Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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29 novembre 2012

VISITA AL MAXXI: FALCOR CONTRO IL NULLA

di Pietro Pagliardini

Oggi ho visitato il MAXXI di Roma. La visita non era finalizzata al Tempio in se stesso, che era solo il contenitore in cui si svolgeva un convegno sulla nostra professione. Certo, pensare che la sede in cui si discute di crisi, parola diventata ormai sinonimo di professione, è costata se non ricordo male 120 milioni di euro, 12.000 euro a metro quadro, senza “opere d’arte”, suona a dir poco grottesco se non sinistro.
Arriviamo in taxi sotto un mezzo nubifragio. Non vedo l’edificio all'esterno, ne intravedo solo la sagoma.
Di corsa verso l’ingresso, accolti da una installazione di paglia o rafia marroncina, di gusto Malindi, che per forma e pendagli mi evoca Falcor, quell’essere parlante e volante del film “La storia infinita”. Non posso non osservare, per ovvi motivi meteorologici, che quella sembrerebbe una sorta di provvisoria (?) pensilina di ingresso la quale però non para quando piove e rilascia acqua quando non piove (verificato successivamente) e, con tutti quei volumi aerei che costituirebbero se non altro un buon riparo, proprio sopra l’ingresso c’è sadicamente un ampio vuoto che lo espone alle intemperie. Entriamo con gli ombrelli praticamente aperti. Mi rendo conto dopo che, senza Falcor, al solito l’ingresso non è troppo diverso dalle altre vetrate vicine. Guai a prevedere un minimo di gerarchia che non necessiti di altri segni per capire quale sia il volto dell’edificio.


La sveglia anticipata e il viaggio in treno, breve sulla carta, ma in ritardo, fa saltare i miei bioritmi e, grazie anche alla burrasca, non sono particolarmente vigile. Vedo che l’ambiente è bianco e grigio chiaro, qualche strisciata nera. La percezione dello spazio mi lascia totalmente indifferente.

Andiamo alla registrazione, un’isola bianca collocata opportunamente davanti all’ingresso (è già qualcosa). Il banco è curvilineo con contorsioni varie, forme arrotondate replicanti di un’altra installazione della Hadid che ha girato diverse città tra cui la mia. Il gioco delle curve è noiosamente lo stesso, cambia il materiale. Seguo l’indicazione del guardaroba e qui è tutto bianco-ospedale. Il banco di consegna ha il piano orizzontale che si inclina verso il pubblico e si arrotonda; penso: anti-infortunistico? Ne ricavo una sensazione alquanto sgradevole e spiazzante perché a casa mia, come in quella di molti altri, i piani dei tavoli sono orizzontali. Dal guardaroba, correttamente, si accede direttamente alla toilette. E' una toilette come un’altra, cosa vuoi aspettarti da una toilette, ma nel box wc c’è la genialatina: il wc è in acciaio ma con le forme di un vaso Richard-Ginori anni ’50. Mi intristisce un po’, anche se svolge la sua funzione come un qualsiasi altro vaso. C’è utilitas e forse firmitas ma manca decisamente di venustas.

Espletati tutti i consueti e necessari adempimenti, in attesa dell’inizio del convegno, torno nella hall. E’ lì ad un passo e comincio ad osservare. La lettura dello spazio è abbastanza semplice, nonostante gli arzigogoli delle scale e della copertura. Mi meraviglio del fatto che, in uno spazio dominato dalla ricerca di una esagerata e impudica fluidità, vi sia una certa corrispondenza tra le immagini viste a iosa e la realtà e manchi del tutto l’emozione della scoperta.
Ma non era Bruno Zevi a dire che la complessità dello spazio si può valutare solo nella terza e quarta dimensione, cioè entrandoci e scorrendoci dentro con il corpo, e la rappresentazione grafica e fotografica è solo un simulacro dello spazio reale? E su questo ci ha costruito tutta una retorica spaziale basata su aspetti di carattere sostanzialmente letterario, senza cioè una vera sostanza, quale la interazione tra spazio e uomo, ma che ha prodotto fiumi di architettura scombiccherata e priva di ogni codice condiviso che non sia l’assoluta libertà di farla come a ognuno pare meglio. Talchè ognuno potesse sentirsi artista. Ecco, in questo caso mi sembra che sia esattamente il contrario: l’originale è quasi deludente rispetto alle fotografie e le aspettative sono superiori alla realtà. Il che è tutto dire.

La sensazione prevalente è di indifferenza, interrotta solo dal fatto che, tutto sommato, lo spazio mi appare angusto, specie volgendo lo sguardo verso l’alto. Il ricordo corre a ben altra fluidità, quella del Guggenheim di New York, e all’emozione provata osservando a naso all’insù verso la cupola, con la spirale che scorre continua verso quella. Quella doppia fila di scale e ballatoi invece, ancorchè poste ad un’altezza ragguardevole - fatto constatabile dall’unica unità di misura possibile, cioè i visitatori - mi appaiono insignificanti, aldilà delle varie trovate delle scale con trave-parapetto nero e le luci sotto i pianerottoli.

La parete in cemento armato faccia a vista di fronte all’ingresso che fa da sfondo all’isola della reception è, tanto per cambiare, sinuosa, ma credo che le curve avrebbero potuto essere anche diverse senza per questo cambiare molto. Nel complesso mi sembra tutto molto manierista e stucchevole in questa ossessiva ricerca del curvo, del fluido, del continuum, unita al minimalismo dei colori e dei pochi arredi, che si risolve, almeno nella hall - solo quella io ho vista - in uno spazio allungato con giustapposte scale contorte. Messa in scena di gratuiti virtuosismi privi di qualità.

Entro nella sala convegni semi-illuminata. Qui non ci sono trovate particolari ed anzi le pareti laterali che convergono sulla parete di fondo, finalmente piana, lo fanno con una curva di raccordo che ben serve a convogliare l’attenzione verso il palco. Le sedute sono di ottimo design ed hanno la spalliera continua, quasi senza soluzione di continuità tra una seduta e l’altra. Solo sedendo ci si rende subito conto che il design rigoroso le rende scomode perchè l’angolo tra seduta e spalliera è quasi ortogonale. Ironia dell sorte, manca una curva proprio dove serve: all'altezza lombare.

Non ho visitato nient’altro perché il convegno è andato oltre il tempo previsto e il treno e lo sciopero incombente non aspettavano di assecondare le nostre curiosità, che peraltro non erano esagerate.
All’’uscita, finita la pioggia battente, noto che per terra, davanti a Falcor, c’è un cartello che credevo indicasse titolo e nome dell’autore; invece c’è scritto “Si prega di non salire sull’opera e di non fumare nell’area circostante”. Per l’appunto avevo la sigaretta accesa e avevo appena detto al mio collega che avrebbe potuto prendere fuoco facilmente. Ma di certo non mi sarebbe venuto in mente di salirci.

A parte questo dettaglio incendiario, mi hanno lasciato interdetto quelle file di pilastrini in acciaio, con una di esse rigorosamente inclinata come da copione, che tanto pilastrini poi non sono, in quanto di diametro non inferiore a quaranta centimetri, ma che appaiono del tutto esili e inadeguati in rapporto alla incombente massa di scatole allungate in cemento armato che sostengono. Non c’è ironia ma non c’è nemmeno alcun rapporto tra elementi verticali e orizzontali; c’è una insignificante e scorretta relazione che dichiara con tutta evidenza l'abisso che esiste tra un plastico, o un’immagine realizzata con software parametrico, e la realtà della costruzione. Quei pilastrini sono una risposta necessaria, ma irrisolta architettonicamente, alla forza di gravità che, ahimè, vale anche per Zaha Hadid.
E’ un’architettura che si vorrebbe svincolata dalla materia, e quindi non sarebbe architettura se l’esperimento fosse riuscito, ma è una brutta architettura proprio perché non è riuscito. Non sono quei pilastrini, gli stessi che sostengono molti volumi della fiera di Rho di Fuksas, il quale è stato molto più abile nell’integrarli in una sorta di navicelle spaziali o mostri d’acciaio,e che comunque ha utilizzato lo stesso linguaggio, almeno nei materiali: acciaio in verticale e acciaio in orizzontale. Essere costretto a sollevare Fuksas per abbassare la Hadid già mi turba, ma lo considero un espediente retorico, un termine di paragone tra due entità della medesima classe, tra due archistar.

Il treno non aspetta e, dopo uno sguardo all’arcinota testa di ET che allunga la sua testa fuori dalla copertura, dobbiamo scappare. Senza rimpianti. Questa architettura da regno del Nulla difficilmente sarà vinta con l’aiuto di un Falcor infiammabile.

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18 febbraio 2012

LA CIVILTA' DELL'IGNORANZA

di Ettore Maria Mazzola

Antonio Salvadori, nel suo capolavoro in tre volumi “Civiltà di Venezia”, ricordava come la formula di approvazione di un progetto architettonico per la città lagunare – fino all’avvento dell’era moderna – fosse “che el sia fato che el staga ben”, ovvero che si realizzi in modo che risulti appropriata al contesto!

Immaginare il rispetto del “decorum” oggi sembra quasi fantascienza. Nell’era del mordi e fuggi e dell’egoismo più sfrenato, sembra non esserci più alcuna speranza di vagheggiare un’amministrazione politica che possa ancora tenere a cuore il bene e il bello comune. Se a questo aggiungiamo lo stato di indigenza in cui versano le casse comunali di tutta Italia, allora non c’è da meravigliarsi se qualche furbacchione abbia trovato il sistema per prendere per la gola un sindaco incapace di mettere al primo posto della sua scala di valori l’estetica e la vivibilità della sua città.

Sto parlando dell’incredibile notizia pubblicata su Repubblica del 13 febbraio 2012 nell’articolo di Salvatore Settis “Megastore con vista su Rialto – il progetto che divide Venezia”.

Esterno ed interno del Fondaco dei Tedeschi nei renderings di Rem Koolhaas
Nell’articolo, si legge: “il Fondaco (dei Tedeschi n.d.r.) è stato acquistato dal gruppo Benetton nel 2008 per 53 milioni, per trasformarlo in un "megastore di forte impatto simbolico". Il progetto prevede non solo l’inserimento di incongrue scale mobili, ma anche la sostituzione del tetto con una terrazza panoramica: l'equivalente, appunto, di una mega-nave piombata nel cuore di Venezia. Lo firma Rem Koolhaas: come ha scritto Giancarlo De Carlo, le operazioni speculative cercano spesso la copertura professionale di grandi architetti (per esempio Norman Foster progettò a Milano il quartiere di Santa Giulia, che doveva sorgere sopra un immenso deposito illegale di scorie nocive)”.
Così, dietro una “convincente” regalia di 6.000.000 di Euro il Comune ha firmato una convenzione che, si legge nell’articolo, consentirà al gruppo Benetton di “realizzare nel Fondaco una superficie di vendita non inferiore a mq 6.800, e perciò presenterà svariate domande di autorizzazione edilizia e commerciale, anche in deroga al vigente piano regolatore. Per parte sua, il Comune si impegna a elargire ogni permesso "con la massima diligenza e celerità", e in modo da "non pregiudicare la realizzazione integrale del progetto".

Lo choc e l’indignazione che la notizia mi ha provocato mi avevano inizialmente indirizzato a scrivere questo pezzo intitolandolo "come ti legalizzo la tangente!", poi però ho pensato che fosse più giusto evidenziare come, nonostante i proclami culturali, la società contemporanea sarà molto più semplicemente ricordata come quella più ignorante ed arrogante che la storia dell’umanità potrà mai annoverare.
Non si tratta di attribuire al nihilismo, che caratterizza tutte le manifestazioni d’arte contemporanea, le ragioni del degrado e della pochezza di contenuti che la nostra società sarà in grado di tramandare ai posteri, bensì di riconoscere il fatto che il livello di ignoranza che il sistema consumistico-capitalista ha prodotto non trova precedenti nemmeno nei secoli più bui della nostra travagliata storia.

In quei secoli “bui” almeno, alcuni valori come la spiritualità, il senso civico e il senso artistico non hanno mai cessato di esistere; nonostante le difficoltà economiche del momento infatti, la società medievale ha saputo concepire delle città efficienti e vitali che dovevano celebrare i nascenti Comuni. Così si sono sviluppate città che in primo luogo miravano alla realizzazione di spazi ed edifici pubblici, città dove l’attività edilizia privata era regolata da statuti illuminanti votati alla celebrazione dell’immagine d’insieme in nome del bene e del bello comune. Quelle città erano caratterizzate da luoghi per la socializzazione dimensionati sulla scala umana, luoghi ed edifici che ancora oggi il mondo ci invidia e, si badi, non si sta parlando delle città ideali del Rinascimento, bensì di quelle che tra l’XI e il XIII secolo hanno definito il proprio carattere, un carattere così forte e deciso che ha generato negli abitanti quell’orgoglioso senso di appartenenza che, nonostante le vicissitudini storiche, ha fatto sì che certe realtà ci venissero tramandate quasi integralmente.

Diversamente da quell’infaticabile ricerca di sviluppo, salvaguardia e promozione del bene collettivo che chiamiamo “città”, l’individuo di oggi – appartenente alla “società dello spettacolo” – sembra avere come unico scopo di vita quello di far parlare di sé, nel bene o nel male, purché possa godere dei suoi “5 minuti di notorietà”.

Uno che ha capito molto bene questo è stato Oliviero Toscani e, con lui, i suoi principali mecenati a partire dal 1982: La famiglia Benetton!
Da quando è iniziato questo “matrimonio culturale”, le città italiane sono state tappezzate di foto che, spesso e volentieri, hanno mostrato una carrellata di esempi di pessimo gusto che hanno portato Toscani, la Benetton e tante altre aziende, a pensare che tutto si potesse mostrare. Tutti gli italiani ricordano un paio di anni fa l’orribile campagna antianoressia di Toscani che mostrava l’immagine agghiacciante della modella anoressica Isabel Caro nuda.

Recentemente la United Colors of Benetton si è tirata addosso le peggiori critiche per la campagna pubblicitaria che ritraeva una serie di baci omosessuali tra i principali capi di governo mondiale, incluso il bacio tra il Papa e l’Imam del Cairo: una campagna pubblicitaria per la quale perfino Toscani ha espresso il suo disappunto.

Il Papa e l'Imam del Cairo nel fotomontaggio della campagna "anti-odio" della Benettoni

Alla base delle campagne della Benetton c’è principio secondo il quale per apparire bisogna trasgredire! Ecco quindi che la Benetton risulta più famosa per le immagini delle sue pubblicità che non per uno specifico capo d’abbigliamento che ha fatto storia.

In quest’ottica però accade che, così come un ragazzino viziato rischia di perdere la capacità di accontentarsi di ciò che possiede, spingendosi a ricercare esperienze sempre più stimolanti che finiranno per mettere a rischio la sua vita, altrettanto la Benetton arriva a necessitare di un “salto di qualità” rispetto alla trovata pubblicitaria immortalata su di un cartellone stradale.

Probabilmente la ragione di questo atteggiamento va ricercata in quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:

«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

La Benetton necessita quindi di affermare la propria immagine trasgressiva in maniera più impattante e, la storia ci insegna, l’uso retorico dell’architettura può tornare utile.
Ecco quindi che, al pari del premio dato a Richard Meier da Rutelli prima di conferirgli l’incarico per il Museo dell’Ara Pacis, potremmo trovare una spiegazione logica all’assurdo Leone d’Oro alla carriera conferito a Rem Koolhaas dalla giuria dell’ultima Biennale veneziana, premio che, si leggeva nella motivazione, veniva dato all’architetto olandese perché avrebbe
“allargato le possibilità dell’architettura. Si è focalizzato sull’interazione tra le persone nello spazio. Egli crea edifici che fanno socializzare la gente, e in questo modo forma degli obiettivi ambiziosi per l’architettura. La sua influenza sul mondo è andata oltre l’architettura. Gente appartenente ad ambiti assolutamente diversi sente la grande libertà del suo lavoro”

… peccato che, nella realtà dei fatti, Koolhaas abbia svolto la sua opera intorno ad una frase che lo rese famoso negli anni ‘80: “Fuck the context”, ovvero “fanculo il contesto!” … altro che “che el sia fato che el staga ben!

A dimostrazione del fatto che la Benetton ricerchi l’archistar di turno per fare breccia nella società dello spettacolo, c’è il fatto che quest’estate si è divulgata la notizia che il Gruppo Benetton ha conferito l’incarico a Massimiliano Fuksas per realizzare, nel cuore di Roma, un altro megastore. Nello storico edificio dell’Unione Militare, posto all’angolo tra via Tomacelli e via del Corso, di fronte a via dei Condotti, è oggi in corso di realizzazione un folle sventramento necessario ad installare una informe torre di vetro, il cui scopo è evidentemente quello di affermare, con tutta la violenza del caso, la presenza del gruppo Benetton nel punto più centrale della capitale.
L'Edificio dell'Unione Militare in via Tomacelli a Roma, prima e dopo la "cura" Fuksas
Possiamo quindi avviare un sondaggio per scoprire quale sarà il prossimo stupro urbanistico che questo gruppo vorrà infliggere al nostro territorio, approfittando della fame di soldi che attanaglia i vari sindaci.
Una riflessione: recentemente lo stato italiano ha sostenuto che gli scandalosi stipendi accordati ai “manager pubblici” siano dovuti all’esigenza di prevenire una loro possibile corruzione … se questo è vero, allora ritengo sia giunto il momento di ricominciare a rifocillare le esangui casse dei comuni prima che i sindaci, presi per la gola, finiscano per devastare i nostri centri storici che, a conti fatti, dovrebbero risultare la nostra principale fonte di reddito.

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11 dicembre 2011

QUANDO IL CATTIVO GUSTO SUPERA OGNI IMMAGINAZIONE

di Ettore Maria MAzzola

È di questi giorni la notizia che a Seoul, nell’area dello Youngsan Dream Hub, un centro per affari progettato da Daniel Libeskind, lo studio olandese MVRDV sta per realizzare due grattacieli gemelli ispirati all’attacco alle Twin Towers. Avete capito bene, le torri non sono ispirate a quelle di Yamasaki, bensì alle torri avvolte dalle nuvole causate dall’attacco kamikaze con gli aerei.


Nelle scorse settimane, l’Italia s’era indignata a causa dell’ultima trovata pubblicitaria della Benetton che vedeva il papa baciarsi sulla bocca con l’Imam, sicuramente una scelta di cattivo gusto, che però mostrava una scena d’amore e di pace, mentre qui ci troviamo davanti ad una scelta intenzionalmente ispirata dalla violenza.

La nostra cultura – ammesso che si possa ancora arrogare il diritto di adoperare questo termine – basandosi esclusivamente sull’edonismo e sul principio della “società dello spettacolo” ha perso del tutto il “comune senso del decoro”, non c’è più alcun senso del pudore che debba rispettarsi, BISOGNA APPARIRE!
Nella perenne competizione del mondo consumista e della Società dello Spettacolo, non c’è possibilità di emergere se si rimane “normali”, è indispensabile intraprendere la via del “famolo strano” se si vuol sperare, come diceva Andy Wahrol, di godere dei propri 15 minuti di notorietà.

Il “famolo strano” è una delle tante sfaccettature di quello che George Simmel definiva l’atteggiamento blasé:
«l'individuo dell’ambiente metropolitano ostenta indifferenza e scetticismo e risponde in maniera smorzata a un forte stimolo esterno a causa di una precedente sovrastimolazione, o meglio in conseguenza di stimolazioni nervose in rapido movimento, strettamente susseguentesi e fortemente discordanti. La più immediata causa all'origine di questo atteggiamento è la sovrastimolazione sensoriale offerta dalla città. Il cittadino sottoposto a continui stimoli in qualche modo si abitua, diviene meno recettivo. Il susseguirsi quotidiano di notizie ed emozioni fa divenire tutto normale, consuma le energie. Così subentra un'incapacità di reagire a sensazioni nuove con la dovuta energia e questo costituisce quell'atteggiamento blasé che, infatti, ogni bambino metropolitano dimostra a paragone di bambini provenienti da ambienti più stabili e tranquilli. Gli aspetti economici, l'economia monetaria e la divisione del lavoro alimentano anch'essi l'atteggiamento blasé. Il denaro è l'equivalente, l'unità di misura e spesso l'unico termine di confronto, di tutti gli innumerevoli oggetti, fra loro molto diversi, di cui dispone l'uomo. Oggetti per altro acquistati da un mercante e non da chi con fatica ed intelligenza li ha prodotti. Naturale conseguenza è la perdita dell'essenza e del significato delle cose. Tutto diventa opaco, la valutazione pecuniaria dell'oggetto finisce col divenire più importante delle sue stesse caratteristiche. Così si acquisisce l'insensibilità ad ogni distinzione, che è un'altra caratteristica dell'atteggiamento blasé».

Ecco quindi che, per godere dei propri 15 minuti di notorietà, non occorre necessariamente che quella ci venga per dei meriti … anche i demeriti vanno bene, purché si possa parlare di noi!
Anni fa, credo fosse il 1995, “enzimi” organizzò un concorso di progettazione per giovani architetti nel cui bando gli organizzatori dicevano che avrebbero premiato il progetto più “irriverente e dissacrante” … un ottimo modo per istigare le nuove leve a produrre opere fini a sé stesse e a fregarsene degli uomini e dell’ambiente.

Ma dove porta tutto questo?
Per il momento mi limito a far notare che, benché il progetto sia stato fatto da MVRDV, il masterplan è stato sviluppato da Daniel Libeskind … e il piano per Seoul ha delle sinistre similitudini con il piano dello stesso Libeskind per Ground Zero. Per la proprietà transitiva si deve supporre che uno zampino dell’architetto polacco debba esserci stato!
Inoltre, non è possibile credere alle parole di Jan Knikker di MVRDV il quale, una volta scoppiato lo scandalo per il progetto, ha dichiarato al quotidiano olandese Algemeen Dagblad, “Non era nostra intenzione creare un'immagine simile agli attacchi, né si vede la somiglianza nel processo progettuale" … tant’è che poi ha dichiarato "Devo ammettere che abbiamo pensato anche agli attacchi del 9 / 11".

Ebbene, alla luce di questa vergogna, ricordo a tutti che Daniel Libeskind è, insieme a Massimiliano Fuksas, uno degli “architetti di fama internazionale” a capo della “Commissione Grattacieli per Roma” … quale futuro dobbiamo aspettarci per la Capitale?
Mi auguro che il sindaco e il suo entourage riflettano a fondo, e blocchino sul nascere l’idiozia dei grattacieli a Roma.

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19 ottobre 2011

COMMISSIONI "GRATUITE" PER INTERVENTI GRATUITI

di Ettore Maria Mazzola

Purtroppo quello che è circolato in questi giorni sul Blog Archiwatch del buon Prof. Muratore non era uno dei suoi simpatici scherzi firmati “Falso Cascioli”, è tutto vero e documentato sul sito istituzionale del Comune di Roma, sulla pagina ufficiale si legge:

“Il giorno 4 ottobre 2011 e il giorno 11 ottobre 2011 alle ore 14,30 alla presenza dell’Assessore all’Urbanistica, avv. Marco Corsini, si sono insediate ufficialmente la “Commissione Piazze” e la “Commissione Grattacieli”, entrambe istituite dal Sindaco di Roma Capitale”.
“La Commissione Piazze, è presieduta dal Prof. Paolo Portoghesi, Architetto di fama internazionale, è composta dal Prof. Francesco Cellini, Architetto di fama internazionale e Preside della Facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma Tre, dal Prof. Bruno Dolcetta, Architetto Docente di Urbanistica allo IUAV di Venezia, dall’Arch. Francesco Coccia, Direttore del Dipartimento Periferie di Roma Capitale, e dall’Ing. Errico Stravato, Direttore del Dipartimento Programmazione e Attuazione Urbanistica di Roma Capitale, e ha il compito di individuare i siti idonei ad ospitare nuove piazze nell’ambito della città periferica nel territorio di Roma Capitale.
La Commissione Grattacieli, presieduta dall’Ing. Errico Stravato è composta dall’Arch. Massimiliano Fuksas, Architetto di fama internazionale, dall’Arch. Daniel Libeskind, Architetto di fama internazionale, dall’Ing. Francesco Duilio Rossi, Presidente dell’Ordine degli Ingegneri della Provincia di Roma, dall’Arch. Amedeo Schiattarella, Presidente dell’Ordine degli Architetti della Provincia di Roma, dal Prof. Livio De Santoli, Ingegnere esperto di energia per l’Università di Roma "La Sapienza", e ha il compito di individuare i nuovi siti adatti ad ospitare edifici con tipologia edilizia a sviluppo verticale.
Entrambe le Commissioni vedono la presenza dei loro componenti a titolo gratuito e hanno l’obiettivo di elaborare le linee guida per ogni sito individuato, unitamente alla procedura concorsuale che verrà successivamente bandita. Nel corso dei due incontri si è stabilito di calendarizzare i lavori delle Commissioni e selezionare i siti che verranno analizzati
”.

Il sindaco Alemanno venne eletto anche grazie alla promessa di provvedere a mettere fine alla campagna di devastazione della Capitale, inaugurata dal sindaco Rutelli e portata avanti da Walter Veltroni, ma ben presto i romani si sono dovuti accorgere dell’inganno.

Nulla è stato fatto per rimuovere la “Bara-Pacis” di Meier, anzi è stato proposto di realizzare un mega parcheggio ed un tunnel a suo supporto. Poi, sul problema dei palazzi demoliti nel ’39 lungo via Giulia, la giunta aveva inizialmente affidato al prof. Marconi (che con il sottoscritto e le Università di Notre Dame, Miami e Roma Tre, aveva prodotto un testo e dei progetti pilota) la redazione di un Bando internazionale per la ricostruzione filologica degli edifici da destinarsi ad Università per Stranieri a Roma, successivamente – di comune accordo con personaggi il cui amore per Roma e conoscenza della città sono ancora da dimostrarsi, nonostante la loro presenza nelle commissioni di cui sopra – il sindaco decise che la ricostruzione andava fatta ma non dovesse essere assolutamente basata su principi filologici! La storia vergognosa di questa faccenda è stata ampiamente raccontata e non merita ulteriori commenti, se non che dal ricordo dello scandalo legato all’appalto del parcheggio che dovrebbe sorgere in quel punto ed al tentativo di devastazione dei reperti archeologici trovati nell’estate di due anni fa. Poi c’è stato lo “strano caso” per cui il sindaco ha sostenuto a tutti i costi il progetto per Tor Bella Monaca e il “no” alla rigenerazione del Corviale su cui occorre stendere un velo pietoso. Che dire poi dei platani abbattuti dove si vorrebbe far sorgere le strutture delle ipotetiche Olimpiadi? Ma sono troppe le cose da raccontare, e allora mi limito a far qualche riflessione nella speranza che il sindaco e i suoi “esperti” facciano altrettanto.

Alemanno, forse a causa delle sue origini politiche, probabilmente vuole impersonare il ruolo del leader della nuova “era del piccone” e così, non pago degli scempi che ha promosso e sostenuto finora, ha deciso – complici i suoi “coltissimi” consiglieri ed assessori – di istituire due commissioni, una più insulsa dell’altra … forse per questo si sono premurati di sottolineare, di seguito ad ogni nome chiamato al capezzale della Capitale “Architetto di fama internazionale”, peccato però che questi personaggi, nella loro carriera, non hanno fatto altro che mostrare la “fame di fama” e perfino l’odio più totale nei confronti della tradizione e della storia!

Qualcuno potrebbe azzardarsi a scagionare da questa categoria di devastatori il prof. Portoghesi, ma poi basterebbe ricordarsi le parole che hanno accompagnato il suo progetto per via Giulia, oppure andare a vedere la piazza mostrata durante la conferenza sul futuro di Roma, o la proposta per Piazza San Silvestro, per rendersi conto che, sebbene abbia scritto libri mirabili in materia di “Barocco”, non provi alcun interesse per la progettazione dello spazio che quel meraviglioso periodo ha prodotto. A ben vedere, il suo unico interesse sembra rivolto alla forma della pavimentazione disegnata da Michelangelo per la Piazza del Campidoglio, forma che ha colonato gratuitamente (come i suoi incarichi gratuiti di cui sopra) ogni qualvolta gliene sia capitata l’occasione in giro per il pianeta. Che garanzie può dare un Presidente di Commissione per le Piazze che disegna piazze fini a se stesse, dove ci si deve recare e ripartire in elicottero perché non hanno alcuna relazione spaziale con una sequenza urbana pedonale? Quali mirabili piazze avrebbero realizzato, o perlomeno studiato e compreso, gli altri “architetti di fama internazionale” della Commissione?

Quanto all’altra Commissione, quella per i Grattacieli, c’è da restare annichiliti alla sola idea di istituirla, specie dopo che l’intera popolazione (non solo romana) s’era mobilitata per spiegare al sindaco, ed ai suoi sponsors, che quella del grattacielo è una tipologia che non appartiene né a Roma, né all’Italia, tipologia da ritenersi folle nell’era della sostenibilità. Si vede che gli sporchi interessi che girano dietro l’edilizia e il mercato fondiario hanno fatto decidere ai nostri amministratori di calarsi le braghe davanti a chi ha intenzioni speculative.
Il solo pensiero che della commissione facciano parte Fuksas, (che attualmente sta sfregiando l’edificio dell’ex Unione Militare all’angolo tra via del Corso e via Tomacelli) e di Liebskind (che ha finora dedicato la sua vita professionale a far violenza agli edifici storici come il Museo di Dresda), non può che suscitare incubi nella popolazione romana che, si deve supporre, vedrà massacrare il suo skyline, e probabilmente il suo centro storico, per lasciar posto quelle infernali macchine di distruzione ambientale che sono i grattacieli.

Non meravigliatevi se, di qui a poco, vedrete spuntare progetti che parlano di “grattacieli sostenibili” o di “boschi verticali”, saranno i nostri “esperti di fama internazionale” a proporceli, ci racconteranno che sono cose che si fanno all’estero, ci racconteranno che stanno cercando di farlo a Milano … ma questo non vuol dire che le parole e le immagini corrispondano alla realtà! Del resto se chiedessimo ad un produttore di pesticidi se sono nocivi non ci risponderebbe mai onestamente, né se chiedessimo ai produttori di alimenti geneticamente modificati quali possano essere gli effetti collaterali essi ammetterebbero mai una simile possibilità.

È incredibile che in questa nazione, e in questa città, ci si accorga sempre in ritardo di come le cosa vadano nel resto del mondo. Basta fare una semplice ricerca nel web, digitando “grattacieli abbandonati” o “ghostscrapers” o “abandoned skyscrapers” per trovare migliaia di pagine che raccontano come nel resto del mondo, dove questa tipologia è stata sposata, essa si è rivelata fallimentare. Onestamente basterebbe conoscere le ultime notizie su Dubai per rendersene conto, eppure sembra che, ottusamente, alcuni “architetti di fama internazionale” e i loro mecenati politici, non vogliano ammettere a se stessi la dura realtà.

Roma s’è già resa ridicola agli occhi dell’intero pianeta il 20 luglio 1972 quando, 5 giorni dopo l’abbattimento del complesso Pruitt-Igoe – ritenuto "ambiente inabitabile, deleterio per i suoi residenti a basso reddito” – evento che lo storico americano Charles Jencks aveva decretato “la morte di quelle utopie”, venne deciso di realizzare il progetto per Corviale a Roma!

Evidentemente dobbiamo credere a chi sostiene che i nostri attuali politici siano diabolici: errare è umano, perseverare è diabolico!

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6 agosto 2011

PIAZZA SAN SILVESTRO: L'ATTACCO AL CENTRO STORICO CONTINUA

Ricevo dal Prof. Ettore Maria Mazzola questo testo sul progetto di "riqualificazione" di Piazza San Silvestro a Roma che pubblico con piacere.

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Piazza San Silvestro: l’attacco al centro storico continua
di
Ettore Maria Mazzola

La cronaca romana di questi giorni ci ha mostrato la rivolta pacifica suscitata dall’avvio del progetto di “riqualificazione” di Piazza San Silvestro. Una rivolta più che prevedibile.
Intanto c’è da chiedersi se, con tutti i problemi di Roma, specie in periferia, la “riqualificazione” di piazza San Silvestro sia una priorità che giustifichi una spesa di circa € 2.500.000,00.
Poi chiediamoci se il progetto in corso possa realmente definirsi un progetto “riqualificante”, oppure se non si tratti dell’ennesimo abominio progettuale, figlio dell’ideologia modernista e del disinteresse per il contesto nel quale si interviene, che pone al centro di tutto l’affermazione dell’ego del progettista.
Il risultato di questa ennesima “gaffe urbanistica” dell’amministrazione capitolina, è stata l’ovvia rivolta dei cittadini che hanno manifestato il proprio disappunto bloccando il cantiere. Contemporaneamente sui blog si sono moltiplicati i messaggi che implorano la sospensione del progetto e chiedono un cambio di direzione nella gestione dell’urbanistica romana.

Per quanto mi riguarda non posso che unirmi al coro degli indignati; del resto, dopo la violenza all'Ara Pacis, e lo stupro dell’Unione Militare, questo intervento rappresenta il progredire delle metastasi, di un "tumore" che, originatosi con il Museo dell'Ara Pacis, si sta estendendo fino a Piazza San Silvestro in una direzione ... e Largo Perosi nell’altra. Del resto era prevedibile, se si dà a Meier e Fuksas il permesso di sfregiare il centro storico più bello del mondo, chiunque può sentirsi legittimato a fare altrettanto!

La realtà dei fatti è che non c'è più alcun amore per la nostra città, né da parte degli architetti (che in realtà pensano solo al loro ego), né tantomeno da parte dei politici, ai quali interessa solo la propaganda. Per questi ultimi, spesso profondamente ignoranti, l'importante è che il proprio nome sia sui giornali e, siccome la gente legge a stento i titoli e sempre meno i contenuti, che si parli bene o male non fa nulla, basta che si parli.
Eppure non è che ci vorrebbe molto a capire come fare una piazza: se facciamo il raffronto tra la mobilitazione in atto per bloccare l’esplanade di San Silvestro, con quella che fu la mobilitazione popolare per mantenere in pristino la finta fontana barocca istallata a Fontanella Borghese per il set cinematografico Disney 2 anni fa, ci accorgeremmo che la gente comune, ovvero i fruitori degli spazi urbani, non fa polemica per il gusto di farla, ma la fa per evitare di vedere violentati gli spazi che le appartengono. Nei due casi menzionati, infatti, si è “combattuto” per evitare uno scempio o per mantenere un qualcosa che, esteticamente, si riteneva apportasse una miglioria allo spazio preesistente.

A tal proposito sarebbe il caso di ricordare che il Codice Civile italiano tutela tutti coloro i quali rivendicano il possesso di un luogo che utilizzano, frequentano o guardano, e che come tali devono essere tenuti in considerazione prima di apportare delle modifiche; sarebbe quindi utile recuperare concetti come quello contenuto nel Piano per Bari Vecchia del 1930, (G. Giovannoni – C. Petrucci) che recitava «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città».
Ovviamente, nel coro di protesta contro il progetto di Piazza San Silvestro, c’è stato anche chi, dalla Facoltà di Architettura, ha suggerito di coinvolgere personaggi come Foster, Pei, Piano e l'Aulenti che, a suo avviso, potrebbero dare delle soluzioni più consone ad una piazza … da parte mia, se penso a ciò che Gae Aulenti ha fatto al Foro Carolino di Napoli mi viene la pelle d'oca!!

A tal proposito, penso che più che suggerire delle archistar, che mirano solo a mettere la loro firma sul territorio, sia necessario coinvolgere tutti coloro i quali vogliano mostrare ciò che vorrebbero venisse realizzato in Piazza San Silvestro; ma soprattutto, vorrei che ad esprimersi non debba essere una "commissione di esperti" (visto che si sono formati, o meglio che sono stati lobotomizzati, nelle facoltà di architettura e ingegneria italiane votate al modernismo), ma che debbano essere i cittadini ad esprimere le loro preferenze, mediante un processo partecipativo reale e non fasullo, come quello della recente presa in giro per Largo Perosi alla Moretta.
A mio avviso Roma, che è la città delle fontane, meriterebbe di avere una vera fontana in Piazza San Silvestro, (l’ultima degna di tale nome è quella realizzata da Attilio Selva nel 1928 in Piazza dei Quiriti!) meriterebbe di avere una pavimentazione non astrusa come quella del progetto in corso, ma legata alla geometria che la contiene, una pavimentazione che tenga in considerazione le gerarchie degli edifici che la circondano; Piazza San Silvestro meriterebbe dei lampioni degni di portare luce nel centro di Roma, e non brutti come quelli installati lungo via Veneto.
Il progetto in corso presenta una serie di orribili “panchine-bara”, prive di schienale e messe alla rinfusa: una soluzione che sembra più una disposizione casuale di oggetti, utile a riempire il vuoto della piazza, che non un tentativo di realizzare un luogo per la socializzazione ove riunirsi e chiacchierare … non ci vogliono le archistar per capirlo, ma una semplice analisi storico-tipologica degli spazi urbani di Roma.

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17 giugno 2011

10 DOMANDE SULL'EDIFICIO DI VIA DEL CORSO A ROMA

In stile Repubblica, ma in sedicesimo, avrei 10 domande da porre sul progetto dell’edificio Benetton a Roma, in via del Corso, progettato da Massimiliano Fuksas. In realtà ne avrei altre di domande da porre, ma è preferibile attenersi alla regola del 10.

Il problema è che non so a chi porle queste domande. Quindi è un messaggio dentro una bottiglia lanciato nel mare magnum della rete. Chissà che qualcuno che conosce almeno parte delle risposte non lo legga!

1) L’edificio attuale è vincolato ai sensi della ex 1089/1939?
2) L’area rientra nel vincolo paesaggistico ex legge 1497/1939
3) Se sì ad una sola delle due domande precedenti, perché la Soprintendenza ha rilasciato il nulla-osta e chi ha istruito la “pratica” e chi l’ha firmata (nome, cognome, ruolo)?

4) Il progetto è stato oggetto di un Piano Attuativo o di Recupero, magari in variante, o è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto?
5) Se è stato oggetto di Piano Attuativo o Piano di Recupero, esiste una commissione urbanistica che ha approvato? E con quale motivazione?
6) Come e da chi è composta questa commissione urbanistica (nomi, cognomi, ruolo)?
7) Se è stato autorizzato con Permesso di costruzione diretto, con quale motivazione la Commissione Edilizia ha approvato? Nel caso in cui a monte ci sia stato un Piano Attuativo o di Recupero, la C.E. non avrebbe potuto che prenderne atto, almeno nelle linee generali, ma possibile che nessuno dei membri abbia sentito il bisogno di esternare un disagio, dissociarsi, uscire per farsi mettere assente, far mettere a verbale qualche cosa, dare un segno di vita, insomma?
8) Da chi è composta la Commissione Edilizia (nome, cognome, ruolo)?
9) Chi ha istruito la pratica del Permesso di Costruzione e chi l’ha rilasciata (nome, cognome, ruolo)?
10) Possibile che il Sindaco, gli Assessori competenti, un Assessore qualsiasi della Giunta, qualche consigliere comunale di maggioranza o minoranza, qualche consigliere dei Municipi, qualche Presidente di commissione, qualche politico di prima, seconda o terza fila, qualche mezza tacca qualsiasi nella pletora di amministratori che ci possiamo permettere in questo straricco paese, qualche rappresentante della comunità montana, che sarà scesa anche a Roma immagino, qualche Assessore o consigliere provinciali e regionale, qualche funzionario o tecnico di uno dei numerosi enti, che ci possiamo sempre permettere in questo sempre più straricco paese, in qualche utilissima conferenza dei servizi, qualche funzionario della ASL per il NIP, dei VVFF per l'esame progetto, del Genio Civile per il deposito delle strutture, dell'ufficio commercio per le autorizzazioni, ecc. ecc. ecc., possibile, dicevo, che nessuno abbia visto, saputo, annusato, sentito dire che stava per essere o era già stato approvato un progetto di tal fatta nel centro di Roma, tra le decine di tavoli in cui è transitato, e che abbia mantenuto il segreto, anche con la moglie o il marito? Tutto si potrà dire fuorché passi inosservato!

Certo, manca la domanda regina, la più seria ma anche la più terribile cioè: possibile che sia piaciuto a tutti questo progetto? Ma questa non la voglio proprio porre.

Pietro Pagliardini

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ETERNITA' E VERGOGNA DEL MATTONE

Sul Corriere della Sera di martedì 14 giugno ci sono due belle pagine dedicate a Giorgio Vasari, di cui ricorre il 5° centenario della nascita e di cui si inaugura una mostra agli Uffizi dal titolo Vasari, gli Uffizi e il Duca, cioè Cosimo de’ Medici, che commissionò a Vasari il progetto degli Uffizi. Vi è poi, sempre in relazione al Vasari e alla mostra, un articolo sul rapporto tra l’eternità dei grandi della storia, grandi nel bene o nel male, e l’eternità dell’architettura e della poesia da loro lasciata o a loro dedicata. Titolo dell’articolo: Da Pericle a Hitler: l’eternità è sempre affidata alla pietra. I grandi sono sempre gli stessi: Pericle, Giulio II, Urbano VIII, Cosimo, appunto, il Re Sole, e pure Hitler; per finire con Pompidou e Mitterand.


Si parla di sovrani, di principi diremmo meglio, anche del principe del male per antonomasia. Il giudizio basato sull’eternità del ricordo legato all’eternità delle opere lasciate, non è un giudizio sul valore di ognuno, ma la constatazione del fatto indiscutibile di essere la memoria di molti di questi principi legata indissolubilmente alle opere che hanno voluto e ci hanno lasciato.
Certo che Hitler sarà ricordato per ben altro che l’architettura, anche se il suo stadio olimpico è risorto a nuova gloria con le Olimpiadi di Berlino e con il bell’intervento di adeguamento progettato da GMP, forse il più bell’esempio di recupero e trasformazione di uno stadio che io conosca, splendida fusione di architettura classica e modernità.

Inevitabile e amaro il confronto della “soluzione” del rapporto vecchio-nuovo, con il progetto del nuovo negozio Benetton a Roma, “firmato” da Massimiliano Fuksas e segnalato opportunamente da Giorgio Muratore su Archiwatch.

I nuovi Principi sono le case di moda con i loro stilisti o le varie multinazionali; sono principi del profitto. Ma non è il profitto il problema, anzi, è bene che ne producano molto. Il problema è il ridurre e piegare in maniera scientifica l’architettura, ma direi meglio, la città, a pura merce di scambio, a grande outlet urbano in stile…. come non saprei, modernista è troppo poco ed è in fondo offensivo per i modernisti autentici. Che le società industriali e commerciali necessitino di una immagine architettonica capace di distinguersi è una evidenza. Che questa architettura sia per sua natura pura comunicazione visiva e parte integrante del brand e quindi che la logica dell’oggetto sia assolutamente prevalente su quella del contesto, ed anzi lo neghi proprio per cercare di emergere dal rumore di fondo creato da tutti gli altri concorrenti, è un’altra evidenza.
Ma non c’è giustificazione alcuna perché operazioni come queste vengano perpetrate in danno del centro storico e di quello di Roma in particolare. Non solo chi l’ha progettato, ma chi l’ha approvato dimostra mancanza di senso del proprio ruolo e delle proprie responsabilità. Qui non siamo al fuck the contest, siamo davvero ad un livello molto inferiore, se possibile. Qui il contest non è solo la città ma lo stesso edificio su cui si interviene con linguaggio sgrammaticato.

Non sono un seguace dell’indignazione, ma immaginare quel progetto (immaginare per poco, perché è in costruzione e lo vedremo finito) in via del Corso, con quelle escrescenze giustapposte sul tetto e quella rete da insaccati che vorrebbe risolvere un angolo, mi rende incredulo perché è come essere alle aste della progettazione e per il fatto che è stato approvato da “organi competenti”. Di cosa siano competenti è un altro bel rompicapo. Ma davvero alle grandi società e ai "grandi" architetti non si può dire di no? Oppure il sì sarà giustificato dalla consunta storiella riciclata che dobbiamo accettare la sfida del nostro tempo?

Dopo aver letto le due pagine del Corriere, non griderò contro la democrazia che non riesce a produrre bellezza, però che debba produrre solo bruttezza, rischia di far vacillare qualche convinzione. Gli ultimi tre sindaci romani, Rutelli, Veltroni e Alemanno avranno lasciato il loro segno nella città di Roma, ma sono certo che non saranno ricordati come Pericle o Giulio II.
Per loro e nostra consolazione non saranno comunque ricordati nemmeno come Hitler.
Non saranno ricordati e basta.

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13 febbraio 2011

LETTERA A MASSIMILIANO FUKSAS

Quella che segue è una lettera aperta a Massimiliano Fuksas, quasi lo conoscessi, anzi, quasi fossimo amici. La forma epistolare è solo un espediente retorico che dovrebbe rendere più immediata e digeribile l’esposizione di qualche pensiero. Non lo conosco invece, e dunque non posso essere suo amico, né potrei esserlo, credo, anche se lo conoscessi. Non certo per la diversa collocazione politica, che questa non mi è affatto di ostacolo con altri amici reali, e neppure per l’oggettivo abisso professionale che ci separa, che anzi io sono sempre affascinato da chi è riuscito a raggiungere il successo, essendo convinto che questo è il frutto di una forte componente di merito individuale, in dosi variabili da caso a caso, naturalmente, ma per aspetti squisitamente caratteriali, almeno da quel poco che ho potuto intuire dai suoi interventi televisivi e giornalistici.
Diciamo che certi suoi atteggiamenti un po' ribaldi, pur risultando talora anche divertenti nella loro estemporaneità e (apparente?) genuinità, quella sua ingenua sicurezza di rappresentare sempre la parte giusta, l’unica naturalmente, confliggono con la mia timidezza nei rapporti personali che mi impedirebbe di mettermi al centro del mondo. Forse è anche la sua imponente figura da austero busto di antico romano ad accentuare una sua certa (apparente?) prosopopea, stemperata, per fortuna, dal forte contrasto con non rare sue iperboliche e improbabili affermazioni apodittiche (famosa quella su Cicerone, cui indubbiamente assomiglia), che contribuisce ad umanizzarlo e a renderlo simpatico.


Avrei potuto recentemente confermare queste mie impressioni andandolo ad ascoltare, e vedere, di persona ad Arezzo, essendo egli intervenuto alla presentazione di un suo libro, che ahimè non ho letto, ma si sarebbe svolta di sabato alle 21,00 e non me la sono sentita di rinunciare ad una tranquilla cena tra amici e di costringermi ad ingoiare qualcosa di corsa, come si fosse trattato di un giorno di lavoro qualsiasi. Alla prossima occasione.

*****
Caro Max
Ho letto su L’Espresso di questa settimana un tuo articolo dal titolo: “Dimenticare Bilbao”. Già dal titolo ho istintivamente peccato di vanità, lo ammetto, masticando tra me e me: “Mi hai fregato l’idea. Hai letto il mio post e te ne sei appropriato. Almeno, da amico, avresti potuto citarmi. Una citazione fatta da te mi avrebbe lusingato assai. Avresti potuto fare un piccolo accenno al fatto che ne abbiamo parlato insieme più volte, se proprio non volevi nominare il blog che, effettivamente, non è proprio schierato dalla tua parte”. E’ seguita una espressione a denti stretti che tralascio di scrivere per educazione.

Leggendolo per intero, poi, quella prima impressione si è anche irrobustita, perché l’articolo parlava anche d’altro e l’effetto Bilbao non è che ci azzeccasse molto, espressione questa cara ad un tuo amico che però non ci è comune, e della quale amicizia io non sono mai stato geloso.
Forse non è proprio esatto dire che non ci azzeccasse, direi che non mi è risultato chiaro se volevi parlare della fine dell’effetto Bilbao, e hai colto l’occasione di farlo con un progetto di Gehry che io non conosco, e del quale tu sembri apprezzare una certa, nuova e insolita sobrietà, oppure se volevi solo parlare del progetto di Gehry e ci hai infilato en passant la fine dell’effetto Bilbao perché l’avevi appena letto sul blog e non volevi perdere l’occasione per andare in testa al gruppo, come si conviene ad un campione.

Ripensandoci, poi, ho capito che era solo la mia immodestia ad avermi fatto immaginare una cosa del genere, e che tu non hai certo il tempo di spippolare troppo in internet, tanto meno di perderlo con il mio blog del quale conosci l’esistenza, perché te l’ho detto qualche volta, ma non sono affatto sicuro che tu lo abbia mai aperto.
Certamente tu sei sempre in giro per il mondo a seguire i tuoi progetti e penso che durante i viaggi tu sia indaffarato a riguardare relazioni, preparare gli incontri, documentarti sugli stati di avanzamento, ecc. Al più, in aereo, puoi prendere ispirazioni dall’oblò per una nuova nuvola, o puoi schizzare qualcosa di nuovo su un libriccino di appunti, nei rari momenti di relax!
Quindi, capitolo chiuso e, trascurando improduttive e stucchevoli questioni di primazia, resta il fatto che tu accogli con soddisfazione la dichiarazione della fine di questo effetto, se mai c’è stato veramente, e, soprattutto, la proliferazione dei tanti piccoli “effetti Bilbao” su tutto il territorio nazionale. Vorrei farti osservare che ad alimentare questo stato di cose hai contribuito, e non poco, anche te, magari inconsapevolmente, che non vuol dire incolpevolmente!

Vi hai contribuito con la tua architettura, che non è che tenda proprio a mimetizzarsi e a non farsi notare, che, insomma, parla di nuvole, mica di fondazioni e di muri e di tetti, che racconta di grattacieli sul mare capaci di riqualificare tutta un’area di Savona, che disegna la città viola che mette al centro del programma non dico lo stadio, ma addirittura l’etica del calcio e l’indottrinamento, pardon, l’educazione di giovani ed adulti ad una sana visone sportiva. Magari questa forma di città etica, terribilmente autoritaria nella sua concezione, non è nelle tue intenzioni, magari è solo uno spot pubblicitario del Presidente onorario che tra l’altro ha detto: “Io mi aspetto uno stadio comodo, fresco d’estate, caldo d’inverno, dove le famiglie possano trascorrere giornate intere. Io purtroppo non ci sono spesso ma Andrea mi dice che in Europa ci sono impianti di grandissimo valore“.
T’immagini una città del calcio dove le famiglie possano trascorrere intere giornate! E’ questa la tua visione di società e di città e del modo di trascorrere il tempo dei suoi abitanti? Io credo di no, però il tuo marchio su questa idea di città-spettacolo ci sarebbe. Ma il Presidente onorario aggiunge anche dell’altro: “Non esiste niente del genere nel mondo- dice il patron viola- e ancora museo d’arte contemporanea sulla scia dello splendido Guggenheim di Bilbao, hotel delle maggiori catene alberghiere, una strada aperta ai negozianti di Firenze, aree verdi, parcheggi. Investimenti previsti: 150 milioni di euro per lo stadio, 250 per il resto”. Come vedi l’effetto Bilbao è evocato e utilizzato a piene mani.

Insomma, tu sei una riconosciuta archistar, direi anzi che sei la vera e unica archistar italiana, dato che Renzo ha, a questo punto, superato quella fase per passare direttamente e senza processo alla beatificazione per acclamazione.
Quello che fai e dici te si riverbera su una infinità di architetti che ti imitano, che assumono il tuo modo di pensare l’architettura e la città. Questa è la responsabilità che ti deriva dall’essere architetto di grande successo. Tu hai, oggettivamente, obblighi di coerenza maggiore degli altri, maggiori di tutti noi, perché sei un esempio, un modello.

Se dunque hai appreso con soddisfazione la fine dell’effetto Bilbao, della spettacolarizzazione dell’architettura e della città, dell’idea che una città possa crescere grazie ai grandi gesti dell’architetto-demiurgo e tuttologo, che si sostituisce non solo alla politica ma addirittura ai cittadini, se tutto questo è vero, come in verità io e tutti gli amici del Gruppo Salìngaros diciamo e scriviamo da tempo, abbastanza snobbati nella forma, ma piuttosto ascoltati, sembra, nella sostanza, se oltre a te molti altri si sono avvicinati, almeno nelle dichiarazioni, a concetti simili, dunque sarebbe bene che, senza snaturare o abiurare il tuo modo di fare l’architetto, anche tu ti accostassi ad una maggiore sobrietà, cioè ad una minore spettacolarità, cominciando ad allontanarti dalla filosofia dell’oggetto per avvicinarti a quella dell’insieme.

Nessuno può chiederti di rinnegare e di abbandonare l’architettura che ti ha reso famoso, nessuno può chiederti, come invece fai te quando ti occupi di politica, di esigere una moralità assoluta e una elitaria virtù da Catone il Censore, che richiederebbe una coerenza tra pensieri, parole ed opere professionalmente suicida. Io almeno, che conosco e tollero e anche apprezzo la fallibilità umana e quell’impasto di fango e spirito di cui tutti noi siamo fatti, non lo chiedo e tantomeno lo esigo da nessuno.

Solo un po’ più di quella che con abusato termine si chiama onestà intellettuale e di sobrietà sarebbe richiesta. Proprio come negli accadimenti che in questi giorni riempiono le pagine dei giornali e di cui non se ne può proprio più, naturalmente da punti di vista diversi.
Con questo auspicio, e direi incoraggiamento, ti saluto e ti invito, se trovi il tempo durante un week-end, a venirmi a trovare in rete, per scoprire magari che potresti trovarvi altri spunti di riflessione e di ripensamento.
Ciao
Pietro

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25 agosto 2010

LA CADUTA DEGLI DEI

Desiderare una città migliore è di destra o di sinistra?
Comincio con una vera banalità ma di fronte all’articolo apparso su Repubblica in ordine alle esternazioni del Sindaco Alemanno sulla demolizione di Tor Bella Monaca, la domanda è davvero la prima che viene in mente.
Riassumo: Alemanno durante una manifestazione estiva a Cortina dice che è suo desiderio abbattere Tor Bella Monaca e ricostruire prendendo ad esempio la Garbatella. Per inciso, la Garbatella come esempio di qualità urbana ed edilizia è un cavallo di battaglia del prof. E.M. Mazzola che più volte lo ha scritto nei suoi libri, su Il Tempo, su Libero ed anche su questo blog.

Alemanno, uomo di destra, fa perfino un distinguo tra questo insediamento e il Corviale, edificio simbolo della cultura di sinistra, come a voler rimarcare il fatto che la sua non è una proposta ideologica né “contro” ma una constatazione che parte da considerazioni oggettive, quali il degrado edilizio (piove dentro le case, è scritto su Repubblica) e urbano. Ma dice anche altro: “oggi con le ultime sentenze della Corte Costituzionale espropriare costa troppo. Siamo passati dall'assoluta massificazione degli anni passati a meccanismi oggi troppo restrittivi: è necessaria una nuova legge urbanistica complessiva che consenta di costruire dove c'è bisogno e non solo dove c'è interesse di privato e di società immobiliari, se no continueremo ad avere città che si espandono in zona agricola. È necessario invece demolire e ricostruire ampie aree della città, recuperando anche terreno urbano”. E continua: “A Roma ci sono molte aree delle 167 che sono autentiche cisti urbane, penso al Tiburtino 3 e altre zone». Come appunto Tor Bella Monaca”. Affermazioni, insomma, che potrebbero essere uscite dalla bocca di Rutelli: un po’ di idealità, un pizzico di cultura urbanistica, molto realismo politico.

Il giorno dopo invece, apriti cielo, scatta la reazione, la “resistenza” al fascista demolitore, tant’è che il titolo di uno degli articoli è “Se il Sindaco impugna il piccone di Mussolini”(addirittura!) e il giornalista non è uno qualsiasi, ma Miriam Mafai, firma storica del quotidiano, le cui qualità professionali sono riconosciute ben oltre l’ambito delle tifoserie. Come è possibile che una giornalista così attenta possa commettere l’errore di paragonare Alemanno a Mussolini e l’idea di demolire un quartiere disumano agli sventramenti fascisti, ricorrendo all’artificio retorico di affermare che Alemanno non riuscirà a fare altrettanto? Da cosa può nascere questo riflesso condizionato contro il “fascista” (lei non lo appella così, ma dal paragone risulta chiaro) se non dal sentimento di frustrazione per una sconfitta politica e culturale ormai esplicita?

Ma non è finita: Asor Rosa fa dello spirito e, con aria di chi la sa lunga, afferma che oltre a Tor Bella Monaca ci sono decine di altri insediamenti da riqualificare. Come a dire: quella persona è stata condannata a morte, non perdere tempo per cercare di salvarla, tanto ce ne sono centinaia di altri nelle stesse condizioni!
Io so che, in genere, si comincia a contare da uno.

Atteggiamento largamente diffuso questo di rinviare i problemi alla totalità invece di affrontarne uno per volta nell’ambito di una visione più ampia. Malattia, questa, da cui la cultura di sinistra è gravemente affetta, essendo storicamente abituata a discutere dei massimi sistemi ma, nella ovvia impossibilità di risolvere tutti i problemi insieme, finisce per non affrontarne nessuno. C’è tutta una filmografia in proposito.

Non manca il parere di Fuksas, possibilista, ma, per distinguersi, dice che occorre demolire “ma anche” integrare. E come dovrà essere il progetto? “C'è spazio per costruire nuove architetture con qualità ambientali e sociali”. Per lui, evidentemente, il problema è di architettura, di oggetti, senza nulla dire sulla qualità urbana che è fatta, prima di tutto, da tessuto connettivo, strade, isolati, piazze, mix sociale proprio quello che manca a questi quartieri.

Ma tant’è, questa è l’urbanistica fatta per punti, per oggetti individuali, quell’urbanistica, cioè, che va demolita come idea prima che fisicamente. Anche se è vero che, abbattendo gli oggetti e sostituendoli con la città, anche l’idea cade.

Si aggiunge al coro Vezio de Lucia che, per non smentire la regola del “ci vuol ben altro” dice che prima devono essere abbattuti gli abusi piuttosto che “l’edilizia pubblica”, e infine Niccolini, su cui sorvolo proprio. Insomma, i soliti noti. De Lucia dice una grossa sciocchezza, perché (tipicamente) confonde il metodo con il merito: le periferie abusive sono sbagliate nel metodo, in quanto abusive, ma sono nel merito generalmente migliori degli interventi pubblici; ma sbaglia anche perché la difesa dei quartieri della 167 è ideologica e significa l’affermazione dello Stato sopra ogni cosa, a prescindere dalle conseguenze sui cittadini, laddove lo Stato dovrebbe, viceversa, dare l’esempio. Dunque se lo Stato ha sbagliato, lo Stato, deve correggere, così come il cittadino che commette abuso viene sanzionato. Ma per chi pone lo Stato sopra il cittadino questa è materia ostica.

Da qui la liceità della domanda: desiderare una città migliore è di destra o di sinistra?
Non c’è risposta possibile a questa domanda, ovviamente. C’è però una parte di intellighenzia di sinistra abituata ad essere organica al partito e da questo una volta coccolata in quanto utile a imporre l’egemonia culturale nella società, che non si è nemmeno accorta di aver perduto il referente politico e che il mondo è cambiato.
Lo ha perso perché non esiste più “il partito”, ma una costellazione di gruppi legati a persone e interessi diversi, che in comune hanno un simbolo e di cui, in verità, non si capisce bene quale sia e se vi sia una politica condivisa. Ma la cosa grave è che la sinistra ha perduto ogni relazione con il mondo reale, con il territorio si diceva una volta. Basta leggere i commenti all’articolo su Repubblica per rendersene conto, pur se lasciati da chi si dichiara “di sinistra”: le ideologie contano poco e se quel quartiere è inadatto alla vita va detto, punto e basta.

E’ cambiato il mondo perché nel frattempo la sinistra non è più classe dirigente unica nel paese, a livello centrale e locale, è quasi sparita al nord e, pur essendo ancora forti i legami con gruppi economici ed editoriali, questa forza è sempre più contrastata e meno egemonica che in passato. Conserva probabilmente un forte radicamento nel mondo dell’Università e della scuola, e questo è il vero problema che non lascia grandi speranze per il futuro.

In questa situazione che conserva scorie del passato, sono ancora i soliti ad essere intervistati, e per questo si illudono di fare opinione ma di illusione si tratta appunto, basta guardare al nord per rendersi conto che la situazione cambia rapidamente.

Si fa strada un diverso e più positivo atteggiamento nei confronti della città ma, se a sinistra c’è da piangere, a destra non c’è da ridere. Stenta ad affermarsi in maniera decisa una cultura urbana che chiuda con il passato, e il presente, fatto di dissoluzione della città quale luogo delle relazioni umane e sociali; è forte l’attrazione per l’oggetto singolo, per l’evento mediatico che si esaurisce in una inaugurazione, per l’illusione che il grande nome risolva il grande problema. C’è ancora soggezione e complesso d'inferiorità verso quella sinistra che è stata così potente e che ha inculcato l’idea della “diversità antropologica”, espressione dal forte, quanto vuoto, sapore razzistico. Ci sono lodevoli eccezioni e anche belle sorprese, ma ancora la strada è lunga perché si possa rispondere: desiderare una città migliore è di destra.

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8 luglio 2010

LEGGI CONTRO LA CITTA'

Quando una città decide di dotarsi di un nuovo strumento urbanistico generale, il primo problema da affrontare non è il merito delle scelte da compiere ma le procedure da seguire. Non a caso, il primo atto da compiere si chiama: “avvio del procedimento” e non “avvio del progetto”.
Le leggi entro cui ci dobbiamo muovere hanno di gran lunga superato la soglia del pur difficile punto d’equilibrio tra volontà dell’agire e limite procedurale all’agire stesso, affinché la crescita avvenga a vantaggio della comunità dentro il quadro del rispetto della legge e della salvaguardia e conservazione del territorio e dell’ambiente.
Quella soglia si supera nel momento in cui, per la caoticità delle leggi e della loro pratica applicazione, una comunità si viene a trovare nella quasi impossibilità di poter andare avanti, paralizzata come è dall’alternativa tra il rischio di potenziali ricorsi per la non conformità a regole assurde e difficilmente interpretabili, e quella di doversi dotare di uno strumento che risponde alla Legge ma non ai bisogni e ai desideri della comunità stessa e ad un corretto disegno della città.

Oramai si è consolidata una regola generale in base alla quale le scelte di piano sono, lungo tutto l'iter, condizionate molto poco dai contenuti e moltissimo da leggi e procedure. Ma ben più gravi ancora sono gli effetti di questa regola sulla cultura di architetti e amministratori, tutta pervasa da termini giuridici e formali, dove le scelte di merito restano sullo sfondo, sopraffatte come sono da assurde e improbabili procedure formali.

Il piano è ridotto ad un groviglio inestricabile di termini e formule alchemiche dietro cui si nascondono due fatti:
• un declamato rispetto dell’ambiente e della partecipazione, salvo poi commettere le peggiori e più grosse operazioni immobiliari mediante altre formule alchemiche quali piani complessi, accordi di programma, accordi di pianificazione e così via, che avvengono in barba ad ogni principio partecipativo; cito, a titolo di esempio, la vicenda della Città Viola a Firenze (Della Valle-Fuksas), su cui un assessore che si azzardò a dissentire venne dimissionato in un giorno, massima espressione evidentemente della democrazia partecipativa;

• un modo di intendere la legge come se essa non avesse il compito di accompagnare e regolare la crescita e le necessità della società invece che precorrerla e indirizzarla, ponendola cioè a valore di fondo e faro della società stessa, in maniera esattamente corrispondente alle visioni politiche dell'integralismo religioso. Vorrei ricordare, però, che la nostra società occidentale, libera e democratica, è permeata, tra gli altri, dal rivoluzionario principio cristiano che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. In altre parole la legge non è destinata a schiavizzare l’uomo ma, al contrario, è la legge che deve stare al servizio dell’uomo.

Le nostre leggi sono diventate un ostacolo da superare e la maggior parte delle energie vengono consumate proprio per questa corsa a ostacoli. Così facendo si alimenta certamente la voglia di scorciatoie e il principio che le leggi, e lo stato, sono comunque un problema. Se questo avviene non significa che la società è malata ma che le leggi sono sbagliate.
Quali ne siano le cause è difficile dirlo ma di certo, una volta tanto, i politici c’entrano poco, o meglio hanno solo la colpa di non aver capito in tempo che oggi il potere legislativo è quasi esclusivamente nelle mani dei funzionari e dei tecnici. La tecnica, una cattiva tecnica, prevale sulla politica.

Di sicuro l’urbanistica ha del tutto perso il suo scopo fondamentale, quello cioè di dare forma alla città. Le procedure dovrebbero essere solo il metodo per dare forma giuridica al disegno della città e invece avviene l’operazione inversa, e allora accade che le norme urbanistiche scritte – molto male in genere – prevalgono su tutto, segnando e disegnano le trasformazioni urbane: destinazioni di “zona”, destinazioni di singoli edifici, regole “casa per casa”, come avviene nella operazioni militari e ovviamente sbagliate, numeri che si accavallano, commi e sub commi con inestricabili rimandi dall’uno all’altro. Invece che la replicazione dei tessuti urbani abbiamo norme comunali che replicano il metodo delle leggi regionali di riferimento. Questa trasmutazione della regola, Caniggia non l’aveva prevista né la poteva prevedere, avendo egli studiato la città, non la Legge.
La realtà si perde e resta solo la norma astratta, autoreferenziale e fine a se stessa, la quale però qualcosa produce di reale: zonizzazione, edifici assurdi e sbagliati, sfiducia nella legge, ostacoli da superare.

Guardando il video di Léon Krier del post precedente e osservando le immagini proiettate sullo schermo, si vedono, invece, disegni, planimetrie, schemi simbolici che rimandano a concetti, in una parola: “sintesi di un'idea” resa in forma grafica, cioè il mestiere dell’architetto. Quei disegni dovrebbero essere la base del piano, con le norme a fungere da strumento di servizio per renderle attuabili.

Invece no: in urbanistica l’uomo è fatto per il sabato e poiché l’urbanistica è la politica, cioè l’arte di amministrare la città, ne deriva che la nostra, o almeno quella toscana, è una società autoritaria e anti-umana.

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13 agosto 2009

LEGGERO POST DI MEZZ'AGOSTO

Il Direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, in una risposta ad un lettore sulla chiesa di Fuksas a Foligno, sospese il giudizio riservandosi di andare prima a visitarla. Tuttavia concluse la risposta scrivendo, più o meno: “ però mi sembra imponente…..”. Questo post di ferragosto è una lettera virtuale al Direttore.


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Direttore, lei chiude una sua risposta sulla Chiesa di Foligno definendola "imponente .….” e io mi attacco a questi puntini. Definizione di imponente: “che si impone all’attenzione per la propria grandezza, maestosità o potenza”. Quale scegliere tra i tre attributi? Al massimo direi l’ultimo, la potenza, come constatazione del fatto che “si impone” per la sua forma in rapporto alle dimensioni e per l’uso del materiale, il cemento armato, che è potente per natura.
E’ potente come le torri di raffreddamento delle centrali nucleari o i caveau delle banche, è potente per la sua semplicissima e, allo stesso tempo, inconsueta forma cubica e fuori scala rispetto a tutto ciò che sta intorno.

E’ la potenza della geometria astratta che si materializza nella realtà, al pari delle piramidi dice qualche entusiasta, con la non insignificante differenza che quelle rappresentano il punto di arrivo, anche tecnico, di una tradizione costruttiva millenaria , sono intimamente legate all’idea di morte degli egizi ed espressione della conoscenza geometrico-astronomica di una civiltà di circa 5000 anni fa e, soprattutto, sono montagne artificiali, luogo di contatto tra la terra e il cielo, come dice Norberg-Shultz. Ma oggi non ci stupisce più la costruzione di un cubo, di una sfera o di una piramide come, ad esempio, quella del Louvre, che non ci ha certo stupito per la sua tecnica ma per il fatto di essere stata collocata in quel determinato contesto. Né è in grado di stupirci questo para-cubo (è un parallelipedo, in realtà) con la sua rude e ordinaria tecnologia, dovuta tra l’altro agli ingegneri più che all’architetto, e neppure il simbolismo del cubo che, da solo, non appartiene al cristianesimo ma ad altri culti.

Se questo edificio ci trasmette un’idea di potenza maggiore di quella di un inceneritore, del quale richiama la poetica, questo deriva dal fatto dell’essere noi informati, senza capirlo però istintivamente, che esso è un luogo di culto cattolico. Poiché la forma è impropria e inusitata per una Chiesa, ci meraviglia e si impone all’attenzione, cioè è potente. Dunque l’unica potenza vera che esprime è quella comunicativa e mediatica in base alla quale lei ha scritto, io sto scrivendo e centinaia di altri hanno scritto, non importa se bene o male. E’ la potenza del suo autore e del sistema di cui egli fa parte che “si impone” all’attenzione dei media e che spingerà anche lei ad andare a visitarla. Siamo nel campo dell’effetto Bilbao che evidentemente ha fatto breccia anche nelle gerarchie cattoliche. Spogliata di questa componente essenziale, la Chiesa di Foligno non è una Chiesa cattolica e forse nemmeno cristiana.

Quando varcherà quella lunga feritoia che è la vetrata d’ingresso da supermercato anche lei, pure così “imponente”, dovrà abbassare la testa e piegare la schiena stringendosi nelle spalle, non per il rispetto dovuto alla sacralità del luogo, ma per la paura che quella giacobina lama di ghigliottina in c.a. possa improvvisamente scivolarle addosso e ridurla a ben più misere proporzioni. E una volta entrato esiterà nel procedere sotto quella cappa di camino in c.a., da super-villa hollywoodiana, sospesa innaturalmente in aria e incombente, anche quella, sulla testa dei fedeli, anzi fedelissimi, e una volta entrato…..questo non lo so perché, non essendoci stato, non posso prevedere quali sensazioni o emozioni possano eventualmente provocare i decantati effetti di luce.

Ma il deambulatorio idealmente tracciato intorno alla cappa non è, nell’atto necessario del sostare, nemmeno una lontana metafora del dantesco Purgatorio, perché mi risulta esserci in quel luogo l’attesa bramosa di entrare in Paradiso mentre qui temo vi sia la titubanza, se non la paura, di avanzare, per non fare la fine di Peppone intrappolato sotto la sua campana comunista e poi salvato dalla potenza, non solo fisica, di Don Camillo.

Questo edificio suggerisce un movimento esattamente contrario a quello delle Chiese a noi familiari, perché si esprime per linee di forza che agiscono verso il basso, che tendono a schiacciare e ad opprimere, non a elevare e liberare(1). Sembra un luogo di culto per un Dio vindice e non per un Dio fattosi uomo per annunciare la vita eterna; è un Dio che comunica paura e non speranza, timore e non amore.
Dunque più che “imponente” a me sembra più adeguato l’aggettivo “incombente”.

A meno che, una volta entrati sotto la cappa sia talmente forte il senso di elevazione, l’idea di essere aspirati in alto, come i fumi nel camino dell'inceneritore (e se riuscirà ad aspirare lei è probabile che lo faccia con quasi tutti i comuni mortali), da suggerire la metafora di un cammino dalla dolorosa vita terrena a quella eterna. In fondo una sola "m" divide il cammino dal camino.

Ma anche in questa ipotesi, che si potrà verificare solo di persona, permane la visione di una vita su questa terra non propriamente gioiosa. Sarebbe comunque meglio di niente.


1) A onor del vero, il Vescovo di Foligno Monsignor Gualtiero Sigismondi, ha detto all'apertura della Chiesa: "In alto i cuori: questo è l'appello che la nuova "casa della Chiesa", realizzata su progetto di Massimiliano e Doriana Fuksas, rivolge a chiunque vi entri". Mi viene il dubbio che avesse già preparato il discorso prima di visitarla! O forse mi sbaglio io...

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4 agosto 2009

LA CHIESA DI FUKSAS A FOLIGNO

Giulio Rupi

Strani tempi i nostri, in cui il concetto di natura viene stiracchiato dal Politica-mente Corretto verso direzioni opposte e contraddittorie, a seconda delle convenienze del momento.
Da una parte, se ci si dispone a discutere di bioetica e di diritti civili, guai a tirare in ballo la natura e il diritto naturale: nell’uomo tutto è cultura e artificio, fin nelle differenze di genere tra maschio e femmina.
In questo campo il richiamo al diritto naturale come unico baluardo della libertà della persona nei confronti delle leggi della città viene considerato un argomento reazionario volto a bloccare qualsiasi evoluzione e autonomia dell’uomo.


Sull’altro versante, secondo i fondamenti dell’ecologismo, qualsiasi intervento artificiale, cioè eseguito dall’uomo (l’uomo: “il cancro del pianeta”) a modifica della natura aumenta il degrado entropico ed è un atto profanatore della divinità pagana di Gaia, un’entità in sé perfetta in cui la venuta dell’homo sapiens ha sconvolto ogni equilibrio, oltrepassando il punto di non ritorno verso la propria autodistruzione.

In Architettura le cosiddette Archistar, che producono oggetti di design anziché edifici, che progettano torri storte e sbilenche son certo da ascriversi al primo atteggiamento, quello del rifiuto di ogni riferimento alla natura.
Ed è questo il discrimine tra la tradizione architettonica di sempre e questa mo-dernità: la perdita del riferimento alle forme della natura, forgiate dalla forza di gravità e secondo le forme della crescita dettate dalla necessità dell’adattamento.
La primordiale capanna, al pari di una pianta secolare, si costruiva su solide fondamenta (come le radici della pianta), si erigeva sulla verticale a contrastare la gravità (come il tronco) e si concludeva in alto con un tetto a punta o a cupola a dialogare con il cielo (come la cupola trasparente di una querce o la punta svettante di un cipresso). Così un bambino disegna una casa: un segmento orizzontale, due segmenti verticali, due segmenti inclinati e convergenti.

Così per millenni, fino a quando Le Corbusier disse che odiava la confusione dei tetti dei centri antichi e che si dovevano demolire per sostituirli con delle coperture piane praticabili e che gli edifici dovevano alzarsi da terra per poggiarsi su pilotis, lasciando libero il suolo. Alla capanna poggiata sul terreno si sostituì il cubo librato nell’aria e l’edificio perse la sua funzione di mediatore tra la terra e il cielo.

Ma non fu solo questa la discontinuità del Moderno. Nella tradizione quel “pog-giarsi, levarsi, concludersi” non si limitava all’intero edificio ma si ripeteva ad ogni scala, in ogni finestra ben riquadrata, nel portale di ogni chiesa, così come nella pianta la forma totale si ritrova nella forma dei rami, fino alle venature delle foglie. E anche nell’edificio questo ripetersi ad ogni scala partiva dalla scala più minuta, perche le superfici non erano lisce e disadorne, ma articolate nella tessitura minuta del materiale e arricchite dalla decorazione.

Fino a quando Le Corbusier proclamò la sua devozione per le superfici di liscio cemento e per la somma di partizioni tutte uguali anziché per l’articolazione dell’autosomiglianza a tutte le scale.
Invece, comunque la pensi Le Corbusier, il disagio istintivo che ogni persona sensibile prova di fronte alla parola cementificazione non deriva dall’idea dell’aggregazione di nuovi volumi a una città compatta, ma dalla repulsione per le superfici di questi volumi, superfici vergognosamente lisce, opache, amorfe, non decorate che questo materiale evoca, con il richiamo ovvio e giustificato alla recinzione dei lager.

E veniamo infine alla “Casa di Dio”, dove la figura del levarsi lungo la verticale conta più che in ogni altro luogo perché assume per ogni religione un valore simbolico di evocazione della possibile ascesa dell’uomo a stati superiori dell’essere.
Così, ad esempio, nella chiesa romanica, le navate e il transetto individuano uno schema a croce che rappresenta il percorso terreno, definito dai quattro punti cardinali. Ma questo percorso converge sul punto centrale, su cui sta l’altare, cioè il punto focale del piano terrestre da cui si erge la verticale, quella verticale che attraversa la cupola nel suo punto più alto e raggiunge la cupola del cielo, dal microcosmo al macrocosmo.

Il significato di questa ascensione è rappresentato dalla dialettica tra le colonne (la terra) e le soprastanti volte o cupole (il cielo) e una Casa di Dio che non esprima, sia all’esterno che all’interno, questo valore ascensionale, è l’espressione di una religiosità che ha dimenticato la possibilità, per l’uomo, di salire su questo asse verticale. Ma questi concetti figurali valgono non solo per le chiese cristiane, valgono per la pagoda buddista, per i minareti delle moschee e per i templi di ogni religione.

Vediamo adesso, da tutte queste premesse, di progettare una Casa di Dio che realizzi l’esatto contrario di ognuno di questi principi, i principi attraverso i quali, da sempre e in ogni religione, si è tentato di raffigurare il rapporto tra l’umano e il divino.
Per eliminare ogni accenno alla verticalità ascensionale togliamo del tutto quella parte dell’edificio che simboleggiava il rapporto tra terra e cielo, la copertura a cupola, a tetto, a pagoda o che altro e chiudiamo il dialogo con una copertura piana.
Per eliminare anche dalle pareti dell’edificio questo rapporto, realizziamo pareti che sia all’esterno che all’interno, siano lisce, senza alcuna tessitura, con portali di ingresso e feritoie casuali, dettati dal design e senza accenni di verticalità, appunto pareti cementificate.
Avremo così una immagine esterna e uno spazio interno in cui viene esclusa qualsiasi possibilità di percepire, di intuire quel cammino ascensionale per via simbolica, cioè attraverso delle mediazioni materiali, umane, quali sono gli edifici, le immagini, i rituali, i simboli.

Questo è la Chiesa di Fuksas a Foligno, e la Religione che l’ha prodotta ha evidentemente perso ogni capacità di proporre ai suoi fedeli quel cammino verticale di salita verso il cielo.


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14 maggio 2009

SGARBI: SINDACO NON CONSEGNI L'AQUILA ALLE ARCHISTAR

LINK A IL GIORNALE:

VITTORIO SGARBI: Sindaco, non consegni l'Aquila nelle mani di archistar come Fuksas

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26 aprile 2009

COMMENTO DI VILMA TORSELLI SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Ho ricevuto questo commento di Vilma Torselli sul progetto della Chiesa di Massimiliano Fuksas a Foligno. Come faccio spesso quando ho fretta l'ho dapprima pubblicato nello spazio dei commenti, riservandomi di leggerlo con calma. Dopo averlo fatto, pur nella diversità di opinioni, mi sono reso conto che quel luogo era troppo stretto. 

*****
di Vilma Torselli

Ogni attività creativa dell'uomo produce immancabilmente simboli: unendo significati lontani e sintonizzandoli su un significato comune, l’opera costituisce il medium per svelare intrinseci valori simbolici ed un segno o una forma possono far riferimento ad una realtà non raccontata, ma resa comprensibile alla nostra capacità percettiva al di fuori dei normali processi razionali.


Come afferma Freud, il simbolo è un'eredità filogenetica grazie alla quale l'uomo ha una disposizione mentale che lo mette in grado di relazionare le pulsioni e le emozioni psichiche con gli oggetti, il campo della rappresentazione visiva è quello nel quale queste capacità relazionali vengono utilizzate costantemente e al meglio.

Si dice che "ogni figura racconta una storia", e questa asserzione generale vale per gran parte dell’arte, se si eccettua la ’mera’ decorazione geometrica.", così scrive Gregory Bateson ( "Verso un’ecologia della mente", 1997), e vale, aggiungerei, per l’architettura, che come l’arte è chiamata a istituire un criterio formale che convogli il linguaggio verbale verso la codifica iconica dell’immagine.

Tutte le attività umane, l’arte, l’architettura, che si esprimono attraverso segni acquistano un valore simbolico al di là della rappresentazione pura e semplice, per addivenire attraverso il simbolo alla rappresentazione visibile dell’invisibile.

Se accettiamo l’idea che l’architettura debba immancabilmente organizzare lo spazio secondo una funzione e al tempo stesso rappresentare i modi e il senso nei quali la funzione viene espletata, in relazione al contesto culturale in cui si colloca e che in essa si riconosce (da cui il valore simbolico dell’architettura), si comprende come tutto possa essere simbolo, che lo diventi o meno dipende dal significato che l’uomo gli attribuisce, in determinate circostante, in determinati contesti, nell’ambito di una realtà culturale precisa.

La religione ha sviluppato una vera e propria teologia simbolica, incorporando il concetto che il simbolo è mezzo per denunciare ed al tempo stesso surrogare l’inadeguatezza della parola o dell’immagine ad esprimere il sacro, cosicché l’architettura religiosa è per eccellenza quella che più si esprime attraverso una grande ricchezza di contenuti simbolici.

Tuttavia l’esecutore dell’opera, l’architetto che progetta un luogo sacro, esprime, sì, nella forma architettonica precisi contenuti liturgici e dogmatici codificati dalla tradizione religiosa, ma anche il senso che in quel momento storico e in quel contesto sociale viene annesso a quel tipo di edificio, filtrandolo, e questo è un passaggio chiave, attraverso il suo vissuto umano e culturale conscio o inconscio.
Solo grazie a questo passaggio un’architettura ‘simbolica’ diventa ‘simbolo’ (vedi la La Chapelle Notre-Dame-du-Haut a Ronchamp).

Detta in parole povere, nella chiesa di Foligno Fuksas ci ha ‘messo del suo’, egli stesso spiega il significato della modesta elevazione del terreno, del taglio trasparente alla base, “la sospensione di un volume all’interno di un altro”, ecc.

Questi sono innegabilmente contenuti ‘simbolici’ che si sovrappongono a quelli dogmatici con il rischio reale di prevaricarli (rischio peraltro di tutta l’architettura moderna) e con la possibilità di una reificazione dell’architettura in oggetto architettonico. Ma questo rischio c'è sempre stato e sempre ci sarà, finchè, per fare una chiesa, non decideremo di mettere tutti i dati (dogmatici e liturgici) in un computer che, dopo una bella ‘shakerata’, sfornerà la chiesa perfetta!

Ciao
Vilma

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25 aprile 2009

ANCORA LANGONE SULLA CHIESA DI FOLIGNO

Un'altra PREGHIERA del 3 giugno 2008 di Camillo Langone sul Cubo di Foligno ripescata grazie alla segnalazione di un amico.

Due link per vedere la chiesa:
1)
www.archiportale.com
2)
www.archiportale.com

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2 aprile 2009

LA FORZA DELLE IDEE

La Republica, 10 marzo 2009
Appello:

Le licenze facili e i permessi edilizi fai da te decretano la fine delle nostre malconce istituzioni. Il territorio, la città e l'architettura non dipendono da un'anarchia progettuale che non rispetta il contesto, al contrario dipendono dalla civiltà e dalle leggi della comunità. La proposta di liberalizzazione dell'edilizia, annunciata dal presidente Berlusconi, rischierebbe di compromettere in maniera definitiva il territorio. Ecco perché c'è bisogno di un sussulto civile delle coscienze di questo paese.

Gae Aulenti
Massimiliano Fuksas
Vittorio Gregotti


Ventitre giorni dopo…..

IL SECOLO XIX, 2 aprile 2009.(1)
Bruno Lugaro intervista Massimiliano Fuksas.
…….
Lugaro: (la proposta) non sembra così diversa da quella originaria di Berlusconi contro la quale lei per primo si schierò due settimane fa.
Fuksas: ……Ciò che non condividevo del piano Berlusconi era la demolizione delle istituzioni non quella degli edifici obsoleti…..Oggi con una legge concretamente cambiata, siamo tornati un Paese normale.
……..
Lugaro: Le regioni alla fine hanno dato ragione a Berlusconi su ampliamenti e demolizioni di vecchi edifici. Lei è d’accordo quindi?
Fuksas: Certo, non vedo nulla di strano nell’autorizzare aumenti di volume del 20%, oltretutto con il limite di 1000 mc.
……
Lugaro: Non sarà facile neppure applicare la norma della “rottamazione” degli stabili obsoleti.
Fuksas: E’ vero, ma l’idea è ottima. Si può veramente ragionare sull’eliminazione di volumi che non hanno più alcun senso e ce ne sono tanti.
….
Lugaro: La burocrazia è una delle questioni affrontate dalla nuova legge.
Fuksas: Lentezze e inefficienza sono un problema reale che va risolto: lo ha detto Berlusconi lo hanno confermato i presidenti delle Regioni nel loro documento.
……
Lugaro: Architetto, la Conferenza delle Regioni ha chiesto il suo aiuto per la stesura del Piano?
Fuksas: Diciamo che ho dato volentieri un contributo.
……..




(1) Il link all'articolo del SECOLO XIX non c'è perché é riservato agli abbonati.

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