Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


28 luglio 2009

LE CORBUSIER E LO STORICISMO

Questo post è un commento ad un articolo di Vilma Torselli su www.artonweb.it che si riferisce al precedente post di E.M.Mazzola, Dietro il modernismo.
Per una lettura del post è assolutamente necessario leggere prima l'articolo di Vilma Torselli.


*****
L’articolo inizia con una citazione di Karl Popper e io, furbescamente, utilizzerò Popper stesso per rispondere e cercare di smontare alcune affermazioni.
Popper dice: “La storia non ha nessun senso, siamo noi che le diamo senso”. Presa da sola,questa frase potrebbe significare l’assoluta indeterminatezza di ogni teoria storica dato che si potrebbe supporre esserci una storia per ogni individuo e dunque sarebbe inutile l’esistenza stessa del concetto di storia, dovendosi parlare piuttosto di “storie”. Le cose non stanno esattamente così: Popper fa una critica serrata allo storicismo ma non afferma l’impossibilità di leggere e interpretare la storia, piuttosto quella di “predirla”.

Dice Popper:

"a) Il corso della storia umana è fortemente influenzato dal sorgere della conoscenza umana….

b)Noi non possiamo predire, mediante metodi razionali o scientifici, lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica…..

c)Perciò non possiamo predire il corso futuro della storia umana.

d)Ciò significa che dobbiamo escludere la possibilità di una storia teorica cioè di una scienza sociale che corrisponda alla fisica teorica. Non vi può essere alcuna teoria scientifica dello sviluppo storico che possa servire di base per la previsione storica.

e)Lo scopo fondamentale dello storicismo… è quindi infondato. E lo storicismo crolla".


E la dedica del libro “Miseria dello storicismo” è la seguente:

"In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino storico".

Ma c’è di più: Popper afferma: “ciò che non esiste è la società. La gente crede invece alla sua esistenza e di conseguenza dà la colpa di tutto alla società o all’ordine sociale…. Uno dei peggiori errori è credere che una cosa astratta sia concreta. Si tratta della peggiore ideologia”.

Cioè esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze inintenzionali. Sono gli uomini che esistono”. (Giovanni Reale e Dario Antiseri, Storia della Filosofia, Bompiani.

Questa premessa “filosofica” per affermare un dato essenziale: Ettore Maria Mazzola e tutti coloro che come lui, tra cui anch’io, attribuiscono a determinati soggetti, in base alla lettura e all’interpretazione dei fatti, in questo caso a Le Corbusier e alla sua ideologia predittiva che la “società” avrebbe dovuto essere regolata in un determinato modo piuttosto che in un altro, con ciò affermando il suo essere storicista (dato assolutamente coerente con il suo essere vicino alle grandi ideologie totalitarie del secolo breve), la capacità di avere influito fortemente sulla cultura di un secolo e quindi sugli accadimenti urbani, compie un’analisi del tutto lecita e possibile, ma non necessariamente corretta negli esiti, proprio sulla base del pensiero di Popper che è uno dei pilastri del pensiero moderno.

E non mi sembra che E.M. Mazzola attaccando LC voglia prefigurare un modello di società perché non afferma che la “storia” andrà in qualche direzione. Mazzola analizza fatti e ne deduce conseguentemente che il pensiero di LC ha influenzato in maniera determinante il corso dell’urbanistica del secolo breve ma anche di questo secolo, dato che vi sono moltissimi architetti, urbanisti e critici che ne esaltano tuttora le qualità e dato che quel pensiero è ancora forte perché influenza quotidianamente la formazione e il disegno dei piani, a qualunque scala di intervento.

Le azioni e le idee umane, come riconosce Popper e come io credo fermamente, influiscono nel corso degli eventi in maniera intenzionale e non intenzionale e cambiano il corso degli eventi stessi. Questo mi sembra un punto centrale di un atteggiamento non storicistico, non deterministico, che afferma la nostra libertà e che è in linea con la teoria del caos tanto citata da molti architetti quanto poco da essi afferrata. Evidentemente questi si lasciano affascinare dalla sola parola “caos”.

A maggior ragione influiscono le azioni di personaggi che hanno avuto la capacità di “interpretare” istanze e problemi reali presenti nella società (ma dovrei dire popperianamente tra la gente) non in modo scientifico, vale a dire facendo ipotesi da sottoporre poi a verifica o a falsificazione, ma trattando quelle istanze e quei problemi astratti come concreti, cioè agendo secondo “la peggiore ideologia”.

Mazzola non prefigura una nuova società ma, preso atto del fatto che le conseguenze del pensiero e delle azioni di LC non soddisfano, hanno fallito (non certo per quanto si illude debolmente di credere Rosa Tamborrino, cioè per colpa degli “altri”, i cattivi che non hanno fatto servizi ed infrastrutture, che è una palese ingenuità per non dire sciocchezza, dato che non è statisticamente possibile non vi siano piani e aree basati su quel modello che siano completi di quanto essa dice mancare e, comunque, se anche fosse vero, sarebbe la riprova che il modello è sbagliato dato che richiede evidentemente condizioni al contorno non realizzabili) indica una strada diversa che non è una fantasia o la costruzione mentale di un individuo o di un gruppo di individui ma è basata su ciò che esisteva ed esiste e che ha dato ottima prova di sé in passato e che non è affatto detto non possa non darlo nel presente e nel futuro, con le inevitabili correzioni e aggiustamenti dovute ai cambiamenti delle condizioni. Il buon senso, l’atteggiamento scientifico corretto suggerisce che sarebbe opportuno tentare quella strada, invece che rimanere arroccati nella difesa testarda di ciò che è fallito. E’ lo stesso Popper che lo dice (poi uno può non credere a Popper, per carità, ma adesso è il suo pensiero ad essere oggetto di discussione); quella teoria non solo non è stata messa in discussione ma è stata attuata per decenni e il suo fallimento non comporta nessun atteggiamento di cambiamento di rotta. Più ideologico di così….!

Concludo con la teoria del complotto, che non appartiene a Vilma Torselli ma che ad altri fa piacere attribuire a noi (per noi intendendo coloro che denunciano l’esistenza di un pensiero unico, incrollabile, inattaccabile e impermeabile ad ogni modificazione e contaminazione) e che in realtà è la solita cortina fumogena che viene alzata per non discutere criticamente dei fatti che vengono esposti, citando ancora Popper che si è occupato anche di questo:

Le istituzioni e le tradizioni non sono il lavoro né di Dio né della natura; esse sono il risultato di azioni e decisioni umane , e alterabili da azioni e decisioni umane…..solo una minoranza delle istituzioni sociali sono volutamente progettate, mentre la gran parte di esse semplicemente venute su, “cresciute” come risultato non premeditato di azioni umane. La teoria cospiratoria della società consiste nell’opinione secondo cui tutto quel che accade nella società, comprese le cose che la gente di regola non ama, come la guerra, la disoccupazione, la povertà, le carestie, sono il risultato di un preciso proposito perseguito da alcuni individui o gruppi potenti [come i saggi di Sion, i monopolisti, i capitalisti, gli imperialisti]. ……[ma] i cospiratori raramente riescono ad attuare la loro cospirazione ….Poche di queste cospirazioni alla fine hanno successo”.

Mazzola dice esattamente questo, analizza le idee e le azioni di Le Corbusier e ne ricava che esse hanno avuto grandi conseguenze in ambito urbano. Dice anche che LC non era solo, se a bordo del piroscafo c’erano circa 100 persone, che molti non erano d’accordo sulle conclusioni ma che quelle conclusioni sono risultate vincenti. Se avessero vinto gli oppositori, chissà, le cose forse sarebbero andate diversamente. Dice anche che c’erano degli sponsor ma, da me sollecitato a farne i nomi, con serietà non fornisce risposta non essendo in possesso di dati certi. E se ci fossero sponsor non ci sarebbe comunque complotto ma azioni umane aiutate da altre azioni umane per conto di società o gruppi interessati ad ottenere un risultato, cosa del tutto normale dato che il lobbying è azione nota e regolata per legge, ad esempio negli USA. Solo i sepolcri imbiancati fanno finta di non vedere questa realtà che esiste, in modo lecito o illecito, è comune proprio nelle Istituzioni più importanti, quali ONU, OMS, UNESCO, CEE, FAO, ecc. e chi attribuisce ad altri strategie complottistiche in genere tende a mancare della capacità critica per discernere complotti da azioni umane finalizzate ad ottenere risultati (generalmente denaro e/o potere).

Mi rendo conto che, nell’essermi soffermato molto su quella citazione iniziale, che però potrebbe dare un senso completamente ribaltato a tutto l’articolo, sembra che abbia voluto eludere le obiezioni che Vilma Torselli fa al post di Mazzola, ma non è esattamente così:

1) intanto la visione “responsabilistica” assume una sua dignità e ragion d’essere nel fatto che “esistono gli uomini e non la società e questi agiscono in base alle proprie idee; e queste loro azioni producono conseguenze intenzionali e conseguenze in intenzionali”;

2)infine considerare la storia come entità autonoma e indipendente dagli uomini, dato che “la situazione economica, culturale e sociale di quel momento glielo permette, anzi glielo richiede” è assolutamente lecito e fondato, ma non popperiano, trattandosi di storicismo e determinismo allo stato puro. Io penso invece che se la situazione era quella che Vilma rappresenta, e certamente lo era, la risposta avrebbe potuto essere diversa e, visto come sono andate le cose, certamente non peggiore.

Personalmente non contesto affatto che siano le elite ad incidere in maniera profonda nella cultura, anche perché è sempre stato così, contesto le scelte di quelle elite quando sono sbagliate e quando le elite diventano inamovibili nonostante il loro fallimento.

Pietro Pagliardini

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19 luglio 2009

DIETRO IL MODERNISMO: ALCUNE VERITA' NASCOSTE

di Ettore Maria Mazzola
The University of Notre Dame
School of Architecture
Rome Studies Program


INTRODUZIONE
Unanimemente, la nascita dell’Architettura e dell’urbanistica modernista è fatta risalire al IV CIAM tenutosi ad Atene nell’agosto del 1933, in realtà a bordo del Piroscafo Patris I partito da Marsiglia, e lì tornato dopo aver fatto scalo in Grecia per redigere “La Carta”.
Quella Carta, per volontà dei suoi autori, specie di Le Corbusier, divenne una sorta di “Bibbia” per gli architetti e i legislatori, portando così le città di tutto il mondo a perdere ogni possibile relazione con la sana tradizione che aveva sovrinteso al loro sviluppo millenario. Quella tradizione, fatta di architettura monumentale e “minore”, nobile e vernacolare, a seconda delle condizioni climatiche, orografiche, culturali, religiose, ecc. aveva fatto sì che ogni popolazione sviluppasse una sorta di “dialetto” architettonico-urbanistico che, nel tempo, è stato in grado di affinarsi e di definire l’identità dei luoghi e la capacità degli individui – e dell’intera collettività – di riconoscersi come appartenenti a quei luoghi. L’imposizione di un linguaggio unico, e quindi spersonalizzante, di forme, proporzioni basate su ipotetici modelli matematici lontani dalle reali esigenze umane, ha fatto sì che le città del XX secolo, e le singole architetture, abbiano perduto ogni possibile relazione con l’uomo, cercando di celebrare, in maniera sempre più astrusa, la presunta civiltà tecnologica.


Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia fuori da ogni logica.

Del resto è difficile poter pensare che delle città, ritenute “funzionanti” per più di duemila anni, non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione.

Né tantomeno si può accettare che delle città, cresciute su sé stesse per duemila anni nel rispetto del delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione: aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti.

Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute.
In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie e, ancora oggi, la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

Tornando al IV Ciam, e al fatto che esso è unanimemente riconosciuto come il principio del Modernismo, ciò che non si sa, o che è pochissimo conosciuto, è come andarono le cose, e quando, da chi e come venne redatta “la Carta” da cui oggi tutta la disciplina architettonica dipende.
La conoscenza di quegli eventi, penso, potrebbe aiutarci a capire chi ci ha portati alla situazione odierna e perché, e soprattutto se è giusto continuare su questa strada. Tutti, modernisti ed amanti della tradizione, si lamentano della situazione contemporanea; tanti criticano, più sulla base del proprio sentimento, ciò che non funziona della città funzionalista, ma nessuno ha il coraggio di documentare storicamente il problema e gli eventuali responsabili, forse a causa del timore di essere messo alla berlina, oppure condannato per aver osato mettere in discussione i mostri sacri della nostra professione. Così mi permetto di fare un po’ di chiarezza, nella speranza che ci si unisca al fine di rivedere tutta la normativa urbanistica che è stata prodotta a seguito di quel malaugurato “viaggio” del ’33!

GLI ASPETTI POCO NOTI IV C.I.A.M.
Il 29 luglio del 1933 dal porto di Marsiglia partiva il Piroscafo Patris I con direzione Pireo. Non si trattava di un semplice viaggio, ma di una “charrette”(1) galleggiante che doveva compiere un “duplice” viaggio, reale e metaforico: il primo, Marsiglia-Atene-Marsiglia, il secondo era invece il viaggio alla ricerca di una città più abitabile, “funzionale e radiosa”.
Il “viaggio” del IV Congresso Internazionale di Architettura Moderna, “traghettò” i partecipanti sulle coste Greche, ma anche verso una città funzionale, ovvero l’oggetto delle loro discussioni e del testo conclusivo del Congresso: la Carta.

Che le cose fossero in parte decise a priori, c’era da aspettarselo se, già nel 1931, nelle Direttive Preparatorie del Congresso si poteva leggere: “Il Congresso ha preferito il metodo materialistico-deduttivo a quello idealistico-induttivo, come unica base possibile di un’attività collettiva e di conseguenza per lo svolgimento di Congressi di lavoro”(2). In aggiunta a ciò, è bene sapere che, una volta a bordo, i partecipanti si trovarono a dover discutere di 33 diverse città, i cui pannelli esplicativi erano tutti stati preparati in base ad un’unica chiave ideologica di lettura fondata sul metodo imposto a priori. Va da sé che quella chiave di lettura, e quindi il pesante giudizio critico sulla città storica, fosse semplicemente un dato da ratificare. Tant’è che, in aggiunta alle 33 città “non funzionanti”, ce n’era una trentaquattresima città nuova prefigurata: la città funzionale(3)!
Il Punto 71 della Carta infatti confermerà che «Le città studiate per il IV CIAM hanno tutte lo stesso carattere di disordine e non soddisfano i bisogni psicologici e biologici dell'uomo».
In poche parole, si vedrà, si voleva dimostrare la validità delle teorie Le Corbusieriane della La Ville Contemporaine pour 3 Millions d'Habitants, e del Plan Voisine (che una volta rafforzate dal IV CIAM dovevano essere, da Le Corbusier stesso, tradotte nella Ville Radieuse del ‘35), che in quei giorni venivano ad essere applicate ai piani di Amsterdam e Barcellona: l’obiettivo era di trasformarle in regole universali, regole cioè da adottare a tutta l’urbanistica futura. … con grande piacere dell’industria automobilistica (p. es. Voisine) che già aveva sponsorizzato quelle idee … ma questo non verrà mai suggerito, né tantomeno ipotizzato da nessuno storico dell’architettura.

Dai lavori scaturirono delle “Risoluzioni Finali” che portarono alla stesura della “Carta”. I capitoli dedicati alle Osservazioni, sintetizzavano il lavoro analitico svolto e, come ovvio, denunciavano i “mali della città contemporanea da affrontare e risolvere”; invece, i successivi paragrafi affrontavano i modi per “Il faut exiger” (“bisogna esigere”), enunciando i principi da seguire per raggiungere una città funzionale: dei dogmi inconfutabili che, già nel titolo, si presentavano come l’imposizione dittatoriale di una presunta élite di pensatori esperti.
A conferma del fatto che si stessero cercando delle giustificazioni a dei giudizi e dei criteri decisi a priori, c’è uno scritto degli Spagnoli del G.A.T.E.P.A.C.(4) su “AC”:
«È straordinaria l’importanza dei documenti riuniti, forse ancor maggiore del materiale di base dei Congressi di Francoforte (Residenz Minimum) e di Bruxelles (Lottizzazione Razionale). Per la prima volta si può fare uno studio comparato dell’evoluzione storica e dello stato attuale delle principali città del mondo […] Il fenomeno urbano appare perfettamente chiaro in questi piani di città. Queste non vi figurano solo come macchie di colore e il loro tracciato non risulta solo come un arabesco più o meno gradevole; questi piani sono qualcosa di espressivo, di organico, in grado di spiegarci il fenomeno vitale di ogni città. L’analisi di questi piani, una volta completata, potrà dar luogo alla conferma delle teorie urbanistiche di questi ultimi anni(5)».

Guarda caso, tra gli elaborati al Congresso, i piani per Barcellona presentati dal GATEPAC vennero considerati una sorta di rivelazione, una vera anticipazione dei principi discussi e codificati ad Atene. Il Piano per la “Barcellona Futura” venne visto da Le Corbusier come una “città funzionale magnifica”, “una città radiosa e contemporanea, coerentemente inserita nel sito al quale appartiene, tra mare e colline”.

Ebbene, non tutto durante il Congresso pare sia andato come si pensava: una parte dell’organizzazione del soggiorno ateniese subì infatti delle modifiche: per esempio, secondo il programma, i congressisti avrebbero dovuto per tre giorni attraversare tutti insieme il Mare Egeo … ma per qualche ragione essi finirono per viaggiare separati in tre gruppi diversi, uno verso le isole Cicladi, un altro verso le isole dell’Argosaronicco e al Peloponneso, un terzo si diresse a Delfi. Alcuni critici hanno evidenziato come questa “separazione” di viaggio sia rappresentativa della diversità di punti di vista e dei disaccordi interni al IV CIAM (6) .
Inoltre, durante il viaggio di ritorno verso Marsiglia, i congressisti avrebbero dovuto redigere un documento unitario sulla CITTÀ FUNZIONALE che riassumesse i lavori preliminari e l’esito del dibattito svolto fin lì. Nel rispetto dell’obiettivo dei primi CIAM, l’idea era quella di stendere il documento in forma prescrittiva, con l’obiettivo di codificare e diffondere i principi dell’urbanistica e dell’architettura moderna, affermando l’autorevolezza del punto di vista modernista … anche questa cosa non andò come da previsione, e questo proprio a causa della difficoltà di “rappacificare” gli animi che si erano accesi per le divergenze evidenziatesi durante il Congresso. Questo venne confermato dallo stesso segretario Giedion, che al Congresso successivo segnalò:

«Esistono nel CIAM due indirizzi tra loro antitetici [...]. Un indirizzo sceglie come punto di partenza una prudente analisi dei fatti e sulla base di essa cerca di arrivare per gradi ad una nuova realtà. [...] Il secondo indirizzo tende a cogliere i problemi in modo globale, come a volo d'uccello, e si esprime con ampie concezioni che si slanciano in avanti. [...] (7)».

Inoltre, è cosa nota, già all’inizio del viaggio di ritorno, a bordo del Patris, davanti alle prime scaramucce il presidente del CIAM, l’olandese Cornelis van Eesteren cercò di riportare ordine e procedere sollecitamente alla redazione del testo conclusivo:
«Senza deliberazioni i nostri lavori non hanno senso. Deliberazione è uguale a resoconto [...] I nostri resoconti sono la cosa più importante. Sarebbe meglio che il Congresso rischiasse delle deliberazioni sbagliate, piuttosto che si perdesse in analisi senza fine (8)».
A cosa si riferiva? Dalle parole di richiamo all’ordine risulta chiaro che non si riusciva a raggiungere un accordo.
Ebbene, durante il viaggio di andata era stata eletta una commissione per la stesura delle risoluzioni finali, e ad Atene era stato distribuito un questionario, articolato secondo le quattro funzioni (abitazione, tempo libero, lavoro, circolazione) con l’aggiunta di una parte sulla città storica. Alla ripartenza per Marsiglia i diversi gruppi nazionali riconsegnarono il questionario. Immediatamente si evidenziò l’assenza di una posizione unitaria, per cui il penultimo giorno di viaggio vennero presentate ai congressisti addirittura tre diverse versioni di un testo conclusivo … Si noti la “strana” coincidenza del numero di versioni con quella dei tre gruppi di viaggiatori nel Mare Egeo di cui si è detto in precedenza! Motivi di disaccordo erano principalmente le questioni della proprietà del suolo, della trama fondiaria(9), (ovvero quelle che premono a chi fa speculazione) e del patrimonio storico. Il 14 agosto, concluso il Congresso, all’arrivo al porto di Marsiglia quasi tutti i componenti della Commissione per le risoluzioni si soffermarono nella città francese, tranne Le Corbusier che lasciò il gruppo. Raggiunto un compromesso, venne redatto un documento titolato Communiqué du Congrès divisé en trois parties(10).

A conferma delle divergenze e difficoltà, c’è la successiva fitta corrispondenza(11), intercorsa tra agosto e dicembre del ‘33, principalmente tra Le Corbusier e Giedion, in cui si discuteva prevalentemente della dimensione politica del lavoro degli architetti e del loro rapporto con le autorità politiche (la necessità di dover esigere!).

Il tempo scorreva, e Le Corbusier voleva a tutti i costi che le risoluzioni venissero presentate, la lettera che egli scrisse a Giedion il 29 agosto è la dimostrazione più evidente dei dissensi, la dimostrazione che tutto quanto fatto non fosse nient’altro che il tentativo di mascherare le teorie personali di Le Corbusier in un qualcosa che dovesse sembrare all’opinione pubblica il risultato “consensuale” di un gruppo e, per estensione, la traduzione in regole urbanistiche del “desiderio comune” dell’uomo moderno! Questa lettera, irriverente, mostra la faccia dispotica di Le Corbusier, ma soprattutto dimostra come egli volesse (forse a causa dei suoi rapporti con la lobby dell’industria automobilistica), far breccia negli ambienti politici in cui si prendono delle decisioni che si tramutano in leggi e codici urbanistici:

«Ascolti Giedion: sono dieci anni che sto di fronte alla realtà. Io so qual è il problema, dove sono le inquietudini, dove sono i freni, dove sono le debolezze, dove sono le buone intenzioni. Io so dove bisogna mirare […] a chi bisogna rivolgersi. Il nostro IV Congresso è un evento. Semplicemente! […] L’ultimo giorno sono state prese delle decisioni accettate da tutti. Esse sono oggettive. Ecco il fatto sensazionale: accordo su delle idee oggettive(12). Sono idee quelle che devono essere poste di fronte all’opinione pubblica. È per questo che il nostro Congresso vive. Se no crepa! Queste idee oggettive saranno una verità del 1933 per tutti, in tutti i paesi. … Non dobbiamo sottrarci. Abbiamo dei doveri: degli architetti ci attendono, dei sindaci, dei ministri: in una parola persone che hanno delle responsabilità. Non si fa un Congresso per affermare delle cose vuote, ma per costruire […] È giunto il momento. Giedion, il mondo brucia. C’è bisogno di certezze. Noi siamo i tecnici dell’architettura moderna […] io chiedo che le risoluzioni siano pubblicate. La forma mi importa poco(13)».

Nonostante tutto, solo a dieci anni dallo svolgimento del congresso, nel 1943 (o forse nel 1941 o ’42 secondo alcuni storici) Le Corbusier, a nome del Gruppo CIAM Francia, pubblicò il volume Urbanisme des CIAM. La Charte d’Aténes(14). In questo modo egli faceva “sue” le constatazioni del IV CIAM, revisionandole e articolandole in 95 punti, ognuno dei quali da lui opportunamente commentato: ciò che era partito da lui, e per il quale si era ardentemente battuto sin dal Città Contemporanea del ‘21, non poteva che essere rielaborato e codificato da lui stesso.
La conoscenza di questa “conclusione dei fatti” non può non gettare ombra sulla ipotizzata comunione di pensiero che si era tentata di sostenere. Infatti, nel 1957, seguì una nuova pubblicazione, La Charte d’Aténes, il cui unico autore era Le Corbusier ... Come ha acutamente sottolineato Pier Giorgio GerosaL'attrazione di un testo collettivo nell'orbita mitologica di una star è diventata opera compiuta(15)”.

Purtroppo era troppo tardi per rimettere in discussione l’idea di quel documento come la sintesi del pensiero e desiderio comune: alla luce di quella che è stata la legislazione mondiale successiva al IV CIAM, e conseguentemente del modo in cui l’architettura e l’urbanistica sono state insegnate nelle università – e messe in pratica dai professionisti di tutto il mondo – dovremmo riconoscere in Le Corbusier la figura di un vero monarca assoluto, un nuovo “Re Sole”, che è stato in grado (nonostante non abbia mai preso una laurea in architettura) di sottomettere l’intera popolazione mondiale al suo ideale di città e di architettura: l’Impero del Modernismo, non avendo confini territoriali riconoscibili, è da ritenersi il più grande impero che sia mai esistito a memoria umana, e il suo leader, Le Corbusier, è l’uomo che ha saputo imporre, incruentamente (se si eccettuano i danni psico-sociali della sua “città funzionale”) la sua egemonia a livello planetario.
È interessante far notare che sia stato lo stesso Le Corbusier a volersi premurare di sottolineare come
«la Carta non fosse l'opera di un individuo ma la conclusione di un'élite di costruttori appassionatamente dedita alla nuova arte di costruire, armata cioè della certezza che la casa degli uomini [...] deve essere riconsiderata [...](16)».

Allargare la “proprietà intellettuale” della Carta, serviva a darle l’immagine di un armonioso pensiero collettivo e condiviso … sebbene limitato ad “un'élite di costruttori” che prescindeva dalle volontà degli “ignorantissimi” comuni mortali che poi avrebbero dovuto vivere in quelle realtà urbane.
A conferma delle gravi ripercussioni che la Carta ha avuto sull’urbanistica planetaria, c’è il discorso di Sigfried Giedion al VI CIAM tenutosi a Bridgwater nel 1947:
«Noi oggi sappiamo che la Carta d'Atene, che nel 1933 ha gettato le basi dell'urbanistica moderna, ha avuto una grande influenza sulle autorità(17)».
Mentre, sulla faziosità che aveva sovrainteso ai lavori del ’33, c’è questa frase di Le Corbusier a far luce:
«La Carta d'Atene apre tutte le porte all'urbanistica dei tempi moderni. È una risposta all'attuale caos delle città (18)».

Questa affermazione la dice lunga anche sulla retorica delle parole di Le Corbusier(19), quando si decise di svolgere i lavori del IV C.I.A.M. in Grecia (inizialmente si era deciso per Mosca): svolgere il congresso ad Atene non significava affatto relazionarsi con la città storica poiché, “per statuto”, il CIAM non intendeva tornare al passato e orientare lo sguardo e il progetto verso una città e un'architettura che non fossero “contemporanee”, eventualmente voleva proprio negare quel “passato” in quanto tale.

La visione terribilmente critica dell’impianto storico delle città discusse dal Congresso, a partire dalla tavola presentata dal GATEPAC riguardo al Piano Cerdà per Barcellona, è la dimostrazione che la maglia urbana storica fosse considerata, a priori, quanto di più insano, confuso e dannoso per la città futura. Infatti, il capitolo conclusivo del Congresso di Fondazione dei CIAM a La Sarraz, e quello della Carta di Atene, ambedue dedicati al “patrimonio storico” erano stati espliciti nel dichiarare il rifiuto dei CIAM a «trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato(20)». Del resto, i teorici del Modernismo si batterono per la necessità di “Azzerare la storia!” e per lo “Zeitgeist” (lo Spirito del Tempo).

Oggi, il risultato dell’imposizione di questa visione modernista della città, ci deve far riflettere sul fatto che l’utopia della “città funzionale” ha fallito in toto. Le ripercussioni socio-economiche ed ecologiche di quella visione ci dimostrano che il sogno di rendere funzionale e ordinata la città era viziato da una ideologia sballata. Del resto è difficile poter pensare che delle città ritenute “funzionanti” per più di duemila anni non potessero essere ancora valide. Probabilmente si sarebbe dovuto ragionare in maniera meno radicale, per poter consentire un uso dell’automobile al loro interno, ma non di certo si doveva pensare tutto in funzione dell’autotrazione. Né tantomeno si può accettare che le città, cresciute su sé stesse per duemila anni rispettando il delicato rapporto città-campagna, nonché l’esigenza di avere tutto a portata di mano, si siano dovute ripensare in nome della zonizzazione. Aver separato le funzioni, aver aumentato le distanze, aver ragionato per griglie urbane e regole assolute, aver dimensionato il tutto su degli standard numerici piuttosto che sulle dimensioni a scala umana, ha portato le città a raggiungere dimensioni, costi e mancanza di sicurezza che mai in passato si erano raggiunti. Oggi diviene sempre più difficile poter pensare di restaurare il rapporto città-campagna, e all’interno delle città, quello tra l’edificato e gli esseri umani, questo perché tutta la normativa che è venuta dopo il 1933 si è fondata su quelle certezze assolute. In Italia le varie leggi urbanistiche si sono basate su quelle teorie, e ancora oggi la 1150/42, la 167/62 e i DPR 1404 e 1444/68 la fanno da padrone. È difficile pensare di poter cambiare le cose se chi legifera continua a ragionare in funzione di quelle norme, ma soprattutto di quell’ideologia. Probabilmente bisognerebbe iniziare a riscoprire una serie di norme, codici, regolamenti e statuti precedenti quello sciagurato 1933, studiarle opportunamente e comprendere come possano adattarsi al vivere contemporaneo e ad alcune norme recenti degne di essere prese in considerazione, poiché, come diceva Edmund Burke,
«Una civiltà sana è quella che mantiene intatti i rapporti col presente, col futuro e col passato. Quando il passato alimenta e sostiene il presente e il futuro, si ha una società evoluta».

ALCUNE CONSIDERAZIONI FINALI
La mia critica, in realtà, non è cosa nuova, sin dal Congresso del ’33 qualcuno, molto vicino a Le Corbusier si accorse che ci si stava indirizzando verso un vicolo cieco. Infatti, se proprio i membri del CIAM non avevano alcun interesse ad ascoltare gli architetti che, in quegli stessi anni, stavano lavorando su una modernità rispettosa della tradizione, almeno avrebbero potuto prendere in considerazione le parole contenute nel discorso agli architetti, tenuto ad Atene in quell’agosto del ’33, dal pittore francese, amico di Le Corbusier e membro degli amici dei CIAM, Fernand Léger:
«penso che la vostra epoca eroica sia conclusa […] Lo sforzo di pulizia è terminato. Fermatevi perché state superando il limite [...] Un’élite ha seguito la vostra epoca eroica. È normale. Avete costruito delle case per gente che era all’avanguardia [...] Voi volete invece che le vostre idee si estendano .. che la parola “urbanistica” domini il problema estetico”. [...] “L’urbanistica è sociale. Siete entrati in un campo del tutto nuovo, un campo nel quale le vostre soluzioni pure e radicali dovranno combattere [...] Abbandonate questa minoranza elegante e accondiscendente [...] Il piccolo uomo medio, l’“urbano”, per chiamarlo col suo nome, è preso da vertigini [...] Voi avete creato un fatto architettonico assolutamente nuovo. Ma da un punto di vista urbano-sociale avete esagerato per eccesso di velocità. Se volete fare urbanistica credo dobbiate dimenticare di essere degli artisti. Diventate dei “sociali” [...] tra la vostra concezione estetica, accettata da una minoranza, e la vostra visione urbana, che si trova ovunque in difficoltà per l’incomprensione delle “masse”, c’é una rottura [...] avreste dovuto guardare all’indietro: avreste visto di non avere seguito [...] C’è bisogno che uomini come voi osservino più attentamente uomini che stanno dietro e a fianco di loro e che si attendono qualcosa, [...]. Rimettetevi i vostri piani nelle tasche, scendete nella strada, ascoltate il loro respiro, prendete contatto, confondetevi con la materia prima, camminate nel loro stesso fango e nella stessa polvere(21)»

Purtroppo queste restarono parole al vento, da quel momento in avanti il modo di pensare all’architettura e all’urbanistica era definitivamente cambiato in nome del faut exiger!

NOTE:
(1)Termine originato dalle École des Beaux-Arts di Parigi nel XIX secolo. Il termine charrette è quello usato in francese per "carretto" o "carro": Era ben nota, agli studenti di Architettura della École des Beaux-Arts, la necessità di lavorare intensamente, fino all'ultimo minuto, sulle immagini dei loro progetti … persino mentre si recavano a scuola, con il carretto tirato dal cavallo ("en charrette "), per mostrare i progetti ai loro professori. Da qui il termine ha subito una metamorfosi fino all'uso corrente – in voga specie tra gli architetti “tradizionali” – riferito alla full-immersion che si fa nelle fasi iniziali di una progettazione collettiva.
Il termine charrette è stato applicato storicamente, anche al carro o carretta per il trasporto dei condannati alla ghigliottina. Per esempio: «Une charrette (...) traînait lentement à la guillotine un homme dont personne ne savait le nom» (Anatole France, Les Dieux ont soif, 1912, p. 44). [tr. «un carretto portò lentamente alla ghigliottina un uomo di cui nessuno conosceva il nome»].
Nei secoli XVI, XVII, e XVIII, quando il viaggiare prendeva tempi lunghi, la Charette si riferiva alle lunghe cavalcate in carrozza durante le quali, gruppi di statisti e politici si appartavano al fine di collaborare a trovare una soluzione ad una serie di problematiche prefissate prima del viaggio. Questa interpretazione del termine è quella più simile all'uso corrente applicato al mondo dell’architettura.

(2)IV Congresso internazionale di architettura moderna, Mosca 1932. Direttive per l’esposizione e la pubblicazione: “la città funzionale”, in P. Di Biagi (cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, Officina, Roma 1998, p. 407.

(3)Le tavole per le 33 città sono state tutte elaborate con uguali criteri analitici, le stesse scale, le medesime tecniche di rappresentazione. Il nuovo piano di Amsterdam, (la redazione del quale era oramai giunta alla sua fase conclusiva), era stato il loro modello (a sua volta incentrato sulle precedenti teorie di Le Corbusier): Dall’esperienza olandese erano state messe a punto le istruzioni per i diversi gruppi nazionali per rendere i materiali “facilmente comparabili fra loro e perciò rappresentati in maniera unitaria”. Le direttive per l’esposizione La città funzionale, dicembre 1931, in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, p. 409.

(4)Grupo de Artistas y Técnicos Españoles para el Progreso de la Arquitectura Contemporánea

(5)“AC” (Documentos de Actividad Contemporánea, Publicación del G.A.T.E.P.A.C.) n°11, ora in A.C.: Documentos de Actividad Contemporánea 1931-1937, pp. 146 e 147.
(6)Si veda Yorgos Simeoforidis, I giorni del IV CIAM ad Atene: figure, vicende, ripercussioni.

(7)S. Giedion, Habitations et loisires, “Neue Zürcher Zeitung”, 3.8.1937, citato in H. Syrkus, 1928-1934 La Sarraz e la Varsavia funzionale, in “Parametro” n. 70, 1978, p. 24.

(8)Dal verbale della seduta del 12.8.’33, ora in “Parametro”, n. 52, cit., p. 44.

(9)Cfr. Ugo Ischia, “Si deve poter disporre del suolo quando si tratta dell'interesse generale”, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna.

(10)I CIAM verso Atene: spazio abitabile e città funzionale, Paola Di Biagi, Intervento presentato in occasione del convegno: EL GATCPAC Y SU TIEMPO, política, cultura y arquitectura en los años treinta V Congreso Internacional DOCOMOMO Ibérico, Barcellona, 26 - 29 ottobre 2005.

(11)In Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P.G. Gerosa, p. 440.

(12)Da quanto ho raccontato alla pagine precedente sappiamo bene che non è vero!

(13)in Antologia di testi e documenti del IV Congresso internazionale di architettura moderna, a cura di P. G. Gerosa, pp. 433-434.

(14)Le groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, Plon, Paris 1943.

(15)P. G. Gerosa, I testi della città funzionale, dai CIAM alla Carta d’Atene (1928-1943). Esplorazioni ermeneutiche ed epistemologiche, in P. Di Biagi (a cura di), La Carta d’Atene. Manifesto e frammento dell’urbanistica moderna, p. 91.

(16)Le Corbusier, La maison des hommes, in Le groupe Ciam-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d'Athènes, pp. 48-49.

(17)S. Giedion, Des architectes se forment eux-mêmes, in S. Giedion (Hrsg), Dix ans d'architecture contemporaine, Éditions Girsberger, Zürich 1951, Kraus reprint, Nendeln 1979, p. 12.

(18)Le Corbusier, La maison des hommes, p. 48.

(19)Parlando dello spostamento del congresso da Mosca ad Atene disse: «grembo della natura umana, [...] quella terra felice [...] del razionale dove si trovano le misure alla scala umana, alle radici classiche dell’architettura razionale». Le Corbusier, La maison des hommes, in Le Groupe CIAM-France, Urbanisme des C.I.A.M. La Charte d’Athènes, p. 47

(20)La dichiarazione conclusiva dell’incontro di fondazione dei CIAM a La Sarraz: «Il compito degli architetti è [...] quello di trovare l'accordo con i grandi fatti dell'epoca e con i grandi fini della società cui appartengono e di creare le loro opere in conformità di ciò. Essi rifiutano perciò di trasferire alle loro opere i principi creativi di altre epoche e le strutture sociali del passato». Dichiarazione ufficiale, 28 giugno 1928, in M. De Benedetti, A. Pracchi, Antologia dell'architettura moderna, Zanichelli, Bologna 1988, p. 574.

(21)F. Léger, Discours aux architectes, “Technika Chronika/Annales Techniques”, n. 44-45-46, 1933, pp. 1160-1161.

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13 luglio 2009

INSUFFICIENZA DELLA DISCIPLINARITA' DELL'ARCHITETTO

Un altro brano tratto da "Il progetto nell’edilizia di base" di G.Caniggia e P.L. Maffei, 1984, che condensa temi diversi e attuali quali la crisi dell’urbanistica, l’egemonia culturale di un’idea dell’architettura dell’"io" e del "mio" fuori da ogni logica disciplinare e che fornisce una risposta non complottista o dietrologica al pensiero unico dominante che oscura ogni altra forma di pensiero che si basi sulla lettura del processo di crescita della città, il meccanismo “imitativo” dei maestri imposto nelle scuole che la dice lunga su quale sia il vero “falso” in architettura, la denuncia della volubilità modaiola della critica di architettura, l’irrazionalità di un’urbanistica basata su discipline diverse che fallisce nel momento in cui deve trasporre dati numerici nella realtà del piano, il richiamo alla disciplina contro un’architettura che attinge ovunque ma che è incapace di riversare nel progetto alcun contenuto che non sia frutto di personalismi.
Brani che non rendono giustizia ad un corpo disciplinare fortemente strutturato che può essere apprezzato e valorizzato solo dallo studio complessivo ed in sequenza logica e temporale dei due testi(1) i quali richiedono un atteggiamento culturale non effimero ma disposto a riconsiderare e rimettere in discussione gran parte di quanto appreso “nei banchi di scuola” e quanto ci viene quotidianamente propinato e spacciato dai media e dalla vulgata corrente tra gli architetti di un’urbanistica e un’architettura figlie ed espressioni di invenzioni artistiche individuali. E non gli rende giustizia nemmeno l’uso polemico che io ne faccio dato che il testo completo non ha certo le caratteristiche del pamphlet.


Gli economisti partono da dati e da indagini economiche per arrivare alla formulazione di proposte riguardanti l’economia; come i sociologi partono da dati e indagini sociologiche per giungere a rimedi dei disagi permanenti alla società. L’architetto della crisi presume di utilizzare dati propri di discipline diverse dalla sua (economia, sociologia, ma anche psicologia o magari arti figurative, ecc) e pretende di riversare tali dati nel fare che gli è proprio, in progetti e piani: ottenendo in realtà uno iato tra dati e progetti, tra dati e piano. Iato che colma, o crede di colmare, con un personalistico intervento di invenzione non suffragata da alcun dato specifico. Nella pratica l’architetto parte dal riversare in indici, in dati numerico-statistici una realtà che contiene effettivamente tali dati, ma aggregati non numericamente, bensì a configurare organismi reali, case, strade, campi coltivati ecc.: tutti organismi che perdono appunto la loro natura di “organismi” una volta trasferiti in dati numerico-statistici.
Basta ad esempio notare la progressiva indicizzazione dei dati fisico-organici dai “regolamenti edilizi”: già dall’Ottocento e nella prima metà del nostro secolo basati sulla limitazione della mera consistenza metrica degli edifici, ed ora ulteriormente astraenti nel delimitare quantità di edilizia attraverso indici metrici e “standard” quantitativi.

Quindi la pratica della pianificazione è fondata sulla traduzione del reale in indici numerici, solo in parte desunti dal costruito ed in parte preponderante derivanti dalle altre logiche disciplinari non proprie né rappresentative del costruito stesso; e sulla nuova proposizione di indici numerici, costituenti il “piano”, ma ancora estranei alla qualità del futuro assetto da questo previsto, indicando piuttosto le quantità futuribili. E’ il passo ulteriore che trova l’architetto sguarnito di strumentazione specifica: il momento in cui le proposte di quantità giudicate compatibili con un nuovo assetto si devono ritramutare in un nuovo reale costruibile, fatto di case, strade, ecc. e non di mere quantità. Ed è in questo trapasso che si rivela la insufficienza di una disciplinarità dell’architetto, che si trova ad intervenire con il solo suo personale corredo di opinioni, con il suo solipsismo architettonico, con la storia personale del “suo” progettare.
Sulla scorta di esperienze, sue e di altri, condizionate da una dialettica del “fare architettura” imitativamente, su modelli di “maestri” riconosciuti internazionalmente, su dettami di circoli elitari, di correnti, di –ismi, di scuole, al di fuori di ogni coerente rapporto con la continuità civile del costruire, e soprattutto con l’incertezza del fare data dalla pletora di modelli reciprocamente oppositivi che gli pervengono dai mass-media della “cultura” e della critica architettonica del momento. (omissis)

Così l’architetto diviene strumento e protagonista della crisi, contribuendo pesantemente a provocare un nuovo assetto condannato a priori ad un minimo rendimento per la radicale opponibilità tra strutturazione esistente ed inserimento da lui proposto: opponibilità che è un insieme di risultato, ossia tra costruito vecchio e nuovo, e di metodo, ossia tra la strumentazione che ha provocato il costruito vecchio e la strumentazione che provoca il nuovo assetto.


Nota (1):
Lettura dell'edilizia di base, 1979
Il progetto nell'edilizia di base, 1984

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11 luglio 2009

REGOLE E DE-REGULATION

Pietro Pagliardini

In un commento su Archiwatch, il blog di Giorgio Muratore, un architetto di nome Vincenzo scrive:
"Pietro…Non credo bisogna agire senza regole…non credo nell’espressione artistica come soluzione dei problemi urbani…(per fortuna) credo di venire da una scuola di architettura (bari) intelligente, che interpreta l’intervento urbano, a qualsiasi scala, non come un evento, bensì come una trasformazione che si storicizza e che con la storia fa comunque i conti…con la storia più remota e con la storia più recente. Il problema del limite, a mio modo di vedere, è solo una gabbia…è solo tracciare il confine tra luoghi in cui niente si deve fare e (non)luoghi in cui tutto è ammissibile..io penso che ci sia senza dubbio una parte di città da tutelare (sul come ne si può discutere!) con attenzione particolare, ma questo non implica che tutto il resto si possa trasformare senza senso…
da (quasi)specializzato in restauro potrebbe sembrare un’eresia, ma se definire il centro storico/nucleo antico/città consolidata deve voler dire che il resto non lo è, allora non ci sto…come si legge spesso nel suo blog, la regola è fondamentale per l’ordine delle cose ben fatte ma se questa implica deregolamentare tutto il resto, penso che sia del tutto sbagliato
buon lavoro
vincenzo
"


Se ho capito bene, Vincenzo mi attribuisce la volontà di voler deregolamentare nelle aree esterne al perimetro della città storica, dopo avere evidentemente letto qualcosa del genere in questo blog.
Immagino che potrebbe riferirsi al fatto che io ho dichiarato da subito il mio entusiasmo per il Piano casa, perché l’ho letto come occasione di libertà, e quindi indirettamente di deregolamentazione, per quei cittadini che hanno il bisogno, o il desiderio, di ampliare la propria abitazione. Se è così, nel riconfermare il mio entusiasmo per quel piano, comprendo però come si possa percepire un’apparente contraddizione tra il desiderio di regole, che in questo blog si propugnano, e la liberalizzazione del 20%. Perché è apparente la contraddizione?
Per dare una spiegazione inizio da un brano tratto dalla quarta di copertina del libro “Adesso l’architettura” di Jacques Derrida:

"Una volta che lo spazio è riempito con case, edifici, strade, templi, chiese e così via, una qualche autorità, qualche potere ha già strutturato lo spazio della città e, per la stessa ragione, ha già determinato un certo numero di norme politiche, comportamenti, costrizioni, ecc. Ecco perché non si può semplicemente decostruire l’autorità politica o il suo discorso senza seguire l’indice dell’architettura"

Prima domanda: che ci fa un libro di Derrida in casa mia? Niente, in effetti, perché dopo avere letto sette pagine l’ho abbandonato in quanto per me incomprensibile. Credo anzi che l’unica frase comprensibile l’abbiano scelta per la copertina. Il libro me lo ha regalato un amico filosofo, molto bravo, con questa dedica: “Caro Pietro, questo è un libro sicuramente più utile a te che a me e altrettanto sicuramente più comprensibile a te che a me. Ammesso che Derrida sia utile e comprensibile! Buon Natale e Buon Anno”. Fiducia mal riposta.
Dunque Derrida individua nella città lo strumento primo del potere e dichiara addirittura che non si può decostruire il potere senza decostruire la città. Questo discorso è chiarissimo anche se non ne condivido l’obbiettivo.

La città è certamente l’opera più importante che l’uomo abbia mai realizzato senza la quale nessun’altra opera, e il progresso stesso, sarebbe stato possibile. Ma Derrida vuole decostruire il potere mentre io, più modestamente, mi limito ad auspicare una minore invadenza dello Stato nella vita dei cittadini. Derrida pensa che decostruendo la città si decostruisca, quindi si annulli, il potere e io invece penso esattamente l’opposto: una città decostruita, come in effetti in gran parte è quella di oggi (ovvio che non mi riferisco alla banalizzazione modaiola della forma stilistica de-costruttiva fatta dagli architetti ma alla rottura completa delle regole urbane) decostruisce la società e lascia il campo libero ai poteri forti che poi altro non sono che i poteri globali economici e finanziari. Direi anzi che la decostruzione della città è cominciata ben prima dell’auspicio di Derrida proprio con l’emergere del potere economico come l’unico in grado di dettare legge, cui si è affiancato, per un certo periodo del secolo scorso, il potere politico delle grandi ideologie totalitarie, con una concezione urbanistica sostanzialmente de-costruttiva che ha trovato diffusione anche nelle società democratiche, dove i rapporti di forza sono determinati da molti fattori, tra cui l’egemonia culturale è uno dei fondamentali.

Dunque esiste una stretta relazione tra città, urbanistica e politica: è noto e superfluo ripetere che politica vuol dire amministrazione della città cioè urbanistica. Derrida ha drammaticamente visto giusto: distruggere la città vuol dire fare esplodere ogni relazione sociale e di civile convivenza, vuol dire minare alla radice l’ambiente entro cui si svolgono i rapporti tra gli uomini e dunque fare saltare la società e la politica.
Se questo è vero, il problema della forma della città non è una variabile indipendente dalla forma politica della società e soprattutto dal tipo di relazioni umane e sociali che si possono instaurare in un modello di città piuttosto che in un altro. Ovviamente non mi illudo che una città con regole costruttive fortemente strutturate e condivise sia necessariamente democratica, però pone certamente le condizioni ambientali perché lo sia, non fosse’altro per il fatto di dare vita a spazi urbani che permettono di intessere relazioni sociali tra gli individui e tra i gruppi invece di creare un deserto affollato di oggetti chiamati edifici.

Il modello urbano che ha decostruito la città è quello che ha cancellato la strada dal suo orizzonte, abbassandola al livello funzionale di supporto alla mobilità, ha parcellizzato la città in aree a funzioni specializzate, creando quartieri esclusivamente residenziali e quartieri esclusivamente produttivi o commerciali, ha tolto le persone dalle strade (che non esistono più) rinchiudendole nei luoghi di lavoro o a casa o in edifici specializzati per il tempo libero, che poi altro non sono che luoghi del consumo, mandandole a correre in tuta nelle specializzate aree verdi o nelle palestre; ha fatto degli edifici oggetti di brutto design sparsi in mezzo ai lotti, staccati gli uni dagli altri, eliminando così, di fatto, ogni luogo e possibilità di relazione sociale. Questa è la città delle “regole” urbanistiche attuali in cui si decanta la libertà individuale ma che in realtà non lascia nessun grado di scelta tra alternative diverse. La vita della città funziona come in un’autostrada: la corsia per viaggiare, la stazione di servizio per il rifornimento, l’autogrill per mangiare e comprare, il casello per pagare.

Questa urbanistica è l’espressione di uno Stato-padrone che tutto vuole regolare mediante un’imponente macchina burocratica cui non deve sfuggire niente, dallo spostamento di un tramezzo di casa all’apertura di una porta interna, che considera i cittadini come nemici pronti all’abuso e all’aggiramento della legge. Si assiste cioè all’apparente paradosso che da una parte si de-costruisce la città e la società e dall’altra si impone un controllo sociale attraverso il controllo edilizio. In una situazione come questa la possibilità di sfuggire a questa camicia di forza con un diritto una tantum di ampliare la propria casa di una misera ma spesso indispensabile stanza, a me sembra una ventata, per quanto effimera, di libertà.

Viceversa una città con regole tipologiche e morfologiche forti simili a quella della città storica non teme affatto una crescita naturale e continua, in base ai bisogni, degli edifici, come Vincenzo credo sappia. Non c’è scempio urbanistico nel fenomeno dell’intasamento dei lotti, anzi c’è proprio la naturale forma evolutiva della città.
Per questo non vedo nessuna contraddizione tra le regole evolutive della città e l’ampliamento in base ai bisogni della propria casa.


Io sono convinto che l’urbanistica e l’architettura tradizionale, che si realizza con regole che non sono di tipo sociale ma di riproposizione critica di quelle spontanee mutuate dalla città storica, consenta gradi di libertà maggiore ai cittadini perché il tessuto urbano che ne risulta è di tipo organico e non funzionale e/o burocratico e astratto, e può crescere in base ai bisogni.
Ciò che è superfetazione nel modello di città (cioè periferia) contemporanea e nell’architettura della geometria astratta diventa crescita naturale nel modello di città e di edilizia tradizionale.


NB: Foto tratte da Google Earth

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6 luglio 2009

IL BELLO COMUNE

Pietro Pagliardini

Ettore Maria Mazzola, in un commento di risposta al suo post DE ARCHITECTURA: RIFLESSIONI SUL "FALSO STORICO, scrive del “bello comune” legandolo al “desiderio comune” nel senso che il bello comune, che non sempre corrisponde al giudizio personale, deve fondarsi sull’attenzione da parte dell’architetto al desiderio comune espresso dalla gente.
Vorrei integrare il suo pensiero, che condivido totalmente, con queste poche righe, ma significative, che costituiscono la Premessa del libro “Il progetto nell’edilizia di base”, di Caniggia e Maffei, Marsilio 1984:


A proposito di tipo e tipologia, mi è stato spesso posto un quesito da parte di storici dell’architettura, che può essere così semplificato:
“Se in un fronte di case a schiera cinquecentesche una è stata progettata dal Buontalenti, non conterà di più la lettura e, in assoluto, il valore di questa rispetto alle altre?”
E’ indubbio che l’ottica dello storico di architettura richieda una risposta affermativa. Ma è altrettanto indubbio che, riguardando alla tipologia processuale, sia d’obbligo rispondere il contrario. Questo libro serve anche a tale scopo: ad affermare il valore della “coscienza spontanea” dei muratori che hanno costruito le altre case a schiera di quel fronte, come portato della processualità formativa dell’esperienza edilizia e di quella cultura. Di qui la necessità, nell’edilizia di base, di un diverso progettare, fondato sull’acquisizione critica di quella esperienza e di quella cultura. Il Buontalenti, dal momento stesso in cui si è posto il problema del progetto di una casa a schiera (e ammesso che l’abbia mai progettata) ha tentato certamente di non fare una casa a schiera, ma di farla diventare qualcosa d’altro. Perché il suo mestiere di architetto, la sua attitudine come la sua esperienza, erano basate sul fare l’edificio emergente, eccezionale: lo avrebbero obbligato ad immettervi una carica di intenzionalità ed un’affermazione dell’”io” e del “mio” che avrebbe apportato una personalizzazione del suo prodotto, e quindi a renderlo concorrenziale e sopraffattivo rispetto a quello dei muratori che stavano costruendo le case contigue.
Pure l’architetto attuale si comporta da “architetto”: per fortuna, dicono alcuni; per disgrazia, altri che più dei primi sono attenti alla contiguità degli edifici, alla continuità e alla comprensione dell’edilizia in seno a un aggregato, che è “tessuto” in senso proprio quando è fatto di oggetti analoghi; e che lo è ugualmente, ma non lo vuole apparire, quando è fatto di oggetti resi disparati dalle intenzionalità sovrastrutturali, dal desiderio di ciascun architetto di emergere, di attuare un suo individuale capolavoro.
Così in questo libro si vuole porre il problema del “progetto nell’edilizia di base” come rifiuto del prodotto intenzionalizzato, e come recupero del senso e della logica dell’insieme di case associate, reciprocamente “sociali”, coerenti nello stare insieme a formare il tessuto.


Non è difficile comprendere, alla luce di questo testo, che l’idea di “falso” assume un significato del tutto opposto a quello dispregiativo che gli viene in genere assegnato per trasformarsi semplicemente nella continuità con ciò che esiste come frutto dell’evoluzione della storia della città e dell’uomo. Per fare un paragone estremo, ma nemmeno troppo, è come se, dato che siamo in grado di far nascere figli al di fuori del rapporto sessuale tra uomo e donna, quel metodo, destinato a casi limite, dovesse diventare la regola e quello naturale fosse considerato “falso” in quanto superato dalla modernità delle nuove scoperte scientifiche e dunque a queste non conformi, per esaltare le capacità del medico e della medicina.

Ma emerge anche chiara da queste poche righe di un libro introvabile, e alquanto posteriore all’altro sulla “Lettura dell’edilizia di base”, una forte componente etica nella professione di architetto, di tipo del tutto diversa dai falsi e vuoti moralismi di coloro che affermano di dover progettare per il bene della società “sperimentando” nuove soluzioni e nuove tecniche, in realtà lavorando solo per sé stessi e per l’affermazione della propria egomania ed egemonia o, come dice Caniggia, dell’io e del mio. L’etica che emerge da quel testo è invece fondata sulla ragione, intesa come razionalità, derivante dalla lettura e dallo studio della città come processo ed evoluzione continua delle forme dell’abitare legate profondamente ad una visione antropologica in cui l’uomo è visto come soggetto sociale che trova nella città la forma e l’ambiente migliore in cui potere al meglio sviluppare ed esprimere tale condizione umana.

Un’etica niente affatto diversa nella sostanza da quella che deve guidare e guida altre professioni, salvo devianze che sono però individuali e censurate dalla società, ad esempio quella del commercialista, che ha il compito di far “risparmiare” i tributi ai propri clienti ma non di farli evadere, o quella del medico che non sperimenta sul paziente cure alternative ma applica protocolli e procedure sperimentate dalla comunità scientifica in base a precise regole.
Da qui deriva la mia insistenza contro le archistar, che molti liquidano come soggetti non significativi rispetto alla enorme massa di edifici quotidianamente progettati e realizzati in barba ad ogni qualità e rispetto del “bello e del desiderio comune”.
L’archistar è la punta di diamante, il vessillo di coloro che vedono nella figura dell’architetto il demiurgo che decide per tutti in base alla sua presunta capacità e creatività, che non accetta critiche bollandole come una limitazione della libertà individuale, ma attribuendo a questo valore alto solo il significato di licenza. Sono le archistar, prima erano i maestri o almeno l’uso strumentale che si faceva di questo nome, a sostenere l’alibi della “libertà” per quella massa di edifici di cui sopra.
Smontando, o meglio cercando di smontare nel mio piccolo, quell’idea di architettura creativa e libera da ogni vincolo di luogo, esprimo solo una forma di contro-informazione al pensiero unico dominante che c’è e che tende a mettere il silenziatore ad ogni voce contraria a questo sistema consolidato, dall’università ai concorsi, dai dibattiti in ambito locale per i nuovi PRG alle riviste di “moda” architettonica.
Non so se esista un “complotto internazionale”, per rispondere a coloro che ironicamente ci accusano di essere dietrologici, ma esiste una diffusa e potente egemonia culturale monotematica.

Esistono poi le forme più subdole di questo sistema, spesso in buona fede, portate avanti da coloro che distinguono i progetti in base a fattori stilistici e compositivi individuali, che si atteggiano a critici di architettura separando ciò che di buono c’è in ogni forma di architettura. E’ una forma subdola perché appare più seria, più ragionevole, più colta (e talvolta anche lo è) ma che, di fatto, esaltando un progetto ne salva l’idea che lo sottende di un’architettura individuale, artistica e creativa.

Non nego la possibilità che vi siano architetti bravi e creativi ma non mi sembra più il momento per trastullarsi in questi argomenti autoreferenziali da circolo degli architetti, lontani anni luce dai problemi della realtà, di fronte al fallimento totale di una cultura urbana e architettonica che ha fatto perdere anche quel minimo carattere di socialità per cui le città sono nate. A me almeno non interessa parlare dei singoli progetti di architettura “contemporanea” salvo quelli, pochi e in genere oscurati, che vanno nella tendenza opposta al corso generale delle cose e che tendono al recupero della tradizione e del rispetto della cultura dei luoghi.
Non è nato per questo il blog e ve ne sono centinaia di altri che sanno farlo meglio di me e quando parlo ed esalto Krier non lo faccio per le sue doti di architetto, che pure ci sono, ma per l’idea che egli rappresenta e di cui è, appunto, una bandiera da almeno trent’anni.

Lascio queste disquisizioni, il più delle volte sterili quando non infantili oppure frutto di rispettabilissime passioni private o anche di corposi interessi accademici e professionali, ad altri.
L’importante è che si rispetti, pur dissentendo in maniera argomentata, chi crede che vi sia un modo diverso di affrontare il tema dell’architettura, della città e direi della convivenza urbana come “recupero del senso e della logica dell’insieme di case associate, reciprocamente “sociali”, coerenti nello stare insieme a formare il tessuto”.


NOTA: A proposito di falsi si veda questo filmato sulla "falsità" del Ponte di Mostar

e si legga questa breve voce su Wikipedia.



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5 luglio 2009

UNA ARGOMENTATA OPINIONE CONTRARIA

Ho ricevuto da Vilma Torselli questo commento con osservazioni critiche al post sul falso di Ettore Maria Mazzola. Poiché mi sembra che riassuma molto bene la maggior parte degli argomenti "contro" lo pubblico come post. Il titolo al post l'ho aggiunto io.

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La riflessione di Mazzola sul falso storico e sull’opera di Brandi è senz’altro esemplare, ma non posso fare a meno di rilevare, specie nella parte finale, affermazioni a mio parere largamente opinabili.
Tutta la storia dell’architettura è una storia "contro", ben prima delle avanguardie del ‘900, e non deve stupire che, freudianamente, anche in architettura diventare adulti voglia dire "uccidere il padre": il Rinascimento impone le regole della prospettiva contro gli spirituali misticismi del gotico, il Barocco combatte la rigida ingabbiatura geometrica del Rinascimento, il Neoclassicismo si volge al repertorio classico contro gli svolazzi barocchi, il Romanticismo esalta l’emotività contro le regole del classicismo, ciascuna di queste epoche è debitrice della sua stessa esistenza a quella precedente, sia che ne derivi sia che le si opponga.
E poi, chi l’ha detto che andare contro significa cancellare la tradizione? Ricordiamoci di Jorge Luis Borges, quando scrive ".....che tra il tradizionale e il nuovo, o tra ordine e avventura, non esiste una reale opposizione, e che quello che chiamiamo tradizione oggi è una tessitura di secoli di avventura."

L’importanza della tradizione sta nella sua funzione catalizzatrice di nuovi linguaggi, nella sua capacità di scatenare reazioni e produrre rinnovamento, nella sua proprietà di sintetizzare “secoli di avventura”.

Paradossalmente si potrebbe dire che la "tradizione" in architettura è proprio questa alternanza di conflitti, che qualunque passato è indispensabile premessa a qualunque presente e che se l’atteggiamento degli architetti fosse stato sempre quello della conservazione e del ripristino, l’Italia sarebbe piena di basiliche paleocristiane e di mura medioevali perfettamente ristrutturate e ricostruite e l’avventura eroica del rinascimento, del barocco, del neoclassicismo non esisterebbe.

Tutte le antiche città sono edificate su una fitta stratificazione di pre-esistenze, per fortuna il tempo e gli eventi hanno deciso per noi di distruggerle e di permettere alla storia di andare avanti e rinnovarsi.

La tanto vituperata modernità nasce dall’implicito confronto con ciò che è stato, nasce dall’elaborazione del passato, quand’anche negato, ineludibile nucleo promotore del cambiamento e della presa di coscienza di una moderna autonomia intellettuale, senza disconoscere i debiti di carattere formale o contenutistico verso chi ci ha preceduti. Ed in questi termini il passato non è un bagaglio inutile, è un elemento di confronto necessario e indispensabile che tuttavia non deve obbligatoriamente concretizzarsi in ripescaggi stilistici o imitazioni morfologiche anticheggianti, il che significherebbe solo mummificazione di linguaggi in un repertorio formale senza tempo, vecchio prima ancora di nascere.

Non è una scusa assolutoria dire che un architetto di oggi che progetti "in stile" “non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca”, può essere che non ci sia falsificazione, almeno nelle intenzioni, ma c’è senz’altro l’incapacità di parlare un linguaggio autonomo e innovativo, sapendo che la modernità non va copiata (da presunti “grandi modernisti”), va inventata.

Scontata la critica su Sant’Elia, che da tempo la storia ha relegato nell’ambito degli utopisti visionari, quanto alle ragioni addotte nella critica al razionalismo, che trovo piuttosto limitativa nella sua lettura in chiave politica (vogliamo buttare a mare, con Le Corbusier, anche Walter Gropius, Mies van der Rohe e tutta la Bauhaus?), va ricordato che da sempre l’architettura è stata connessa e collusa con il potere, economico o religioso, dato che re, papi, principi, signori e la loro disponibilità finanziaria hanno sempre fatto la differenza grazie a quella elegante e un po’ ipocrita forma di munificità che si chiama mecenatismo, il quale prevedeva sia la committenza delle opere che la gratificazione politica e sociale derivante dalla loro realizzazione. Cioè, non solo Benito Mussolini ha strumentalizzato l’architettura, si tratta di un fenomeno non solo moderno, e possiamo parlare di architetti “neo-razionalisti, neo-funzionalisti, neo-Terragniani, neo-LeCorbusierani, ecc.” così come in passato si è parlato di neo-classicisti, neo-barocchi, post-moderni ecc.

Mi sembra che lodare l’ “architetto tradizionalista” e demolire l’ “architetto modernista” sia una presa di posizione certamente poco costruttiva, oltre che anacronistica, volta a mantenere un ristagno culturale che non giova a nessuno.

Vilma Torselli

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1 luglio 2009

RIFLESSIONI SUL "FALSO STORICO"

Lo scritto che segue mi è stato gentilmente inviato da Ettore Maria Mazzola, docente all'Università Notre Dame di Roma. Poiché scardina molti luoghi comuni e non si perita di criticare alcune icone del "modernismo" immagino che susciterà qualche discussione.

RIFLESSIONI SUL FALSO
di Ettore Maria Mazzola

Considerato il proliferare dei commenti che accennano al concetto “Falso Storico”, riporto qualche chiarimento per porre fine all’abuso del termine.
Per evitare fraintendimenti userò le stesse parole di Cesare BrandiTeoria del Restauro (Giulio Einaudi Edizioni – Torino 1963) e, in particolar modo, del capitolo “Falsificazione”.
“[...] Pertanto la falsità si fonda nel giudizio. Ora il giudizio di falso si pone come quello in cui viene attribuito ad un particolare soggetto un predicato, il cui contenuto consiste nella relazione del soggetto al concetto. Si riconosce così nel giudizio di falsità un giudizio problematico, col quale ci si riferisce alle determinazioni essenziali che il soggetto dovrebbe possedere e non possiede, ma che invece si pretenderebbe possedesse, onde nel giudizio di falsità si stabilisce la non congruenza del soggetto al suo concetto, e l’oggetto stesso è dichiarato falso”.

Non occorrono ulteriori spiegazioni sull’argomento, poiché è sufficientemente chiaro dalle parole del Brandi che il problema della presunta falsità consista nel “giudizio” che si dà di un oggetto, e dunque che il giudizio, in quanto tale, sia un problema soggettivo! ...
Un ulteriore importantissimo passaggio è il discorso sull’intenzionalità di chi produce o mette in circolazione il falso: ancora una volta Brandi chiarisce inequivocabilmente come, a seconda di questa intenzionalità, possa operarsi una netta differenziazione tra copia, imitazione e falsificazione.
Egli individua tre casi:
1) produzione di un oggetto a somiglianza o a riproduzione di un altro oggetto, oppure nei modi o nello stile di un determinato periodo storico o di determinata personalità artistica, per nessun altro fine che una documentazione dell’oggetto o il diletto che s’intende ricavarne;
2) produzione di un oggetto come sopra, ma con l’intento specifico di trarre altrui in inganno circa l’epoca, la consistenza materiale, o l’autore;
3) immissione nel commercio, o comunque diffusione dell’oggetto, anche se non sia stato prodotto con l’intenzione di trarre in inganno, come di un’opera autentica, di epoca, o di materia, o di fabbrica, o di autori, diversi da quelli che competono all’oggetto in se.
Il primo dei tre casi rientra nella sfera della copia o imitazione, gli altri due individuano le due accezioni fondamentali del falso: “solo nella fattispecie potrà allora distinguersi il falso storico dal falso artistico, che del falso storico finisce per presentarsi come una sottospecie, dato che ogni opera d’arte è anche monumento storico, e dato che l’intenzione di trarre in inganno è identica nei due casi”.

La Storia dell’Arte è ricca di esempi di “artisti” e dei loro “allievi”; questi ultimi si ispirarono ai loro maestri raggiungendo livelli artistici notevoli, pur fondando la loro produzione sulla personalità altrui: mai nessuno di questi “allievi” venne denunciato per plagio, per amoralità o per reato estetico, tanto che oggi abbiamo la possibilità di studiare le loro opere su tutti i libri di Storia dell’Arte: Quello del falso è un problema creato da noi “moderni”.
Del resto, se il recupero della tradizione e dei canoni classici fosse stato considerato un atto di falsità, né il Rinascimento, né il Neoclassicismo sarebbero mai potuti esistere: ad eccezione del Movimento Modernista, ogni periodo della Storia dell’Architettura ha fatto tesoro della tradizione precedente ed è stato in grado di aggiungere qualcosa di nuovo. Diversamente il movimento modernista, basando la sua forza espressiva sull’azzeramento della storia, non avrebbe mai potuto convivere con una tradizione in grado di far riflettere, così l’ha rinnegata!
Chi sarebbe mai un certo Winckelmann senza i falsi realizzati dagli antichi romani? Quelli sì che vennero realizzati a scopo di lucro! Molte botteghe di scultori – facendosi pagare profumatamente – eseguivano copie delle opere dei più grandi artisti greci per abbellire le case dei ricchi romani: solo grazie all’opera di questi falsari oggi possiamo apprezzare opere come il Laooconte, il Toro Farnese, il Discobolo di Mirone, ecc. ... queste sono opere mirabili, benché copie, la gente le apprezza, e le apprezzava, indipendentemente dalle considerazioni intellettualoidi dei critici e degli storici dell’arte.

Quando in antichità un edificio cadeva in rovina, esso veniva ricostruito. Templi arcaici vennero ricostruiti secondo il gusto ellenista operando dunque, secondo quello che è il pensiero contemporaneo, un crimine di falsità, ma nessuno – tranne qualche faziosa teoria ottocentesca, mai peraltro dimostrata – ha mai posto l’interrogativo se i romani furono dei grandi artisti o semplicemente degli squallidi copisti. È ovvio che essi furono dei grandi artisti, ed è altrettanto ovvio che il problema non va ricercato nel metodo dell’artista ma nel giudizio, spesso ipocrita, del giudicante.
Cosa potremmo dire delle splendide opere di integrazione, ricostruzione e completamento, eseguite dalla bottega di Bartolomeo Cavaceppi su gran parte della statuaria romana (oggi nei più importanti musei del mondo): quello suo, per i benpensanti della sua epoca, fu un gesto criminale che li offese a morte, o diversamente egli fu considerato un grande cui commissionare opere del genere?
Tornando al concetto di falso storico in architettura, Brandi (che non parla di architettura ma di arti figurative) ci ha chiarito come il problema principale sia dato dal comportamento ingannevole che l’autore dell’oggetto assume nei confronti di chi lo osserva.

Estensione del “falso” all’architettura

Per chi l’avesse dimenticato, o non lo conoscesse, questo è ciò che Antonio Sant’Elia scrisse nel Manifesto dell’Architettura Futurista dell’11.07.1914:

«... IO COMBATTO E DISPREZZO: 1° tutta la pseudo-Architettura d’avanguardia, austriaca, ungherese, tedesca e americana. 2° Tutta l’Architettura classica, solenne, ieratica, scenografica, decorativa, monumentale, leggiadra, piacevole. 3° L’imbalsamazione, la ricostruzione, la riproduzione dei monumenti e palazzi antichi. 4° Le linee perpendicolari e orizzontali, le forme cubiche e piramidali che sono statiche, gravi, opprimenti e assolutamente fuori dalla nostra nuovissima sensibilità»
«E PROCLAMO: 1° che l’Architettura Futurista è l’Architettura del calcolo, dell’audacia temeraria e della semplicità; l’Architettura del cemento armato, del ferro, del vetro, del cartone, della fibra tessile e di tutti quei surrogati del legno, della pietra e del mattone che permettono di ottenere il massimo dell’elasticità e della leggerezza»
«2° Che l’Architettura non è per questo arida combinazione di praticità e utilità, ma rimane arte, cioè sintesi, espressione»
«3° che le linee oblique e quelle ellittiche sono dinamiche per la loro stessa natura e hanno una potenza emotiva mille volte superiore a quella delle perpendicolari e delle orizzontali, che non vi può essere un’Architettura dinamicamente integratrice all’infuori di esse»
«4° che la decorazione, come qualche cosa di sovrapposto all’Architettura, è un assurdo, e che soltanto dall’uso e dalla disposizione originale del materiale greggio o nudo o violentemente colorato, dipende il valore decorativo dell’Architettura Futurista»
«5° che, come gli antichi trassero l’ispirazione dell’arte dagli elementi della natura, noi – materialmente e spiritualmente artificiali – dobbiamo trovare quell’ispirazione negli elementi del nuovissimo mondo meccanico che abbiamo creato, di cui l’Architettura deve essere la più bella espressione, la sintesi più completa, l’integrazione artistica più efficace»
«6° l’Architettura come arte di disporre le forme degli edifici secondo criteri prestabiliti è finita».
«7° per l’Architettura si deve intendere lo sforzo di armonizzare con libertà e con grande audacia, l’ambiente con l’uomo, cioè rendere il mondo delle cose una proiezione diretta del mondo dello spirito»
«8° da un’Architettura così concepita non può nascere nessuna abitudine plastica e lineare, perché i caratteri fondamentali dell’Architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. “Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città” questo costante rinnovamento dell’ambiente architettonico contribuirà alla vittoria del “Futurismo”, che già si afferma con le “Parole in libertà”, il “Dinamismo plastico”, la “Musica senza quadratura” e l’”Arte dei rumori”, e pel quale lottiamo senza tregua contro la vigliaccheria passatista
».

La conseguenza di questa visione folle è che, a causa di una formazione studentesca distorta in nome del modernismo, nella realtà di oggi si registra tra gli architetti una diffusa incapacità di relazionarsi con certi temi, e chi prova a rispolverare i canoni della progettazione tradizionale viene attaccato come anacronistico, passatista, ecc. … come ricordava Viollet-Le-Duc: «amiamo vendicarci delle conoscenze che ci mancano con il disprezzo ... ma sdegnare non significa provare!(1)».
Chiunque abbia un po’ di sale in zucca potrà comprendere che le parole di Sant’Elia, giovanissimo ribelle all’epoca delle avanguardie artistiche internazionali – epoca in cui l’Italia cercava il modo per riappropriarsi del ruolo di centro artistico e culturale del mondo – possono giustificarsi in quel contesto, ma non necessariamente che esse si debbano prendere come una “Bibbia” per tutta l’architettura che è venuta dopo.
Purtroppo però, gli interessi economici, le teorie di Le Corbusier a favore dell’industria automobilistica (2), e soprattutto il complesso di inferiorità culturale degli italiani fecero sì che le cose andassero via via peggiorando; così, di lì a poco, si ebbero degli eventi che segnarono definitivamente il modo di costruire nel nostro Paese.
Nel 1931, a Roma, Pier Maria Bardi organizzò una mostra che aveva come unico scopo la messa al bando dell’architettura “vigliacca e passatista”. In occasione della Esposizione Italiana di Architettura Razionale, una stanza venne dedicata ad un pannello realizzato con la tecnica del collage, in cui foto e disegni delle architetture tradizionali realizzate nel primo novecento in Italia venivano ribattezzate la “Tavola degli Orrori”.

Per comprendere il peso di questo evento, e le conseguenze su ciò che avvenne di lì a breve, è necessario ricordare quella che fu l’influenza che esso ebbe nella mente di Benito Mussolini e dell’Intellighenzia italiana dell’epoca. Eccovi un sunto.
Nel 1929 Armando Brasini aveva ricevuto l’incarico per costruire a Roma, in via IV Novembre, un edificio che rimpiazzasse il demolito Teatro Nazionale di Francesco Azzurri. Il Teatro era stato demolito, nonostante la notorietà dell’autore e l’importanza funzionale dell’edificio, perché ritenuto inadeguato al carattere architettonico di Roma. D’Annunzio accusò la facciata di «essere pretenziosa e volgare e la tettoia in vetri orribile perché è una cosa industriale, brutta, meschina, comprata un tanto al metro, appiccicata là a far da testimonianza alla taccagneria che ha presieduto al compimento di tutta la parte ornamentale!» Mussolini ritenne Brasini l’unico architetto degno di poter mettere le mani su quel delicatissimo punto di Roma, tra l’altro allineato frontalmente a Palazzo Venezia, e si compiacque del progetto che dimostrava la validità della scelta dell’architetto.

Roma, Armando Brasini, Palazzo dell’I.N.A.I.L. (1929-’32)

All’indomani della mostra di Bardi, in occasione dell’inaugurazione di quel Palazzo (28 marzo 1932), l’opinione del Duce era totalmente cambiata: nel suo discorso alla Camera dei Senatori disse: «il palazzo è un autentico infortunio capitato proprio alle Assicurazioni agli Infortuni». Questa frase fece sì che l’INAIL decidesse di non utilizzare più quell’edificio come sua sede, perché ritenuto una “vergogna”, e lo cedette in affitto all’Aviazione Italiana.
Già nel ’31 la pubblicazione della splendida rivista Architettura e Arti Decorative era stata sospesa e rimpiazzata da quella di riviste schierate in nome del Modernismo, nel ’32 lo stesso Bardi – che dopo aver ripetuto per tre volte la terza elementare, era stato costretto per legge ad abbandonare gli studi (3) – fondò la rivista Quadrante di cui dirò presto.

Tra il ’32 e il ’36 un’altra battaglia venne combattuta in quel di Como, tra “tradizionalisti” e “modernisti”, i primi facenti capo in Federico Frigerio, i secondi in Terragni, Pagano, Cattaneo, ecc. La causa scatenante era stata l’edificazione, nel 1927, del Novocumum da parte di Terragni, edificio inaccettabile per i comaschi dell’epoca. Ciò che aveva disturbato era stato il trucco di presentare un progetto per poi realizzarne un altro.

La storia si ripeté con la “Casa del Fascio”, e questa volta la reazione dei comaschi indignati fu più forte.
L’intera città si era indignata per la costruzione di Giuseppe Terragni: il progetto presentato ed approvato era totalmente diverso da quello realizzato, e tutto era avvenuto sotto l’egida del Podestà locale, il fratello del Terragni: ecco il “trucco” – come lo definisce Alberto Artioli (4) – per aggirare l’ostacolo alla costruzione. In una lettera inviata dal Podestà a Giuseppe si suggeriva: «presenta un “progetto in stile”, poi quando tiri su i ponteggi fai quello che vuoi!».
L’indignazione fu talmente forte che la popolazione si rifiutò di assistere all’inaugurazione dell’edificio e si dovette ricorrere astutamente ad una cerimonia di commemorazione dei caduti della Prima Guerra Mondiale per far confluire il popolo nella “piazza” antistante la Casa.

Lo stesso Mussolini era rimasto profondamente turbato dall’edificio ma poi, la furbizia lessicale di Terragni e Marinetti (il teorico del Futurismo), coniarono la giustificazione plausibile all’edificio: esso trasformava in Architettura ciò che il Duce aveva detto, «il Fascismo è una casa di vetro dove tutti possono guardare!». Fu così che il Duce fece sua l’idea dell’edificio.
Forte di questo successo politico Carlo Belli, sul numero 35 della rivista Quadrante del 1936, nel paragrafo intitolato “Dopo la polemica” – per celebrare la vittoria del Modernismo conseguente la costruzione della Casa del Fascio di Como – diceva: «Non so quanti, in Italia, potranno capire oggi la nostra gioia per il compimento della Casa del Fascio di Como. Quando, tra qualche anno, un’adesione universale conforterà quest’opera di Terragni, allora sì, molti si arrenderanno, per riconoscere onestamente che avevamo ragione. […] Ma, ora, possiamo rispondere che vogliamo la Casa del Fascio di Como, intanto, come modello-base per tutti gli edifici d’Italia (compresi i ministeri). […] L’idea di un “Nuovo Vignola” dell’architettura italiana, idea ventilata in questi giorni, più che originale, assai più che brillante, è una proposta veramente saggia da attuarsi subito per l’onore e la salvezza del nostro prestigio in fatto di architettura. In questo manuale la Casa del Fascio di Como sarà la tavola logaritmica delle costruzioni del genere, il vocabolario in cui sono espresse nella loro forma migliore, tutte le soluzioni più esatte dei più complicati problemi. Un prontuario di bellezza, un paradigma di saggezza: un’opera completa sotto tutti i punti di vista».

Davanti a cotanta fermezza e furbizia non c’è da meravigliarsi se il Regime, per la prima volta, arrivò ad imporre il nuovo modo di concepire l’Architettura: Un regime totalitario che racconta di dare delle case moderne, simbolo di libertà e di progresso, non può che essere apprezzato ... peccato però che gli abitanti degli edifici nati seguendo questi dettami non abbiano mai ritenuto di vivere negli spazi che avrebbero sognato, e anzi, molto spesso, ci abbiano lasciato di loro definizioni come quartieri ghetto, edifici lager, eccetera.
Sebbene possa sembrare impossibile che questo piccolo evento comasco possa aver avuto una risonanza così drammatica sul nostro Paese, la lettura di un testo di legge emanato due anni dopo ci dimostra che la delirante richiesta modernista di Belli, Pagano, Terragni, Cattaneo, ecc., ben presto venne tramutata in realtà.
Nel 1938 – nell’interesse dei soli “palazzinari” – affinché non si osasse più costruire in modo tradizionale, a cura del Ministero della Pubblica Istruzione Italiano venivano promulgate le “Istruzioni per il Restauro dei Monumenti” il cui punto 8 così recitava: «per ovvie ragioni di dignità storica e per la necessaria chiarezza della coscienza artistica attuale, è assolutamente proibita, anche in zone non aventi interesse monumentale o paesistico, la costruzione di edifici in “stili” antichi, rappresentando essi una doppia falsificazione, nei riguardi dell’antica e della recente storia dell’arte» (5).
La strenua resistenza dei membri della Associazione Artistica fra i Cultori dell’Architettura agli attacchi delle riviste monodirezionali, come la tedesca Moderne Bauformen o le italiane Casabella, Quadrante, ecc., ormai non aveva più campo d’azione: gli architetti tradizionali erano stati banditi per legge!
L’Architettura era morta in nome del Modernismo di Stato ... ma da noi continuano a farci credere il contrario, bollando come fascista chi si interessa di architettura neo-tradizionale!
Questi aneddoti cambiarono radicalmente il modo di insegnare, costruire e concepire l’Architettura in Italia.

Chi inganna chi?

L’altra faccia del falso storico è rappresentata da quelle città italiane le quali, per il fatto di aver dato i natali ad architetti “moderni” o ad architetture razionaliste, hanno dimenticato tutto quanto successo prima del XX secolo, in questo modo, architetti, critici, e politici locali chiedono, o addirittura impongono, che l’edilizia prodotta dal movimento modernista venga presa come modello da seguire: così sono nati, e continuano a nascere, interventi neo-razionalisti, neo-funzionalisti, neo-Terragniani, neo-LeCorbusierani, ecc., mentre vengono ridicolizzati, o peggio criminalizzati, gli interventi di chi si sforza di riappropriarsi dei canoni tradizionali.
Perché il cercare di dare una casa ed un ambiente urbano dignitoso e piacevole, ispirandosi al Passato più nobile, è da considerarsi un atto criminale, mentre il copiare i presunti “grandi modernisti” è invece un comportamento da perseguire?
Se il problema è solo quello dell’inganno, nessun “architetto tradizionalista” intende ingannare nessuno con il suo modo di operare, egli semmai è mosso dal rispetto dei monumenti, dei centri storici, del paesaggio e, soprattutto, degli abitanti; egli non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca, o da un grande del passato: egli non vuole offendere nessuno, piuttosto è interessato a cancellare le offese che la “povera gente incolta” è stata costretta a subire da chi, con la “presunzione della cultura”, l’ha ingannata facendogli credere che gli stava creando intorno una città figlia della “civiltà moderna”, “espressione del nostro tempo”.

Inganno letteralmente significa presentazione falsata della verità.
La realtà dei fatti urbanistici di oggi ci dimostra come l’unico vero inganno, sia stato proprio quello compiuto dai cosiddetti esperti i quali, con il loro modo di sentenziare, ci hanno voluto far credere che la zonizzazione, le moderne periferie, le grandi arterie di traffico nel bel mezzo dei centri abitati, le unità di abitazione, la rimozione di ogni aggiunta decorativa, ecc. corrispondessero alla vera espressione di civiltà moderna, ai veri ideali di vita, di urbanistica e di architettura.

Credo senza alcun dubbio che gli unici falsari siano i teorici del falso storico, coloro i quali, con la loro “colta saccenteria”, hanno convinto, o cercato di convincere, la “massa incolta”, che il loro “sapere” li avrebbe guidati ad un futuro migliore. Questa massa, ammalata di un certo complesso di inferiorità culturale nei confronti degli esperti, ha passivamente accettato questi teoremi perché “detti da chi capisce” … anche se poi, nel proprio intimo, ha sempre covato un senso di disgusto e di rifiuto, puntualmente tirato fuori quando era troppo tardi, oppure sottovoce in qualche discorso tra amici con i quali non c’era da vergognarsi di “non capire” l’architettura e l’urbanistica contemporanea.

Ettore Maria Mazzola

Note:
1) Conversazioni sull’Architettura – Edizioni Jaca Book S.p.A. – Milano 1990

2) Prima il Plan Voisine (Voisine era un costruttore d’auto) e poi la Ville Radieuse secondo cui «le città saranno parte della campagna; io vivrò a 30 miglia dal mio ufficio, in una direzione, sotto alberi di pino; la mia segretaria vivrà anch’essa a 30 miglia dall’ufficio, ma in direzione opposta e sotto altri alberi di pino. Noi avremo la nostra automobile. Dobbiamo usarla fino a stancarla, consumando strada, superfici e ingranaggi, consumando olio e benzina. Tutto ciò che serve per una grande mole di lavoro ... sufficiente per tutti.»

3) R. Mariani, Razionalismo e architettura moderna, Milano 1989

4) Alberto Artioli, “La Casa del Fascio di Como”, BetaGamma Editrice, Roma 1990, pag. 20; confrontare anche Ada Francesca Marcianò, “Giuseppe Terragni. Opera completa 1925-1943”, Officina Edizioni, Roma 1987, pag. 306

5) In materia di “Falso Storico” rimando al mio saggio “Falso storico? … Tutto falso!” in Como, la Modernità della tradizione, di Samir Younés ed Ettore Maria Mazzola, Gangemi Edizioni, Roma 2003, pagg. 33 - 47

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