Un video con Antonio Paolucci, Rodolfo Papa e Ciro Lomonte sull'architettura sacra oggi
5 giugno 2013
L'ARCHITETTURA SACRA OGGI
12 aprile 2012
ZEN-CORVIALE: UNA COINCIDENZA
Guardo il TG2 delle 20,30, l’unico TG decente che riesco a seguire per intero e che si adatta ai miei orari.
C’è un servizio sulle periferie di Milano (Quarto Oggiaro), Roma (Corviale), Napoli (Ponticelli).
Interviste agli abitanti più giovani per conoscere le speranze per il loro futuro. Non mi fido quasi mai di queste interviste, conosciamo tutti il clichè delle interviste TV al mercato (è aumentato tutto….), in spiaggia (tanto sole dopo l’inverno…), all’uscita degli esami di maturità (era difficile, speriamo bene…), ecc., la sagra dell’ovvietà, però un piccolo e impressionistico spaccato di umanità delusa e senza grandi speranze nel futuro nel servizio esce fuori.
A Napoli mi ha colpito l’intervista ad un padre Comboniano che adesso opera nel quartiere. Mi colpisce che un sacerdote dica che non c’è speranza e penso, mentre mangio, che forse farebbe meglio ad appendere al chiodo la tonaca e a cambiare mestiere. Poi, a fine pasto, ci ripenso: forse si è espresso male, forse voleva dire qualcos’altro. Si vede che le mie impressioni oscillano in base alla fame o alla sazietà.
Le immagini di Corviale, non della località ma proprio del serpentone sono devastanti, il degrado è inimmaginabile, il vuoto dei corridoi è assoluto, la porta che si apre sulle scale mostra spazi disumani, come salire in un locale impianti.
Le frasi introduttive del giornalista in studio sono ambivalenti: “il serpentone figlio dell’ideologia anni ‘70” non posso non condividerlo perché è vero, poi conclude con la speranza per i giovani riposta nello sport (almeno lui ce l’ha la speranza, a differenza del sacerdote), nel senso di una squadra di rugby che, con la sua disciplina, possa fornire valori a quei ragazzi costretti a vivere in quel malvagio sogno utopico. Ambivalente perchè se è vero che lo sport, come altre iniziative capaci di dare il senso di appartenere ad una comunità civile, è sicuramente utile, è altrettanto vero che quello stesso sport lo si potrebbe ugualmente svolgere, come avviene in centinaia di altre situazioni, senza essere costretti a fine allenamenti a dover rientrare in quel disumano edificio. Lo sport quindi come cura ad un malessere causato proprio dall’ambiente costruito. La miglior cura sarebbe stata però la prevenzione (mai luogo comune è risultato più vero), cioè non averlo costruito in quel modo.
Dopo cena salgo al computer, guardo la posta e trovo dall’amico Ciro Lomonte una mail con un link al Corriere del Mezzogiorno che annuncia oggi pomeriggio alle 15,00 la presentazione a Palermo del progetto di Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri al posto dello Zen, quello di Gregotti, Purini & C.
Leggo con piacere che saranno presenti molti candidati alla carica di Sindaco e pure i rappresentanti degli imprenditori. Non dubito che apprezzeranno, non fosse altro perché hanno bisogno di consenso. Non intendo con questo minimamente sminuire il progetto dell’amico Mazzola, ma il fatto è che conosciamo tutti i nostri politici e in fondo i politici di tutto il mondo: quando c’è da prendere voti non badano a spese. Tuttavia è un segnale di attenzione, vuol dire che riconoscono un problema, sanno anche che non è un progetto di restauro e se si muoveranno vuol dire che hanno la percezione che c’è da ottenere consenso popolare. Questo, per me che sono considerato populista e che vado orgoglioso di questo appellativo quando chi me lo appiccica è qualche elitario scarsamente democratico, rappresenta la certezza di un sentiment diffuso contro quell’insediamento.
Non dubito nemmeno che il progetto creerà due partiti fieramente opposti, come è giusto che sia.
Da una parte i sostenitori dell’iniziativa, e questo è ovvio, ma credo con un largo seguito popolare, e questo sarebbe estremamente positivo, almeno per un populista come me.
Dall’altra una parte del mondo della cultura, specie architetti, alcuni in buona fede, i più per pura ideologia, per abitudini consolidate, come dice Ciro Lomonte nell’articolo, per un pregiudizio di appartenenza al gruppo della figliolanza di Gregotti.
Poi ci sono gli imprenditori. Beh, loro sono importanti, anzi fondamentali, ma è sicuro e normale che giudicheranno in base al loro interesse imprenditoriale, quindi dovranno essere i numeri a convincerli, oltre alla vendibilità del progetto, al suo appeal. Certo, i tempi non sono proprio quelli adatti agli investimenti.
Comunque vada, che le mie previsioni siano giuste o sbagliate, quello di cui sono sicuro è, anche dopo aver visto quelle immagini del Corviale, che tutte le opinioni possono essere rispettabili, ad eccezione di quella di mantenere una testimonianza storica di un periodo. E’ un lusso che non ci possiamo né dobbiamo permettere sulle spalle e sui dolori degli altri. Per essere autorizzati solo a pensarlo, a prescindere dal fatto che l’operazione possa o meno prendere avvio, è necessario che si assumano in prima persona l’impegno solenne di andarci a vivere, cioè abitare, lavorare, divertirsi, tanto per rimanere in tema. Viceversa, tacciano e tornino a rimirarsi il proprio ombellico.
PS
Ancora non ho informazioni su come si sia svolto l’incontro. Immagino che domani troveremo notizie e comunque mi saranno comunicate.
9 maggio 2011
L'ORA DELLO ZEN
Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.
Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.
Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.
A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE
La foto è di Guido Santoro
Leggi tutto...
6 maggio 2011
NOI PER LO ZEN
Il 5 maggio si è tenuta a Palermo la conferenza di Ettore Maria Mazzola sullo Zen, organizzata da Ciro Lomonte.
La conferenza ha ottenuto un successo straordinario, commentata e apprezzata da quotidiani e blog. Molti partecipanti e aderenti si sono autotassati per contribuire alle spese del progetto.
Chi volesse ulteriori notizie può cercare su facebook il Gruppo aperto "Noi per lo Zen", oppure seguire questo link:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_184784378235271&ap=1
Di seguito il testo dell'intervento di Ciro Lomonte:
Il colonialismo politico e finanziario è un cavallo di battaglia di Antonio Piraino.
A me preme sottolineare un’altra questione: la colonizzazione architettonica. Risulta paradossale che la Sicilia abbia prodotto un’arte con forti connotati locali, di grande originalità, mentre era governata da dominazioni straniere. Edoardo Caracciolo definiva “contaminazioni” alcune di queste peculiarità siciliane, ma in generale sono qualcosa di più: sono una serie di linguaggi nuovi e spesso unici.
Dopo essere stata “liberata” (si fa per dire) da Garibaldi e dai Savoia, all’Isola sono stati imposti modelli estranei alla sua tradizione e alla sua natura. Dal Piano Regolatore del 1877 in poi possiamo fare tanti esempi di colonialismo architettonico. Non dimentichiamo che il PRG del 1962 è stato il primo dell’Italia post bellica, sulla base della LUN del 1942. Lo zoning, i retini grafici che definivano le aree da costruire nella città, ritagliando indiscriminatamente, per es., i firriati delle ville di Piana dei Colli, sono un modello accademico che i professori della nostra Facoltà di Architettura hanno preso da fuori. Vito Ciancimino non ha fatto altro che sfruttarlo al meglio per i propri interessi.
Noi dobbiamo e possiamo reagire ad una colonizzazione di tal fatta, nell’urbanistica e nell’architettura. Anche per questo è consolante la crescita delle adesioni a questo nostro progetto: è – in embrione – la rivendicazione di una identità. Del resto il Gruppo Salingaros, di cui fa parte il prof. Mazzola (e di cui mi fregio di far parte anch’io), attribuisce un valore notevole al coinvolgimento dei non specialisti di architettura nella progettazione dei luoghi in cui andranno a vivere e sui quali pertanto hanno pieno diritto di esprimere un parere. Abbiamo persino ipotizzato che negli stessi concorsi di architettura la giuria sia composta dai cittadini che, a vario titolo, hanno un legame con quell’edificio o quel brano di città.
Palermo è una metropoli strana rispetto alle altre quattro italiane: è nata da un’immigrazione interna, proveniente dalle aree agricole della stessa Isola e indotta dalla creazione nel dopoguerra dell’apparato amministrativo della Regione Siciliana, a fronte di una consistente emigrazione delle migliori menti della città verso il nord Italia o verso l’estero. Le altre metropoli italiane non sono così: hanno potuto difendere la propria identità e trasmetterla ai nuovi arrivati perché hanno mantenuto un consistente nucleo di cittadini originari del luogo (penso in particolare a Milano e Torino, oltre che a Roma).
Palermo ha riscoperto il proprio centro storico negli anni Ottanta. Il recupero di quella parte della nostra città (di cui però non condivido la filosofia estetizzante, che ne ha favorito indirettamente la trasformazione in un mosaico di ristoranti e di pub) ha tuttavia generato un nuovo spirito di appartenenza.
Comprendere lo scempio delle periferie, visitarle (molti non le conoscono neppure), rivisitarle da un punto di vista strategico, è un ulteriore passo avanti in questo sviluppo di una coscienza dell’essere palermitani. È un segnale forte, è un fattore di speranza.
Un amico mi faceva notare che i palermitani hanno un cuore grande, si entusiasmano solo quando si lanciano in imprese audaci. Imprese che abbiano un carattere di esperienza universale. Altrimenti si immalinconiscono, come avviene tutte le volte che si chiudono nella gestione – per caste chiuse – di affari che denotano un deprecabile provincialismo. Di fatto in questa città si respira da tempo un disincanto, una sfiducia, una tristezza che è causa di intensa sofferenza. Questa è la ragione per cui rimango colpito dalla vostra partecipazione di oggi, dal contributo anche economico di molti, che mi fa dire:
"Sono orgoglioso di essere siciliano!"
Ciro Lomonte
(intervento al convegno del 5 maggio 2011)
28 aprile 2011
CONFERENZA: RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE
Interverranno:
- Prof. arch. Ettore Maria Mazzola, professor of Traditional Urbanism, Architecture and Building Techniques presso la University of Notre Dame School of Architecture, Rome Studies e Vice Presidente del Gruppo Salìngaros
- Padre Miguel A. Pertini, Parroco dello ZEN
24 dicembre 2009
AUGURI
Piero Leggi tutto...
18 dicembre 2008
CIRO LOMONTE COMMENTA ROBERTO GABETTI
IL LIBRO:
ROBERTO GABETTI, Chiese per il nostro tempo, Elledici, Leumann 2000, pp. 181, £ 32.000.
di Ciro Lomonte
Sembra che alcuni ecclesiastici, lodevolmente impegnati nel fare accettare il tema progettuale della chiesa agli architetti contemporanei, abbiano deciso di arrendersi alla modernità, nonostante questa si sia affermata molto spesso negando il messaggio cristiano. La rivoluzione compiuta dall’arte moderna ha ben pochi elementi in sintonia con il cristianesimo. La Chiesa ha rifiutato la modernità quando quest’ultima era vitale e oggi che è consunta, con problemi quasi insolubili, rischia di accettarla acriticamente. Non bisogna dimenticare che l’arte moderna ha scelto di rivolgersi solo ad un’élite, mentre l’arte della Chiesa era rivolta anche agli analfabeti.
La Chiesa dovrebbe ricuperare la memoria di quello che è stata nei secoli. Nel primo millennio dell’arte cristiana (dal IV al XIV secolo) la fede si fece cultura, infondendo in un mondo stanco l’inedita fiducia nella bontà delle creature, tanto visibili quanto invisibili. Questo fenomeno iniettò linfa nuova nell’arte romana. Si pensi al processo che trasfigurò il modello della basilica pagana, con le sue absidi, nella cattedrale paleocristiana. L’oblio di questa parte della storia, forse legato a un eccesso di spiritualizzazione della vita ecclesiale, rende falso alla radice ogni tipo di dialogo con l’arte moderna.
C’è poi chi rileva che, negli ultimi 35 anni, le chiese sono state ridotte a teatri per la scena liturgica, come se l’effetto cercato fosse lo spettacolo. Moltissimo sarebbe stato mutuato dalla concezione protestante, secondo la quale non c’è nulla di soprannaturale nell’azione liturgica.
È vero tutto ciò? Ha ragione chi sostiene che le chiese moderne sono brutte? La speranza di ottenere risposte puntuali a queste domande spinge a leggere l’ennesimo libro sull’architettura per il culto. La speranza è alimentata dall’autorevolezza dell’architetto Roberto Gabetti, progettista e docente universitario di fama internazionale, dal 1974 Direttore della Sezione di Arte Sacra della Diocesi di Torino.
Nella prosa chiara del testo non v’è traccia del gusto un po’ morboso e clericale per il paradosso, spinto ai confini dell’ortodossia, di Giacomo Grasso (Come costruire una chiesa), né dell’eloquio erudito, piuttosto oscuro ed ambiguo, di Crispino Valenziano (Architetti di chiese). Tuttavia il modo di argomentare è dialettico: pare quasi che il problema non sia risolvere i problemi, bensì rendere problematici i problemi.
La progettazione di chiese secondo la Riforma liturgica seguita al Concilio Vaticano II viene presentata nella cornice della storia dell’architettura dell’Ottocento e del Novecento. L’autore è un architetto moderno, pertanto non può fare a meno di manifestare fastidio per ciò che definisce “arcaismo” e che altri chiamano, più rispettosamente, ornamento architettonico.Egli fa riferimento alle riflessioni del liturgista Frédéric Debuyst, in particolare al suo “elogio della quotidianità”, in base al quale si dovrebbe preferire un normale bicchiere al posto del calice, un tavolo al posto dell’altare, una sedia al posto della sede e così via. Questo è un punto molto controverso: davvero camuffare la liturgia nelle forme della vita ordinaria avvicina i sacramenti agli uomini del nostro tempo? Perché allora Gesù fece preparare accuratamente l’Ultima Cena nel Cenacolo di un anonimo amico facoltoso?
L’autore stigmatizza l’uso del marmo e di altri materiali “preziosi” in nome della “povertà” della Chiesa. Ma un architetto sa bene che le chiese in cemento armato durano trent’anni, nel migliore dei casi. E la durata non è solo questione di materiali (realmente poveri se resistono all’usura del tempo, non se costano poco), ma anche di bellezza dell’edificio. Il guaio è che il bello è un tema esiliato dall’architettura moderna.
Le chiese moderne non sono tutte brutte. Forse nessuna di esse possiede i requisiti di un vero edificio per il culto. Attendiamo pazientemente che qualcuno ce ne spieghi i motivi, non per recriminare ma perché fiorisca un’arte nuova che sappia darci chiese per il nostro tempo.
FOTO:
1) Chiesa di Gesù Redentore, Modena di Mauro Galantino (2008)
2) La Sagrada Familia, Barcellona di Antonio Gaudì i Cornet (come un bosco che echeggia la liturgia descritta nell'Apocalisse)
3) Battistero di San Giovanni in Laterano, Roma
Collegamento al Post: Ciro Lomonte e il genius loci cristiano
7 giugno 2008
CIRO LOMONTE SUL GENIUS LOCI CRISTIANO
Dall’amico Ciro Lomonte, architetto palermitano, ho ricevuto la recensione del seguente libro: Frédéric Debuyst, Il genius loci cristiano, Sinai, Milano 2000, pp. 111, €18.50, che posto con grande piacere.
Il tema è l’architettura sacra, di cui Ciro Lomonte è profondo ed apprezzato conoscitore e teorico e su cui ha scritto e pubblicato articoli su diversi siti internet e riviste, tra cui Il Covile, curato da Stefano Borselli, il Domenicale, direttore Angelo Crespi, e molti altri, dei quali allego di seguito una selezione di link, oltre a tenere conferenze e lezioni, l’ultima delle quali questa settimana a Roma presso l’Accademia Urbana delle Arti. Come architetto ha curato numerosi adeguamenti liturgici.
Note biografiche di Ciro Lomonte
Il Covile: L’ornamento architettonico dopo il diluvio, di Ciro Lomonte - 1998
Il Covile: Architettura sacra contemporanea: religione o nichilismo? di Nikos Salingaros - Cura linguistica di Ciro Lomonte
II Domenicale: Perché le chiese moderne sono brutte, di Ciro Lomonte
Ridisegno dell’area presbiteriale nella Parrocchia di Maria SS. Immacolata - Sancipirello(PA), di Ciro Lomonte
Architettura Moderna: Ciro Lomonte presenta Nikos Salingaros
Nell’architettura sacra si misura, meglio che in altre tipologie specialistiche, la distanza che separa l’architettura moderna da quella tradizionale e la differente scala di valore e di valori tra le due.
Se è vero che per fare il progetto di una chiesa cattolica occorre una profonda conoscenza della liturgia, della sua evoluzione nella storia, che continua sino ai giorni nostri, e del diverso significato che essa assume in relazione a interpretazioni dottrinali, è altrettanto vero che la percezione dello spazio sacro è esperienza comune a tutti gli uomini, credenti e non, e chiunque apprezza la grande differenza che corre tra l’emozione di entrare all’interno di una qualsiasi chiesa storica delle città italiane ed europee rispetto e quella che si prova in una qualsiasi chiesa moderna o contemporanea le quali, con rare eccezioni, potrebbero essere utilizzate indifferentemente come palestre, auditorium, sale convegni.
L’edificio chiesa è un luogo speciale, denso di molti significati che Ciro conosce bene e che sa magistralmente trasmettere.
****************************************
Ciro Lomonte
Secondo gli antichi romani ogni luogo, naturale o artificiale che fosse, era protetto da una specie di nume tutelare. La credenza pagana nel genius loci è riconducibile a quell’aura peculiare che rende unici molti contesti. A tale fenomeno si riferisce un’opera di Christian Norberg-Schulz (Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura) apparsa nel 1979 e divenuta subito importante nell’ambito del dibattito architettonico contemporaneo. Il genius loci, lo spirito del luogo, sarebbe la sua identità perenne, caratterizzata da orientamento, riconoscibilità e carattere. L’autore norvegese indaga i rapporti tra l’architettura e l’ambiente e, più in particolare, le implicazioni psichiche ed esistenziali dell’abitare.
Debuyst, teologo e liturgista, restringe il campo di osservazione a chiese e monasteri. Il benedettino belga individua le proprietà specifiche dell’autentico luogo cristiano nelle domus ecclesiæ del III-IV secolo e nell’aggregazione di semplici case tipica dei monasteri, ben inseriti nella natura. Considera pertanto spurie tutte le architetture monumentali, in cui predomini la decorazione oppure un linguaggio troppo individualista (nel caso dell’architettura moderna). Risulta un po’ misterioso l’apprezzamento di Debuyst per le basiliche paleocristiane, che hanno assunto l’aspetto di case disadorne e spoglie a lui tanto caro soltanto dopo i pesanti restauri subiti nell’Ottocento e nel Novecento.
L’autore mostra grande interesse per le chiese di Emil Steffann e per l’opera del grande teologo italo-tedesco Romano Guardini, che anticipò la Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Guardini ispirò la sistemazione del castello di Rothenfels sul Meno, il grande centro della Gioventù cattolica tedesca di Quickborn. Il restauro venne completato nel 1929 dall’architetto Rudolf Schwarz, insieme ai suoi amici del Bauhaus. L’amore per il rigore e la scarnificazione da ogni ornamento, criteri propri della scuola diretta da Gropius, guidarono le scelte relative sia all’edificio che all’arredo.
Debuyst continua la sua analisi fino ai giorni nostri, sottolineando la qualità di alcune architetture moderne (abbazia di Mount Angel, nell’Oregon, di Alvar Aalto; monastero di Clerlande, in Belgio, di Jean Cosse; ecc.) e i difetti di altre (per es. il convento di La Tourette, opera famosa di Le Corbusier).
Le opinioni del monaco belga suscitano numerose perplessità. Il nocciolo della questione è la riconoscibilità di un luogo cristiano. Dato che la fede cattolica è fondata nella storia, scritta da Dio e da uomini in carne ed ossa, essa richiede un’arte narrativa. La decorazione simbolica ha questa ragion d’essere, non è questione di monumentalità. Nelle architetture esaltate nel libro non è affatto netta l’identità cristiana, tant’è che sarebbe facile sostituire la loro funzione religiosa con una civile.
Il genius loci cristiano di Debuyst corrisponde ad un gusto minimalista per l’austerità e il nascondimento nel contesto, ma non è condiviso universalmente. Peraltro egli sembra non rendersi conto che il barocco di Borromini è molto più semplice e rigoroso del razionalismo di Steffann. Se il genio del luogo è muto oltre che invisibile, chi ne può percepire la presenza? Un nume neopagano, come quelli prodotti dal Bauhaus, è silenzioso perché non esiste non perché immateriale. Se invece il genio è l’angelo posto a guardia di un luogo reso sacro dall’iniziativa di Dio, allora ha molte cose da annunciare ed è veramente un genius loci cristiano.
È vero che in certe chiese riccamente decorate l’abitudine confonde lo sguardo, che può disperdersi nei dettagli perdendo di vista l’essenza della preghiera. Ma la soluzione è forse quella di eliminare del tutto l’ornamento? Non possiamo dimenticare che l’amore si nota nei particolari, anche nel caso dell’arte e della liturgia.
Qualche dubbio nasce, infine, sull’uso improprio nel volume del termine frate al posto di monaco, forse dovuto alla traduzione dal francese.