, finisce per non affrontarne nessuno. C’è tutta una filmografia in proposito.

Non manca il parere di Fuksas, possibilista, ma, per distinguersi, dice che occorre demolire “ma anche” integrare. E come dovrà essere il progetto? “C'è spazio per costruire nuove architetture con qualità ambientali e sociali”. Per lui, evidentemente, il problema è di architettura, di oggetti, senza nulla dire sulla qualità urbana che è fatta, prima di tutto, da tessuto connettivo, strade, isolati, piazze, mix sociale proprio quello che manca a questi quartieri.

Ma tant’è, questa è l’urbanistica fatta per punti, per oggetti individuali, quell’urbanistica, cioè, che va demolita come idea prima che fisicamente. Anche se è vero che, abbattendo gli oggetti e sostituendoli con la città, anche l’idea cade.

Si aggiunge al coro Vezio de Lucia che, per non smentire la regola del “ci vuol ben altro” dice che prima devono essere abbattuti gli abusi piuttosto che “l’edilizia pubblica”, e infine Niccolini, su cui sorvolo proprio. Insomma, i soliti noti. De Lucia dice una grossa sciocchezza, perché (tipicamente) confonde il metodo con il merito: le periferie abusive sono sbagliate nel metodo, in quanto abusive, ma sono nel merito generalmente migliori degli interventi pubblici; ma sbaglia anche perché la difesa dei quartieri della 167 è ideologica e significa l’affermazione dello Stato sopra ogni cosa, a prescindere dalle conseguenze sui cittadini, laddove lo Stato dovrebbe, viceversa, dare l’esempio. Dunque se lo Stato ha sbagliato, lo Stato, deve correggere, così come il cittadino che commette abuso viene sanzionato. Ma per chi pone lo Stato sopra il cittadino questa è materia ostica.

Da qui la liceità della domanda: desiderare una città migliore è di destra o di sinistra?
Non c’è risposta possibile a questa domanda, ovviamente. C’è però una parte di intellighenzia di sinistra abituata ad essere organica al partito e da questo una volta coccolata in quanto utile a imporre l’egemonia culturale nella società, che non si è nemmeno accorta di aver perduto il referente politico e che il mondo è cambiato.
Lo ha perso perché non esiste più “il partito”, ma una costellazione di gruppi legati a persone e interessi diversi, che in comune hanno un simbolo e di cui, in verità, non si capisce bene quale sia e se vi sia una politica condivisa. Ma la cosa grave è che la sinistra ha perduto ogni relazione con il mondo reale, con il territorio si diceva una volta. Basta leggere i commenti all’articolo su Repubblica per rendersene conto, pur se lasciati da chi si dichiara “di sinistra”: le ideologie contano poco e se quel quartiere è inadatto alla vita va detto, punto e basta.

E’ cambiato il mondo perché nel frattempo la sinistra non è più classe dirigente unica nel paese, a livello centrale e locale, è quasi sparita al nord e, pur essendo ancora forti i legami con gruppi economici ed editoriali, questa forza è sempre più contrastata e meno egemonica che in passato. Conserva probabilmente un forte radicamento nel mondo dell’Università e della scuola, e questo è il vero problema che non lascia grandi speranze per il futuro.

In questa situazione che conserva scorie del passato, sono ancora i soliti ad essere intervistati, e per questo si illudono di fare opinione ma di illusione si tratta appunto, basta guardare al nord per rendersi conto che la situazione cambia rapidamente.

Si fa strada un diverso e più positivo atteggiamento nei confronti della città ma, se a sinistra c’è da piangere, a destra non c’è da ridere. Stenta ad affermarsi in maniera decisa una cultura urbana che chiuda con il passato, e il presente, fatto di dissoluzione della città quale luogo delle relazioni umane e sociali; è forte l’attrazione per l’oggetto singolo, per l’evento mediatico che si esaurisce in una inaugurazione, per l’illusione che il grande nome risolva il grande problema. C’è ancora soggezione e complesso d'inferiorità verso quella sinistra che è stata così potente e che ha inculcato l’idea della “diversità antropologica”, espressione dal forte, quanto vuoto, sapore razzistico. Ci sono lodevoli eccezioni e anche belle sorprese, ma ancora la strada è lunga perché si possa rispondere: desiderare una città migliore è di destra.

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22 agosto 2010

STRADE - 2°: CHRISTIAN NORBERG-SHULZ

Questo post è dedicato ad un solo autore, Christian Norberg-Shulz (1926-2000), data la lunghezza del brano tratto da ESISTENZA, SPAZIO E ARCHITETTURA, 1971. Mi è riuscito a tagliare molto poco delle parti dedicate alla strada.
Le note bibliografiche le ho riportate in forma semplificata rispetto al testo originale.


Christian Norberg-Schulz

ESISTENZA, SPAZIO E ARCHITETTURA
Officina Edizioni, 1971


Dal Capitolo I, Lo spazio esistenziale

La direzione verticale ha anche un significato più concreto. Riferita alla casa esprime il processo stesso del costruire, cioè la capacità umana di “conquistare la natura”.[Omissis]
Gaston Bachelard afferma che le proprietà fondamentali della casa sono la “verticalità” e la “concentrazione” e considera la cantina e l’attico, luoghi particolarmente significativi (G.Bachelard, 1959). Citando Joe Bosquet definisce l’uomo moderno un individuo “a un sol piano”.

Se la verticalità ha carattere surreale, l’orizzontale rappresenta il mondo concreto delle azioni umane. In un certo senso tutte le direzioni orizzontali sono uguali e formano un piano di estensione illimitata. Il modello più elementare dello spazio esistenziale è quindi un piano orizzontale, attraversato da un asse verticale. Su questa superficie l’uomo sceglie e crea quei percorsi che conferiscono una particolare struttura al suo spazio esistenziale. Lapresa di possesso dell’ambiente significa sempre, per l’individuo, un allontanamento dalla dimora d’origine ed un percorso nella direzione determinata dal suo scopo e dall’immagine che egli ha dell’ambiente. Il termine “avanti” rappresenta così la direzione dell’attività dell’uomo, mentre “indietro” sta a indicare la distanza da lui percorsa. L’individuo “avanza” o “indietreggia”.
Talvolta il cammino lo conduce verso una meta sconosciuta, ma spesso indica solo una direzione preferenziale, che gradualmente si dissolve in una distanza sconosciuta. Il percorso costituisce perciò una caratteristica fondamentale dell’esistenza umana ed è uno dei grandi simboli dell’origine.

Espressioni figurate come “incrocio”, “mettersi sulla strada di un altro” e “sulla strada giusta” corrispondono infatti a procedimenti interiori (O.F.Boolnow, 1963).
I movimenti dell’individuo vanno anche a ritroso e il percorso contiene quindi una tensione fra il noto e l’ignoto. “Il movimento bivalente di partenza e di ritorno divide lo spazio in due domini concentrici, uno esterno e uno interno. Il dominio interno meno esteso corrisponde alla casa e al paese natale; partendo da esso l’individuo procede verso quello esterno, più ampio, per poi tornare indietro (O.F.Boolnow, op.cit.).

Tuttavia le direzioni dello spazio esistenziale non sono determinate solo dalle azioni umane. Anche la natura contiene direzioni che indicano differenze qualitative. Infatti fin dai tempi remoti i punti cardinali sono stati considerati dei fattori primari nella strutturazione del mondo. La parola “orientamento” deriva da Oriente, la direzione dell’aurora. Gli altari delle chiese cristiane sono sempre orientati ad est. “In quanto origine della luce, l’est è anche sorgente di vita, invece l’ovest, dove il sole tramonta è impregnato di tutti i terrori della morte” (E.Cassirer, 1924)..
Alcune teorie unificavano i punti cardinali all’axis mundi, allo scopo di strutturare una cosmologia più ampia. Secondo Vitruvio “La natura ha fissato un cardo dell’axis mundi in un punto a nord, dietro l’Orsa Maggiore e l’altro all’estremità della terra nell’opposta regione meridionale" (W.Muller,1963). Anche la città romana venne organizzata intorno al cardo (axis mundi) che va da nord a sud e il decumanus cha va da est a ovest. “Fonda la sua città tracciando sul terreno due strade che si incrociano e che come una bussola dividono il mondo in quattro parti, quindi recinge di mura il nodo centrale” (R.Schwarz, 1949)..

La natura concretizza anche le direzioni dello spazio esistenziale umano. Ogni paesaggio è in grado di offrire all’individuo degli spazi definiti che l’aiutano a trovare un punto d’appoggio. Le sue possibilità di movimento sono limitate e non sempre i percorsi brevi corrispondono alle linee diritte. In uno dei suoi primi saggi, Kurt Lewin aveva analizzato la questione introducendo il termine “spazio odologico” (dalla parola greca hodos che significa via), e che potrebbe corrispondere a “spazio potenziale di movimento”. Invece di linee dritte, lo spazio “odologico” contiene “percorsi preferenziali” che rappresentano un compromesso fra esigenze diverse, “distanza breve”, “sicurezza”, “lavoro minimo”, “esperienza massima” ecc. Le esigenze sono determinate dalle condizioni topografiche. Nel caso che queste siano uniformi e che nessuna particolare attività umana influenzi la situazione, lo spazio “odologico” si avvicina allo spazio euclideo. Nello spazio “odologico” comunque bisognerà in genere seguire direzioni che non corrispondono a quelle geometriche rivolte alla meta. Le ricerche fatte, sui movimenti della gente in città, dimostrano che individui diversi scelgono spesso percorsi differenti per raggiungere lo stesso luogo (K.Lewin, 1934). Inoltre Bollnow sostiene che il percorso preferito da un individuo può variare secondo il suo stato d’animo o la situazione immediata. Per esempio si preferisce la scorciatoia quando si ha fretta.

Sia come percezione che come schema, ogni percorso è caratterizzato dalla continuità. Mentre il luogo è determinato dalla prossimità degli elementi che lo definiscono ed alla chiusura, il percorso è inteso come successione lineare.
Anzitutto si presenta come direzione da perseguire per raggiungere una meta, poi durante il cammino si producono degli avvenimenti ed esso viene sperimentato anche in rapporto ai suoi caratteri particolari. Quel che accade “lungo” la via va ad aggiungersi alla tensione creata dalla meta da perseguire e dal retrostante punto di partenza. In alcuni casi il percorso ha funzione di asse che organizza gli elementi che lo accompagnano, mentre le meta è relativamente meno importante.
Kevin Lynch illumina il procedimento con diversi esempi, ma rileva anche come: “gli uomini erano inclini a considerare le destinazioni dei percorsi e i punti di origine: si interessavano da dove venivano e dove portavano. I percorsi dotati di origini e destinazioni note ed evidenti, avevano un’identità più forte e aiutavano a collegare le città” (K.Lynch, 1960).

Dal Capitolo II, Lo spazio architettonico

La strada è una forma più agevolmente immaginabile. In passato rappresentava un “microuniverso”, dove i caratteri del rione e della cittadina come totalità apparivano al visitatore in forma condensata. La strada costituiva per così dire una sezione di vita , la storia stessa ne aveva plasmato i vari dettagli.
Oggi, in genere, la strada è andata perduta, in seguito alla disposizione sparsa degli edifici e all’aumento del traffico motorizzato. Ma il problema presenta anche altri aspetti come quello della nuova scala immensa, che tende ormai a caratterizzare il profilo stradale. E’ difficile potersi identificare con strade come la Park Avenue di New York, mentre la mancanza di variazioni e di dettagli spontanei ha un effetto deprimente.

La forma spaziale della strada è in genere di tipo longitudinale, ciò non implica comunque che essa debba necessariamente essere diritta. Nelle città del passato, angoli obliqui e linee curve creavano una “prospettiva chiusa”, che ne ravvivava l’aspetto.
Per il carattere spaziale è di importanza decisiva che gli edifici si presentino come superfici, piuttosto che come masse. Se l’effetto massa domina, gli edifici assumano carattere figurativo, e la strada è ridotta a un fondo subordinato.
Per diventare uan forma vera e propria è indispensabile che la strada abbia “carattere figurativo”. Questo si può ottenere con una superficie di limitazione continua, che non solo presuppone una certa densità, am anche che le varie case appartengano alla stessa “famiglia”. (L’unificazione delo spazio stradale è ulteriormente accentuata dall’omissione del marciapiede). L’aspirazione che le case appartengano alla stessa “famiglia”, potrebbe risultare ovviamente di una pericolosa monotonia. Nel passato, in genere, questo pericolo veniva controbilanciato da fatto che gli edifici apparivano come variazioni sullo stesso “tema”. Il tema potrebbe consistere nella ripetizione di certe proporzioni o nell’accentuazione di proprietà comuni a diverse case, come un tetto tipico o un’arcata a pian terreno. Esso comunque dovrebbe garantire la libertà completa ai dettagli.

Affinché il muro stradale appaia come una ripetizione variata dello steso tema, sarà necessaria una suddivisione in unità relativamente piccole. Le unità grandi, consuete al giorno d’oggi, non solo rischiano di distruggere la scala umana, ma impediscono alla strada la preservazione della continuità variata che ne costituisce l’essenza.

I princìpi cui abbiamo accennato, furono impiegati normalmente fino al diciannovesimo secolo, quando entrarono in uso come strumento di organizzazione sequenze parallele di edifici a altezza uniforme. Storicamente il cambiamento è legato al concetto di corso legato a parate, quindi la strada non venne più intesa come ambiente intimo a uso dei pedoni.

Abbiamo menzionato come l’incrocio abbia un significato particolare nel reticolo stradale, in quanto, più che una meta, rappresenta una scelta. E’ interessante notare che verso la fine del secolo quindicesimo, all’epoca dell’estensione della città di Ferrara, Biagio Rossetti ne aveva già riconosciuto l’importanza. Egli accentò infatti gli angoli degli edifici, per definire più che gli edifici stessi, lo spazio intermedio.

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18 agosto 2010

STRADE - 1°: PALLADIO E JANE JACOBS

Ho messo insieme, senza alcuna pretesa scientifica, brani di autori di ogni epoca sul tema che io ritengo il più importante per la città: la strada.
E’ il più importante in assoluto ma lo è anche, e a maggior ragione oggi, per motivi contingenti, dopo che Le Corbusier ha teorizzato e decretato, riuscendo perfettamente nel suo intento, di distruggere, eliminare, annientare quella che è il primo elemento che costituisce la trama urbana, cioè la strada. Ci è riuscito così bene nel suo intento che questo argomento è, salvo eccezioni, completamente dimenticato da urbanisti e architetti, limitandosi al massimo a opere di arredo urbano e design, spesso di pessima fattura.
Sono convinto, invece, che non potrà esserci alcuna rigenerazione urbana e non potrà esserci più la città se l’urbanistica non ripartirà proprio dalla strada.
Questo è il primo di una serie post in cui riporto due stralci di testi lontani tra loro nel tempo e soprattutto diversi per l'appartenere uno all’architetto per eccellenza, Andrea Palladio (1508-1580), l’altro ad una giornalista-antropologa con un grande interesse per la città, e per le strade in particolare, Jane Jacobs (1916-2006). L’abbinamento è dettato, in questo caso, solo dalla totale diversità dei soggetti ma nei prossimi post altri potranno essere i criteri.



PALLADIO III LIBRO

DEL COMPARTIMENTO DELLE VIE, 
dentro la città Cap. II.

Nel compartir le vie dentro la Città si deve haver riguardo alle temperie dell'Aere, e alla Regione del Cielo, sotto la quale saranno situate le Città. Percioche in quelle di Aria frigida, o temperata, si devranno far le strade ampie, e larghe, conciosiache dalla loro larghezza ne sia per riuscir la città più sana, più commoda, e più bella: essendo che quanto meno sottile, e quanto più aperto vien l'Aere, tanto meno offende la testa; per il che quanto più sarà la città in luogo frigido, e di aria sottile, e si faranno in quella gli edifici molto alti, tanto più si dovranno far le strade larghe, acciò che possano essere visitate dal sole in ciascuna lor parte. Quanto alla commodità non è dubbio, che potendosi nelle larghe molto meglio che nelle strette darsi luogo gli huomini, i giumenti, e i carri, non siano quelle molto più commode di queste: e è eziandio manifesto, che per abbondar nelle larghe maggior lume, e per esser ancora l'una banda dall'altra sua opposita manco occupata; si può nelle larghe considerar la vaghezza de' Tempi, e de' palagi: onde se ne riceve maggior contento, e la città ne diviene più ornata. Ma essendo la Città in regione calda, si devono far le sue vie strette, e i casamenti alti: acciò che con l'ombra loro, e con la strettezza delle vie si contemperi la calidità del sito, per la qual cosa ne seguiterà più sanità: il che si conosce con l'esempio di Roma, la quale (come si legge appresso Cornelio Tacito) divenne più calda, e men sana, poi che Nerone per farla bella, allargò le strade sue. Nondimeno in tal caso per maggior ornamento, e commodo delle Città si deve fare la strada più frequentata dalle principali arti, e da passaggieri forestieri, larga, e ornata di magnifiche, e superbe fabriche, conciosiache i forestieri, che per quella passeranno, si daranno facilmente à credere, che alla larghezza, e bellezza sua corrispondino anco le altre strade della Città. Le vie principali, che militari havemo nomate; si deono nelle Città compartire, che caminino diritte, e vadino dalle porte della Città per retta linea a riferire alla piazza maggiore, e principale, e alcuna volta ancho (essendone ciò dal sito concesso) conduchino cosi diritte sino alla porta opposita: e secondo la grandezza della Città si faranno per la medesima linea di tali strade, tra la detta piazza principale, e alcuna, qual si voglia delle porte; una, o più piazze alquanto minori della detta sua principale. L'altre strade ancor elle si deono far riferire le più nobili non solo alla principal piazza, ma ancora a i più degni Tempi, palagi, portici, e altre publiche fabriche.

Nota: Ho lasciato il testo in originale salvo la grafia delle lettere s e v per renderlo più scorrevole nella lettura.




Per essere in grado di accogliere di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve avere tre qualità principali:
1. Dev’esserci una netta separazione tra spazi pubblici e spazi privati; lo spazio pubblico e quello privato non devono essere compenetrati, come in genere avviene negli insediamenti suburbani o nei complessi edilizi.
2. La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati cechi.
3. I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata. [Omissis]

Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi,i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi. Omissis
L’idea stessa di eliminare per quanto è possibile le strade urbane, di degradare e minimizzare il ruolo sociale ed economico che esse hanno nella vita cittadina, è la più pericolosa e deleteria invenzione dell’urbanistica ortodossa.

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15 agosto 2010

PARMIGIANO E IDENTITA'

Pietro Pagliardini

Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.

La globalizzazione è un fenomeno davvero complicato, che ha origine prevalentemente economica, ma che ha ricadute profonde nella società sotto il profilo politico, sociale, culturale ed anche sociologico, perché cambia la percezione che un popolo e i singoli individui che vi appartengono hanno di se stessi all’interno della comunità umana globale.

Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.

Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.

La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.

Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.

Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.

In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.

Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.

A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).

Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.

1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari
”.

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5 agosto 2010

Voglio augurare buone vacanze a tutti con una poesia di Emily Dickinson che, comunque la si interpreti, ci ricorda che con il passato i conti non si possono chiudere.


IL PASSATO


E’ una curiosa creatura il passato   
Ed a guardarlo in viso                   
Si può approdare all’estasi           
O alla disperazione.                    


Se qualcuno l’incontra disarmato,  
Presto, gli grido, fuggi!                  
Quelle sue munizioni arrugginite    
Possono ancora uccidere!            

Emily Dickinson

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2 agosto 2010

NIENTE COMPLESSI D'INFERIORITA'

Abbattere Corviale? No
Abbattere lo Zen? No
Abbattere i ponti del Laurentino? No
Niente, non si deve abbattere niente. La cultura accademica e reazionaria mantiene il punto su tutto. Quei simboli sono il suo salvagente. Senza quei simboli il sistema rischia il crollo.
E’ una difesa di casta, rabbiosa e disperata. Rabbiosa perché è una lotta per la sopravvivenza, disperata perché combatte contro la gente e l’evidenza. Sopravvivenza di un’idea, naturalmente, e sopravvivenza di posizioni di potere.


La caduta di un regime non è mai un evento indolore. E questo è un regime culturale. Un meccanismo oleato e pervasivo, con solidarietà e collaterismi forti, in ogni settore della stampa, della cultura, della politica. Oltre al mondo accademico, ovviamente.

Conceived as an independent community for about 8000 people including other facilities such as schools, shopping, recreation facilities and even a church, the building was based on the idea of social housing to provide all needed infrastructures of a city within the complex itself, and to encourage social contacts between the occupants. For internal and political reasons many of these originally planned structures were never realized or are, almost 20 years after the first occupants moved in, still unfinished. The area suffers from the lack of an adequate metropolitan infrastructure and it remains isolated from the greater city of which it was intended to be a part”.

Questa è parte della descrizione che viene data del Corviale nel sito MIMOA, una guida di architettura. Anche qui, anche in una guida, si alimenta, come una sorta di copia e incolla o di passa-parola del luogo comune, l’alibi del non finito, dello Stato inefficiente (ma è efficiente quando progetta, però), dei servizi che mancano, della mancanza di collegamenti. Eppure nella guida c’è anche la Garbatella, a riprova del fatto che la guida, in quanto tale, non è uno strumento critico ma si basa sulle informazioni più diffuse. E’ un esempio tra molti, di come si promuove e diffonde una egemonia culturale.

In testa al sito Corviale.it, che pure mostra diverse sfaccettature del mostro, c’è questa frase:
Gli inquilini di Corviale amano il mostro. Anche se non lo capiscono ne sono affascinati. Hanno quasi un senso di fierezza ad abitare in un palazzo così conosciuto, discusso e fatto oggetto di attenzione continua da parte dei media”.

Come a dire che gli inquilini vivono in una specie di reality, sempre sotto gli occhi dei riflettori. Come a dire che gli inquilini sono felici di essere oggetto di voyerismo architettonico.

A questa sistema bisogna sapersi opporre senza alcun complesso d’inferiorità culturale.
Diffidare dei saggi e sapienti che ti cedono qualcosa per salvare il tutto.
Diffidare delle accuse di ideologismo, perchè è solo un vecchio trucco degli ideologi che hanno fatto danni prima e poi ti accusano dei loro misfatti.
Demolire questi mostri, come fanno in Francia, come fanno in Gran Bretagna.
Demolire e basta, niente ristrutturazioni, riusi, rivitalizzazioni.
Non c’è nessuna vita possibile al cimitero, almeno non in questo mondo.
Una sola avvertenza: prima si costruisce, poi si demolisce.

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