Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


31 dicembre 2008

LPP: STAR-SYSTEM DA BOCCIARE? SI', FORSE, ANZI NO

Pietro Pagliardini

E così anche Luigi Prestinenza Puglisi (LPP), con il suo Editoriale di fine anno si va ad aggiungere al coro di quelli che hanno preso atto dello sfinimento delle architetture autoreferenziali, egomaniache, de-contestualizzate, sempre diverse le une dalle altre ma tutte eguali nell’impossibilità di poter trovare un criterio di giudizio se non di tipo esclusivamente individuale.

Riconosce la volatilità e l’inconsistenza delle teorie filosofiche usa e getta che ogni brava Archistar utilizza, appoggiandosi ora all’uno ora all’altro filosofo o maitre a penser di turno e di successo, come riconosce il fatto che l’aspetto pubblicitario, il marketing architettonico, dietro cui c’è il marketing immobiliare ovviamente, è la molla che spinge verso l’alto quei prodotti architettonici. In effetti si tratta di pubblicità occulta, da sottoporre al Garante, mai di un bello spot televisivo inserito tra quello di un detersivo e quello di una nuova auto che sarebbe una forma preferibile, più diretta e onesta, invece che inserire quelle immagini di architetture in programmi TV, sfondi di film, riviste di moda, ambienti in cui si aggirano auto negli spot.

Si azzarda, LPP, anche a prevedere un futuro e lungo stato di confusione, che lui chiama meltdown, e io chiamerei più prosaicamente marmellata, in cui “dominerà non la logica del confine ma quella dell’hypertesto”, che io definirei invece commistione di generi, non per atteggiamento autarchico ma perché credo che la prima cosa da fare per allontanarsi da quel tipo di architettura di cui egli stesso denuncia i limiti sia anche non adottarne il linguaggio evanescente, sfuggevole, ambiguo, liquido in cui si può riconoscere tutto e il contrario di tutto; se in un critico di architettura, quale è LPP, il linguaggio stesso che dovrebbe descrivere una realtà si presenta come linguaggio della commistione, difficile che la descrizione della realtà non ne sia influenzata. Ma direi anche che ingenera nei lettori l’idea che, in fondo, la commistione, il meltdown, o marmellata, sia atteggiamento da seguire anche in architettura, cosa che in effetti viene in buona parte confermata in alcune delle 7 ipotesi di lavoro successive con cui mi sembra che venga contraddetto tutto quanto detto all’inizio.

Sì perché alla critica LPP fa seguire 7 ipotesi di lavoro per il futuro.
Le chiama correttamente ipotesi, quindi proposte da essere discusse e verificate, ma è ovvio che nel discuterle il giudizio è inevitabile. Quello che però conta, credo, è che la formulazione di ipotesi di lavoro dà il senso del procedere, dell’andare avanti, della critica che non si limita a distruggere ma propone.

La prima ipotesi, l’insoddisfazione di fronte all’oggetto chiuso, è la prima, giusta reazione alla totale mancanza di attenzione al contesto che da molti decenni a questa parte, e negli ultimi anni maniera epidemica, caratterizza la produzione architettonica. Straordinario l’aforisma “Occorre riscoprire la verità banale che ciò che si vede dalla finestra è più importante della forma della finestra”. Notevole anche il richiamo ai valori immateriali dei luoghi. Se non ci fosse una consapevole reticenza ad utilizzare la parola storia sarebbe un’ipotesi da 30 con lode. Vista la mancanza togliamo la lode e lasciamo il 30.

La seconda ipotesi, l’urgenza di sperimentare nuovi materiali e nuove tecniche sembra di buon senso, ma in realtà nasconde la trappola dell’ecological-correct, per cui la nuova architettura diventerebbe ciò che in parte comincia ad essere già ora: figlia di un solo genitore, monotematica, e perciò ideologica e pronta ad essere smentita appena cambi il vento. L’architettura tradizionale soddisfa in realtà molto bene ai requisiti richiesti.

Le successive ipotesi contengono tutte, soprattutto l’ultima, molti dei difetti di indeterminatezza e volatilità di concetti che sono tipici dell’architettura dello star-system e di cui LPP traeva, all’inizio dell’articolo, conclusioni negative. Cosa significa per l’architettura parlare della "fine dell’hic et nunc"? Cosa significa che “oggi non viviamo più in un solo spazio"? Di quale spazio si parla, di quello mentale incorporeo e quindi senza luogo? Mi sembra che ci sia una banalizzante concessione al virtuale, alla comunicazione che non può, in effetti, che produrre equivoci ed effetti da Matrix che è sì un bel film ma l’architettura è costruzione materiale di spazi esterni ed interni per l’uomo, il quale uomo non possiede il dono dell’ubiquità, ma che può invece comunicare con tutti i luoghi della terra attraverso strumenti tecnologici.

Confondere il mezzo con il fine è quanto è stato fatto negli ultimi anni e io avevo capito che era il momento di cambiare.

Con tutto il rispetto ho l’impressione che i giudizi iniziali siano molto di maniera e poco digeriti se le ipotesi di lavoro sono quelle.

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27 dicembre 2008

IL METODO E' TUTTO

Pietro Pagliardini

Leggo sul Corriere delle Sera che l'Ordine degli Architetti di Milano ha fatto ricorso contro CityLife. Caspita, penso, cosa è successo? Si sono accorti che i grattacieli pendono e il museo ricorda un WC?
No, troppo bello, fanno un ricorso per le procedure relative all'incarico di progettazione del Museo d'Arte contemporanea, quello di Libeskind, quello che qualcuno ha rinominato WC, insomma.

Queste le motivazioni:"... siamo chiamati a difendere l'applicazione delle leggi comunitarie e ribadire il valore culturale di un concorso di progettazione che permette a tutti i professionisti di accedere, con pari opportunità, alla progettazione di opere di grande interesse collettivo". Notevole quel paludatissimo "siamo chiamati", sintomatico di una visione del proprio ruolo istituzionale più consono, però, a quello di una Corte Costituzionale o di una Presidenza della Repubblica che non a quello di un Ordine professionale.
Siamo alle solite: un bel concorso, una bella commissione di esperti indicati dall'Ordine con un paio di consiglieri (garanzia di serietà) e un professore (garanzia di cultura) e così al posto del WC potremmo avere un bel bidet, ma la pari opportunità potenziale è garantita. Cosa c'entri poi il "valore culturale del concorso" con la "pari opportunità" resta un mistero. La pari opportunità è (dovrebbe essere) la normale condizione di svolgimento e di esito di un concorso, non il suo scopo, essendo questo il miglior progetto possibile a vantaggio della collettività. E' solo questo il motivo per cui, storicamente, la forma concorso esiste esclusivamente in campo architettonico.
Che i concorsi siano merce avariata, dato il sistema degli scambi, lo sanno tutti ormai ma "Lex dura lex sed lex".
Il merito non conta niente, è il metodo il motore della realtà.

Il miglior commento, spiace quasi dirlo, è dell'assessore Masseroli: "L'Ordine degli architetti deve decidere se fare giurisprudenza dell'architettura o giocare la partita e aiutare i giovani progettisti a crescere".
E' proprio vero: gli Ordini non giocano la partita, perché per giocare bisogna muoversi e l'immobilismo, invece, paga.


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25 dicembre 2008

RICICLAGGIO DI ARCHISTAR

Nicolai Ouroussoff è il critico di architettura del New York Times. E’ un convinto e competente amante dell’architettura moderna, spera che New York riesca a rinnovare il suo antico primato in questo campo ma non si nasconde i fallimenti e i problemi degli ultimi anni, a seguito della moda degli Archistar.
La crisi gli ha fatto cambiare, in parte, opinione o almeno mi sembra esprima un certo disorientamento.
Questo articolo recente ne è una prova:

ERA DIVERTENTE, FINCHE’ NON SONO FINITI I SOLDI
di Nicolai Ouroussoff, NYT del 19 dicembre 2008

Chi poteva sapere un anno fa che ci stavamo avvicinando alla fine di una delle epoche più deliranti nella storia architettonica moderna?
Ancora di più: chi avrebbe predetto che questo passo indietro, determinato dalla più grande crisi economica in mezzo secolo, avrebbe trovato dietro l’angolo un colpevole senso di sollievo? Prima del cataclisma finanziario, la professione è sembrata essere al centro di una importante rinascita. Architetti come Rem Koolhaas, Zaha Hadid, Frank Gehry e Jacques Herzog e Pierre de Meuron una volta ritenuti troppo radicali per la corrente più tradizionale, sono stati celebrati come le maggiori figure culturali. E non solo dalle istituzioni culturali più aperte; sono stati corteggiati dalle società immobiliari che una volta disprezzavano quei talenti come presuntuose teste tra le nuvole. Aziende come Forest City Ratner e le società collegate, che una volta lavoravano esclusivamente con i gruppi più esperti a trattare i grandi budget piuttosto che l’innovazione architettonica, si basarono su questi innovatori come componente di una accorta strategia aziendale.

Il prestigio dell'architetto non solo avrebbe vinto sulla capacità di discernimento dei consumatori ma inoltre avrebbe persuaso le commissioni urbanistiche ad aderire a progetti urbani su grande scala come per esempio Atlantic Yards di Gehry a Brooklyn.
Ma in qualche luogo lungo la strada il capriccio ha preso una curva sbagliata. Come si sono moltiplicate le commesse per palazzi multipiano residenziali di lusso, boutique di qualità superiore e uffici di società in città come Londra, Tokyo e Dubai, i progetti più attenti al sociale raramente sono stati realizzati.
L'edilizia popolare, un articolo del Modernismo del ventesimo secolo, non era all’ordine del giorno in nessun posto. Né vi erano le scuole, gli ospedali o le infrastrutture collettiva. L'architettura importante stava cominciando ad assomigliare ad un servizio per il ricco, al pari dei jets privati ed dei trattamenti nelle spa.

In nessun posto c’era quel cocktail tossico di vanità e di auto-illusione più visibile che a Manhattan. Anche se sono stati commissionati alcuni progetti culturali importanti, questo periodo, probabilmente, sarà ricordato tanto per la volgarità quanto l’ambizione.

Sembrava che ogni architetto importante nel mondo stesse progettando qui un esclusivo edificio residenziale.
Daniel Libeskind, di UNStudio, di Koolhaas , Zaha Hadid e di Norman Foster. Questi progetti hanno tutti insieme minacciato di trasformare l'orizzonte della città in una tappezzeria fatta di ingordigia individuale.

Ora la bolla senza fine è scoppiata ed è improbabile che ritorni presto.
La torre residenziale di 75 piani di
Jean Nouvel in ampliamento al Museo di Arte Moderna è stata rinviata indefinitamente. E le società immobiliari ora sembrano restie ad intraprendere simili progetti. Anche se l'economia ha una brusca inversione di tendenza, la tolleranza del pubblico per le dichiarazioni sulle architetture fuori misura che sono al servizio del ricco ed ad auto-assorbimento, è ormai praticamente esaurita.

Queste non sono tutte le buone notizie. Molta buona architettura sta andandosene con quella cattiva. Anche se la maggior parte della torre del
MoMa di Nouvel sarebbe stata destinata ad appartamenti di lusso, per esempio, avrebbe permesso che il confinante museo ampliasse significativamente lo spazio della sua galleria. Inoltre sarebbe stata una delle aggiunte più spettacolari del profilo di Manhattan dal tempo del Chrysler Building.

E sarebbe un’infamia se la recessione facesse deragliare progetti culturali promettenti come il nuovo
Whitney Musuem of American Art di Renzo Piano nel distretto di imballaggio della carne o la ristrutturazione interna di Norman Foster della Biblioteca Pubblica di New York di Beaux-Arts sulla Quinta Strada.

Gli studi di architettura, nel frattempo, stanno soffrendo come tutti gli altri. Con tanti progetti rinviati e così pochi nuovi in entrata, molti già stanno licenziando gli impiegati. Gli aspiranti architetti appena laureati, che potrebbero prendere il posto di un pool di talenti minori, probabilmente si orienteranno verso professioni più sicure.

Eppure, se la recessione non uccide la professione, potrà avere alcuni effetti positivi a lungo termine per la nostra architettura. Il presidente eletto
Barack Obama ha promesso di investire molto nelle infrastrutture, comprese scuole, parchi, ponti ed edilizia popolare. Un maggiore riconversione delle nostre risorse creative può diventare a portata di mano.

Se molti dei talenti architettonici di prim'ordine assicurano di non sapere come cavarsela, perché non arruolarli nella progettazione dei progetti che interessano di più?
Quello è proprio il mio sogno.


L'edificio in fotografia è al n° 40 di Bond Street, di Herzog e de Meuron.La foto è tratta dal New York Times

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23 dicembre 2008

LETTERA A BABBO NATALE

Caro Babbo Natale,

Veramente io sarei fuori età per chiederti un regalo però, anche per un futuro migliore dei nostri bambini, risparmiaci nel 2009 prossimo venturo almeno la beffa, se proprio non puoi salvarci dal danno.

Grazie
Piero


UN ANNO DI... FUFFA

Rem Koolhaas, Il Corriere della Sera:
“I greci antichi erano una civiltà che ha creato monumenti in modo comunitario, che sentiva di avere una responsabilità collettiva verso la cosa pubblica e che aveva chiara la relazione tra il pubblico e il privato. Questa civiltà ha creato un' architettura e un' urbanistica che sono ancora, per la gran parte di noi, il modello dominante”.

Massimiliano Fuksas su Savona da Il Secolo XIX:
“Il cemento, con i miei progetti, non c’entra proprio nulla. Io non sono un cementificatore. Io, per essere chiaro, non ho mai accettato un incarico da Ligresti, da Caltagirone o da Zunino. Il mio lavoro è un altro. È fare architettura, fare sperimentazione: da questo punto di vista, la Margonara è più emblematica che altro”.

Arata Isozaki su CityLife, da Il Corriere della Sera:
Questa Torre di Milano è una sfida alla crisi? «Non direi». Quale, allora, il suo significato?: «Ho scelto come modello la Endless Tower di Brancusi. E quindi mi sono ispirato in primo luogo all' arte, coniugando però questa mia ispirazione con l' intera esperienza urbana di Milano: con la sua Torre Velasca, con il suo Grattacielo Pirelli, con la "scuola" di Gio Ponti. Ho voluto lanciare un segnale, ma non contro la crisi. Piuttosto ho pensato ai campanili delle cattedrali e, dunque, a qualcosa che fosse visibile da lontano, a un vero e proprio "punto di riferimento"

Daniel Libeskind su CityLife, da Il Corriere della Sera:
“Solo un' architettura realmente democratica può portare all' emancipazione dell' individuo e all' affermazione di una comunità multiculturale: sentimentalisti senz' anima e tecnicisti senza cuore non contribuiscono ad arricchire le nostre vite”.

Arata Isozaki classicista, da Il Corriere della Sera:
«I giovani oggi vogliono occuparsi soprattutto di design, hanno perso quell' idea di progetto classico, alla Brunelleschi che non a caso costruiva i propri edifici guardando alla classicità e direttamente sul cantiere». Ancora una volta la classicità come modello? «Direi di sì»

Massimiliano Fuksas su Milano, da Il Corriere della Sera:
Su Milano [Fuksas] non propone ricette. Invita, soltanto, a «prendere atto, una buona volta, che la città ormai non è più una città. Nel senso che è una megalopoli. Che si estende oltre i suoi confini geografici. Una megalopoli di cinque, sei milioni di abitanti»

Daniel Libeskind su CityLife, da Il Corriere della Sera:
“In questo contesto, la forma della torre da me progettata ha come obiettivo una riduzione del consumo energetico, con la sua curvatura in grado di farsi ombra da sola. Inoltre l' uso organico dei materiali, la loro robustezza e la cura nell' esecuzione confermeranno quei criteri che sono stati da sempre la firma dell' architettura di Milano nel corso di quasi due millenni. Lo stesso vale per le residenze e per il museo, e per ogni costruzione di questo luogo unico che sarà CityLife. Ma la curvatura della torre ha ben altra identità, ispirandosi al progetto della cupola proposta da Leonardo per la copertura del tiburio dell' erigendo Duomo di Milano”.

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20 dicembre 2008


Una volta all’anno anche i grattacieli servono a qualcosa!!

BUON NATALE

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18 dicembre 2008

CIRO LOMONTE COMMENTA ROBERTO GABETTI

IL LIBRO:
ROBERTO GABETTI, Chiese per il nostro tempo, Elledici, Leumann 2000, pp. 181, £ 32.000.

di Ciro Lomonte

Sembra che alcuni ecclesiastici, lodevolmente impegnati nel fare accettare il tema progettuale della chiesa agli architetti contemporanei, abbiano deciso di arrendersi alla modernità, nonostante questa si sia affermata molto spesso negando il messaggio cristiano. La rivoluzione compiuta dall’arte moderna ha ben pochi elementi in sintonia con il cristianesimo. La Chiesa ha rifiutato la modernità quando quest’ultima era vitale e oggi che è consunta, con problemi quasi insolubili, rischia di accettarla acriticamente. Non bisogna dimenticare che l’arte moderna ha scelto di rivolgersi solo ad un’élite, mentre l’arte della Chiesa era rivolta anche agli analfabeti.

La Chiesa dovrebbe ricuperare la memoria di quello che è stata nei secoli. Nel primo millennio dell’arte cristiana (dal IV al XIV secolo) la fede si fece cultura, infondendo in un mondo stanco l’inedita fiducia nella bontà delle creature, tanto visibili quanto invisibili. Questo fenomeno iniettò linfa nuova nell’arte romana. Si pensi al processo che trasfigurò il modello della basilica pagana, con le sue absidi, nella cattedrale paleocristiana. L’oblio di questa parte della storia, forse legato a un eccesso di spiritualizzazione della vita ecclesiale, rende falso alla radice ogni tipo di dialogo con l’arte moderna.

C’è poi chi rileva che, negli ultimi 35 anni, le chiese sono state ridotte a teatri per la scena liturgica, come se l’effetto cercato fosse lo spettacolo. Moltissimo sarebbe stato mutuato dalla concezione protestante, secondo la quale non c’è nulla di soprannaturale nell’azione liturgica.
È vero tutto ciò? Ha ragione chi sostiene che le chiese moderne sono brutte? La speranza di ottenere risposte puntuali a queste domande spinge a leggere l’ennesimo libro sull’architettura per il culto. La speranza è alimentata dall’autorevolezza dell’architetto Roberto Gabetti, progettista e docente universitario di fama internazionale, dal 1974 Direttore della Sezione di Arte Sacra della Diocesi di Torino.

Nella prosa chiara del testo non v’è traccia del gusto un po’ morboso e clericale per il paradosso, spinto ai confini dell’ortodossia, di Giacomo Grasso (Come costruire una chiesa), né dell’eloquio erudito, piuttosto oscuro ed ambiguo, di Crispino Valenziano (Architetti di chiese). Tuttavia il modo di argomentare è dialettico: pare quasi che il problema non sia risolvere i problemi, bensì rendere problematici i problemi.

La progettazione di chiese secondo la Riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II viene presentata nella cornice della storia dell’architettura dell’Ottocento e del Novecento. L’autore è un architetto moderno, pertanto non può fare a meno di manifestare fastidio per ciò che definisce “arcaismo” e che altri chiamano, più rispettosamente, ornamento architettonico.Egli fa riferimento alle riflessioni del liturgista Frédéric Debuyst, in particolare al suo “elogio della quotidianità”, in base al quale si dovrebbe preferire un normale bicchiere al posto del calice, un tavolo al posto dell’altare, una sedia al posto della sede e così via. Questo è un punto molto controverso: davvero camuffare la liturgia nelle forme della vita ordinaria avvicina i sacramenti agli uomini del nostro tempo? Perché allora Gesù fece preparare accuratamente l’Ultima Cena nel Cenacolo di un anonimo amico facoltoso?

L’autore stigmatizza l’uso del marmo e di altri materiali “preziosi” in nome della “povertà” della Chiesa. Ma un architetto sa bene che le chiese in cemento armato durano trent’anni, nel migliore dei casi. E la durata non è solo questione di materiali (realmente poveri se resistono all’usura del tempo, non se costano poco), ma anche di bellezza dell’edificio. Il guaio è che il bello è un tema esiliato dall’architettura moderna.

Le chiese moderne non sono tutte brutte. Forse nessuna di esse possiede i requisiti di un vero edificio per il culto. Attendiamo pazientemente che qualcuno ce ne spieghi i motivi, non per recriminare ma perché fiorisca un’arte nuova che sappia darci chiese per il nostro tempo.


FOTO:
1) Chiesa di Gesù Redentore, Modena di Mauro Galantino (2008)
2) La Sagrada Familia, Barcellona di Antonio Gaudì i Cornet (come un bosco che echeggia la liturgia descritta nell'Apocalisse)
3) Battistero di San Giovanni in Laterano, Roma

Collegamento al Post: Ciro Lomonte e il genius loci cristiano


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14 dicembre 2008

NOTE SUL CONVEGNO URBS

Pietro Pagliardini

Queste mie impressioni non possono in alcun modo essere riferite al convegno nel suo complesso, essendo stato presente alla sola prima giornata. Tuttavia, limitatamente a questa, alcune considerazioni posso azzardarle.

IL VECCHIO

Intanto dico subito che, una volta di più, ho riscontrato un divario forte, due diverse velocità, due approcci al mondo della professione di architetto, e quindi dell’architettura, da una parte tra coloro che, a vario titolo, da accademici o da architetti liberi professionisti o da entrambe le posizioni, si interessano all’architettura e alla professione avendo l’occhio attento alla società che cambia e, ognuno a suo modo, cerca di dare risposte, magari sbagliate, magari viziate da opportunismi personali, ma sempre con la consapevolezza di una realtà in evoluzione, e dall’altra dal mondo istituzionale degli architetti, quello degli Ordini Professionali, che invece sono sempre più fermi, immobili nella conservazione assoluta dello status quo, pronti a riconfermare, punto su punto la loro esistenza come garanti …. della propria esistenza stessa, cioè totalmente auto-referenziali, sordi e ciechi rispetto alla realtà, mummificati in un ruolo che li rende corpo estraneo a coloro che essi dovrebbe rappresentare, chiusi nella fortezza delle loro vecchie certezze come antidoto alla mancanza di un ruolo vero che non sia che quello di garantire la sopravvivenza di un sistema, quello degli ordini appunto, che ormai altro non è che il retaggio di una società passata, che si trascina nel presente, diversa da quella attuale, sia quantitativamente che qualitativamente. Dico questo avendo ascoltato il Presidente dell’Ordine di Roma, o suo delegato non saprei, che, oltre la inevitabile parte formale, ha ripetuto la solita, vecchia, stanca tiritera sui concorsi, affermando che tutto dovrà andare a concorso, senza il benché minimo accenno ad una nota critica e auto-critica, ad un qualsiasi riflessione, ad un pensiero su questa formula e sulla sua gestione, mentre da parte di moltissimi ormai si denuncia il fallimento di questo sistema come fonte di vera e propria corruzione. Come altro chiamare lo scambio dei ruoli tra giurato e concorrente denunciato con chiarezza e tra gli applausi, da Orazio Campo, come da Prestinenza Puglisi nel suo sito, come da alcuni blog che nascono proprio come una esigenza di denuncia puntuale e precisa contro questo sistema?

Non pretendo certo che l’Ordine debba opporsi ai concorsi ma ciò che è disarmante è la totale mancanza di una riflessione, ma direi proprio di pensiero sul passato e sul presente da cui formulare una proposta per il futuro; un attaccamento acritico e puramente ideologico ad una formulazione di questi che palesemente non solo non danno frutti concreti, e quei pochi scadenti, ma è un vero fattore di inquinamento, etico e professionale, tanto più grave in un metodo che, per definizione, dovrebbe risultare equo e soprattutto finalizzato al conseguimento del miglior risultato possibile. L’attuale sistema di concorsi va a braccetto con i peggiori difetti accademici e fornisce un po’ di linfa agli ordini per dialogare con il potere e collocare la propria squinternata casta nelle commissioni. Ad altro non giova.
Ma tant’è, ai convegni si va anche per trovare conferme e in questo gli Ordini non deludono mai. Semmai è mancata una lamentazione sull’abolizione dei minimi tariffari ma chissà quanta fatica sarà costata il reprimerla.

IL (QUASI) NUOVO

Di nuovo ho assaporato …..il clima, più che i contenuti. I convegni sono anche una vetrina, una parata, una rappresentazione in cui ognuno, in proprio o in nome e per conto di organizzazioni, recita una parte, si mostra, svolge un ruolo preciso, si posiziona, lancia segnali, manda avvertimenti, per cui è difficile ascoltare posizioni nette, dichiarazioni forti nei contenuti e certamente questo convegno era abbastanza influenzato dal significativo cambio di maggioranza nel Comune di Roma. Lo definirei, perciò, un convegno di tipo interlocutorio caratterizzato da …..segnali di fumo.

ORAZIO CAMPO
Il più deciso e aperto è stato Orazio Campo, non solo nella denuncia di cui sopra, ma anche nel rilevare i cambiamenti che stanno avvenendo nel sistema dei grandi centri commerciali e nelle conseguenze che questi possono avere negli assetti territoriali. Le tendenze che Campo ha rilevato nel ridimensionamento dei centri commerciali e di una loro parziale trasformazione in luoghi per la residenza, con ciò creando una delle condizioni per la nascita di veri e propri quartieri residenziali dotati dei servizi necessari , non è molto diversa da quanto sta accadendo in Gran Bretagna, dove il governo ha assunto come modello per i nuovi insediamenti commerciali nel territorio agricolo l’esperimento riuscito di Poundbury, il villaggio voluto dal Principe Carlo e il cui piano è stato disegnato da Lèon Krier.

Un esperimento che ha funzionato così bene che, terminata la prima fase, adesso ha iniziato la nuova espansione. Se questo è vero, esiste non solo la riconversione dei centri esistenti ma anche una riflessione per quelli nuovi. Una riflessione che è necessaria per gli architetti e per gli amministratori i quali devono sapere che, nel momento in cui vanno a collocare in una determinata area un outlet o un ipermercato, cui nel tempo si affiancano nuove attività commerciali o artigianali che da questi traggono un bacino d’utenza, domani queste attività possono esaurire o diminuire la loro spinta commerciale e la trasformazione naturale che verrà richiesta dalla proprietà sarà, inevitabilmente, quella tradizionale della residenza.
Quindi ciò che nasce come area specializzata, cattedrale del consumo nel deserto, potrebbe invece dare luogo ad un nuovo modello insediativo, che di nuovo avrebbe però solo l’età ma che null’altro è che un insediamento tradizionale con un mix di residenza, commercio, uffici, attività produttive di servizio. A quel punto non potranno mancare i servizi e le infrastrutture pubbliche necessarie alla nascita di una comunità vera.
Per questo sarà importante il problema delle scelte di localizzazione ma anche quelle del disegno urbano, della forma della città, sia nel caso della riconversione sia, a maggior ragione, nel caso dei nuovi interventi.
Per questo il sogno dei matti tradizionalisti, antichisti, visionari e conservatori allo stesso tempo, potrebbe assumere i contorni della realtà e, invece di assistere al pur significativo modello degli outlet-finte città, potrebbe darsi il caso di dover progettare vere città con una forte impronta commerciale. E’ un cambiamento di paradigma sostanziale.
Degna di nota anche la denuncia che Campo ha fatto della “sperimentazione” fatta sulla pelle dei cittadini, riferendosi, come caso limite, al Corviale.

FRANCO PURINI
Purini ha concentrato la sua attenzione sul rapporto tra scelte urbanistiche e architettoniche e sociologia, vista la presenza, non fisica ma via Skype di Bauman. La sua risposta è stata, in ogni caso, un richiamo ad una certa concretezza e ad una autonomia disciplinare dell’urbanistica dalle grandi narrazioni sociologiche, stimolanti quanto si vuole ma che non prevedono relazioni immediate e dirette dall’uno all’altro campo. Delle analisi sociologiche è necessario cogliere il senso generale, le linee principali di tendenza e andare oltre la cronaca: che nel mondo occidentale, ed europeo in particolare, esista il problema nuovo, almeno in queste proporzioni, e dirompente dell’immigrazione e della difficile convivenza tra culture e popoli diversi non se ne sono accorti solo i sociologi.

Che il nostro paese sia, apparentemente, più impreparato di altri a fronteggiarlo è anche vero. La soluzione peggiore da adottare sarebbe però quella di seguire l’esempio di quei paesi che prima di noi hanno avuto quel fenomeno, come la Francia ad esempio, creando squallidi quartieri ghetto da cui poi si alimenta il disagio sociale. L’idea di costruire quartieri di case popolari, o edilizia sociale come si dice oggi, può diventare estremamente pericolosa e quando si parla di emergenza abitativa c’è da tremare, perché c’è da aspettarsi nuovi insediamenti che, contrariamente a quelli degli anni ‘60 e ‘70 non saranno abitati solo da un’unica componente sociale ma anche da popoli diversi che, a quel punto, difficilmente potranno integrarsi nel tessuto sociale della città dovendo soffrire la doppia discriminazione sociale ed etnica.

La mia impressione è che la formula dell’edilizia sociale debba essere completamente rivista e sembra anche sia l’impressione di Purini se ha fatto un riferimento chiaro al lavoro di Nikos Salìngaros.

Perché ho detto che solo apparentemente l’Italia è più impreparata? Perché la lentezza da bradipo delle nostre istituzioni pubbliche può, per assurdo, in qualche caso essere un fattore positivo perché consente, con differenze geografiche sostanziali, un adattamento naturale del fenomeno come avviene in alcune città in cui la prima ondata grossa di immigrazione si è distribuita naturalmente in ogni quartiere, non dando luogo a ghetti.
Il fenomeno dell’integrazione e della convivenza resta, ma questo è un fenomeno sociale e politico che è di livello superiore agli urbanisti, come riconosce lo stesso Bauman.

Gli urbanisti possono solo cercare di prevedere ciò che accadrà quando devono intervenire sulla città dal punto di vista fisico, quando tracciano strade o quando non le tracciano, quando disegnano isolati o quando optano per l’edificio in mezzo al lotto, quando propongono tipologie edilizie che permettano una miscela tra soggetti sociali diversi, sapendo che le “case popolari” devono essere “case come le altre”, mentre nel passato le “case come altre” sono state progettate come le “case popolari”. Certo, in questi casi un po’ di sociologia deve venire incontro perché è forse bene sapere che gli immigrati di certi paesi e quelli di religione islamica difficilmente possono vivere in maniera civile in 50 mq, visto l’alto tasso di natalità e i complicati rapporti familiari.
Ma anche molte famiglie italiane non vivono bene in 50 mq.

PAOLO PORTOGHESI
Portoghesi mi è sembrato più distaccato dall’agone anche se non ha mancato di prendere posizioni chiare, in senso negativo, sui nuovi interventi in programma e in essere all’EUR (Velodromo, nuvola, torri). Ha ripercorso storicamente alcune vicende romane, ha riaffermato il principio di fare trasformazioni anche nel centro di Roma ma ha dovuto prendere atto che quelle fatte sono state sbagliate (es. Meier).
Soprattutto ha cantato, giustamente, un inno a Roma, alla città di Roma (non al potere romano), definendola eterna in quanto capace ancora di insegnare architettura ed urbanistica al mondo, e ha ribadito il principio base che ogni intervento nel cuore della città può essere fatto solo a condizione che prima se ne faccia una lettura attenta e se ne riesca a penetrare l’anima.

Ha infine riconosciuto all’EUR un valore di “modernità” , anzi ha detto che “…., non per realizzare un compromesso tra razionalisti e tradizionalisti, ma invece questa occasione affidata nelle mani di un tradizionalista (Piacentini), più o meno illuminato a seconda dei tempi, molto sensibile alle politiche, ha dotato la città di uno dei suoi elementi di modernità. Paradossalmente se c’è un quartiere a Roma che può rappresentare la modernità è proprio l’EUR nel senso che somiglia poco alla città storica, prende lezione soprattutto dalla città romana antica e per certi aspetti è estranea al carattere di cordiale tessuto storico, però ha una sua forza d’immagine, una sua complessità, una sua logica interna indiscutibile”.

Anche Portoghesi, come Campo, ha richiamato l’architettura a valori civili e democratici, almeno indirettamente, quando ha affermato: “Poi l’architettura moderna ha scoperto la democrazia e si è resa conto che i bisogni, i desideri delle persone sono importanti, non basta soltanto imporre il proprio punto di vista di minoranza”. Diciamo che l’ha voluta inquadrare storicamente questa idea e, a mio parere, commette un errore di collocazione, perché è vero che l’architettura moderna ha scoperto i bisogni ma ha anche sempre imposto il proprio punto di vista di minoranza: minoranza culturale anziché politica, ma sempre di imposizione si tratta.

Tuttavia leggo questo richiamo alla democrazia, sfumato quanto si vuole, se letto insieme all’attenzione per i segni della storia, come un segno dei tempi, come una stanchezza verso l’imposizione, da parte di pochi, alla città, di progetti, di esperimenti che ignorano totalmente la città stessa e i suoi abitanti.



N.B. La foto aerea dell'Outlet di Barberino è tratta da Pagine Gialle Visual

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11 dicembre 2008

SOCIETA' LIQUIDA, CITTA' SOLIDA (2)

Concludo con questa 2° parte il resoconto del convegno URBS2008.
Essendo già molto lunga la trascrizione degli interventi di Paolo Portoghesi e di Orazio Campo, non aggiungo alcun commento, solo una precisazione: purtroppo nella registrazione di Portoghesi alcune parti non sono ben comprensibili al registratore e quando questo avviene ho inserito dei puntini. In alcuni casi avrei potuto interpretare ma ho preferito lasciare il compito a chi legge.

PAOLO PORTOGHESI
Bauman è un analista della contemporaneità e ha la forma mentis di chi leggendo il presente dà anche un’idea del futuro. …. Ha una visione che si basa sulla prevedibilità: è un errore perché i secoli hanno dimostrato una capacità di contraddizioni interne, di cambiamenti che rendono la storia assolutamente imprevedibile, fanno parlare i filosofi di destino, cioè qualcosa che supera la prevediblità, il meccanismo di un fenomeno nato ad espandersi all’infinito. Per esempio la mondializzazione....: è proprio sicuro che sia la prospettiva del futuro? Secondo me è legittimo farsi la domanda soprattutto di fronte alla crisi economica che stiamo vivendo in questi giorni. In fondo la mondializzazione è stata creata da una idealizzazione del mercato. I produttori si sono mossi alla ricerca del minimo costo di produzione. Questo ha prodotto una vera e propria rivoluzione nei rapporti. Con questo può darsi che continui all’infinito, può darsi anche che abbia una inversione.
D’altra parte noi parliamo di architettura che è una disciplina che ha sempre avuto molta difficoltà a sposarsi con la democrazia. Per esempio l’architettura moderna è nata proprio come rivolta di una piccola minoranza di persone contro la stragrande maggioranza della borghesia dell’ottocento che era arretrata nel gusto e continuava per la sua strada ad autocelebrarsi. Poi l’architettura moderna ha scoperto la democrazia e si è resa conto che i bisogni, i desideri delle persone sono importanti, non basta soltanto imporre il proprio punto di vista di minoranza. Questo discorso della maggioranza e della minoranza è importante finché la democrazia si basa sulla maggioranza io trovo che sia legittimo che l’identità di base di una città continui a svilupparsi e non si debba invece arrestare di fronte a questa tematica del dialogo. Il dialogo è necessario io ho costruito una moschea e sono felice di averlo fatto perché ho visto come abbia risolto dei problemi concreti
però io ho cercato di costruire a Roma una Moschea romana. Non mi sono fatto imbavagliare dal discorso del dialogo che ha un senso finché è sincera e concreta, quando invece diventa una volontà diciamo pure politica, tra virgolette, rischia moltissimo.

Prima di decidere del futuro della città bisogna soprattutto guardare alla città, ascoltarla. Ascoltare la città nel suo divenire storico è fondamentale. In fondo il futuro non è altro ciò che noi costruiamo con le nostre mani adoperando i materiali necessari …. Roma, per esempio, è una città in cui noi possiamo vedere mummificate, sintetizzate tracce di epoche storiche diversissime e il dialogo di Roma è di essere una città eterna …..mantenendo ovviamente una coerenza che non ha nulla a che fare con le forme…..
L’architettura è legata alla terra. Quando si parla di liquidità dell’architettura si parla di qualcosa di paradossale perché il liquido tende a spandersi dappertutto. I fiumi sono in un certo senso il tessuto formativo della terra e rappresentano un’ambiguità alla permanenza e alla stabilità del luogo.
Io penso che, se si deve pensare al futuro di Roma, la cosa più sbagliata sia quella di cercare di adeguarsi, senza uno sguardo critico, a ciò che sta succedendo in tutto il resto del mondo. In questo modo Roma potrà essere soltanto l’ultima degli ascoltatori senza poter in nessun modo intervenire e dire una parola propria.

Per questo secondo me è molto importante che si riportino .... dell’architettura in italia che è stata un’architettura che ha accettato l’influenza e ha assorbito criticamente, tranne forse il più celebre architetto della vicenda italiana, Terragni, un personaggio che ha vissuto l’identità italiana dell’architettura moderna in modo drammatico, profondo….

Ben vengano le riflessioni dei sociologi che ovviamente sono uno strumento che ci consente di conoscere meglio la (realtà) ma non pensiamo che la mondializzazione possa essere un modo per sfuggire alla grande responsabilità di opere per la città come quelle.
Abbiamo visto chi è venuto da fuori, abbiamo visto Meier, abbiamo visto Zaha Hadid: io francamente non credo che abbiano aggiunto granché. Sono stati scelti gli architetti che alle sorti di Roma erano totalmente disinteressati. Se noi avessimo scelto Louis Khan, ad esempio (applausi prolungati in sala) se avessimo scelto anche Robert Venturi il risultato sarebbe stato molto, molto diverso.
Roma è una città che continua a insegnare architettura a tutto il mondo, noi volenti o nolenti. Chi studia architettura si trova di fronte a questo straordinario fenomeno di un momento unificante che ovviamente è proprio il contrario di questo frammentarismo.
Mi dispiace di non poter colloquiare (Nota: si riferisce al fatto che non è previsto dibattito con il pubblico).

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Interviene a questo punto la coordinatrice che torna a Bauman e osserva che, se è vero che lo stesso Bauman non ha mai parlato di liquidità dell’architettura, è anche vero che esistono fenomeni, sociali più che di cultura architettonica, come la provvisorietà di intere città (si riferisce a baraccopoli e favelas) che è in fondo una forma di liquidità dell’architettura. Domanda che relazione c’è tra questi fenomeni e l’architettura.

ORAZIO CAMPO
A questo punto risponde Orazio Campo, che riassumo velocemente:
L’architettura si è mossa distruggendo quei punti fissi che erano accettati. Questo cambiamento ha portato l’architettura ad essere moda e hanno portato una serie di problemi nelle città. Campo non parla di linguaggi architettonici ma, ad esempio, Meier a Roma si è posto con grande arroganza come a voler cancellare ciò che esiste e rendersi protagonista. Un altro aspetto è che questi tipi di interventi sono insostenibili economicamente. Questi interventi si portano dietro un costo in termini di cubature sempre maggiori. E cita il caso delle torri di Renzo Piano all’EUR. 

Cita inoltre il caso del Ponte di Venezia che è costato quattro volte il preventivato e una durata quattro volte superiore a quella prevista. Ciò avviene in deroga alle leggi che impediscono che questi fatti possano avvenire. Se invece l’opera è griffata questo può succedere. Allora che si dichiari apertamente che in presenza di opere firmate da archistar si può tranquillamente deregolamentare sia in termini di parametri urbanistici che di costi.

Sul problema dei centri commerciali racconta di come questi si stanno modificando e stanno trasformando arte della loro volumetria in residenziale, cioè stanno nascendo veri e propri quartieri con un mix di funzioni, alla socialità della piazza e delle strade. Dunque attenzione alla sperimentazione perché questa è “fatta sulla pelle dei cittadini, e penso al Corviale, che devono poi sperimentare quanto qualche architetto fantasioso ha pensato”.
Orazio Campo conclude con una battuta sui concorsi i cui giudizi risentono del continuo scambio delle parti tra giurati e concorrenti (grandi applausi a questa affermazione) e propone che le giuria non siano costituite solo da architetti, ma anche da altri soggetti quali i cittadini, qualcuno rappresentativo, ecc.

Devo dire che non potrei riportare il testo esatto di quanto detto da Campo perché è stato più volte coperto dagli applausi in sala, sia sul tema dei concorsi, che sulla responsabilità degli architetti, che sul tema delle periferie.

SESSIONE POMERIDIANA-FARE E DISFARE

PAOLO PORTOGHESI
Partiamo da Roma come esempio che conosco meglio. Per molti anni non si è pensato a sostituire alcunché ugualmente è sorto quello che era opportuno conservare ogni momento della vita architettonica della città congelando il centro storico poi ampliando il circuito del centro storico e quindi in un certo senso imbalsamando la città e ci siamo battuti perché questa intangibilità della città che contraddice la sua storia fosse eliminata quindi in molte occasioni io ho difeso il diritto di entrare nel centro storico soprattutto per risolvere i problemi che erano rimasti insoluti. Quando Carlo Aymonino era assessore al centro storico io accolsi con entusiasmo quella sua idea di risolvere i problemi del centro storico lasciati insoluti dalle demolizioni dell’epoca fascista, i famosi buchi. Il progetto fu drasticamente interrotto dal cambio di amministrazione, per cui non si può giudicare per i risultati che ha avuto, si può giudicare solo attraverso le intenzioni. 
Di questi buchi pochissimi poi sono stati riempiti. Recentemente quello che sta ai piedi del Pincio dove si imbocca la galleria …. Quella ferita è stata riempita nel modo più banale e insignificante.
Contemporaneamente stanno avvenendo sostituzioni di notevole peso come quello dell’Ara Pacis in particolare … 
Vorrei dire questo: che mentre ostinatamente continuo a difendere il diritto dell’architettura moderna di intervenire all’interno, nel corpo della città e della necessità che questo avvenga, devo dire che nessuno degli episodi recenti mi sembra (l'abbia fatto) in forma accettabile
E in effetti queste sostituzioni sono state basate su un’indifferenza verso Roma e come ho detto questo mattina, come Roma sia una città che pretende da chi si propone di trasformarla una coscienza profonda. Per ammettere una sostituzione ritengo sia indispensabile questa conoscenza analitica, questo tentativo di entrare in sintonia.

In effetti Roma è una città che continua ad essere maestra di architettura. La lezione di Roma, diceva Le Corbusier, è un lezione difficile.
Tuttavia anche Le Corbusier che la chiama rischiosa l’ha accettata: Chandigarh è un’ipotesi di città che tiene conto di questa lezione. Indubbiamente quelle che sono avvenute (le sostituzioni) appaiono clamorosamente indifferenti, nel senso che nemmeno entrano in contrasto, perché tutto sommato è una lezione che si può rifiutare e probabilmente potrebbe essere anche esplicativo come la lezione di Roma ha operato all’interno del tessuto. Questo rifiuto però deve essere un rifiuto intellettuale, con una sua forza, una sua chiarezza che non appare nell’intervento di Meier.

Ma visto che siamo all’EUR vorrei parlare della tragedia dell’EUR che è nata per ospitare le Olimpiadi della Civiltà, così furono definite a quel tempo, cioè un’Esposizione Universale tutta puntata sulla cultura e in cui si doveva esporre all’interno di un pezzo di città che tenesse conto della grande tradizione. L’ipotesi di Piacentini, come tutti sanno, è nata politicamente, sbarazzandosi dei suoi compagni di strada, Piccinato e Pagano, che tendevano all’internazionalità e quindi avevano proposto un Piano regolatore molto simile a quello delle altre città del tempo. Piacentini ebbe la meglio anche perché soffiava il vento del nazismo, dell’alleanza tra l’Italia e la Germania, ma se guardiamo l’EUR dalla distanza ormai storica, dobbiamo riconoscere che questa occasione, non per realizzare un compromesso tra razionalisti e tradizionalisti, ma invece questa occasione affidata nelle mani di un tradizionalista, più o meno illuminato a seconda dei tempi, molto sensibile alle politiche, ha dotato la città di uno dei suoi elementi di modernità.

Paradossalmente se c’è un quartiere a Roma che può rappresentare la modernità è proprio l’EUR nel senso che somiglia poco alla città storica, prende lezione soprattutto dalla città romana antica e per certi aspetti è estranea al carattere di cordiale tessuto storico, però ha una sua forza d’immagine, una sua complessità, una sua logica interna indiscutibile.

Una logica interna che oggi viene turbata da una serie di sostituzioni sbagliate, anche se credo che siano state fatte con la buona intenzione di continuare la tradizione di questo quartiere di avere ospitato funzioni importanti e di avere svolto rispetto alla città una funzione di centro (…..). Innanzi tutto devo dire che mi ha meravigliato della demolizione del Velodromo che era un’eccellente opera architettonica di cui il CONI sentiva più il peso che la fierezza e che, gradualmente lasciandolo degradare, ha creato le condizioni per la sostituzione che avrebbe potuto avvenire in tempi diversi senza quella implosione, paradossalmente vietata dalla sovrintendenza che di solito ha un grandissimo potere ma poi autorizzata per ragioni di ordine pubblico. Così abbiamo perso un edificio importante per la tradizione moderna per un cavillo burocratico: c’erano già le cariche per le esplosioni e così per misure di protezione dell’incolumità pubblica si è distrutta una testimonianza significativa.

Ancora più grave è secondo me il fatto che le torri del Ministero dell’Economia siano state distrutte e la possibilità che vengano sostituite da un edificio che non ha le logiche previste dal piano dell’epoca ma adotti una tipologia invece completamente diversa. Questo dopo che è avvenuto, qualche anno fa, un altro errore urbanistico: c’era un terreno dell’EUR destinato a quei servizi di carattere pubblico che mancano al quartiere il quale, proprio per essere nato in funzione di un’Esposizione Universale, manca di quel tessuto di carattere commerciale e anche di carattere …., fondamentale per un quartiere che ha ormai assunto anche una forte impronta residenziale.
Questo unico terreno rimasto per realizzare i servizi necessari per la vita del quartiere è stato sacrificato ad una duplicazione del Palazzo dei Congressi…..
(la Nuvola).
Oggi la demolizione delle torri …qui c’è un errore clamoroso secondo me perché questo quartiere ha una sua logica che è stata fondamentalmente seguita negli anni sessanta, anche perché Piacentini ….. ha perseguito la continuità della gestione ed era quindi una visione abbastanza coerente e chiara di una impostazione della struttura urbana.

L’eliminazione delle torri indubbiamente, che hanno tra l’altro una compensazione di carattere volumetrico nell’ex Ministero delle Poste, dice veramente come la mancanza di un dibattito, di una assimilazione, anche forse la mancanza di una partecipazione reale possa aver creato una situazione in cui la sostituzione, valore sicuramente positivo per la vita di una città, si è realizzata non soltanto lasciando quella ferita inevitabile che la sostituzione comporta , ma dando a questa ferita ha il carattere di una mancata sensibilità nei confronti di un forte significato di un certo assetto che la città aveva acquisito.

Ecco quindi per concludere quello che secondo me è utile acquisire: per una città come Roma il problema della conservazione è un problema vitale. Roma non sarebbe eterna se non fosse un esempio di continuità e discontinuità nello stesso tempo, una città che ha saputo rinascere (molte) volte, sempre con una certa coerenza, non nel rispetto assoluto dell’eredità ricevuta che è casomai una conquista moderna ma nella capacità di reintegrare la propria etnia, la propria identità, i valori delle epoche precedenti, anche quando questi valori sono stati rovesciati come è avvenuto …. che rappresenta da una parte proprio la negazione dei valori logici dell’architettura precedente, dall’altra una continuità materiale impressionante che ha poi il suo culmine nel ….. Edifici di Roma che parlano più chiaramente raccontandoci questa storia di continuità.

Ecco quindi che emerge la necessità che la città ridiscuta sulla propria identità e dia spazio a delle sostituzioni che non siano avventate, che non contraddicano l’esigenza fondamentale di conservare il significato del valore della varie parti della città.

Sicuramente ci sono a Roma quartieri che potrebbero essere sostituiti senza problemi ma, se oggi si dovessero identificare sono sicuro che si commetterebbero degli errori perché non è mai stato fatto un lavoro analitico di individuazione. Le sovrintendenze che in fondo in molti casi hanno negato autorizzazioni, hanno però assunto spesso atteggiamenti incoerenti e non hanno soprattutto mai continuato quel lavoro meritorio che era stato iniziato alla fine degli anni trenta di catalogazione degli edifici di grande significato storico.

Indubbiamente in questi ultimi trent’anni il lavoro di ricerca e di acquisizione storiografica e di conoscenza è stato di una quantità impressionante e quindi oggi ci sono le basi per poter dare un giudizio sul grado di sostituibilità delle varie parti della città. E’ chiaro che nessuno si è preoccupato di fare questo e io credo che sia giusto invitare le autorità responsabili ad aprire il dibattito e cercare di identificare con sicurezza quelle parti della città in cui la sostituzione è propizia. Il dialogo, per dare una risposta alla domanda di case a basso costo di cui si discute in questi giorni, potrebbe essere anche un’occasione per realizzare questa individuazione delle parti eseguibili senza danno, sempre in funzione di un discorso fondamentale che è quello sulle infrastrutture perché Roma è una città sicuramente che sa ospitare e assimilare molti valori della contemporaneità ma quel sacrificio di tempi umani che implica la tragedia del traffico è un elemento di fronte al quale non si può assolutamente assumere un atteggiamento di indifferenza.
Basta pensare all’episodio della tangenziale urbana, all’errore di fare una metropolitana all’interno del centro storico allungando enormemente i tempi e adottando tecnologie sbagliate.

Per parlare anche di sostituzioni io ho visto sparire la settimana scorsa una quindicina di pini secolari messi a dimora all’epoca di Renato Ricci per quell’inquadramento scenografico dell’Altare della Patria che aveva preso il nome di Foro Italico poi il nome è passato a Foro Mussolini. Nessuno si è accorto di questa sparizione che indica una indifferenza e anche, se vogliamo, la complicità della cultura archeologica nel dimostrare la settorialità dell’approccio che è sicuramente dannosa.
Mi limito a rivolgere un invito: già stamattina ho segnalato la sparizione della Direzione Generale del Ministero dei Beni Culturali che si occupava di arte moderna e qualità urbana. Praticamente nelle istituzioni culturali della Repubblica non c’è più un’istituzione che possa dare voce alle esigenze della qualità architettonica e all’esigenza anche di contrapporre a una cultura della conservazione ad ogni costo, una cultura della trasformazione, del rinnovamento.


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10 dicembre 2008

PREGHIERA DI LANGONE, da Il Foglio, 10 Dicembre


PREGHIERA del 10 dicembre, di Camillo Langone da Il FOGLIO.

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7 dicembre 2008

IMPROBABILI ASSOCIAZIONI

Pietro Pagliardini

Stamani, leggendo su IL FOGLIO un articolo del teologo Vito Mancuso, mi ha colpito questa frase:

L’anima contemporanea si dibatte in una morsa: sente di aver bisogno della verità, ma sente al contempo che le risposte tradizionali non funzionano, e non sa dove andare e non sa cosa fare”.
E così continua:
I nostri giovani spesso non sanno cosa fare di sé stessi. Il cristianesimo appare loro inconsistente soprattutto per l’incapacità di rispondere al problema del male. Magari non lo sanno tematicamente, ma lo sentono”.
Ho staccato le frasi perché la prima è quella per me significativa e le altre due le ho messe per inquadrare meglio il contesto in cui la prima è inserita.

Sarà un errore un pò blasfemo, sarà una stupida esercitazione letteraria, sarò influenzato da Bauman, ma per quegli scherzi che fa il cervello non ho potuto fare a meno di leggere questi pensieri di un teologo come se fossero di un sociologo che, invece che parlare di Dio, parlasse di società e città.

Cosa proporre a quei giovani che sono confusi? Falsi idoli affascinanti quanto effimeri come le archistar o soluzioni più tradizionali, che però non funzionano (dice Mancuso).

Se avessero trovato “prima” le soluzioni tradizionali quei giovani sarebbero stati così confusi da appigliarsi a quelli?

Ma ormai che la storia è fatta, che quei giovani non hanno trovato molto e hanno davanti a sé solo falsi idoli (e se le cose sono andate così niente è possibile fare per cambiare il corso degli eventi passati), ormai che sono confusi e “non sanno cosa fare di sé stessi”, ai falsi idoli quale alternativa proporre?
Continuare con il vuoto assoluto o tornare ad una risposta tradizionale?

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5 dicembre 2008

SOCIETA' LIQUIDA, CITTA' SOLIDA - (1)

Pietro Pagliardini

Il 3 e il 4 dicembre si è tenuto a Roma il convegno URBS2008, organizzato da EUR spaed altri tra cui CESAR.

Ho assistito alla prima giornata il cui tema principale erano le trasformazioni urbane.

Zygmunt Bauman

Il via agli interventi è stato dato da un’intervista fatta in collegamento video al sociologo Zygmunt Bauman, creatore della fortunata, quanto abusata, definizione di "modernità liquida".
Tutto è iniziato con questa semplice e pertinente domanda a Bauman da parte della coordinatrice del dibattito Marta Francocci:
“Qual è, se c’è, la ricaduta delle sue analisi sociologiche sull’architettura e sull’urbanistica?”

La domanda era necessaria perché l’impressione, evidentemente non solo mia, è quella che Bauman venga tirato per la giacchetta come giustificativo di progetti completamente spaesati dal contesto, privi di alcun senso che non sia il capriccio del progettista, e la società liquida di Bauman diventa così il facile retroterra culturale, sociologico e filosofico capace di dare credibilità al progetto.

Bauman, un cortese e simpatico anziano signore, ha detto, più o meno:
• Non essendo egli architetto ma sociologo non si interessa direttamente delle ricadute nell’urbanistica e nell’architettura; avrebbe fatto volentieri un “duetto” con sua figlia Irena, architetto, ma in quel momento non era presente.
• Gli architetti non hanno il potere di cambiare la società; architetti ed urbanisti progettano per la società, ma non hanno alcuna possibilità di modificare i processi sociali né intervenire alla grande scala, tantomeno alla scala globale. Possono solo operare alle scale più piccole. Bauman ha anche detto di non aver mai parlato di “architettura liquida”.
A conclusione dell’intervista ha dato un consiglio, dietro precisa richiesta, agli architetti: l’architettura ha un impatto enorme sulle strutture visive dunque quando si progetta è bene saperlo per prevederne le conseguenze. Inoltre i progetti, specie quelli urbanistici, possono avere influenza sulla mixofilia o sulla mixofobia (mixofilia: forte interesse, propensione, desiderio di mescolarsi con le differenze; mixofobia l’esatto opposto cioè la paura di mescolarsi).

Dunque Bauman ha indicato nient’altro che prudenza, attenzione, senso di responsabilità su ciò che si va a progettare. Come a dire, aggiungo io, che occorre avere la percezione della sostanza, della consistenza fisica e perciò durevole dell’architettura, intesa non come allestimento temporaneo e variabile, ma manufatto permanente e stabile. In sostanza un discorso di grande buon senso da vecchio saggio che fornisce una norma etica.

Al successivo dibattito, rilassato e salottiero, ma non per questo banale , hanno partecipato Orazio Campo, Mauro Miccio (sociologo),Paolo Portoghesi, Franco Purini.

Semplificando al massimo direi che tutti, in modi diversi, hanno riconosciuto che la sociologia aiuta a comprendere la società (ovviamente) ma nulla dice della forma dell’architettura la quale ha una sua autonomia disciplinare che non discende dagli studi sociologici.

Purini in particolare ha affermato che la città non è affatto liquida anzi, l’architettura costruisce manufatti che creano l’ambiente di vita dell’uomo e che sono fatti per durare,e che non bisogna lasciarsi influenzare dalle varie teorie dell’incertezza, del caos, del disordine, semmai bisogna reagire a queste, che pure sono realtà presenti, con l’ordine e l’armonia.
Cito alcune parti (il corsivo è alla lettera perché ho registrato).

Franco Purini:
Oggi tra gli architetti ci sono due posizioni, potremmo dire schematizzando:
quella di chi pensa di poter trascrivere i flussi, i dinamismi ,le ibridazioni, le metamorfosi, il caos, chi per esempio estetizza il degrado che insiste nelle città e che quindi trasferisce direttamente la lettura della città che fa la sociologia, antropologia o il cinema pensando che possa diventare il territorio dell’architettura
oppure quella di chi come me e come molti altri, vorrei qui ricordare Nikos Salìngaros che su questo ha reso parole molto illuminanti, che sanno che c’è uno scarto tra lettura sociologica e struttura della città. La struttura della città è inerziale, prima di tutto, e non corrisponde in tempo reale alle trasformazioni della vita, è fatta di oggetti, di cose, di strade, di case, di spazi pubblici, di elementi che sono stabili e che vanno progettati e che sono esattamente il campo in cui l’architetto non può intervenire negli assetti sociali se non attraverso l’architettura.
Il nostro problema è ad esempio di studiare la città per quello che la città è dal punto di vista della sua consistenza fisica nel suo costruirsi nel tempo ….. essendo però un manufatto. Spazi consistenti per esempio che ostacolano i flussi piuttosto che favorirli.
Quindi la metafora della liquidità non credo che si applichi molto alle città. Per esempio vediamo che a Roma, man mano che la post-modernità la interessa coni suoi ritmi, le comunicazioni delle merci e delle persone, diventa in realtà una città sempre più ostile nei confronti dei suoi abitanti, crea separazioni, crea ostacoli altrettanto duri dei recinti murari.

La domanda che mi pongo è:

è possibile che la città la si sia voluta costruire come: aperta, dinamica, discontinua, illimitata, caotica, disordinata, frammentaria, disorganica, disarmonica, atopica, impervia? E’ questa la città che vogliamo?
O vogliamo invece una città che sia: limitata, misurata, riconoscibile, armonica, gerarchica nei suoi elementi, dotata di spazi e di luoghi collettivi, omogenea, ospitale, sostenibile?

E’ questa la domanda. In che modo noi prendiamo atto del lascito moderno sulla città e ci comporteremo in futuro secondo strade contrapposte?

C'è chi come Rem Koolhaas che per un verso parla di spazio-spazzatura e per l’altro non dice che lo spazio spazzatura vale più tanto. Noi constatiamo che lo spazio è spazzatura o, come dice Bauman, le città contemporanee sono discariche, ma dobbiamo fare in modo che ciò non avvenga più, dobbiamo lottare per una città che sia diversa, che recuperi quelle dimensioni che noi pensiamo siano state perdute o quasi cancellate.

Certo le soluzioni non possono essere trovate semplicemente in quel registro di gravità più o meno proposte dal New Urbanism, apprezzabilissimo peraltro, ha fatto delle strutture di grande interesse. Le soluzioni non vanno trovate in una dimensione anti-moderna; le soluzioni a questi problemi vanno trovate dall’interno…..di una città moderna che si confronta con tutte le problematiche che abbiamo sentito elencare da Bauman.


E’ perfino scontato precisare che si tratta di un discorso a braccio e come tale non va analizzato dal punto di vista linguistico ma nei suoi contenuti essenziali. Si può dire tuttavia che a Purini non facciano difetto aggettivi e sostantivi.

Commento
Il contenuto del ragionamento è chiaro, almeno fino ad un certo punto, più scivoloso e acrobatico sul New Urbanism (va detto che il tempo incombeva), ma resta la rivendicazione della città come un manufatto costruito non per l’immediato ma per un tempo tanto lungo da poter assorbire, grazie alla propria grande inerzia, fenomeni sociali diversi e mutanti rapidamente nel tempo.
Io ne traggo la conclusione che, al solito, l’obbiettivo è sempre uno solo, cioè l’uomo e il suo benessere, visto che le situazioni sociali cambiano ma l’uomo, al fondo, resta sempre lo stesso e deve essere messo in grado, per quelle che sono le possibilità dell’architettura, di affrontare con meno danni possibili periodi di difficoltà e di godere appieno nei periodi più favorevoli.

Purini insomma rivendica la validità del progetto come campo autonomo non direttamente discendente dalle analisi della società.
Direi anzi che proprio in una "società liquida", dominata dall'incertezza, dall'impossibilità di individuare livelli decisionali o poteri capaci di imprimere un indirizzo che non sia solo quello del mercato, della comunicazione, del massimo profitto, il ruolo specifico dell'architetto diventa importante e la scelta delle soluzioni risiede, per questo, nelle sua mani perché, nell'ambito della sostenibilità economica, egli dispone di autonomia decisionale in ordine al disegno. Dunque il progettista, soprattutto nel disegno urbano, acquista, a mio avviso, una maggiore responsabilità e una grande responsabilità.

Una considerazione da fare è quella sulle soluzioni da adottare che in verità sono state appena sfiorate e accennate ed anzi nella sessione pomeridiana lo stesso Purini è sembrato un po’ troppo sbrigativo e auto-assolutorio rispetto al passato in genere e suo in particolare, citando il tormentone senza fine dello Zen, di cui ha rivendicato il progetto con Gregotti, e dicendo che la responsabilità del progettista è alquanto ridotta rispetto a tutti gli altri attori.

Io sono convinto che la risposta a fenomeni di instabilità e di incertezza resta sempre e comunque il modello della città europea, omogenea e organica, senza parti separate, che in presenza di flussi migratori diventano ghetti, con connessioni, cioè strade, oggetti fisici e non virtuali, che si comportano come la rete virtuale perché consentono gradi di libertà altissimi. La liquidità sociale non può essere risolta dagli urbanisti, tantomeno dagli architetti, ma una città priva di identità, di permeabilità, di forma ne accentua i danni e le storture.

E comunque la “liquidità” non si contiene con muri, con steccati, con barriere, intese non come manufatti fisici ovviamente, ma come mancanza di permeabilità urbana, come aree separate a diversa funzione e ognuna monofunzionale, lambite da strade ad alto traffico veicolare, ma la si asseconda con la permeabilità che consente ad ognuno di godere di ogni parte della città, di consentire mobilità sociale tra una zona e l’altra, di ritrovare in ogni parte di città un mix sociale, una ampia gamma di funzioni senza separazioni nette tra quella residenziale e quella commerciale o produttiva in genere. Non è solo il disegno urbano a creare integrazione, che dipende dalle scelte della società nel suo complesso, ma il disegno può favorire o almeno non ostacolare questo processo.

La città tradizionale, la città a rete, la città-organismo è il regno della complessità proprio per la grande quantità di connessioni che si possono stabilire tra i diversi organi, mentre la città frammentata, la città della zonizzazione, tenuta assieme da collegamenti obbligati e prestabiliti, è un sistema rudimentale, grezzo, e soprattutto rigido e non flessibile.

Certamente il modello della città storica dovrà essere adeguato ai tempi, alla mobilità, al diverso modo di utilizzare il tempo libero, il tempo del lavoro e quello dell’abitare e dovrà essere calibrato sulle dimensioni della città (una cosa è una cittadina di 50.000 abitanti altro è una di 2.000.000) ma il principio ordinatore è lo stesso: cioè la strada come elemento generatore del villaggio e poi della città, secondo un processo di replicazione di moduli gerarchizzati in base al principio dell’autosomiglianza, così come “scoperto”, e non “inventato” da Saverio Muratori e dalla sua scuola, soprattutto Caniggia e, più recentemente e con un approccio diverso, da Salìngaros, come anche Purini riconosce, da Lèon Krier, dallo stesso Duany il fondatore del New Urbanism.

Degli altri interventi non racconterò adesso per mantenere limiti ragionevoli. Ho iniziato dal primo in ordine cronologico e gli altri seguiranno ma non esiste nessuna gerarchia di valori visto che sia Portoghesi che Campo hanno detto cose di notevole interesse. Miccio è un sociologo bravo e che si fa capire ma non parlo volentieri di ciò che conosco poco.

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