Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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13 aprile 2013

PIAZZE 1 - LUDWIG HILBERSEIMER

Pietro Pagliardini

Comincio questa mini-serie sulle piazze in negativo, con un autore, Ludwig Hilberseimer, che è l’antitesi stessa dell’idea di piazza e che ha dato il suo contributo alla dissoluzione della città.

Leggere i suoi testi di analisi storica della città e confrontarli con la sua produzione urbanistica, i disegni, i progetti realizzati e la sua teoria per la città contemporanea è come leggere la storia di una dissociazione mentale, di una schizofrenia. Poi, riflettendo e rileggendo alcuni passi de La natura della città, 1955, l’idea della dissociazione non si annulla ma si stempera nella consapevolezza che ad un certo punto della storia del novecento appare come ineluttabile la ricerca di dominare la modernità con gli strumenti propri della modernità stessa E’ come se un velo fosse entrato nella mente di ognuno e avesse fatto da filtro tra la realtà e le aspettative del futuro, non riuscendo a mettere a fuoco insieme e a collegare le due diverse fasi temporali.
La forza della realtà presente al momento, con un atteggiamento certamente influenzato anche dalle categorie della struttura e della sovrastruttura, sembra avere impedito di riuscire perfino ad immaginare di opporsi ad una organizzazione tecnologica della società ritenuta inesorabilmente vincente, probabilmente a ragione, e di dedurne che la città coerentemente avrebbe dunque dovuto adattarsi ad essa attraverso lo strumento e il simbolo primo della modernità, cioè l’automobile. Questa viene considerata allo stesso tempo un pericolo (per la salute e la vita in Hilberseimer) ma anche, per massimo paradosso, la generatrice stessa del disegno della città che si piega a quell’oggetto malefico. Si noterà leggendo l’inizio del brano riportato di seguito, la straordinaria analogia di temi e di linguaggio, a distanza di 60 anni, con quelli che potremmo avere letto in un quotidiano di oggi.

Hilberseimer: particolare del piano di ristrutturazione dell'area commerciale di Chicago

A questo proposito, una breve digressione dal tema: mi sembra che lo stesso errore, in maniera simmetricamente ribaltata, venga compiuto oggi, con l’idea largamente prevalente di chiudere tutti i centri storici, e anche oltre, alle auto. C’è un problema irrisolto con l’auto, non solo dal punto di vista strettamente tecnico, ma direi a livello inconscio, la quale, in entrambe i casi, riesce a diventare il carnefice della città. Una città senz’auto è un’utopia e un errore pari ad una città disegnata per l’auto, una fuga dalla realtà che rischia di accentuare le differenze tra le parti di città e l’artificialità dei nostri centri storici. L’auto è un problema da risolvere non un nemico da combattere e per risolverlo, o attenuarne gli indiscutibili problemi che crea, occorre liberarsi da quella specie di riflesso condizionato di negazione che finisce per produrre ideologie sbagliate qualitativamente simili a quelle di Hilberseimer.

Riporto alcuni brani tratti da La natura della città, scritto nel 1955 da Hilberseimer e che illustra principi e criteri del suo piano per Chicago, che porterà tra l’altro al suo progetto realizzato più conosciuto, Lafayette Park.

Il capitolo finale, Problemi di pianificazione, quello delle proposte e del progetto, ci mostra tutto il senso della fiducia nel progetto e nelle proprie idee di una nuova visione di città. Ci indica anche una buona dose di ottusità e di infinita distanza tra le proposte progettuali e gli esiti che, con un minimo di senso critico e di dubbio, si sarebbe potuto prevedere sfociare nella creazione di un ambiente totalmente artificiale e astratto. In pochi come in questo, proprio perchè non ha l'aspetto dell'utopia ma quello della fattibilità di piano, si misura la separazione dell'uomo dalla natura, in quel processo di astrazione cominciato in maniera sistematica con le il razionalismo dei primi anni del 900 ma le cui radici sono evidentemente ben più lontane. Ottusità tanto più grave in chi, come l’autore, nelle pagine precedenti dimostra invece sensibilità e conoscenza dei processi che hanno determinato la nascita o lo sviluppo delle città nel corso della storia. E’ questo il velo di cui parlavo prima. Certo dobbiamo tenere conto che si parla di Chicago, una città dominata e probabilmente sopraffatta dal traffico già negli anni 50, che, risulta bene dal testo, era probabilmente tale e tanto da mettere in secondo piano altri aspetti.
Ma qui non si parla di aggiustamenti, qui si disegna una sorta di “città ideale” che ha aspetti a dir poco allucinati, tutti trattati con uno spirito razionalistico e positivista che prevede effetti sicuri, che non ammette dubbi o incertezze, con descrizioni anche di dettaglio che oggi fanno perfino sorridere per la loro mediocre ingenuità.

Eppure, anche se non al livello ossessivo in cui Hilberseimer sembra aderire e indulgere in modo del tutto acritico, quei criteri hanno fatto scuola e sono diventati cultura dominante. Basti pensare alle strade a cul de sac, o alla ossessione delle funzioni con la loro rigida divisione.
L’unico aspetto positivo, per assurdo, è che la parola “piazza” non viene citata nemmeno una volta. Di questo Hilberseimer era evidentemente consapevole: niente rete urbana, niente piazze.

La città contemporanea è diversa da tutte le città del passato. L’industria e i trasporti meccanici hanno provocato una trasformazione, mentre l’incapacità di prevedere gli effetti di questi nuovi mezzi ha permesso alla città di espandersi in modo così abnorme che ne è risultata una condizione di caos. I pericoli del traffico, il rumore, l’inquinamento dell’aria, le aree degradate aumentano continuamente e, con essi, aumenta il pericolo per la salute e la vita dell’uomo. E’ strano pensare che lo straordinario progresso della tecnologia non ha fatto altro che distruggere la città: tuttavia non bisogna rifiutare il progresso tecnologico in quanto tale. La causa reale della nostra attuale condizione è l’incapacità di adeguarsi al processo di sviluppo tecnologico. La città, costruita per i pedoni, non ha saputo adattarsi alle esigenze delle civiltà motorizzate; e questa incapacità è messa in evidenza dalle innumerevoli indagini e statistiche sul traffico, gli incidenti, la congestione, le aree degradate, le abitazioni, le malattie, i crimini. Ma la città appare ancora incapace di invertire il suo corso disastroso.
Le limitazioni di traffico, e di parcheggio, l’eliminazione delle esalazioni nocive, la ristrutturazione delle zone degradate e altre misure sono solo palliativi, che non possono risolvere in alcun modo il problema che stiamo affrontando, il quale richiede l’intera città. La sua soluzione richiede la riorganizzazione delle parti costitutive della città stessa, e la capacità di collegarle in modo razionale; richiede inoltrel’integrazione della città con i suoi immediati dintorni.
Il sistema di strade e di lotti secondo cui sono costruite le nostre città è vecchio quanto la storia, e forse, addirittura, anche più. La sua funzione è sempre stata la stessa: raggruppare le case in blocchi e collegare questi con le altre parti della città per mezzo di una rete viaria. Questo sistema ha funzionato relativamente bene fin quando è comparsa l’automobile che lo ha reso inattuale e pericoloso. La velocità dell’automobile ci spinge a sostituire quet’impianto con uno che elimini, per quanto è possibile, gl’incroci di strade, che costituiscono un attentato alla vita. […] Le arre residenziali, quelle di lavoro e quelle per il tempo libero sono gli elementi principali di ogni città. Il problema consiste nell’organizzare ogni area secondo la funzione alla quale è destinata, nel dare a ciascuna la propria collocazione rispetto alle altre aree e a tutto l’insieme, in modo che nessuna possa influenzare negativamente l’altra. Se si rispettano queste due condizioni, si avrà come risultato un’unità perfettamente funzionale in cui la distanza fra diverse zone sia tale da rendere minaima o eliminare l’esigenza di trasporti meccanizzati a livello locale.

L’unità che noi proponiamo soddisfa queste necessità e contiene, al suo interno, tutte le parti essenziali di una piccola comunità. La sua dimensione sarà determinata da distanze percorribili a piedi che, per essere tali, non dovranno mai superare i 15 o 20 minuti di cammino. Il nuemro di abitanti sarà determinato dal numero di posti di lavoro negli uffici e nelle fabbriche che fanno parte dell’unità; la densità varierà in modo analogo.


Seguono sezioni che affrontano l’inquinamento, i diagrammi del vento, i valori architettonici, i problemi del traffico. Passa poi a simulare l’applicazione di quei principi espressi ad alcune città campione:
Questa rete di strade secondarie dovrebbe collegare tutte le strade residenziali le quali, verso la città, dovrebbero essere a fondo cieco”.

Si passa infine a Chicago:
L’eliminazione del traffico di attraversamento nelle zone residenziali e della possibilità di accesso diretto a ogni casa, è un problema importante e difficile. Qui potrebbe essere risolto semplicemente chiudendo le strade. E’ possibile ottenere che soltanto le strade centrali delle unità future consentano ancora il traffico di attraversamento; mentre tutte le altre son chiuse, come, eliminando alcuni blocchi tra le unità future, si può creare un parco, una area libera naturale in cui potrebbero essere localizzate le scuole e gli edifici pubblici che dovrebbero essere accessibili senza attraversare strade di traffico: in tal maniera, pertanto,i bambini potrebbero andare a scuola senza risultare in nessuna maniera esposti ad alcun pericolo”.

Queste ultime righe sono la descrizione efficace e quasi pittorica della fine della città, attraversata da autostrade a livello inferiore, una distesa di verde su cui si ergono edifici pubblici staccati l’uno dall’altro e poi una scuola, staccata anch’essa, più lontano gli edifici, ognuno rigorosamente separato dall’altro.
Distanza e separazione sono le cifre di questo schema, prossimità e connessione sono quelle della città tradizionale .

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15 agosto 2012

GATTAPONE, OVVERO DELLE REGOLE V/S LA CASUALITA'

Il post precedente, immediata risposta a quello di amatelarchitettura su Gubbio, merita un approfondimento, anche alla luce di un primo commento, molto ideologico, lasciato in quel blog.

In particolare è dell’architettura del complesso del Palazzo dei Consoli, costituito dal Palazzo dei Consoli vero e proprio, dalla piazza posta a livello della via dei Consoli, che costituisce copertura per un edificio di due piani, e il Palazzo dei Priori, che mi interessa sottolineare la grande “modernità”, elemento questo che può avere tratto in inganno l’autore del post di amatelarchitettura.
Certo bisogna intendersi sul termine modernità, non quella legata al periodo storico di sviluppo della società industriale, che ha trovato la sua espressione architettonica nel Movimento Moderno, rimasto congelato in un modernismo d’antiquariato e conservatore che ha perso ogni rapporto con la realtà dell’abitare individuale e collettivo, con l’architettura e la città, che ha mummificato l’idea della “tabula rasa” rispetto ai canoni di cui si era alimentata la tradizione, che ha perduto la spinta originaria, sbagliata ma comprensibile per le mutate condizioni economiche e sociali e l’impetuoso urbanesimo, e che ha perduto la percezione stessa del motivo per cui esiste la città e le parti che la compongono, cioè l’ambiente di vita più adatto all’uomo, al suo creatore cioè.


Per modernità, riferita all’architettura, intendo ciò che ancora oggi è attuale e vitale, indipendentemente dall’età anagrafica del manufatto, e che risponde alle varie esigenze della vita individuale e collettiva: modernità dell’essere e non dell’apparire.

Ebbene io credo che l’autore del post di amatelarchitettura, Qfwfq, abbia avuto una suggestione, abbia intuito la modernità del Palazzo dei Consoli, ma abbia avuta questa intuizione guardando il progetto di Koolhaas a Porto e, da questo abbagliato per puri motivi formali, abbia sentito il bisogno di giustificare quel progetto, diversamente privo di alcun significato se non di pura autoreferenzialità, appoggiandosi alla modernità di Gattapone, l’architetto del 1300. Ha insomma voluto fornire un sostegno di dignità storica e culturale alla Casa della Musica, ha compiuto un’operazione inversa, forse per non sentirsi troppo fuori moda, e ha ribaltato la realtà, facendo di Gattapone una archistar ante literram, piuttosto che di una archistar un improbabile seguace di Guattapone. Avrebbe cioè finito per dare dignità culturale al Palazzo dei Consoli grazie a…Rem Koolhaas. Io credo che Rem Koolhaas sarebbe il primo a contestare del tutto questa idea, intanto perché è ideologicamente indifferente al contesto, “’fanculo il contesto” è la sua cifra, e poi perché non credo sia affatto ignorante o stupido e saprebbe leggere con maggiore acume il complesso del Palazzo dei Consoli.

In vero, la forma vagamente psicanalitica di questa mia analisi, è solo un artificio retorico per esprimere in maniera discorsiva un concetto, rimanendo cioè nel rapporto dialogico tra due persone e tra due idee, e quindi non è riferita direttamente a quella specifica persona, Qfwfq, ma ad una forma mentis diffusa tra gli architetti, una rappresentazione di due modi opposti di attribuire significati alle medesime architetture. Nè vale discutere troppo sulla forma ironica e/o provocatoria di quel post, ancorchè stimolante, perchè ciò che emerge chiaro anche dai commenti è una interpretazione molto "seria" di quanto affermato.

Perché dunque il Palazzo dei Consoli “è” e “appare” moderno, tanto da meritare un confronto - e resto nel gioco surreale del ribaltamento dei meriti - con la Casa della Musica?
Cominciamo “dall’apparire moderno".
Se si astrae il complesso dal suo contesto, come nella foto iniziale, un plastico tratto da l’Italia in miniatura ed elaborato al computer per ridurlo alle sue linee essenziali, privarlo di decorazione, smaterializzarlo insomma per renderlo astratto secondo il gusto modernista, si può comprendere che:
si tratta di una “piastra” di due piani dalla quale spiccano due “torri” parallelepipede - e pure con poche finestre, che è il massimo per l’architettura del purismo - e con una decorazione misurata in una delle due e quasi assente nell’altra.
Quanti progetti moderni, in senso cronologico, di questo tipo esistono! Due esempi famosi, la Lever House di SMO, con una sola torre, e la Biblioteca Nazionale di Francia a Parigi, con quattro torri.
Il complesso “Palazzo dei Consoli” è tipologicamente una piastra ridotta ai suoi elementi essenziali e quindi niente di strano che questo insieme offra suggestioni all’architetto modernista, anche se di questo suo aspetto tipologico colpisce più il parallelepipedo che emerge e svetta su tutta Gubbio piuttosto che il sistema nel suo insieme.

E veniamo “all’essere moderno".
Se è vero che il progetto è una piastra, è però vero che la forma in cui si presenta oggi questa tipologia è del tutto diversa ed opposta. Si faccia una ricerca su google con le chiavi “edifici a piastra immagini” e appariranno: ospedali, sedi di grandi aziende, università, grandi complessi commerciali, edifici fieristici, vale a dire edifici specialistici. Ma non basta, perché tutti presentano una caratteristica comune: sono complessi unitari a sé stanti, sono oggetti “calati dall’alto”, questi sì, come scrive Qfwfq nel suo post, che vivono di vita propria e potrebbero essere collocati ovunque. E’ l’idea stessa di piastra a richiederlo: il piano terra, la piastra vera e propria, contiene la distribuzione e tutti i servizi comuni necessari e al servizio delle funzioni svolte negli edifici specializzati a torre.
Il Palazzo dei Consoli no, perché la piastra non è una scelta tipologica coscientemente teorizzata ma è la risoluzione straordinaria di un problema urbano e architettonico che appartiene a quel luogo e solo a quello. La piastra di due piani è utile ad assorbire il forte dislivello tra la strada maestra superiore e quella parallela inferiore e per creare una piazza pubblica pianeggiante, e allo stesso tempo terrazza panoramica sulla città, al livello di via dei Consoli, nel luogo centrale in cui convergono le due strade principali e dove, per questo, si incontrano tutti i quartieri. Non solo: al piano strada inferiore vi sono fondi di servizio alla strada stessa, più che agli edifici sovrastanti.

Quello è il luogo sacro, - in senso civile - della comunità, è lo spazio pubblico in cui tutti si potevano riconoscere e si riconoscono tutt’ora, che meritava due palazzi che eccellessero anche in dimensioni, con uno spazio pubblico aperto, la piazza, e uno pubblico interno, l’Arengo al piano primo del Palazzo dei Consoli, una vera e propria piazza al coperto unita a quella all’aperto dalla splendida scalinata:
A questo punto passiamo al termine di paragone, alla Casa della Musica di Rem Koolhaas.

Architettonicamente siamo in presenza di un’astronave, oggetto quindi caduto dall’alto, che ha aperto il portello e ha allungato la scala. Mi pare sia del tutto evidente la simbologia, chiamiamola così, l’idea guida. La forma esterna suggerisce certamente la presenza al suo interno di almeno una sala pubblica (che sia musica, o convegni o altro bisogna saperlo, ovviamente). Ma dove è atterrata questa astronave? In uno spazio indifferenziato, come se avesse scelto quello più adatto ad un atterraggio sicuro. La sua unica relazione è con il terreno, nel senso letterale del termine, perché sembra esserci letteralmente penetrata con la carena.

Questa la descrizione che ne fa l’autore nel suo sito:
La localizzazione della Casa della Musica è stata la chiave dello sviluppo del pensiero di OMA; abbiamo scelto di non costruire la nuova sala concerti sull’anello di vecchi edifici che definiscono la Rotonda, ma di creare un edificio isolato che si appoggia su un piano di travertino davanti al Parco della Rotonda, confinante con un quartiere operaio. Con questo concetto, i problemi del simbolismo, la visibilità e l'accesso sono state risolte in un solo gesto”.
Fantastica descrizione! Nella prima parte è chiara la volontà di non trovare alcuna relazione con la Rotonda e con la città, di rifiutare cioè l’anello, l’elemento urbanistico forte di quell’area. Nella seconda mi sembra vi sia una fumosa accondiscendenza al “sociale” non ben comprensibile, mentre è chiarissimo l’atteggiamento progettuale riassumibile nel “gesto”. Quindi inutile perdersi in discussioni sull’inserimento perché, quand’anche non ce lo avesse spiegato l’autore, basta questa foto a spiegarla.
Sull’edificio che altro dire! E’ instabile, come si conviene ad una astronave senza gambe appena atterrata e conficcatasi al suolo.
Siamo agli antipodi di Gubbio, proveniamo da un altro pianeta e qui non ci troviamo molto a nostro agio.
Perché andare a cercare relazioni inesistenti e impossibili quando lo stesso progettista le rifiuta per scelta? Siamo nella modernità apparente, nella modernità modaiola il cui valore sta al massimo nella funzione che vi si svolge, merito questo, e onere, del committente e del gestore, non dell’architetto, cui è demandato il compito, che spero sia stato assolto, di risolvere la funzionalità interna. Siamo nel campo del rifiuto preconcetto della città a favore dell’oggetto singolare e “diverso”. Siamo nel campo dell’immagine, dell’effimero, del provvisorio.
Il Palazzo dei Consoli invece sta là da 700 anni, saldamente ancorato al suolo e legato alle strade, alla città, alla comunità; funziona ancora, è il simbolo di una città per i suoi cittadini e per chi la visita.
Ma di cosa stiamo parlando, in effetti?


Credits:
Immagini tratte da:
Italia in miniatura, Bings map, Sito ufficiale OMA

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19 novembre 2011

SI PUO' COSTRUIRE NEI CENTRI STORICI?

Giornata piena alla Giornata di studio su Giorgio Vasari Architetto organizzata dall’Ordine degli Architetti di Arezzo. Non è il momento di un resoconto completo, in attesa di scaricare qualche video, ma vorrei commentare uno dei tanti spunti che sono stati lanciati da Luigi Prestinenza Puglisi, coordinatore dell’incontro del pomeriggio .
Nel corso della mattinata Giorgio Vasari Architetto è stato degnamente celebrato dalle approfondite relazioni del Prof. Francesco Gurrieri, del Prof. Gabriele Morolli e dell'arch. Anna Pincelli. Nel pomeriggio invece Vasari è stato toccato solo tangenzialmente avendo presentato alcuni loro progetti Massimo Carmassi e i due giovani Stefano Pujatti e Giovanni Vaccarini. Su questi ultimi due mi riservo di approfondire con i video, anche se anticipo di avere assistito ad una fiera della vanità a mio avviso alquanto priva di contenuti; Massimo Carmassi, che avevo incrociato in altre occasioni, è stato invece una sorpresa.


Non per i progetti, che sono noti a tutti e non c’è stata alcuna novità, ma per le cose che ha detto durante il dibattito, dando segni di evidente insofferenza rispetto ad atteggiamenti professionali e a progetti che lui ha giudicato molto negativamente sotto ogni profilo. Se posso dirlo (tanto lui non usa internet), l’età l’ha cambiato molto e direi in meglio: disponibile al dialogo, disincantato, perfino autoironico, ha abbandonato del tutto quella certa aria da architetto di successo nei quartieri alti della cultura architettonica che deve tenere il punto sul proprio lavoro senza nulla concedere ad un momento di spontaneità. Ha distinto nel bagaglio dell’architetto la sovrastruttura fatta di parole, utilizzate per valorizzare la propria figura professionale, dalla struttura reale, cioè il proprio lavoro che è quello che resta; ha invitato gli architetti a tornare alla realtà, ha sottolineato l’aspetto artigianale del nostro lavoro, ha chiesto maggiore umiltà e ha auspicato il ritorno ad un minimo comun denominatore di grammatica architettonica. Ma di questo ne riparlerò insieme agli altri due giovani.

Prestinenza Puglisi, da cui mi divide praticamente tutto, è però un ottimo comunicatore e intrattenitore, sapiente nel cogliere i vari temi che emergono dalla discussione che lui risolve dando spazio a tutte le opinioni anche a quelle che certamente non condivide. Uno di questi spunti, che non c’è stato tempo di approfondire e che è anche in qualche modo suggerito dall’opera di Giorgio Vasari, è il solito, eterno tema della opportunità o meno di progettare nei centri storici.

Io sono convinto che, detta in questo modo, limitandosi cioè a considerare la parte antica di ogni città come a se stante, come una sorta di parco architettonico-urbanistico e scrigno di bellezza in mezzo al brutto della città moderna, effettuando cioè la divisione netta tra centro storico e periferia, la risposta più corretta, saggia e prudente sia quella di dire, come è stato detto in effetti nella gran parte del paese, semplicemente: no, non si devono fare nuovi progetti. Se buona parte dei nostri centri storici sono conservati questo è dovuto al niet delle Soprintendenze, talvolta odioso nei dettagli e nella forma, ma senza il quale credo ci sarebbe rimasto però ben poco di quella bellezza. Quali sono le ragioni di questa convinzione? Sono legate al modello culturale dell’architettura ed anche dell’urbanistica dominante:

L’architettura:
- Attualmente è orientata ad una creatività tutta tesa ad esaltare l’oggetto architettonico come evento a se stante, autonomo dal contesto di riferimento e ad una ricerca della “sorpresa” e della valorizzazione del suo autore piuttosto che nello sforzo di soddisfare tutti i soggetti interessati all’opera di architettura, cioè il committente e tutti i cittadini cui la città, nel suo complesso e nelle sue parti, appartiene. Quest’ultimo input pare essere ormai completamente estraneo alla cultura dell'architetto contemporaneo. L'architetto ha un approccio al progetto che è di tipo mistico, cioè di colui che entra in relazione con la verità per istinto e non per razionalità e che quindi non può essere, per definizione, comunicata; il che lo autorizza a sentirsi libero da ogni vincolo, dal giustificare il progetto agli altri ma anche a se stesso, salvo il fatto di fare uso massiccio di espressioni ed impressioni di tipo immaginifico ed emozionale assolutamente non verificabili e il più delle volte prive di riscontro con la realtà e del tutto incomprensibili ad una elementare analisi sintattica e lessicale. Basta leggersi qualsiasi relazione ai concorsi o ai progetti. Basta guardare qualche intervista. D’altronde è chiaro che mentre è possibile fare un’analisi grammaticale, come è stata fatta dal Prof. Morolli, dell’opera del Vasari, è viceversa impossibile farla per i progetti contemporanei che direi per scelta rifiutano qualsiasi grammatica, anzi si dichiara che ognuno ha la sua grammatica: la mistica appunto.
Questo per l’oggi.
Ieri invece per la nota prevalenza del movimento moderno che avendo azzerato tutto il patrimonio di conoscenze accumulato nei secoli ritenuto non idoneo all’espressione della modernità e, direi meglio, all’uomo moderno - considerato assurdamente diverso da quello antico - non può avere certo le carte in regola per intervenire al’interno di parti della città che invece sono cresciute e si sono trasformate, mattone dopo mattone, con un processo evolutivo di crescita con forti attinenze a quello della natura e senza sostanziali e violente cesure e traumi.

L’urbanistica:
- Qui prevale ancora la zonizzazione selvaggia, figlia sempre del movimento moderno, che ha dissolto l’unità della città, ha eliminato la strada dal suo orizzonte relegandola a mero supporto funzionale al traffico veicolare, creando, con la certificazione legislativa della zona A, il “centro storico”, oggetto di salvaguardia, e lasciando piena libertà di azione nella rimanente parte di territorio, con unico limite e criterio progettuale quello quantitativo del metro cubo e dei vari parametri edilizi. In questo modo è andata persa del tutto anche la memoria di come avviene la crescita della città, i suoi meccanismi di stratificazione successiva, una armonica e naturale modificazione urbana. Attualmente poi si tende a considerare la periferia sotto il profilo emozionale, soggettivo e psicologico, cercando di valorizzare presunte spinte ideali individuali di appartenenza a quel non-luogo riconoscendo una inesistente vitalità, ma di fatto condannandola invece allo status quo ed anzi aggravandone la situazione con l’aggiunta di oggetti singoli che amplificano ancora di più il disordine, il rumore e la parcellizzazione urbana e sociale.

Permanendo questo stato di cose il centro storico non può che continuare ad essere considerato off-limits, area da escludere da ogni possibile invenzione che lo renderebbe del tutto simile alla periferia.
C’è una rinuncia totale nella cultura dell’architetto contemporaneo ad un’azione che tenda invece a modificare il corso delle cose, un’acquiescenza passiva allo spazio-spazzatura che non viene considerato come uno stato di fatto negativo ma si tende ad elevarlo a valore, esaltando paesaggi urbani caratterizzati dal precario e dallo squallore e inventando una sorta di poetica del provvisorio, del brutto, dell’instabile al solo scopo di giustificare il proprio progetto, espressione della propria grammatica individuale. E’ la vittoria del relativismo assoluto in cui sembra non si debba giudicare niente (evidentissima contraddizione anti-relativa) ma che è utilissima ad evitare ogni giudizio sul proprio prodotto salvo quello che se riesco a produrlo vuol dire che va bene. Una trasposizione banale, strumentale e involontaria dell’essenza delle cose in base alla quale l’essere è, il non essere non è e l’essere non può non essere.

Dimentica l’architetto, e quando qualcuno glielo ricorda non capisce o non vuol capire, che la città è il luogo in cui si esprime la comunità come insieme di individui ognuno con la propria libertà ma nel rispetto di quella altrui. Non capisce che la città coincide con la società dalla quale, invece, tende a subire passivamente e talvolta con gioia una quantità di regole e leggi tanto elefantiaca quanto inutile e dannosa. Ma rinnega la possibilità di regole urbane considerate un ostacolo alla sua libera e licenziosa espressione di creatività. Riduce le nostre città e la nostra società, a Dubai, visto come il luogo della libertà assoluta, non sapendo leggere e distinguere le diversità e la peculiarità di ciascun luogo, ammesso e non concesso che Dubai sia un luogo e non piuttosto una cassaforte per capitali, sempre più scarsi, in cerca di reddito.

Invece è proprio l’idea di periferia che deve essere rifiutata tendendo a farla diventare essa stessa emanazione e riproduzione del centro storico, che dovrebbe essere chiamato centro antico, non banalmente come si tende a dire per colpevolizzare l’avversario dando per scontato che a questa visione corrisponda necessariamente una visione antichista in senso stilistico, ma come parte di un organismo unitario che deve proseguire nelle regole insediative che hanno prodotto la città antica, interpretandole e adattandole alle varie situazioni geografiche, morfologiche e funzionali.
Nel centro antico sarà lecito e opportuno intervenire solo previo avveramento di questa condizione di carattere urbanistico e solo dopo che, se mai potrà avvenire, l’architetto abbia rinunciato per scelta razionale e non per intenzione moralistica o di basso profilo all’egocentrismo creativo.
Insomma solo dopo che l’architetto potrà tornare ad essere portatore di una cultura urbana e quindi civile.

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31 maggio 2011

STANDARD, CITTA' E MOBILITA'

Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.


La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.

E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.

Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.

Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.

Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.

Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.

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21 maggio 2011

DOPO L'ORGIA BUROCRATICA, TORNARE AL PROGETTO

Ormai è fatta. Il Regolamento Urbanistico della mia città (cioè il PRG) è approvato e le elezioni comunali si sono svolte. Quindi ogni cosa che dirò non avrà alcuna influenza nell’immediato(spero anche verso di me) e non si potrà fare troppa dietrologia su secondi o terzi fini.
A onor del vero ho già parlato abbastanza in itinere, ma l’ho fatto solo in ambito cittadino, mentre da questo blog mi sono limitato solo a qualche rarissima e leggera (o pesante?) ironia, tipo questa sulle strade o questa, a giochi fatti, sulle cucce dei cani.
Sono solo due dei numerosi esempi dello stupidario che diventa inevitabile quando le Norme Tecniche di Attuazione si compongono di 155 articoli, di 346.735 caratteri (senza spazi) e di 58.816 parole (sia chiaro, non le ho contate io, ci ha pensato Word da solo). Immaginate di contare - non di leggere- fino a 58.816, immaginate il tempo che ci vuole e pensate cosa significhi comprendere e assimilare un testo con lo stesso numero di parole. E dire che la legge regionale prevede, con grande enfasi ed evidenza, la figura del Garante dell’Informazione: ma è davvero possibile informare su un testo siffatto?

Piano 1935 - Tutto disegnato e poi realizzato quasi esattamente così

Sembrano solo numeri, ma in realtà sono la dimostrazione della rinuncia ad ogni credibile piano - tanto meno al disegno della città- della impossibilità di una sua decente e corretta gestione, della mancanza assoluta di trasparenza e di semplificazione, in fondo di un deficit di pensiero democratico, perché i cittadini, cioè coloro a cui il piano è destinato, non avranno alcuna possibilità di comprendere alcunché; dovranno affidarsi totalmente a noi professionisti, e noi professionisti dovremo affidarci agli uffici per decrittare il testo. Saremo perciò tutti molto più sudditi e molto meno cittadini. Saremo tutti un po’ meno liberi.

Sembrano solo numeri, ma invece sono la rappresentazione di una decadenza culturale e politica perché sono lo specchio di una visione della società che, non solo a livello locale, ma anche regionale, nazionale ed europeo, affida la propria vita ad una quantità bulimica quanto inutile di regole e norme, avendo perso ogni rapporto con il mondo reale, in campo urbanistico specificamente, con la propria città e il proprio territorio.

Ma queste sono solo le Norme, la parte scritta del piano! Poi ci sono gli elaborati grafici, le tavole. Anche qui la quantità è l’elemento caratterizzante, la qualità essendo del tutto assente. Ma parlare di qualità è davvero fare una fuga in avanti, perché questa presuppone un disegno capace di rappresentare un’idea, magari sbagliata oppure non condivisa, ma che pure dovrebbe esistere: ebbene, se c’è non appare, perché paradossalmente a fronte di così tante tavole grafiche non esistono… disegni, ma solo un collage di campiture colorate, con sovrapposte sigle alfanumeriche che rimandano alle norme. Non esiste un progetto in scala 2000 di qualcosa, le strade nuove si troncano improvvisamente fuori del ridotto limite delle piccole aree oggetto di trasformazione; la stragrande maggioranza del territorio comunale, anche quello con grosse previsioni edificatorie, è rappresentato con un indistinto retino a righe diagonali e al loro interno niente, solo la cartografia di base: non una strada, non il minimo accenno a qualche forma possibile di insediamento, solo decine di tavole prive di qualsiasi informazione che non siano sigle alfanumeriche.
Un piano che è una legenda di un testo astruso. Possono numeri e lettere rappresentare da sole un’idea di città? Può un data base farsi piano urbanistico?

Nei tre anni in cui mi sono occupato di questo blog, ho visitato decine di altri blog e siti che si occupano di architettura ed urbanistica, ho discusso e polemizzato con molti di loro, e viceversa, cercando di affermare l’idea di un tipo di disegno urbano capace di riscattare le nostre città e le nostre periferie disperse e frantumate dalla zonizzazione selvaggia, dalla fine della strada come elemento generatore e vitale della città, dal ritmo sincopato della giustapposizione di una serie di oggetti piuttosto che dalla sequenza continua dei fronti edilizi lungo le strade che sfociano in piazze in cui si concentra la vita sociale e di relazione, con l’idea di un ritorno al disegno dello spazio, almeno in misura compatibile con le numerose, superflue e illiberali procedure imposte dalla legge; mi sono scontrato con idee dal tutto diverse che io considero sbagliate, ma mai, dico mai, ho incontrato un nulla come quello messo in campo nel piano di Arezzo. E se fossi solo io a dirlo, poco varrebbe, ma l’hanno scritto e gridato per anni tutte le categorie professionali ed economiche, attraverso i proprio rappresentanti istituzionali e associativi, fino al punto di una Camera di Commercio, ente pubblico, che cerca di riempire il vuoto di progetto proponendo essa uno studio alternativo per la città.
A nulla è valso, se non ad ottenere l’accoglimento di una parte delle 2600 osservazioni presentate, che al massimo avranno potuto attenuare o, speriamo, eliminare le storture più macroscopiche, gli errori più grossolani non dico del progetto, che è l’oggetto misterioso, ma della stessa lettura dello stato attuale, del quadro conoscitivo come si dice con molta retorica, che ha però ricadute fondamentali nelle trasformazioni future.

Eppure il piano era partito bene 11 anni fa con la chiamata come consulente scientifico, probabilmente casuale e figlia di una serie di coincidenze, di Peter Calthorpe, architetto-urbanista americano esponente di spicco del New Urbanism,. La lettura che aveva dato della struttura urbana di Arezzo era giusta, aveva individuato con chiarezza i problemi della città legati alla sua forma davvero unica e al suo punto critico cioè il suo assetto territoriale caratterizzato da numerose frazioni prive di identità e dei requisiti minimi di autosufficienza e di forma per poter essere qualcosa di più che semplici dormitori. Aveva agito, secondo il suo metodo, dando una grande importanza alle infrastrutture per la mobilità, volendo garantire quella prossimità e pedonalità del massimo tempo di dieci minuti da percorre a piedi per godere delle opportunità offerte dalla città.

Aveva impostato lo sviluppo lungo la rete ferroviaria trattandola come una metropolitana di superficie e lungo quell’asse aveva previsto il potenziamento degli abitati esistenti ed anche nuovi insediamenti. Questa scelta non era del tutto condivisibile se applicata in maniera massiva, perché ancora trascurava il recupero delle importanti frazioni, in specie quelle della direttrice sud, ma forse, se ci fosse stata l’opportunità, con la discussione e il confronto che lui accettava senza problemi, avrebbe potuto esserci la possibilità di apportare correttivi e integrazioni. Ma non è stato possibile perché il suo lavoro è stato bruscamente interrotto, forse per ragioni non proprio culturali legate all’amministrazione del tempo, non a lui.

Le sue idee, e direi meglio lo spirito che le guidava, sono state messe da parte ed è rimasta solo l’applicazione pedissequa della parte peggiore della cultura espressa dalla legge regionale: l’abbandono del disegno, il territorio parcellizzato in aree sottoposte a vincoli e tutele - differenza di cui mi sfugge tutt’ora il significato reale - il tutto inserito in un enorme database geografico, tra l’altro intriso di una quantità di errori di lettura imperdonabili, il cui risultato è illeggibile ai più ma che soprattutto non delinea nessuna idea plausibile di città.
Impossibile dialogare, scambiare opinioni, inutile avvertire del precipizio verso cui si andava, solo ascoltare modeste lezioncine, in ossequio alla garanzia dell’informazione.
Mi rendo conto di aver delineato uno scenario quasi apocalittico, ma la realtà è forse peggiore, e per rendersene conto basta andare a consultare il SIT del comune, l’unica cosa fatta veramente bene e di qualità infinitamente superiore a quella di altri comuni.

A questo punto, dopo 11 anni di travaglio del nuovo piano, è il momento di ricavarne qualche riflessione meno amara e più positiva per il futuro, che non sia solo di interesse locale, ma più generale, e di guardare avanti.
Intanto per dire: mai più così. E’ poco, mi rendo conto, anzi niente, ma davvero il pericolo da scongiurare è che non accada più un fatto come questo, perché il rischio dell’ulteriore avanzamento di questa incultura urbana è concreto, supportato da burocrazie regionali che oramai sono più potenti e inattaccabili degli stessi amministratori.

In campagna elettorale è venuta l’assessore regionale all’urbanistica Prof.ssa Anna Marson, urbanista espressa dall’Italia dei Valori, persona di notevoli qualità, a illustrare alcune idee sulla necessaria modifica della legge regionale. I principi che ha affermato, e che sono stati espressi in un documento ufficiale della Regione, dimostrano la sua volontà di cambiare in meglio e non sono apparsi solo promesse elettorali. Ha parlato molto chiaro, ha detto di voler sfoltire la sovrabbondante retorica verbale - fatto assolutamente non secondario né formale – ha auspicato un necessario, anche se non sufficiente, ritorno al disegno urbano, una ridefinizione del significato originario del concetto di nuovo consumo di suolo, utilizzato oggi come un mantra al solo scopo di non far niente, soprattutto nella riqualificazione dell’abitato esistente. Ha detto molto altro e il suo intervento è visibile qui.

La speranza è che, senza aspettare la nuova legge regionale, che richiederà tempi lunghi e ostacoli a non finire, e il cui risultato non è affatto scontato, ad Arezzo si possa tornare alla realtà, ad affrontare i problemi urbanistici della città avendo come faro un disegno compiuto di essa, mettendo in secondo piano il tema fuorviante, eredità culturale del movimento moderno, della ossessiva divisione delle funzioni e risolvere, matita in mano guidata dal cervello, le periferie e le frazioni in modo corretto, creando luoghi urbani, ancorché piccoli, che diventino centro di vita sociale con pluralità di funzioni, lasciando alla libera iniziativa dei cittadini la scelta delle attività da insediare, sapendo che loro conoscono meglio di chiunque cosa realmente serva dato che ci investono i propri denari, avendo il pubblico il dovere di garantire certi servizi essenziali.
Insomma, dare dignità e fiducia ai cittadini e abbandonare l’idea dirigistica e autoritaria che il pubblico possa e debba decidere tutto, sapendo bene che poi la forza del mercato tutto travolge e il risultato è addirittura opposto a quello sperato.
Liberare le energie degli individui e controllare gli appetiti della speculazione, guidandoli verso un disegno di città più umana, l’unico vero potere che il pubblico detiene e che non esercita quasi mai in maniera corretta.

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7 aprile 2011

LE VELE DI SCAMPIA? UN MONUMENTO NAZIONALE!

L’intenzione di vincolare le Vele di Scampia da parte del Soprintendente Stefano Gizzi è lo specchio del distacco totale tra la cultura italiana e la realtà. Se si domandasse infatti a qualunque persona comune cosa pensa delle Vele e se andrebbe a viverci la risposta appare scontata.
Se si domandasse a Gizzi forse non risponderebbe come Gregotti per lo Zen, ma dubito risponderebbe affermativamente.
In Italia esiste una cultura che si auto-considera alta ma che non prova disagio a dire che quell’oggetto ha valore storico e architettonico. Gizzi giustifica questa scelta con due argomenti, tra gli altri, che sono significativi (Fonte: La Stampa):
1) le Vele sono state lo sfondo del film Gomorra e, come i casermoni della Germania est sono stati lo sfondo dei film di Wenders, hanno per ciò stesso un valore culturale in senso ampio.
2) uno studio commissionato anni fa dal Ministero dei Beni Culturali a varie università ha decretato il valore di quel progetto.

Si può immaginare quanto possano interessare a chi è costretto a vivere in un inferno i film di Wenders!
Le Vele sono considerate la scenografia di un film dai colori plumbei e i suoi abitanti le comparse di quel film. Il discorso di Gizzi è tutto concettuale in quanto gli edifici dell’Arch. Franz Di Salvo sono trattati come fossero un’idea astratta e ne parla al pari di oggetti d’arte, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che l’architettura esiste per assolvere alla funzione dell’abitare, cioè per accogliere al proprio interno persone che ci vivono e all’esterno persone che lo vedono e che si muovono nello spazio circostante.

Gizzi trascura del tutto il valore civile dell’architettura che significa che la città appartiene a tutti i cittadini, e quindi anche le sue case appartengono, in un certo senso, a tutti e non solo ai loro proprietari. Un edificio è costituito una parte privata, l'interno, e da una parte pubblica, l'esterno, e chi è proprietario di casa non è proprietario di tutta la casa o almeno non ha diritto assoluto su tutta la casa. Lo ha certamente per quello che riguarda l’interno ma l'esterno è parte integrante della città e appartiene a tutta la città ed è per questo motivo che il proprietario ha obblighi di decoro, se non di bellezza, nei confronti dei suoi concittadini.
La città è cioè un luogo e un bene condiviso tra tutti i suoi abitanti e con essa tutti gli edifici che insieme la compongono. Non è casuale che il Sindaco abbia il potere di emettere ordinanze per ripristinare il decoro di edifici in cattivo stato di manutenzione.

Tutto ciò deriva non solo dalla storia della città europea ma dall’essenza stessa della città, che è l’ambiente entro il quale si svolge la vita dell’uomo. Per questo motivo se un’architettura è brutta e indecorosa in quanto invivibile e anti-umana non è civile ma in-civile in quanto rompe e trasgredisce le regole della città e della società e chi abita in ghetti pubblici (vorrei sottolineare pubblici) come le Vele si trova, so malgrado, ad essere automaticamente ai margini della società. Gli abitanti di posti come questo, prescindendo del tutto dai loro comportamenti e dalla loro condizione sociale, sono bollati come emarginati. Quindi la bruttezza è emarginante.

Eppure per Gizzi, che è architetto e che, come quasi tutti gli architetti, ha probabilmente assimilato all’università l’ideologia modernista di Le Corbusier e C., l’ideologia della macchina per abitare, della macro-struttura, dell’oggetto che deve riassumere in sé tutte o quasi le funzioni urbane, del falansterio, cioè dell’anti-città e dell’anti-socialità, viene, prima di tutto, il progetto e il suo progettista, prescindendo da chi lo abita.

Gizzi, con questa sua intenzione di vincolo, perpetra nel tempo e congela, storicizzandolo, l’esperimento di ingegneria sociale fatto in corpore vili.
Il movimento moderno, nato come avanguardia culturale si è trasformato ormai da anni in un movimento reazionario di conservazione dell’esistente, in teoria regressiva.
L’architetto modernista rappresenta per la città quello che il filosofo rappresenta per la polis nella Repubblica di Platone, cioè il migliore che, per questo, è l'unico abilitato a governare. Una visione profondamente anti-democratica e politicamente anti-moderna, vecchia più che antica. Così come Platone irride alla democrazia della polis greca, ritenendo che essa porti, per la troppa libertà concessa agli individui, al disordine, i modernisti sono sostanzialmente contrari al fatto che i cittadini possano avere voce nella forma della città, dove deve invece governare il loro astratto e funebre ordine geometrico. L'architetto modernista si pone da solo sullo scranno del comando, in quanto migliore, per decidere le sorti della città. Il modernismo è quindi una forma attualizzata di platonismo privo però della grandezza del pensiero di Platone. E’ una brutale reazione anti urbana e politica, nel senso di polis. E' autoritarismo allo stato puro.
E dire che a coloro i quali ritengono che i cittadini siano abilitati a scegliere e decidere la politica della città, cioè la forma urbis, viene attribuito il termine di populisti! Evidentemente i modernisti non è che siano poi così culturalmente attrezzati come vogliono sempre far credere.

Il secondo argomento, quello del verdetto delle università, è la riprova di tutto questo, perché dimostra come sia proprio il sistema culturale dell’architettura e dell’urbanistica italiana ad essere rimasto fermo all’ideologia modernista, dichiarando il valore delle Vele. Gizzi non è un’eccezione ma è parte di quel sistema culturale che va profondamente trasformato nella speranza di riportare l’architettura al suo significato originario di casa dell’uomo e per l’uomo, contro un’architettura che è invece per l’architetto e dell’architetto, che ne fa un gioco autoreferenziale sulle spalle dei cittadini.

Una riprova del sistema? Il mese scorso si è svolto un dibattito sulle Vele di Scampia nell'ambito della Fiera d'Oltremare e il Soprintendente Gizzi era annunciato nella locandina come moderatore! E' come se in un processo il Pubblico Ministero facesse anche da  giudice.
Se ha una speranza l’architettura italiana è quella di rimettere ai cittadini le decisioni sulla città, perché è la civitas a dover decidere dell’urbs.

Auguriamoci che il Comune, come ha già annunciato, si opponga al vincolo: evitiamo almeno il ridicolo.

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17 ottobre 2009

UN FLASH DI URBANISTICA TOSCANA

Pietro Pagliardini

Questo post è di una noia mortale. E la noia sarebbe niente di fronte all’incredulità, ed anche ad una moderata dose di indignazione, per questa “breve” sintesi di Norme di attuazione di un Regolamento Urbanistico, cioè del più importante e decisivo atto di cui una comunità si dota per “disegnare” la propria città.
Ho detto breve perché l’articolato completo è di ben 201 articoli e non siamo a Roma o Milano o Torino ma in un comune toscano con una popolazione inferiore ai 10.000 abitanti.
Quello che mostro non è uno scoop, è solo un esempio tra i tanti, certo non dei migliori. E' tutto autentico e copiato dal sito del comune, ho solo estrapolato e messo insieme 9 articoli dei 201, cioè meno del 5% del totale, che descrivono, ma sarebbe più corretto dire “prescrivono”, tutte le “funzioni” e le destinazioni previste e normate con pignoleria e puntiglio, secondo la legge toscana, con l'aggiunta di un po' di compiacimento
Non è certo necessario leggerlo tutto, è sufficiente scorrerlo velocemente per rendersi conto di alcune cose:


1) Dietro questo testo si nasconde una mentalità pianificatoria che ovviamente nulla ha a che fare con una qualsivoglia forma di libertà dei cittadini ma è piuttosto degna di un fallimentare regime da piano quinquennale.
2) Nessun progetto credibile e plausibile può uscire, e infatti non esce, per la città. Il modello che ne risulta è un frutto maturo ed esasperato del movimento moderno e della divisione della città per funzioni e tale divisione si spinge fino ai minimi dettagli, fino al parcheggio coperto o scoperto, fino a dare la definizione, che è scontata, ad esempio del commercio all'ingrosso, non sapendo tuttavia che tale forma economica è desueta al punto che non viene più insegnata nemmeno negli istituti commerciali, se non nell'ambito della storia economica. Il tutto ovviamente senza un disegno che non sia un mosaico colorato di funzioni nobilitato dal nome altisonante di “progetto di suolo”.
3) Ne esce un tipo di società burocratizzata a livelli parossistici, uno stato occhiuto che vuole decidere su tutto e tutti, che parla una lingua incomprensibile, se non a pochi iniziati a quel culto, e che contrasta in maniera esagerata con quanto abbiamo visto, nella trasmissione Report, accadere nella pur precisa e metodica Germania.

Ecco il testo, che dice molto più di qualsiasi commento, avvertendo che questo è solo un assaggio, un trial, si dice oggi:

Residenziale
La destinazione d’uso residenziale R comprende:
- civile abitazione;
- collegi, convitti, studentati, pensionati;
- strutture ricettive extra-alberghiere con le caratteristiche della civile abitazione (affittacamere, case e appartamenti per vacanze, residenze d’epoca).


Attività industriali e artigianali
1. Sono attività dirette alla produzione e trasformazione di beni ed alla prestazione di servizi.
2. La destinazione d’uso per attività industriali ed artigianali è articolata in:

- I: fabbriche, officine e autofficine (compresi laboratori di sperimentazione, uffici tecnici, amministrativi e centri di servizio spazi espositivi connessi); magazzini, depositi coperti e
scoperti anche in assenza di opere di trasformazione permanente del suolo; attività di  supporto alle attività produttive.
- Ia: impianti produttivi al servizio dell’agricoltura e per la trasformazione dei prodotti agricoli, magazzini ed impianti per la zootecnia industrializzata;
- Ie: attività estrattive e di escavazione;
- Ir: impianti per autodemolizioni e recupero rifiuti
- If: impianti per la produzione di energia da fonti rinnovabili non destinati all’uso domestico e/o autoconsumo.


Attività commerciali
1. La destinazione d’uso per attività commerciali è articolata in:
- Tc1: esercizi di vicinato come definiti dalla legge, bar e ristoranti; sono considerate compatibili con la destinazione commerciale anche le seguenti attività: attività per la fornitura di servizi attinenti le telecomunicazioni e la telematica, l’informazione turistica, il multimediale; laboratori artistici e botteghe artigiane; artigianato di servizi personali e residenziali con superficie utile lorda non superiore a mq 250 e diverse da industrie insalubri di prima e seconda classe;
- Tc2: medie strutture di vendita come definite dalla legge;
- Tc3: grandi strutture di vendita come definite dalla legge di tipologia “C” e di tipologia “B”.


Attività commerciali all’ingrosso e depositi
1. Le attività commerciali all’ingrosso e depositi (Tc4) sono quelle dirette ad acquistare merci e rivenderle ad altri commercianti, ad utilizzatori professionali o ad altri utilizzatori in grande.
2. Sono considerate compatibili anche le attività di commercio al dettaglio non alimentari congiunte e coordinate all’attività di commercio all’ingrosso e le attività di commercio al dettaglio non alimentari che richiedono ampie superfici di vendita, almeno superiori a 500 mq., quali rivenditori di materiali edili, concessionari d’auto, vendita mobilia.


Attività turistico ricettive
1. La destinazione d’uso per attività turistico ricettive secondo quanto definito dalla L.R. n. 42 del 23/03/2000 è articolata in strutture ricettive gestite per la produzione e l’offerta al pubblico di servizi per l’ospitalità:
- Tr1: alberghi (inclusi motel e villaggi albergo) e residenze turistico alberghiere;
- Tr2: campeggi;
- Tr3: villaggi turistici, aree di sosta, parchi di vacanza; ed in altre strutture ricettive:
- Tr4: strutture ricettive extra-alberghiere per l’ospitalità collettiva (case per ferie, ostelli,
rifugi);
- Tr5: residence.


Attività direzionali
1. La destinazione d’uso direzionale è articolata in:
- Tu1: uffici privati, studi professionali; sedi di associazioni;
- Tu2: agenzie bancarie; banche; centri di ricerca; sportelli di assicurazione; agenzie immobiliari;
- Tu3: uffici amministrativi e tecnici delle attività produttive e/o commerciali.


Servizi e attrezzature di uso pubblico
1. La destinazione d’uso a servizi ed attrezzature di uso pubblico e di interesse generale disciplinata dal presente Regolamento è articolata in:
- Sa: servizi amministrativi riferiti ad esempi “Usi del suolo e modalità d’intervento ed attuazione”o a uffici amministrativi, protezione civile, tribunali, attrezzature della finanza, per la pubblica sicurezza e militari, archivi, servizi postelegrafonici e telefonici;
- Sb: servizi per l’istruzione di base riferiti ad asili, scuole per l’infanzia, scuole dell’obbligo;
- Sc: servizi cimiteriali e attività ad essi connessi;
- Sd: servizi culturali, sociali e ricreativi riferiti ad esempio a musei, teatri, auditori, cinema, sale di spettacolo, biblioteche, mostre ed esposizioni, centri sociali, culturali e ricreativi, ludoteche, centri polivalenti, mense;
- Sh: servizi per l’assistenza socio sanitaria riferiti ad esempio a centri di assistenza, case di riposo, residenze protette e pensionati (compresi servizi ambulatoriali e sociali connessi);
- So: servizi ospedalieri e case di cura;
- Si: servizi per l’istruzione superiore;
- Sr: servizi religiosi riferiti a chiese, seminari, conventi;
- Ss: servizi sportivi coperti riferiti a palestre, piscine, palazzi dello sport, campi coperti;
- St: servizi tecnici riferiti ad esempio a stazioni dei trasporti, impianti tecnici per la produzione e distribuzione di acqua, energia elettrica, gas, idrogeno, centrali termiche, stazioni telefoniche, impianti per il trattamento dei rifiuti, depuratori, canili, pensioni per cani e gatti, mattatoi, edifici annonari, stazioni di sperimentazione per la flora e per la fauna, servizi di soccorso pubblico, servizi tecnologici, servizi innovativi, poli tecnologici e digitali, depositerie giudiziarie.
- Su: università e servizi universitari; attrezzature didattiche e di ricerca (compresi servizi tecnici, amministrativi, sociali e culturali connessi), scuole speciali di livello universitario, residenze universitarie.
- Aree per la riduzione del rischio idraulico, a sua volta articolate in:
- Ce: casse di espansione
- In: invasi
- Cs: canali di salvaguardia


Spazi scoperti di uso pubblico
1. Gli spazi scoperti di uso pubblico e di interesse generale disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vg: giardini;
- Vp: parchi;
- Pp: parcheggi a raso;
- Ps: campi sportivi scoperti;
- Pz: piazze riferite a spazi pedonali o prevalentemente pedonali.


Spazi scoperti di uso privato
1. Gli spazi scoperti di uso privato disciplinati dal presente Regolamento sono articolati in:
- Vpr: verde privato
- Vo: orti urbani
- Vb: boschi
- Vvt: vigneti terrazzati
- Vot: oliveti terrazzati


Infrastrutture e attrezzature della mobilità
1. Le infrastrutture e attrezzature della mobilità disciplinate dal presente Regolamento sono articolate in:
- Mc: impianti di distribuzione carburanti;
- Mp: parcheggi coperti;
- Ms: parcheggi scoperti.


Attività agricole
1. Sono attività dirette alla coltivazione del fondo, alla silvicoltura, all'allevamento del bestiame e attività connesse.
2. Sono considerate attività connesse a quella agricola:
- le attività agrituristiche;
- le attività di promozione e servizio allo sviluppo dell'agricoltura, della zootecnia e della
forestazione;
- le attività faunistico-venatorie.
3. Sono comunque considerate attività agricole tutte quelle definite tali da disposizioni normative
comunitarie, nazionali e regionali.


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26 marzo 2009

IDEE "SULLA" CITTA' COMUNISTA

Questo post, il cui titolo è una parafrasi di quello di un libro in voga nei primi anni '70, mi è stato inviato dall’amico Pier Lodovico Rupi, ingegnere e architetto con una importante storia professionale. E' un punto di vista dichiaratamente di parte e molto fazioso, libero e dissacratorio, un’interpretazione dell’urbanistica italiana dal dopoguerra tutta in chiave storico-politica ma con lo sguardo penetrante di un architetto e urbanista che è stato testimone diretto di una parte delle vicende che racconta.
Per qualcuno, ma non per me, può essere un pugno sullo stomaco che aiuta però a capire il recente passato e ci dice anche qualcosa per l’oggi.


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IDEE SULLA CITTA' COMUNISTA

di Pier Lodovico Rupi

Caro Pietro, ti mando una “marketta sul marxismo”, tema che qui dalle nostre parti, te lo assicuro, non rende proprio niente. Ma a me, cosa vuoi che importi.
Prendi lo Zen di Palermo, le Vele di Napoli, il Serpentone di Genova e via elencando e contestualizzali quanto vuoi, non sono incidenti. E allora, parliamone.
Un caro amico, democristiano non pentito come me, ma sbarcato in luoghi diversi, mi scrive che al sacco edil-urbanistico dell’Italia hanno partecipato “geometri democristiani, architetti socialisti e sindaci democristiani”. Aggiungerei altre categorie politiche, imprenditori e privati e intrallazzatori di ogni genere.
Ma perché lasciar fuori i professoroni dell’urbanistica, che hanno suonato il trombone sempre dalla stessa parte? E perché non andare a vedere laddove si distilla il pensiero, come nasce la cultura del “casermone”? Certo, la marketta che ti racconto qui di seguito è un approccio sommario, unilaterale, parziale e sicuramente anche di parte. Ma non è una analisi montata sul vuoto.

Nel primo dopoguerra, quando spirava forte il vento dell'ideologia marxista, la lobby politico-culturale degli urbanisti usciti dal fascismo si omologò rapidamente alla sinistra con il cui appoggio, e con l'insipienza dei cattolici, assunse rapidamente il potere nelle università, nelle istituzioni culturali, nell'editoria, nelle professioni, nei rapporti con lo Stato. Da allora, questa lobby ha dominato in modo totalizzante l'urbanistica nella teoria e ha avuto il monopolio nella prassi a tutti i livelli, nazionale, regionale e comunale.

Dal dopoguerra ad oggi, in poco più di cinquant'anni, le nostre città, che per formarsi avevano impiegato mille, duemila anni, hanno triplicato o quadruplicato la loro superficie, mentre i vani di abitazione sono passati da 35 milioni a 115 milioni. Ma dovunque, questa eccezionale espansione ha avuto risultati disastrosi : le nostre splendide città appaiono oggi avvolte da abnormi, informi, squallide periferie.

Prendiamo atto del fallimento dell'espansione delle città negli ultimi cinquanta anni e interroghiamoci sulle cause che l'hanno determinato.

Il fatto è che l'urbanistica dominante fu impregnata di una particolare idea di città che aveva i suoi riferimenti originari nell'Unione Sovietica e nell'ideologia collettivista. Quest'idea di città, rimbalzando dall'Unione Sovietica, variamente rimuginata da alcuni paesi europei, l'Inghilterra laburista, la Svezia socialista, i paesi dell'est, si impone anche in Italia, nel vuoto lasciato dalla caduta del fascismo.

Per chiarire meglio l'origine di questa idea di città che l'urbanistica dominante ha imposto in Italia, occorre rifarsi alla storia dell'Unione Sovietica.

Quando Stalin incaricò Andrei Alexandrovich Zhdanov di implementare in una visione alternativa globale la cultura del realismo socialista, fu posta all'indice l'impalcatura scientifica della civiltà "borghese", dalla psicanalisi alla meccanica quantistica e non si salvò nemmeno l'urbanistica. Gli architetti russi, guidati dal gruppo di Ernst May, teorizzarono la nuova città derivata dai principi del collettivismo: la città proletaria contrapposta a quella borghese. Una città composta da grossi contenitori dove assemblare, in spazi strettamente essenziali, la popolazione e dai "servizi sociali" nei quali si sarebbe dovuta svolgere tutta la vita collettiva, mentre alloggi senza identità avrebbero dovuto togliere alla casa tradizionale il ruolo di riferimento dell'individuo e della famiglia.
Nell'Unione Sovietica, questa città teorica si materializza in modelli concreti, come la città nuova di Magnitogorsk o quella di Elektrovoz, dove vengono eliminate dalle abitazioni perfino le cucine.

Contenitori a "stecche" ripetute, solo abitativi, perché il propagarsi dei negozi è considerato segno del decadentismo occidentale. Grossi interventi ossessivamente ripetitivi, senza una qualsiasi ricerca di qualità, le categorie estetiche essendo considerate pregiudizi borghesi, alloggi tutti uguali, secondo schemi modulari, con le forme irrigidite della prefabbricazione pesante, secondo il mito dell'economia di scala. La nostra cultura dominante ha potuto applicare compiutamente i principi degli architetti sovietici nei "quartieri popolari", dove ha avuto l'affidamento della gestione dell'intero processo urbanistico, fino alla realizzazione degli edifici. Cosicché nei "quartieri popolari" l'impronta collettivista emerge con assoluta chiarezza. Per richiamare un modello, lo ZEN di Palermo, esempio limite di aberrazione e degrado urbano, progettato da un campione di questa cultura, riassume tutti i principi dell'urbanistica collettivista. E per capire tale cultura, basta richiamare quell'architetto che, per promuovere la propria immagine professionale, progettò di trasformare il lingotto torinese in un enorme contenitore di alloggi.

Ma questi caratteri non sono presenti solo nei "quartieri popolari". Tipologie e forme urbane, piani urbanistici e norme di attuazione sono sempre di derivazione della stessa cultura dominante. Anche negli agglomerati di edilizia privata che negli ultimi cinquant'anni hanno avvolto le nostre città riemerge il principio urbanistico primario, la dottrina del collettivismo: grossi blocchi ad intasare ogni spazio, ripetitivi, tutti della stessa altezza, informi e senza qualità, solo abitativi.

Principi cui ha sicuramente fatto da sponda il funzionalismo del "Movimento moderno" nato nell'ambito della repubblica socialista di Weimar e anche l'immediato interesse di stuoli di costruttori improvvisati. Ma scava, scava, viene sempre alla luce quello che fu il mito originario, il programma di collettivizzazione della società.

Per perseguire queste teorie, la cultura dominante prende a modello le città dove impera l'ideologia comunista. Gli interventi edilizi dei paesi ex satelliti dell'Europa orientale vengono presi ad esempio e si intensificano le missioni di studio verso di essi.

Muovendo dai modelli di una società chiusa e ingessata, la cultura urbanistica dominante non riesce a comprendere quello che sta accadendo nelle città dell'occidente; e non riesce nemmeno a presagire, perché in contraddizione con i suoi preconcetti ideologici, le radicali trasformazioni economiche e l'evoluzione civile che avrebbero accompagnato questa grandiosa espansione urbana.

La cultura dominante, ancorata a questi riferimenti, si impantana in visioni pauperiste, in dottrine minimaliste, arriva a teorizzare lo "sviluppo zero". Mettendo su pezzi di città fatti di agglomerati di celle si immagina di costruire il nuovo modello di "città del popolo". Ma i "villaggi popolari" invece di rappresentare "la città del popolo" saranno il monumento al fallimento della cultura urbanistica dominante. E le nostre splendide città, fino ad allora coerenti ed organiche, vengono accerchiate da squallidi agglomerati, metafore rabberciate del principio collettivista.

Eppure, negli anni appena precedenti, si erano realizzati modelli urbani di ben diversa qualità. Basta richiamare città come Latina o la Montecatini degli anni 20-30, quartieri come 1"'EUR", parti di città come il centro di Bergamo, o vaste sistemazioni come quella del viale lungo¬mare della Versilia.

Per mascherare risultati così disastrosi, la cultura urbanistica dominante affiancata dalla vulgata della sinistra cerca un capro espiatorio e lo trova nella "speculazione edilizia", accusata come "la madre di tutti mali" della crescita sfigurata della città. Pur con tutte le collusioni e corruzioni e con tutti gli intrecci che hanno cadenzato l'espansione della città, non si capisce come chi guadagnava nella compravendita dei terreni, prevedendo quello che gli urbanisti non sapevano prevedere, o chi guadagnava costruendovi sopra, vincolato ai limiti dei Piani Regolatori e delle relative norme di attuazione, avrebbero potuto decidere la forma urbana, la larghezza delle strade, l'altezza degli edifici, le tipologie edilizie e ogni altra sistemazione urbanistica. Modellare e regolamentare la crescita urbana spettava agli amministratori comunali che ne avevano il potere e il dovere e alla cultura urbanistica che fu investita, in assoluta esclusiva, del compito di produrre modelli e regole, Piani Regolatori e norme attuative. Non si comprende quindi come sia possibile salvare dalla responsabilità dello sfascio del territorio italiano gli amministratori comunali (democristiani, socialisti o comunisti) e con essi la cultura urbanistica dominante, questa solamente comunista.

Politica e cultura, invece di dare risposte adeguate, si trastullavano in vaniloqui ancora una volta di matrice ideologica, sull' "esproprio generalizzato" e sulla "proprietà pubblica dei suoli".

Per decenni si è fatto credere che tutti i problemi dell'urbanistica si sarebbero brillantemente risolti e le città si sarebbero sviluppate belle e amene se solo si fosse applicato l'esproprio generalizzato.
A parte i risultati disastrosi nei paesi dell'est europeo, negli ultimi cinquant'anni, in Italia gli interventi più invasivi si sono avuti soprattutto nelle aree di proprietà pubblica. Spesso preziosi piccoli paesi appaiono sfigurati da "case popolari", o anche altri edifici pubblici che impattano volgarmente lo sky-line urbano. Per non dire dei quartieri di edilizia pubblica delle grandi città.
Per riportare un caso emblematico visto da tutti, basta richiamare l'immagine di Orte dall'Autostrada del Sole, con il profilo dell'acquedotto romano e, in oscena sovrapposizione, un grosso volume di edilizia residenziale pubblica. (1)

Come succede nella psicologia individuale, frustrata da questi insuccessi l'urbanistica dominante ha riversato sui cittadini un atteggiamento punitivo. Sono stati importati in Italia e sponsorizzati fino a farli divenire leggi, modelli normativi ispirati a principi di collettivizzazione, come il "diritto di superficie" e la "proprietà indivisa".

Visto l'insuccesso anche di questi dispositivi, che, oggi, quasi tutti sono d'accordo essere da buttare a mare, l'urbanistica dominante si è successivamente indirizzata verso una vecchia idea dell'ideologia collettivista, l'idea che con le norme si possa sistemizzare e dirigere tutto. Ed ha promosso e proliferato ai livelli regionale e comunale un immane apparato di leggi, regolamenti, direttive, procedure, in un inestricabile viluppo di commi, contro-commi, richiami eccetera, del quale possono spesso ricavarsi le più contraddittorie interpretazioni.

L'appropriazione burocratica dell'urbanistica è così divenuta la nuova frontiera dell'ideologia.




La foto del Manifesto che illustra i "vantaggi" della città-giardino sovietica è stata tratta dal blog The Measures Taken.

Nota (1) - Su Orte è rimasta famosa la denuncia di Pier Paolo Pasolini il cui video è visionabile su YouTube


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