Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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27 gennaio 2013

RIGENERAZIONE URBANA: MODELLI ASSURDI E MODELLI VIRTUOSI

di Ettore Maria Mazzola

In questi giorni è circolata la notizia (Matt Robinson su Daily Mail del 24 gennaio 2013) che in Gran Bretagna, una megastruttura residenziale (2700 alloggi) – erroneamente definita “torri” – realizzata tra il 1967 e il ’79 sta per essere “rasa al suolo e sostituita con un quartiere di case a schiera tradizionali, per ridurre la criminalità e migliorare gli standard di vita dei più poveri nella società britannica”.
La scelta non è stata, come qualche malizioso potrebbe accusare, basata sull’ideologia, oppure sulla visione “nostalgica” del Principe Carlo, bensì è stata suggerita da un lungo studio dei ricercatori di “Think-tank Policy Exchange” che ha dimostrato le seguenti cose:
1. La concentrazione di esseri umani all’interno di palazzoni multipiano esclusivamente residenziali tende ad aumentare la criminalità, facendo sì che queste strutture e quartieri divengano “no-go zone” (luoghi da evitare);
2. Chi vive in queste strutture ha maggiori probabilità di soffrire gravemente di stress, problemi di salute mentale; inoltre, tra queste persone, si registra un’impennata dei divorzi;
3. Considerato invece che vive in quartieri tradizionali di case a schiera è meno esposto a queste patologie e/o dinamiche, la sostituzione di certe realtà con quartieri di tradizionali di questo tipo può migliorare drasticamente le condizioni dei residenti.


Lo studio ha fatto emergere il desiderio dei cittadini, i quali hanno concordemente ammesso di “voler vivere in case realizzate sul modello di quelle costruite per secoli in tutto il Regno Unito, non solo per combattere la criminalità, ma anche per ridurre lo stress e salvare il proprio matrimonio!
Lo studio riporta come, nonostante l’evidenza di certi dati allarmanti, tutt’oggi oltre 140 mila famiglie inglesi vivano in realtà spersonalizzanti multipiano.
Il rapporto porta gli autori a suggerire che non solo questo quartiere degradato, ma tutti i quartieri similari realizzati nel Regno Unito negli ultimi 70 anni, essendo divenuti “no-go zones” debbano essere sostituiti al più presto!
In base ai dati del rapporto, è stato stimato che, nella sola Londra, potrebbero realizzarsi 260.000 nuove case nei prossimi 7 anni sostituendo i “grattacieli” e “casermoni” esistenti.
Boys Smith va oltre, ed elenca le problematiche relative ad un certo tipo di edilizia, auspicando che la si smetta di compiere gli errori del recente passato, ricominciando a “costruire strade lungo le quali la gente vorrebbe vivere per evitare di rendere la vita delle persone miserabile”.
Da alcuni anni, effettivamente, in Inghilterra si sta procedendo con interventi di questo genere, per esempio a partire dal 1997 come primo discorso da Primo Ministro, Tony Blair visitò un quartiere degradato proponendo la sua sostituzione con qualcosa di più umano e rispettoso dei residenti, e oggi quel quartiere è oggetto di un intervento di Rigenerazione Urbana di 1,5 mld di Sterline!
Stiamo parlando di dimostrazioni di civiltà, stiamo parlando di persone che, al di là dell’ideologia, riescono ancora a mettere in primo piano le esigenze della collettività.
Ma perché in Inghilterra certe cose avvengono, mentre da noi in Italia si viene condannati solo se si osi proporre qualcosa di simile?
Forse è il Regno Unito ad essere un Paese speciale? Forse perché lì c’è la monarchia e, conseguentemente, si è in grado di fare programmi a lunga scadenza cui i politici locali “a tempo determinato” debbono uniformarsi indipendentemente dal colore dei loro predecessori?
Non credo.
Infatti, se ci avviciniamo all’Italia, possiamo documentare il caso della Francia, dove a seguito dei fenomeni rivoluzionari delle banlieuses, lo Stato ha approvato e messo in pratica una legge che ha consentito di investire 60 mld di Euro per la sostituzione edilizia di quartieri degradati e degradanti, ma la cosa era già in atto da prima se, basti pensare al “fenomeno” di Plessis Robinson … fenomeno del quale in Italia, specie tra gli architetti e docenti di architettura, ci si guarda bene dal parlare!
Da noi è difficile che certe iniziative possano mai avvenire, probabilmente per ragioni di ignoranza, o forse per un assurdo e ingiustificato complesso di inferiorità culturale verso quei Paesi più votati al modernismo estremo, o anche e soprattutto per un vergognoso servilismo nei confronti di alcuni mostri sacri italiani.
Tutto ciò porta la stragrande maggioranza degli architetti italiani comportarsi in maniera ottusa, accusando di passatismo nostalgico, populismo, qualunquismo e quant’altro chi osi proporre certe cose.
Si rifletta però sul fatto che, proprio coloro i quali accusano di “passatismo” i sostenitori della sostituzione di quartieri degradati con esempi di urbanistica tradizionale, si comportano come i peggiori fondamentalisti-iperprotezionisti quando si tratti di dover buttare giù delle brutture del genere che, a loro dire, rappresenterebbero degli importanti "segni" o "memorie" storiche del tempo in cui sono sorti … costoro sono perfino arrivati a chiedere di porre un vincolo artistico sulle Vele di Scampia e il Corviale di Roma!.
E' ovvia la ragione, e l'ho già scritta tempo fa: gli architetti, per la maggior parte i "grandi luminari" 60-70enni, identificandosi con gli edifici che hanno realizzato, non accetterebbero mai di vedersi privare di un pezzo di se stessi … sarebbe come farsi amputare un braccio o qualcos'altro, sicché combattono anche con argomentazioni patetiche, qualsivoglia demolizione del "moderno" ... hai visto mai che prima o poi possa toccare ad un proprio edificio?
Costoro, piuttosto che pensare alla presunta importanza dell’appartenenza di un edificio al suo progettista, avrebbero dovuto – e dovrebbero – pensare a come concepire edifici che stimolino il senso di appartenenza dei cittadini a quel luogo, ma significherebbe mettere da parte la propria autoreferenzialità!
Così, in queste ultime settimane, abbiamo tristemente assistito alla patetica celebrazione, in vari modi, di personaggi come Pietro Barucci (autore di mostruosità come Tor Bella Monaca, Torrevecchia, Laurentino ’38, Quartaccio) e Michele Valori (co-progettista del Corviale con Mario Fiorentino) , personaggi che si sono resi responsabili di alcune delle più disumane progettazioni dello scorso secolo, e il prossimo 7 febbraio assisteremo alla celebrazione di un altro personaggio che ha fatto il bello e cattivo tempo dell’architettura e dell’urbanistica italiana, dirigendo Casabella e costruendo abomini come lo ZEN di Palermo: Vittorio Gregotti, il quale riceverà la sua passerella in occasione di una manifestazione organizzata presso l’Accademia di San Luca dedicata alle “Rigenerazioni Urbane in Italia”. Durante questa manifestazione verrà presentato il progetto di “rigenerazione del quartiere Acilia Madonnetta a Roma” … per chi non lo conoscesse, si tratta di un surrogato del suo ZEN di Palermo!
Ma come è possibile che in Italia si continuino a cantare le lodi di certi personaggi?
Lo ZEN è probabilmente il peggior esempio di progettazione di Case Popolari Italiano, primato tristemente condiviso con le Vele di Scampia di Franz Di Salvo, altro personaggio al quale è stato recentemente dato un tributo su alcuni blog!
Servilismo? Sudditanza psicologica nei confronti di personaggi (quelli in vita) ancora influenti per mettere una buona parola per diventare famosi? Davvero una cosa indegna!
Inutile dire che, in occasione della manifestazione dedicata a Gregotti ed alle “Rigenerazioni Urbane”, non è stato minimamente ipotizzato di presentare quei progetti di Rigenerazione elaborati da coloro i quali hanno per primi portato avanti questo discorso in Italia, professionisti che hanno elaborato progetti che dimostrano non solo come risulti possibile fare architettura e urbanistica a dimensione umana, ma che la cosa possa farsi in maniera totalmente pubblica, e a costo zero, rifocillando, piuttosto che dissanguando le finanze pubbliche, generando altresì centinaia e centinaia di posti di lavoro, migliorando fattivamente l’esistenza di tantissimi individui; i loro studi hanno inoltre dimostrato come certi progetti porterebbero delle ricadute economiche positive sull’intera collettività, anche grazie all’eliminazione di quelle problematiche elencate dallo studio inglese.
A tal proposito vorrei fare un paio di progetti che ho sviluppato di recente, non solo per spiegare come potrebbero funzionare, ma perché non vorrei recitare la parte di colui che critica gli altri senza mostrare delle alternative.
Nel caso di Corviale a Roma, se si procedesse alla sostituzione dell’abominevole complesso residenziale attuale, non solo si potrebbero insediare circa 2000 abitanti in più, per favorire l’integrazione sociale, ma si potrebbero portare una serie di attività quali una scuola materna ed elementare, una scuola media, una scuola superiore, alcune strutture sportive, una chiesa, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Cinema-Teatro, un Centro Culturale con Biblioteca di quartiere, un Edificio Postale, una Loggia per il Mercato, circa 58500 mq di negozi al piano terra degli edifici della spina centrale, circa 30000 mq di laboratori artigianali lungo le strade a margine, nonché un enorme parco di quartiere, inoltre l’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani; tutto questo potrebbe addirittura realizzarsi restituendo al territorio circa 12 ettari di terreno e, alla fine dei conti, semplicemente applicando dei prezzi calmierati e non facendo speculazione, potrebbero restare nelle casse dell’ATER circa 413 mln di euro da reinvestire per risanare altri quartieri degradati!
Stessa cosa è emersa dalla progettazione per la rigenerazione urbana del quartiere ZEN di Palermo, dove gli abitanti potrebbero crescere di 5125 unità, si potrebbe creare un enorme parco cittadino, all’interno del quale sorgerebbero anche due grandi centri polisportivi per un totale di 122750 mq, collegati a 360° da un percorso per jogging e pista ciclabile, una Clinica specializzata di 67573 mc, una Stazione di Polizia, un Comando dei Carabinieri, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Ufficio Postale, una Scuola Materna ed Elementare dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Media dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Superiore dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Loggia per il Mercato, la nuova Chiesa di San Filippo Neri, con canonica, oratorio e centro sportivo per i ragazzi del quartiere, un Centro Culturale, un Cinema-Teatro. L’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani.
Anche in questo caso, le principali strade verrebbero animate da 45679 mq di negozi mentre, lungo le strade secondarie, potrebbero sorgere 46861 mq di laboratori artigianali, ogni appartamento sarebbe inoltre dotato di box auto privato, ovviamente il progetto ha previsto il rispetto della normativa in materia di parcheggi pubblici, così come anche quello per il Corviale.
Questi progetti non sono frutto di fantasticherie, né si ha la presunzione di sostenere di aver inventato il sistema di sviluppo per illuminazione divina, né tantomeno si tratta di un’imitazione dei sistemi New Urbanism o quant’altro proveniente dall’estero: si tratta semplicemente di progetti per i quali è stato ipotizzato di riutilizzare norme e strumenti in vigore in Italia finché il fascismo non decise di impedirli: certe norme e strumenti basati sul buon senso riuscirono a risanare le finanze del Comune di Roma ormai in bancarotta, quelle norme e strumenti generarono migliaia di posti di lavoro e contribuirono ad eliminare del tutto fenomeni violenti pari a quelli delle banlieuses francesi del 2005.
Perché allora non riprenderli a modello?
La crisi ci ha ormai messi in ginocchio, e i nostri edifici, così come quelli inglesi di cui allo spunto iniziale, necessitano di essere sostituiti, non solo per le ragioni di sicurezza e salute pubblica riportati nello studio inglese, ma anche perché, come denunciato dalla Commissione Europea per l’Ambiente – a causa della pessima qualità dell’architettura costruita negli ultimi 70 anni in Europa – l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia.
Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano un notevole consumo di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla demolizione.
La logica suggerirebbe quindi, al pari del Regno Unito e della Francia, di rivedere l’intero patrimonio immobiliare realizzato nell’arco dell’ultimo secolo, piuttosto che proseguire imperterriti nella produzione di edifici energivori e inquinanti … a conti fatti, una revisione del genere potrebbe risanare le esangui casse statali e, di conseguenza, potrebbero ridursi drasticamente gli sperperi di denaro pubblico e le tasse dei cittadini. Cosa stiamo aspettando?

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31 maggio 2012

L'IMCL DI PORTLAND PREMIA IL BORGO CORVIALE DI E.M.MAZZOLA

Questa è dunque la prima accusa che noi formuliamo contro di voi: l’iniquità dell’odio vostro per il solo nome di tradizionalista. Quella stessa ragione che sembra scusare la vostra iniquità, in realtà l’aggrava e la refuta: voglio dire l’ignoranza. Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? Essa non merita il vostro odio, se voi non sapete che lo meriti. Se la conoscenza di ciò che essa meriti fa difetto, come difendere la fondatezza di un odio, che non può essere provato dal fatto, ma dalla intima conoscenza? Quando gli uomini odiano perché ignorano quale sia l’oggetto del loro odio, non può allora darsi che esso sia tale da non meritare d’essere odiato? Così dunque noi contestiamo ambedue le cose, e l’una con l’altra, la loro ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.

Questo splendido e incalzante atto di accusa è tratto dall’Apologeticum di Tertulliano, ma con l’introduzione, da parte mia, di una pesante e strumentale mistificazione: al posto di “tradizionalista”, nel primo periodo, l’oggetto dell’odio cui l’autore si riferisce è il “cristiano”.


Intanto è bene chiarire che non voglio apparire per quello che non sono, cioè Umberto Eco, ma devo solo ringraziare la lunga serie economica del Corriere della Sera (1 euro) di classici greci e latini della BUR.

Certo che, fatte le dovute proporzioni, l’ostracismo da parte del mondo accademico e della cultura urbanistica dominante del nostro paese nei confronti di chi si occupa di architettura e urbanistica tradizionale, nell’insegnamento come nella professione, presenta caratteri qualitativamente analoghi e congruenti con quelli del brano: l’odio preconcetto nei confronti di ciò che non si conosce e/o non si vuole conoscere e riconoscere. Si è mai visto un concorso di architettura non dico vinto, ma che abbia presentato nella rosa di premiati o segnalati almeno un progetto ispirato alla tradizione o alla classicità? Niente sforzi, non lo trovereste. Ho sempre pensato invece che, in assenza di un pregiudizio ideologico, in un concorso non dovrebbero essere premiati progetti sostanzialmente uguali o dello stesso genere, come invece accade, ma, tra quelli meritevoli, una gamma di soluzioni proposte, una selezione rappresentativa di varie idee e tendenze. Questo dovrebbe essere lo scopo di un concorso: esaltare le differenze, oltre che premiare il progetto migliore. Così non è. In Italia però, perché altrove invece la situazione è molto diversa.

E così accade che un progetto di rigenerazione urbana in cui al posto di un “gratta terra”, quale il Corviale a Roma, ha ricevuto un prestigioso premio negli USA, a Portland, Oregon, da parte dell’International Making Cities Livable. Il progettista è naturalmente l’amico Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola.

Non sarò io a raccontare i dettagli della 49th International Making Cities Livable Conference on True Urbanism: Planning Healthy Communities For All & Exhibit on Successful Designs For Healthy Inclusive Communities, durante la quale è stato presentato il progetto da Mazzola ed è stato consegnato il premio, perchè non c’ero.

C’è invece il link al resoconto che mi ha mandato E.M. Mazzola, che offre un quadro più ampio del contesto in cui il riconoscimento si è inserito.

Io ho linkato un video e, soprattutto, insisto su questa palese contraddizione che dimostra il chiuso provincialismo accademico di casa nostra: c’è un progetto diverso, assolutamente diverso da quelli che generalmente circolano nelle riviste (quali non saprei, dato che oramai sono tutte scoppiate sotto il peso di internet e della loro noiosissima ripetitività) o in internet o nelle varie sagre dell’architettura dove invece che la porchetta si espongono progettifici industriali in serie; ammetto, come fa Tertulliano, che questo progetto possa anche essere “meritevole di odio” ma perché non mostrarlo, non cercare di capirlo? “Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano”.


Se si è così sicuri che esso progetto, una volta conosciuto, divulgato, reso pubblico, diventato oggetto di discussione, sarà disprezzato dai più, perché allora ignorarlo, non volerlo conoscere, tenerlo nascosto? Quanto più grande sarebbe la vittoria una volta che il giudizio sul progetto fosse unanimemente negativo in quanto consapevolmente e criticamente riconosciuto come sbagliato, non adeguato, peggiore addirittura di ciò che vuole andare a sostituire!

Invece….niente, non accade niente. Il metodo prevede il silenzio e il disconoscimento della esistenza stessa di quel progetto. Possibile che, tra le tante cazzate (unico termine adeguato al caso) che non lasciano tracce di sé tra quelle che si presentano in convegni, seminari, mostre, lezioni universitarie, mai una volta che un progetto diverso come quello del Borgo Corviale non possa trovare un perfido critico o docente che se la senta di sputtanarlo pubblicamente invitando il suo autore? Sarebbe una grande soddisfazione, per il perfido critico, ovviamente. Non è forse degno quel progetto, almeno per la sua veste grafica, di mettere piede nel sacrario di un’aula universitaria?

Sia chiaro, E.M. Mazzola non ha bisogno di entrare in un’aula dell’Università pubblica italiana per dimostrare le sue capacità, tanto meno per essere legittimato. Altrove fuori d’Italia il suo lavoro è apprezzato e parecchio, e non mi riferisco solo al Premio a Portland, ma ad altre situazioni quali la Biennale di Architettura Classica e Tradizionale di Mosca, cui Ettore partecipa con 12 pannelli dedicati ai progetti per il Corviale e per lo Zen di Palermo in Russia, e ad altre ancora su cui adesso è opportuno non insistere.

Il fatto è che, parafrasando Martin Luther King, I have a dream: che non esistano le Biennali di Architettura Classica e Tradizionale e le Biennali di Venezia, che non hanno attributi dichiarati, ma che di fatto sono a senso unico, anche se dicono di mettere in mostre varie tendenze. Non è vero, mettono in mostra variazioni della stessa tendenza.
Questa non è cultura, semplicemente è “ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.


P.S.
Riporto di seguito il commento che memmo54 ha lasciato sul blog Archiwatch di Giorgio Muratore, nel post dedicato proprio al premio in oggetto. Mi sembra colga un punto essenziale ma spesso trascurato dell'odio per la tradizione da parte della cultura ufficiale:

"Ciò che non si perdona ad Ettore è l’assoluta mancanza di riferimenti “illustri” recuperati tra i maestri internazionali. Quelli citati sulla vulgata bibliografia che ogni architetto pone innanzi a se come dichiarazione d’appartenenza
Non una citazione di alcun personaggio di spicco: non si intravede Mis Vanderrò, non si scorge Gropìus, tantomeno Le Curvasier.
Difetta anche di Dudok, Asplund, Bonatz, Oud, De Klerk ud ed altri nordici.
Ciò è letteralmente imperdonabile.
Ci si può ispirare al più lontano maestro islandese , finlandese, lappone, swahili o polinesiano..
Chiunque è benvento ed apprezzato: riconosciuto ed omaggiato.
La storia di tutti (…indistintamente “tutti”…di tutte le epoche di qualsiasi tendenza e/o ispirazione) è seriamente ed ampliamente considerata nonchè apprezzata.
Quella propria no !
Robetta, minuzie di cui non vale la pena interessarsi.
Stanche rimasticature beaux arts… al massimo “barocchetto” decadente. Le più astiose s’imperniano intono al mesto concetto di “falso storico”: come se la storia fosse solo quella nostra, contingente, e tutto il resto un sogno: incubo indotto da un demone pervicace.
Come definire quest’atteggiamento che lascia fuori, sminuisce e dileggia, per definizione, ciò che appartiene ed è sempre appartenuto alla propria cultura.
Provinciale ? Ci sono, forse, termini più adatti ?
Autolesionismo ? Cupio dissolvi ?
Eppure si sentono “impapocchiare” fumose spiegazioni sul al passo con i tempi, vagheggiamento di tempi futuri cui adeguarsi necessariamente, laboriose subornazioni della sociologia progressiva e democratica nonchè altre amenità .
M proprio questa mancanza, questo profilo quotidiano, dimenticato ma vero, è la carta vincente.
Saluto
memmo54
"

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17 aprile 2012

NOI PER LO ZEN: IL PROGETTO

Il video della presentazione a Palermo del progetto del Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri in luogo dell'attuale Zen

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12 aprile 2012

ZEN-CORVIALE: UNA COINCIDENZA

Guardo il TG2 delle 20,30, l’unico TG decente che riesco a seguire per intero e che si adatta ai miei orari.
C’è un servizio sulle periferie di Milano (Quarto Oggiaro), Roma (Corviale), Napoli (Ponticelli).
Interviste agli abitanti più giovani per conoscere le speranze per il loro futuro. Non mi fido quasi mai di queste interviste, conosciamo tutti il clichè delle interviste TV al mercato (è aumentato tutto….), in spiaggia (tanto sole dopo l’inverno…), all’uscita degli esami di maturità (era difficile, speriamo bene…), ecc., la sagra dell’ovvietà, però un piccolo e impressionistico spaccato di umanità delusa e senza grandi speranze nel futuro nel servizio esce fuori.
A Napoli mi ha colpito l’intervista ad un padre Comboniano che adesso opera nel quartiere. Mi colpisce che un sacerdote dica che non c’è speranza e penso, mentre mangio, che forse farebbe meglio ad appendere al chiodo la tonaca e a cambiare mestiere. Poi, a fine pasto, ci ripenso: forse si è espresso male, forse voleva dire qualcos’altro. Si vede che le mie impressioni oscillano in base alla fame o alla sazietà.
Le immagini di Corviale, non della località ma proprio del serpentone sono devastanti, il degrado è inimmaginabile, il vuoto dei corridoi è assoluto, la porta che si apre sulle scale mostra spazi disumani, come salire in un locale impianti.

Le frasi introduttive del giornalista in studio sono ambivalenti: “il serpentone figlio dell’ideologia anni ‘70” non posso non condividerlo perché è vero, poi conclude con la speranza per i giovani riposta nello sport (almeno lui ce l’ha la speranza, a differenza del sacerdote), nel senso di una squadra di rugby che, con la sua disciplina, possa fornire valori a quei ragazzi costretti a vivere in quel malvagio sogno utopico. Ambivalente perchè se è vero che lo sport, come altre iniziative capaci di dare il senso di appartenere ad una comunità civile, è sicuramente utile, è altrettanto vero che quello stesso sport lo si potrebbe ugualmente svolgere, come avviene in centinaia di altre situazioni, senza essere costretti a fine allenamenti a dover rientrare in quel disumano edificio. Lo sport quindi come cura ad un malessere causato proprio dall’ambiente costruito. La miglior cura sarebbe stata però la prevenzione (mai luogo comune è risultato più vero), cioè non averlo costruito in quel modo.

Dopo cena salgo al computer, guardo la posta e trovo dall’amico Ciro Lomonte una mail con un link al Corriere del Mezzogiorno che annuncia oggi pomeriggio alle 15,00 la presentazione a Palermo del progetto di Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri al posto dello Zen, quello di Gregotti, Purini & C.
Leggo con piacere che saranno presenti molti candidati alla carica di Sindaco e pure i rappresentanti degli imprenditori. Non dubito che apprezzeranno, non fosse altro perché hanno bisogno di consenso. Non intendo con questo minimamente sminuire il progetto dell’amico Mazzola, ma il fatto è che conosciamo tutti i nostri politici e in fondo i politici di tutto il mondo: quando c’è da prendere voti non badano a spese. Tuttavia è un segnale di attenzione, vuol dire che riconoscono un problema, sanno anche che non è un progetto di restauro e se si muoveranno vuol dire che hanno la percezione che c’è da ottenere consenso popolare. Questo, per me che sono considerato populista e che vado orgoglioso di questo appellativo quando chi me lo appiccica è qualche elitario scarsamente democratico, rappresenta la certezza di un sentiment diffuso contro quell’insediamento.

Non dubito nemmeno che il progetto creerà due partiti fieramente opposti, come è giusto che sia.
Da una parte i sostenitori dell’iniziativa, e questo è ovvio, ma credo con un largo seguito popolare, e questo sarebbe estremamente positivo, almeno per un populista come me.
Dall’altra una parte del mondo della cultura, specie architetti, alcuni in buona fede, i più per pura ideologia, per abitudini consolidate, come dice Ciro Lomonte nell’articolo, per un pregiudizio di appartenenza al gruppo della figliolanza di Gregotti.
Poi ci sono gli imprenditori. Beh, loro sono importanti, anzi fondamentali, ma è sicuro e normale che giudicheranno in base al loro interesse imprenditoriale, quindi dovranno essere i numeri a convincerli, oltre alla vendibilità del progetto, al suo appeal. Certo, i tempi non sono proprio quelli adatti agli investimenti.


Comunque vada, che le mie previsioni siano giuste o sbagliate, quello di cui sono sicuro è, anche dopo aver visto quelle immagini del Corviale, che tutte le opinioni possono essere rispettabili, ad eccezione di quella di mantenere una testimonianza storica di un periodo. E’ un lusso che non ci possiamo né dobbiamo permettere sulle spalle e sui dolori degli altri. Per essere autorizzati solo a pensarlo, a prescindere dal fatto che l’operazione possa o meno prendere avvio, è necessario che si assumano in prima persona l’impegno solenne di andarci a vivere, cioè abitare, lavorare, divertirsi, tanto per rimanere in tema. Viceversa, tacciano e tornino a rimirarsi il proprio ombellico.

PS
Ancora non ho informazioni su come si sia svolto l’incontro. Immagino che domani troveremo notizie e comunque mi saranno comunicate.

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18 marzo 2012

IL GREGOTTI SCATENATO

Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.

Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman

Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.

Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.

Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.

Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.

In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.

Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.

L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.

Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.

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14 gennaio 2012

SCELTE URBANISTICHE ROMANE E CENTRI COMMERCIALI

Un nuovo post di Ettore Maria Mazzola dedicato alle scelte urbanistiche di Roma, con principi validi però per ogni città.

Sulle recenti scelte urbanistiche per Roma e sul pericolo derivante dai centri commerciali
di
Ettore Maria Mazzola


Sin dal giorno dopo la sua elezione, l’attuale sindaco di Roma si è distinto – e per questo è stato giustamente criticato su tutti i fronti – per le sue scelte contraddittorie, in totale disaccordo con le promesse della campagna elettorale. L’impressione generale che oggi si ha di Alemanno è quella di un sindaco perfettamente allineato con le scelte dei suoi due predecessori, ma con un’aggravante: mentre Rutelli e Veltroni, accecati da una visione distorta della modernità che si chiama “modernismo”, sono sempre rimasti coerenti nella loro idea di violentare la città, mettendola in mano agli immobiliaristi e alle archistar, Alemanno è invece andato contraddicendosi giorno per giorno, perfino all’interno della stessa giornata, come in occasione della conferenza sul futuro di Roma che si tenne nel 2009 presso l’Auditorium di Renzo Piano.


Inoltre, mentre Rutelli e Veltroni si erano ben organizzati a livello “culturale” per poter mettere in atto gli scempi peggiori che Roma abbia potuto registrare dal fascismo ad oggi, Alemanno, circondatosi di personaggi di dubbia cultura, s’è fatto cogliere con le mani nella marmellata diverse volte, dal parcheggio di Largo Perosi, alla sistemazione di Piazza San Silvestro, dal sottopasso dell’Ara Pacis, al taglio dei platani di Tor di Quinto, per non parlare delle “geniali trovate ambientaliste” sui grattacieli e sulla Formula 1, fino alla recente storia dell’albero di Natale in Piazza Venezia … ma la lista potrebbe estendersi.
Nel frattempo, la politica della giunta Alemanno ha portato la città ad un degrado mai registrato prima: le strade versano nel più totale stato d’incuria, Roma è più sudicia che mai, gli omicidi hanno subito un’impennata, gli autobus, specie nelle giornate festive, sono sempre più scarsi, e i cittadini si sentono abbandonati a se stessi, nonostante le presunte promesse di sicurezza!

Se il sindaco avesse davvero voluto distinguersi dai predecessori, e se davvero avesse avuto a cuore la qualità della vita e la sicurezza dei cittadini, avrebbe potuto evitare la realizzazione di 16 nuovi centri commerciali che, sommati ai 22 già esistenti, faranno quota 38!

Il proliferare dei centri commerciali è un danno gravissimo alla qualità della vita perché, annientando il commercio lungo le strade, toglie sicurezza alle stesse. Queste strutture inoltre, obbligando all’uso dell’automobile, acutizzano quelle emissioni nocive per le quali, paradossalmente, il sindaco finge di preoccuparsi organizzando le giornate a targhe alterne e le domeniche a piedi, che servono solo a portare portano solo disagio tra i cittadini e non migliorano un bel nulla … visto che le auto più inquinanti sono proprio quelle di ultima generazione, e visto che i mezzi pubblici risultano del tutto insufficienti!

Ma come è possibile – nel bel mezzo della più grave crisi finanziaria voluta dal sistema di strozzinaggio manovrato dagli oligarchi delle grandi banche internazionali – che il sindaco e i suoi consiglieri non si accorgano che realizzare queste strutture risulti utile solo a fare aumentare il debito di tutti gli stupidi pesci che abboccheranno all’esca? Tutti i centri commerciali, romani e non, dimostrano l’insufficienza delle reti di trasporto atte a sostenere i volumi di traffico richiamati certe strutture … né, di certo, le infrastrutture (strade, parcheggi, illuminazione, ecc.) vengono realizzate a spese di chi promuova e apra i centri commerciali!

Delle problematiche economiche ed urbanistiche connesse all’apertura dei centri commerciali ho comunque già detto in abbondanza negli ultimi articoli pubblicati su De Architectura e AffariItaliani.it, pertanto in questa sede, nella speranza che il sindaco e il suo entourage leggano la notizia, mi limiterò a ricordare le ragioni per le quali possiamo affermare che un centro commerciale produca un danno serio alla sicurezza delle strade, nonché le ragioni per le quali la vigilanza armata, tanto cara ad Alemanno, non serva a nulla, se non ad aumentare le spese dei contribuenti.

In base a queste ragioni, proporrei al signor sindaco di pensare a reindirizzare quegli investitori che gli mettono pressione per la realizzazione di centri commerciali, verso un programma teso alla realizzazione di un “centro commerciale naturale diffuso”, ovvero lungo le strade dei quartieri meno centrali e periferici. Questo programma potrebbe operarsi in due modi:
1) il primo, di più immediata realizzazione, potrebbe operarsi trasformando tutti i vari “piani pilotis” delle palazzine e palazzoni periferici in negozi e botteghe, eliminando al contempo quegli “spazi di nessuno”, orribilmente recintati, posti tra gli edifici e i marciapiedi, questo potrebbe farsi mediante l’edificazione di strutture ad un piano – possibilmente porticate per agevolare il passeggio e lo shopping in caso di pioggia – che leghino tra di loro gli edifici “puntiformi” ricreando una continuità nelle cortine edilizie;
2) realizzando la stessa cosa in maniera più radicale, ovvero mettendo in pratica quei progetti di “ricompattamento urbano” che ho descritto nei miei libri (1), e che messo in pratica nei progetti sviluppati per il Corviale di Roma e lo ZEN di Palermo.

Come ho detto dunque, volendo spiegare ad Alemanno & co. le ragioni che ci inducono ad affermare il pericolo alla sicurezza causato dalla realizzazione di un centro commerciale, e volendo prevenire quelle stupide accuse di “passatismo” che la maggioranza di architetti ed ingegneri ideologicamente schierati vomiteranno, faccio appello ad un illuminante testo del 1961, in Vita e morte delle grandi città (2) di Jane Jacobs che, nel capitolo “Le funzioni dei marciapiedi”, articolato in “la sicurezza” e “i contatti umani”, diceva:

«Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata […] La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura».

Ed ecco il punto:
«Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve […] essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati ciechi. […] I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata.

[…] Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi, i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi
».

È incredibile quanto matura e attuale sia questa lettura critica della città modernista, nonostante si tratti di un documento pubblicato nel 1961! … Ma non è incredibile il fatto che a scriverlo non sia stato né un architetto, né un sociologo, bensì una giornalista illuminata. L’attualità di queste parole dovrebbe essere un monito per chi continua a pianificare la città in zone monofunzionali dove la vita non è di casa … Ora le è chiaro signor Sindaco?

Link:
Jane Jacobs
Strade 1°: Palladio e Jane Jacobs
Strade 2°: Jane Jacobs
Vita e morte della grandi città

Note:
1) Contro Storia dell’Architettura Moderna, Roma 1900-1940 - A Counter History of Modern Architecture, Rome 1900-1940, (Alinea Edizioni, Florence 2004); Architettura e Urbanistica, Istruzioni per l’uso - Architecture and Town Planning, Operating Instructions, prefazione di Léon Krier (Gangemi Edizioni, Rome 2006); Verso un’Architettura Sostenibile – Toward Sustainable Architecture prefazione di Paolo Portoghesi, (Gangemi Edizioni, Rome 2007); La Città Sostenibile è Possibile – The Sustainable City is Possible, prefazione di Paolo Marconi (Gangemi Edizioni, Rome 2010)
2) Tradotto e pubblicato in Italia nel 1969 a cura di Einaudi.

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29 ottobre 2011

STOP AL CONSUMO DI SUOLO O CONTRAZIONE DELLA CITTA?

Limitarsi allo Stop al Consumo di Territorio? O promuovere una restituzione “sostenibile” di parte dei terreni finora consumati?
di Ettore Maria Mazzola

Di recente, grazie anche all’operato di un sindaco illuminato come Domenico Finiguerra, sono nati in Italia diversi movimenti popolari atti a dire basta al consumo di territorio da parte dell’edilizia.
Della cosa, ovviamente, si sono interessati tutti tranne (o solo in maniera molto marginale) che gli architetti e gli urbanisti. La lezione morale che viene da quest’esperienza è comunque la dimostrazione della straordinaria volontà di partecipazione da parte della cittadinanza, stufa di essere posta a margine delle decisioni dalle quali può dipendere la propria qualità della vita e il proprio futuro! Del resto, studi sociologici come quello di Zigmunt Bauman (Voglia di Comunità – Laterza, 2005), dimostrano il desiderio di riappropriarsi della propria identità, e del senso di appartenenza ad una comunità, da parte della popolazione relegata al ruolo di spettatrice nella realtà che le viene costruita intorno ed in cui è costretta a vivere.


Per quanto mi riguarda, non solo ritengo che sia possibile non consumare più territorio, ma perfino che sarebbe possibile restituirne parecchio alla campagna. Ho affrontato il tema nel mio libro "La Città Sostenibile è Possibile" (Gangemi 2010) e nei progetti che ho sviluppato per la "rigenerazione urbana" di Corviale a Roma e dello ZEN di Palermo, mostrando come sia possibile "ricompattare la città dispersa" creando posti di lavoro, calmierando il mercato fondiario e immobiliare, e migliorando le condizioni socio-economiche di chi è costretto a vivere in "quartieri" spersonalizzanti.

Non si tratta di bloccare l'espansione, ma di promuoverne anche la contrazione. Non si può dire che non si deve costruire sul suolo demaniale, perché questo rischia di portare con sé l'espansione a macchia d'olio della città, sotto l'egida dei movimenti ambientalisti: è ciò che sta accadendo a Roma, dove il nuovo Piano Regolatore vieta di costruire su suolo pubblico, consentendo agli speculatori fondiari e immobiliari di acquistare terreni agricoli e promuovere l'edificazione residenziale in luoghi sempre più lontani dal centro urbano, peraltro in assenza di un adeguato sistema di trasporto pubblico! Cosa ancor più grave è che la Regione e il Comune ipotizzino la realizzazione di quartieri di edilizia economica popolare e/o gli interventi di "mutuo sociale" in questi luoghi lontani da tutto e da tutti, giustificando la scelta con l’ormai noto slogan della necessità di realizzare alloggi per chi ne ha bisogno, dimenticando che quei “bisognosi” necessitano anche di contenere le spese di gestione della famiglia, ergo di risparmiare le decine di euro/giorno necessarie per il carburante delle auto da cui dipenderanno per recarsi al lavoro … ma questo sembra essere un problema loro, e non della società! Così come sembra non essere un problema per questi miopi politici, urbanisti e pseudo-ambientalisti, il costo di costruzione e di gestione di tutte le infrastrutture necessarie a rendere possibile città la cui estensione di strade e marciapiedi, reti, fognarie, acquedotti, elettriche, gas, telefono, e la cui potatura degli alberi (posti a margine per fingere una certa attenzione all’ambiente) gravano sul bilancio di tutti noi!

Se in realtà ci accorgessimo che, a causa di uno scriteriato modo di fare urbanistica generato dalla concezione idiota della "Città Funzionale", voluta e imposta da Le Corbusier (dietro la sponsorizzazione dell'industria automobilistica) per mezzo dalla Carta di Atene del 1933, il cosiddetto "sprawl" ha portato con sé strade molto più larghe del necessario, parcheggi perennemente inutilizzati, pseudo aree verdi (che di verde hanno solo l'erbaccia, e che vengono utilizzate dagli incivili per abbandonare lavatrici, materassi, divani e immondizie), allora ci accorgeremmo che potremmo mettere a disposizione parte dei terreni demaniali per contrarre le città, edificando ove possibile edifici tradizionali (ecocompatibili e a chilometri zero) atti a demolirne altri, dotando tutti i quartieri di luoghi per la socializzazione, giardini, parchi di quartiere, servizi, ovvero tutte quelle attività e luoghi che lo zoning ha impedito. In poche parole ci troviamo in una situazione dove potremmo ribaltare del tutto il problema denunciato da Giolitti nel 1909 parlando del crack finanziario del Comune di Roma:
«Se in principio, nel 1870, vi fosse stata un’Amministrazione comunale che, intuendo l’avvenire di Roma, avesse acquistato le aree fino a 5 o 6 km intorno alla città, ed avesse compilato un piano di ingrandimento, studiato con concetti molto elevati, oltre ad avere creato una città con linee molto più grandiose, avrebbe anche fatto un’eccellente speculazione».

Per dare qualche dato, nel progetto che ho sviluppato per Corviale, oltre ad aver inserito una serie di funzioni vitali (5 piazze poste in sequenza, tutte le scuole primarie e secondarie, municipio, cinema-teatro, ufficio postale, attività sportive, negozi, attività artigianali, centro culturale, chiesa, un enorme parco di quartiere, una serie di giardini con aree attrezzate per il gioco dei bambini e per gli anziani, ecc.), è stato possibile restituire alla natura 11 ettari di terreno! Inoltre è stato possibile inserire oltre 2000 nuovi residenti, necessari all'integrazione sociale. Tutto questo significa che, se l'operazione venisse effettuata direttamente dallo stato, visto che l'IACP è stato trasformato in ATER (Azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale), tornando a poter costruire in proprio gli edifici (anche per conto terzi) come prima del fascismo, piuttosto che limitarsi ad amministrare edifici di pessima qualità costruiti da imprese private, potrebbero azzerarsi i conti dell'edilizia residenziale pubblica: dalla vendita degli edifici speciali, negozi, attività artigianali e alloggi eccedenti, potrebbero addirittura guadagnarsi molti soldi reinvestibili in operazioni simili. Nel caso specifico di Corviale parliamo di una cifra compresa tra i 450 e i 518 milioni di euro! Altrettanto dicasi per lo ZEN, ma non posso anticipare i dati prima di aver presentato ufficialmente il progetto.

Per concludere, come ha scritto Italo Insolera: «in una città che ha l’edilizia come sua unica attività industriale, il deficit dell’amministrazione, già allora cospicuo, può essere sanato proprio con una diretta partecipazione in tale ramo di investimenti»

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1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


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17 maggio 2011

INTERVISTE A EISENMAN E GREGOTTI

Quasi contemporaneamente sono apparse due interviste a due diversi architetti: una sul Washington Post a Peter Eisenmann, l’altra a Vittorio Gregotti su Le Storie, RAI3, con un elemento comune: totale distacco tra vita pubblica e vita privata.
Peter Eisenman dichiara con onestà intellettuale, come direbbe qualcuno, con sfrontatezza, come direbbero altri, di aver progettato per i propri committenti case in un certo modo mentre la sua personale scelta è stata quella di dividere la sua esistenza tra due abitazioni: la prima è “un piccolo appartamento muto a New York con una cucina dove non c’è posto tra due persone”, la seconda una “meravigliosa vecchia casa del New England, in pietra, mattoni e piastrelle", che era un mulino del 18° secolo ed è costruita sopra una cascata. "Nessun architetto ha mai lavorato su di essa. Non si potrebbe progettarne una come questa. Accade nel tempo, come hanno fatto i successivi proprietari che l’hanno modificata per soddisfare i propri bisogni”.

Alla domanda del perché di questa scelta Eisenman risponde: “Sono immerso nell’architettura tutto il giorno, lavorando nel mio studio o insegnando”. E dopo “voglio tornare nella mia casa accogliente”.
Molto sincera ed anti-retorica, molto poco epica ed anche dissacratoria questa visione del mestiere di architetto.
Di particolare interesse la notazione che una casa diventa accogliente non a causa di un progetto ma grazie ad un processo nel tempo di cui l’architetto non fa parte ma in forza di successivi adattamenti e modificazioni da parte dei proprietari. Non è una scoperta, certamente, perché è sempre stato storicamente così, almeno fino a quando il forte inurbamento ha costretto a regolare in maniera minuziosa e perfino invasiva le modificazioni e la crescita della città ma, detto da Eisenman, che ha progettato case immodificabili e certamente non intime e accoglienti, quali la serie 1-10 - e già il nome utilizzato per identificarle, anonimo e non riferito né ai luoghi né ai committenti la dice lunga - è addirittura stupefacente. E l’intervista prosegue con la sua storia personale che l’avrebbe portato a “non volere entrare nella tua vita”, cioè a non voler più progettare case private ma solo “icone pubbliche che la gente vada a vedere per poter dire: E’ grande”.

Ammetto di apprezzare lo spirito di quel “non voler entrare” nella vite degli altri, quasi una citazione del famoso film, perché progettare la casa di un altro è, in qualche misura, anche un atto di violenza, un dover spiare per decidere come quella persona dovrà vivere, una intrusione nel lato più intimo della sua vita privata e familiare.
Se è inevitabile ed anche gratificante progettare residenze, tuttavia avere almeno consapevolezza dell’importanza e della responsabilità di questo atto, può contribuire a cambiare il modo di porsi nei confronti dell’architettura e della professione.

Tuttavia rimane in Eisenman una contraddizione straordinaria e lampante, che mi è perfino difficile immaginare non sia arrivato a cogliere, quella cioè di continuare a considerare l’architettura pubblica come spettacolo per i cittadini, quasi non fosse parte integrante della città al pari dell’edilizia privata, e non fosse portatrice ancor più che le residenze di valori simbolici e rappresentativi della collettività e della comunità cittadina. Se il problema nei confronti della residenza privata si pone, in prima istanza, nei confronti del singolo, quello dell’architettura pubblica si pone nei confronti di tutti e quindi l’approccio al progetto dovrà essere ancora più attento a non colpire la sensibilità della collettività e a fare in modo che il progetto sia il più condiviso possibile. Quella frase, che può prestarsi, interpretandola in modo molto benevolo, anche ad una interpretazione diversa e positiva, vale a dire l’attenzione dovuta ai progetti di quelli che Marco Romano chiama i temi collettivi, se collegata ai progetti e alle idee di Eisenman non può che essere letta come la consueta esaltazione dell’architetto che vuole stupire e meravigliare per far esclamare “E’ grande”, riferito evidentemente all’autore più che all’opera.

Come è possibile che un progettista dichiari di preferire vivere in case tradizionali e quasi da edilizia spontanea, arrivando a rigettare l’idea stessa dell’intervento dell’architetto per queste, ma contemporaneamente si dedichi alla realizzazione di opere pubbliche con un genere di progetti opposto, tutti improntati a forme estranee non solo alla tradizione ma a qualsiasi idea di riconoscibilità di un edificio collettivo, se non per le maggiori dimensioni?

Per Gregotti il caso è diverso. Teniamo presente la nota intervista delle Jene in cui alla domanda se vorrebbe vivere allo Zen risponde, quasi cadendo dalle nuvole, che lui non è un proletario e quindi la domanda è priva di senso.
Gregotti è intervistato da Corrado Augias sul tema del suo ultimo libro, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, che ho cominciato a leggere, con grande fatica, in questi giorni. L’intervista è invece godibile. Gregotti fa osservazioni condivisibili, quali la mancanza di progetto nello sviluppo delle postmetropoli ma anche delle città minori, scopre con un po’ di ritardo, nel caso della conurbazione continua del nord-est, che le persone dimostrano il desiderio di una vita urbana, di vivere vicini l’uno all’altro ma allo stesso tempo di desiderare individualità e privacy, scopre perfino che in molte casi la città si sviluppa per zone a diversa composizione sociale. Tutto il discorso di Gregotti è impostato sulla necessità di una vita urbana e conclude con un appello all’umiltà da parte degli architetti, ironizzando sul loro desiderio di creatività. Come non essere d’accordo! Salvo dettagli, personalmente potrei sottoscrivere tutto.

Però, e qui c’è l’analogia e la differenza con Eisenman, Gregotti non ne trae alcuna conclusione di tipo personale, come, almeno per il tema residenza, fa Eisenman.
Non è il giudizio morale che interessa, almeno a me, ma le differenze tra due modi di intendere il proprio lavoro, la propria disciplina e la differenza abissale con cui i due “Maestri” pongono se stessi rispetto a questa:
- Eisenman è consapevole di essere quello che è, cioè un’archistar famosa e venerata, una vedette dello spettacolo mediatico dell’architettura, dello show-business. Lo dice, lo dichiara, non ha retro pensieri e non nasconde questo suo essere icona de-costruttivista che ha fatto scuola. Dice, basta saper leggere, che la sua architettura non è fatta per gli uomini, non è fatta per abitare perché lui cerca altro. Dunque chi lo segue dispone di tutte le informazioni per poter scegliere consapevolmente e per capire che la sua architettura è altro dalla costruzione della casa e della città per l’uomo.

- Gregotti, al contrario, dice cose ragionevoli, si mostra preoccupato per lo stato dell’architettura e per le condizioni in cui versano le città, grida contro l’estrema personalizzazione dell’architettura stessa e nel libro, come nell’intervista, denuncia la perdita della forma della città e la fine dell’idea stessa del progetto e del piano, denuncia la divisione della città per classi sociali ma non ne trae alcuna conseguenza. Non indica una strada possibile e credibile, non dichiara i suoi errori passati, pontifica quasi che lui non avesse lasciato un segno non positivo negli anni passati con le sue opere e con la sua azione culturale da direttore di Casabella e da punto di riferimento di una fetta importante della cultura architettonica per circa un ventennio. Nella sua risposta in cui mostra “stupore” alla domanda se lui avrebbe voluto abitare allo Zen c’è tutta la diversità con la cultura di Eisenman in cui è invece possibile trovare sì cinismo ma è impossibile negare consapevolezza del proprio essere e onestà intellettuale.

Gregotti è all’opposto l’esempio di una cultura italiana elitaria, algida e cristallizzata nelle proprie convinzioni, chiusa al mondo esterno tanto da non avere remora alcuna a dichiarare che lui “non è un proletario” per cui il problema non si pone proprio.
Da Eisenman un giovane studente o architetto dotato di cervello e capacità critica può difendersi rifiutandone i principi di fondo oppure sposarne le convinzioni; da Gregotti è più difficile, perché il potere elitario e carismatico che attribuisce all’architetto induce a credere che progetti come quello dello Zen siani giusti per il solo fatto che lo ha stabilito l’architetto. Quel tipo di progetto sarebbe giusto per quel tipo di classe sociale e non per tutti gli uomini. Evidentemente attribuisce una diversità antropologica al proletario e al borghese, in base alla quale le due classi non hanno diritto alla stessa qualità della vita, non hanno le stesse necessità, gli stessi desideri, le stesse aspettative, le stesse umane debolezze.
Gregotti cristallizza e condanna ognuno ad appartenere alla sua classe sociale d'origine. Parla e scrive di marxismo, ma di un marxismo di tipo gregottiano e, aggiungerei, italiano. Roba da buttare alle ortiche.

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9 maggio 2011

L'ORA DELLO ZEN

Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.

L'ORA DELLO ZEN
Visitando nel 1983 lo ZEN 2 di Palermo, René Furer, docente di Gestaltungstheorie dell’ETH di Zurigo, si chiedeva se Vittorio Gregotti non fosse il migliore architetto italiano del momento. Più prudentemente, Ignacio Vicens y Hualde, professore di Proyectos Arquitectónicos della Universidad Politécnica di Madrid, nel corso di un’analoga visita del 1986 faceva notare che il linguaggio e i materiali adoperati erano più adatti a gente ricca, in quanto avrebbero comportato continue e costose opere di manutenzione.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.

Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.

Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.

A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE

La foto è di Guido Santoro

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6 maggio 2011

NOI PER LO ZEN

Il 5 maggio si è tenuta a Palermo la conferenza di Ettore Maria Mazzola sullo Zen, organizzata da Ciro Lomonte.
La conferenza ha ottenuto un successo straordinario, commentata e apprezzata da quotidiani e blog. Molti partecipanti e aderenti si sono autotassati per contribuire alle spese del progetto.
Chi volesse ulteriori notizie può cercare su facebook il Gruppo aperto "Noi per lo Zen", oppure seguire questo link:
http://www.facebook.com/home.php?sk=group_184784378235271&ap=1
Di seguito il testo dell'intervento di Ciro Lomonte:

Il colonialismo politico e finanziario è un cavallo di battaglia di Antonio Piraino.
A me preme sottolineare un’altra questione: la colonizzazione architettonica. Risulta paradossale che la Sicilia abbia prodotto un’arte con forti connotati locali, di grande originalità, mentre era governata da dominazioni straniere. Edoardo Caracciolo definiva “contaminazioni” alcune di queste peculiarità siciliane, ma in generale sono qualcosa di più: sono una serie di linguaggi nuovi e spesso unici.
Dopo essere stata “liberata” (si fa per dire) da Garibaldi e dai Savoia, all’Isola sono stati imposti modelli estranei alla sua tradizione e alla sua natura. Dal Piano Regolatore del 1877 in poi possiamo fare tanti esempi di colonialismo architettonico. Non dimentichiamo che il PRG del 1962 è stato il primo dell’Italia post bellica, sulla base della LUN del 1942. Lo zoning, i retini grafici che definivano le aree da costruire nella città, ritagliando indiscriminatamente, per es., i firriati delle ville di Piana dei Colli, sono un modello accademico che i professori della nostra Facoltà di Architettura hanno preso da fuori. Vito Ciancimino non ha fatto altro che sfruttarlo al meglio per i propri interessi.

Noi dobbiamo e possiamo reagire ad una colonizzazione di tal fatta, nell’urbanistica e nell’architettura. Anche per questo è consolante la crescita delle adesioni a questo nostro progetto: è – in embrione – la rivendicazione di una identità. Del resto il Gruppo Salingaros, di cui fa parte il prof. Mazzola (e di cui mi fregio di far parte anch’io), attribuisce un valore notevole al coinvolgimento dei non specialisti di architettura nella progettazione dei luoghi in cui andranno a vivere e sui quali pertanto hanno pieno diritto di esprimere un parere. Abbiamo persino ipotizzato che negli stessi concorsi di architettura la giuria sia composta dai cittadini che, a vario titolo, hanno un legame con quell’edificio o quel brano di città.
Palermo è una metropoli strana rispetto alle altre quattro italiane: è nata da un’immigrazione interna, proveniente dalle aree agricole della stessa Isola e indotta dalla creazione nel dopoguerra dell’apparato amministrativo della Regione Siciliana, a fronte di una consistente emigrazione delle migliori menti della città verso il nord Italia o verso l’estero. Le altre metropoli italiane non sono così: hanno potuto difendere la propria identità e trasmetterla ai nuovi arrivati perché hanno mantenuto un consistente nucleo di cittadini originari del luogo (penso in particolare a Milano e Torino, oltre che a Roma).
Palermo ha riscoperto il proprio centro storico negli anni Ottanta. Il recupero di quella parte della nostra città (di cui però non condivido la filosofia estetizzante, che ne ha favorito indirettamente la trasformazione in un mosaico di ristoranti e di pub) ha tuttavia generato un nuovo spirito di appartenenza.
Comprendere lo scempio delle periferie, visitarle (molti non le conoscono neppure), rivisitarle da un punto di vista strategico, è un ulteriore passo avanti in questo sviluppo di una coscienza dell’essere palermitani. È un segnale forte, è un fattore di speranza.
Un amico mi faceva notare che i palermitani hanno un cuore grande, si entusiasmano solo quando si lanciano in imprese audaci. Imprese che abbiano un carattere di esperienza universale. Altrimenti si immalinconiscono, come avviene tutte le volte che si chiudono nella gestione – per caste chiuse – di affari che denotano un deprecabile provincialismo. Di fatto in questa città si respira da tempo un disincanto, una sfiducia, una tristezza che è causa di intensa sofferenza. Questa è la ragione per cui rimango colpito dalla vostra partecipazione di oggi, dal contributo anche economico di molti, che mi fa dire:
"Sono orgoglioso di essere siciliano!"

Ciro Lomonte
(intervento al convegno del 5 maggio 2011)

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28 aprile 2011

CONFERENZA: RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

Giovedì 5 maggio • 18.30 - 21.30
Palermo, Hotel Wagner
La conferenza è organizzata dal movimento "Noi per lo ZEN" promosso da Antonio Piraino, Ciro Lomonte e Anna Brignina


Interverranno:
  • Prof. arch. Ettore Maria Mazzola, professor of Traditional Urbanism, Architecture and Building Techniques presso la University of Notre Dame School of Architecture, Rome Studies e Vice Presidente del Gruppo Salìngaros
  • Padre Miguel A. Pertini, Parroco dello ZEN

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12 aprile 2011

ITALIA NOSTRA, NICOLA EMERY E LA CITTA' COME BENE COMUNE

Una serie di coincidenze mi ha portato in questi ultimi giorni ad imbattermi nel medesimo argomento, su libri e sul web, intorno alla definizione di città come bene comune.
Non apprezzo molto questa espressione, non perché non ne condivida il significato letterale, che anzi sono un convinto assertore del fatto che la città appartiene a tutti e quindi è un bene comune, ma per il fatto che è una definizione ultimamente troppo abusata in politica e rischia, dietro questo suo significato primo, di portarsene altri più ambigui o diversi.

Dove mi sono imbattuto in questa espressione? Prima in un libro, dal titolo tanto lungo per quanto è breve il testo, di Nicola Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’abitare, Casagrande. Poi in un decalogo di Italia Nostra nazionale, arrivato ieri per e-mail dal sito Sarzanachebotta, redatto con il contributo di cinque conosciuti urbanisti italiani, sul tema “La città è un bene comune”.
I cinque urbanisti sono: Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi, Paolo Berdini. Mi è sembrato di capire che l’iniziativa del decalogo sia nata a seguito, o in coincidenza, non ha molta importanza, di un convegno in cui i suddetti urbanisti hanno tenuto le loro relazioni.

Ho letto l’editoriale su Eddyburg da cui ho dedotto che la mia diffidenza sulla città come bene comune è ampiamente giustificata. E’ bene intendersi: Eddyburg è un sito autorevole, schierato politicamente ma in maniera limpida, serio nelle sue analisi, una parte delle quali non possono non essere condivise; però non c’è dubbio, proprio leggendo quelle analisi, che bene comune connota chiaramente una posizione politica e si trascina dietro risposte e un atteggiamento culturale nei confronti della città che personalmente non condivido perché trascura, come ha sempre trascurato, il tema principale della città, cioè il suo disegno, la sua forma e le conseguenze che i progetti sbagliati comportano su chi li subisce. Naturalmente questa è una generalizzazione perché in realtà Cervellati ha affrontato, con la sua esperienza a Bologna, il tema del centro storico sotto il profilo tipologico e non a caso (lo ha raccontato lui stesso) si è fatto qualche nemico.

Nicola Emery, invece, affronta da filosofo il tema dell’etica in architettura per arrivare a stilare una premessa filosofica ad un Codice deontologico dell’architettura che inizia così:
Lo spazio è un bene comune: pianificatori, architetti e costruttori hanno il dovere di progettare e costruire rispettando questo bene che deve andare a vantaggio di ognuno.

L’ultima coincidenza sta nel fatto che proprio in questi giorni mi sono interessato delle Vele di Scampia, del loro auspicabile abbattimento, della reazione di una buona parte della cultura ufficiale a questa proposta e quindi del rapporto tra forma della città e comportamenti sociali nonché del ruolo che i cittadini devono avere nelle scelte per la città, proprio in quanto bene comune.
Il decalogo di Italia Nostra nazionale è il seguente:

Non credo in questo caso di poter essere accusato di faziosità se dico che, oltre ad avere una impostazione politica fortemente caratterizzata “a sinistra”, propone solo soluzioni “quantitative” e generiche, quali il “recupero delle immense periferie degradate cresciute negli ultimi decenni”.

E’ vero che è un decalogo e non un trattato, ma quale tipo di recupero si intende? E quel generico “negli ultimi decenni” - che se letto insieme all’articolo su Eddyburg è riferibile al periodo dagli anni ’80 in poi, anni di Craxi, della Tatcher e di Reagan - tutto giocato in chiave esclusivamente politica senza nessun accenno a quello direttamente urbanistico delle teorie moderniste sulla città, non lascia forse qualche dubbio che si tratti di una operazione squisitamente politica?
E quel decimo punto, la “partecipazione di cittadini e associazioni alle scelte urbanistiche”, non appare un po’ troppo di maniera in quel voler rimarcare la presenza di associazioni, ritenendo evidentemente, i cittadini da soli un po’ meno rappresentativi?

Vorrei domandare a Italia Nostra nazionale cosa ne pensa delle Vele di Scampia o dello Zen o di Corviale.
Mi piacerebbe sapere se la demolizione è da demonizzare oppure se è una delle opzioni possibili, almeno in qualche caso.
Mi piacerebbe sapere se Italia Nostra e i cinque urbanisti ritengano che anche gli anni ’70 abbiano prodotto immense periferie degradate oppure se quelle dei Piani di Zona e dei PEEP siano buone per il solo fatto di essere pubbliche e non frutto dell’urbanistica contrattata.
Vorrei sapere se l’urbanistica consociativa sia migliore di quella contrattata e se abbia prodotto splendide città dove la gente vive felice!
Vorrei sapere se Italia Nostra ritiene che il problema fosse, negli anni ’70, solo dare un tetto (metaforicamente perché di tetti neanche… l’ombra) oppure una casa, con tutti i suoi attributi connessi. E sarei davvero curioso di sapere se l’urbanistica degli standard e dei servizi (pubblici, perché il privato è escluso al punto 4) è quella che viene riproposta oggi. E, ad esempio, il negozio di alimentari o il bar o l’edicola di giornali rientrano nell’iniziativa privata oppure c’è tolleranza per un limite dimensionale entro cui questa è ammessa, al pari della Cina ai tempi di Mao?
Davvero stupefacente questo decalogo: sembra una voce dall’oltretomba, un tuffo nel passato, un ricordo di una giovinezza che non è più!

Di diverso tono è l’analisi di Nicola Emery, tutta giocata sull’idea di un’architettura che ha “un suo alto mandato sociale”. Partendo da Platone e passando per Vitruvio, probabilmente forzando un po’ il pensiero di entrambi, Emery riconosce che l’architettura, in quanto “arte utile”, non può limitarsi all’“essere-in-sé”, cioè un’arte autoreferenziale al servizio dei soli architetti, ma all’”essere-per-gli-altri” che “nei casi peggiori può rovesciarsi in un suo essere-contro-gli-altri. Non è forse questo capovolgimento d’essenza a prendere disgraziatamente forma nei così detti eco-mostri?”.
Cos’è che non mi convince del tutto nella tesi di Emery? Il fatto che facendo ricorso a Platone e alla sua affermazione che la città è come un pascolo, e come tale dovrà essere costruito in modo da “risultare nutriente e sano”, mi sembra che non afferri e non dimostri appieno la necessità della città come “bene condiviso”, risultando alla fine un discorso un po’ moralistico e retorico in base al quale gli architetti, dovrebbero rinunciare a gran parte del proprio essere-per-sé (atteggiamento archistar, tanto per intenderci) a vantaggio dell’essere-per-gli-altri.
Manca, a mio avviso, una spiegazione razionale intrinseca all’essenza stessa della città, che è bene comune in quanto spazio e luogo in cui si svolge la vita dell’uomo come essere sociale, che necessita dunque di rapporti con gli altri. La città è il luogo di scambio sociale e di relazione per eccellenza, il luogo in cui ognuno entra in rapporto con gli altri; la città è un organismo sociale di persone, la quale deve essere regolata da leggi specifiche che garantiscano ad ognuno il massimo della libertà senza invadere la libertà altrui.
A me sembra invece che la metafora del pascolo, ancorché efficace, lascia trasparire una gerarchia precisa: il pastore e il gregge, dove la legge la detta il primo. E questo in perfetta sintonia con lo spirito de la Repubblica (di Platone, non del quotidiano….)che non concede molto alla democrazia ma auspica il governo dei filosofi. Insomma, preferisco un'etica che sia intrinseca alla disciplina stessa e non un'etica basata su generiche buone intenzioni.

Quindi il termine bene comune è applicabile indifferentemente ad una città governata in modo autoritario e a quella governata in modo democratico. Personalmente preferisco bene condiviso, che significa che occorre un dialogo, uno scambio di opinioni, una lotta politica per mettersi d’accordo sulla forma della città.

E le Vele, che c’entrano le Vele? C’entrano perché Emery, con Platone e Vitruvio, ritengono che la forma città eserciti un’influenza sul benessere o malessere delle persone e incidano sui comportamenti individuali e collettivi.
Scrive Emery: “Assumendo l’idea dello spazio come bene comune, l’architettura può cercare di offrire spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà, spazi che con i loro pieni e i loro vitali vuoti significano altrettante offerte per mescolare in modo proporzionale i diversi. Addirittura, come si legge ancora in Platone, dovrebbe disegnare spazi per far crescere universali legami fraterni…..”.

Anche in questo caso prevale la forma e la sostanza retorica, non si sa se dovuta più a Platone o a Emery, ma comunque il significato è abbastanza chiaro. Riferendoci alle Vele potremmo dire che queste non non offrono spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà e il loro disegno non fa crescere legami propriamente fraterni.
E Italia Nostra nazionale che c’entra con le Vele? Mi piacerebbe davvero saperlo, anche se una vaga idea me lo sono fatta.

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