Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


28 aprile 2011

CONFERENZA: RIGENERARE LE PERIFERIE URBANE

Giovedì 5 maggio • 18.30 - 21.30
Palermo, Hotel Wagner
La conferenza è organizzata dal movimento "Noi per lo ZEN" promosso da Antonio Piraino, Ciro Lomonte e Anna Brignina


Interverranno:
  • Prof. arch. Ettore Maria Mazzola, professor of Traditional Urbanism, Architecture and Building Techniques presso la University of Notre Dame School of Architecture, Rome Studies e Vice Presidente del Gruppo Salìngaros
  • Padre Miguel A. Pertini, Parroco dello ZEN

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27 aprile 2011

ROB CARTER REMIXA LE CORBUSIER

Stone on Stone [CLIP] from Rob Carter on Vimeo.

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23 aprile 2011

PIERO DELLA FRANCESCA: RESURREZIONE - SANSEPOLCRO (AR)

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22 aprile 2011

GIORGIO VASARI: DEPOSIZIONE- CASA VASARI, AREZZO

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20 aprile 2011

VITA E MORTE DELLE GRANDI CITTA'

Un link ad un articolo tratto dal CHICAGO BLOG di Oscar Giannino, legato all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si definisce, ed è, liberale, liberista e mercatista.
Si tratta del ricordo di Jane Jacobs in occasione della sua morte avvenuta nel 2006 scritto da Stefano Moroni.
Un'altra dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che urbanistica e politica corrono su strade parallele che spesso si incrociano: l'urbanistica influenza la vita degli uomini e molte delle sue scelte hanno valenza politica, sia per il metodo, che ad esempio può oscillare dal massimo della partecipazione al massimo dell'autoritarismo, sia nel merito, che riguarda più specificamente la forma della città e l'organizzazione dello spazio e quindi il modo in cui si possono instaurare le relazioni personali, sociali ed economiche tra i cittadini. Insomma i rapporti reciproci tra le due discipline sono davvero molteplici e difficilmente riassumibili in poche righe, restando tuttavia fermo il fatto che l'urbanistica ha una sua autonomia disciplinare, culturale e tecnica da cui non si può prescindere se non si vuole sconfinare nel puro sociologismo di cui, peraltro, è stata imbevuta soprattutto nel secolo scorso.

Questo il link:

di Stefano Moroni


Post precedenti su Jane Jacobs:
Jane Jacobs
Jane Jacobs -2 - Strade
Strade 1 - Palladio e Jane Jacobs

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19 aprile 2011

EDDYBURG CONFERMA LE MIE IPOTESI

Oggi Eddyburg mi viene incontro confermando "aldilà di ogni ragionevole dubbio" le mie considerazioni fatte nel post su Italia Nostra in ordine alla svolta decisamente a sinistra di questa associazione, almeno nel suo organo nazionale. Infatti oggi il sito pubblica un articolo di Asor Rosa che conferma la sua speranza di sospensione della democrazia parlamentare da ottenere con Carabinieri e Polizia, già manifestata nel famigerato articolo del Manifesto.
A qualcuno potrebbe sembrare un argomento estraneo a questo blog, ma così non è per due motivi:

1) Italia Nostra nazionale si occupa di città, come questo blog
e
2) la democrazia è nata nella polis greca, cioè nella città. E nella città,  nella mia città, deve continuare a vivere. Se qualcuno la attenta interessa anche a me, non tanto come blogger ma come cittadino.

Pietro Pagliardini

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17 aprile 2011

PRESTINENZA PUGLISI SDOGANA LA "GENTE"

Luigi Prestinenza Puglisi, nel supplemento a Il Fatto Quotidiano del 15 aprile, nella sua recensione alla mostra Le città di Roma all’Ara Pacis, scopre che le periferie romane, fotografate senza alcuna presenza umana, come fossero cioè “natura morta” (parole sue), appaiono “devastanti”. Per la precisione scrive:
Il risultato per chi non è appassionato di immagini potrebbe essere devastante”. (1)
C’è da immaginare quanto possano apparire gratificanti a chi ci abita! E infatti anche LPP si pone questo problema e domanda, prestando la sua voce all’abitante:
Ma al Corviale o a Vigne Nuove potrei andarci ad abitare proprio io?”.
Il punto di vista della gente (sì proprio della gente), insieme a quello del critico, fa capolino nella critica architettonica: è uno scoop!


Ma non finisce qui. LPP continua affermando che la mostra è un boomerang per gli organizzatori (2) ma ammette che:
Il compito era disperato: si trattava di mettere insieme i costruttori romani, un’amministrazione di destra e la cultura di sinistra”.
Altro scoop: la cultura di sinistra è responsabile di quelle insane periferie. Chi l’avrebbe detto! Anche se non capisco perché dovrebbe essere un boomerang per il Comune che, almeno teoricamente, dovrebbe avere tutto l’interesse a prendere le distanze da quei progetti posto che l’attuale giunta non può certamente essere ritenuta responsabile di opere realizzate negli anni 70/80. Ma forse bisogna essere dentro le cose romane per capirlo. Lo scoop però resta.

Da ultimo, dopo i fuochi artificiali, il botto finale: l’unico progetto che “spicca in absentia” è la Tor Bella Monaca di Léon Krier, “strapaese dineylandiano” che “invece che acquietarsi con nature morte, si confronta almeno con un bisogno della gente”.
Inverosimile, inimmaginabile: si comincia a leggere e interpretare la gente con i suoi bisogni. Ci si avvicina, con nonchalance, con una frase buttata lì come fosse normale in questo mondo del tutto a-normale dell’architettura, a dire che la gente ha dei bisogni legittimi.
La diversità antropologica tra architetti e cittadini si attenua. Si dà per scontato, finalmente, che l’architettura “disneylandiana” non va giudicata solo per quello che appare superficialmente ma in quanto proiezione di un desiderio di tradizione e/o di classicità, di valori sicuri e condivisi che si è potuto fino ad oggi esprimere solo entro le proprie mura domestiche con la cucina rustica, i mobili in stile, gli archetti di forati nei corridoi, il camino in pietra o mattoni, la trave finto legno e tutto l’analogo, ingenuo repertorio ai più ben noto, e all’esterno negli archi in c.a. parossisticamente ribassati tanto da sembrare stretchati per errore con Photoshop.
Si dà per scontato che esista anche una cultura popolare e che ha una sua dignità degna di attenzione.

Qualunque cosa pensi realmente LPP - che in questo scritto breve lascia sempre, e molto abilmente, uno spiraglio ad una doppia lettura - non è dato sapere con certezza, tuttavia non c’è dubbio che ha fatto entrare in scena ufficialmente, tra l’architetto e il progetto, il terzo incomodo, il convitato di pietra, il grande assente, cioè il negletto uomo comune, il committente anonimo, l’abitante sconosciuto, colui che è costretto a subire il progetto della città, del quartiere, della casa e, non avendo altra scelta, in quanto relegato in stato di minorità culturale dall’Architetto, dalle riviste, dai magazine, dalle collane Grandi Architetti distribuite a prezzi popolari in edicola, esprime i suoi desideri, i suoi gusti estetici, le sue fantasie nel privato o nell’outlet village toscano o romano o ticinese.

Vale la pena seguire LPP per capire meglio e trovare ulteriori conferme.
Noi(3) che abbiamo sempre considerato la gente l’attore principale della commedia, più spesso della tragedia urbana, registriamo questa piacevole novità.


Note:
1) Da notare la sottigliezza: non ha scritto l’architetto, ma l’appassionato di immagini!
2) Promotore dell’iniziativa: ACER, associazione dei costruttori romani – Padrone di casa: Comune di Roma – Curatori: Piero Ostilio Rossi, Francesca Romana Castelli – Allestitore e critico: Pippo Ciorra
3) Noi non è pluralis maiestatis ma sta per tutto quell’ampio movimento culturale che viene banalizzato e divulgato con il nome di antichisti, in opposizione a modernisti. Non è un bel nome nelle intenzioni di chi lo usa, ma a me piace.

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12 aprile 2011

ITALIA NOSTRA, NICOLA EMERY E LA CITTA' COME BENE COMUNE

Una serie di coincidenze mi ha portato in questi ultimi giorni ad imbattermi nel medesimo argomento, su libri e sul web, intorno alla definizione di città come bene comune.
Non apprezzo molto questa espressione, non perché non ne condivida il significato letterale, che anzi sono un convinto assertore del fatto che la città appartiene a tutti e quindi è un bene comune, ma per il fatto che è una definizione ultimamente troppo abusata in politica e rischia, dietro questo suo significato primo, di portarsene altri più ambigui o diversi.

Dove mi sono imbattuto in questa espressione? Prima in un libro, dal titolo tanto lungo per quanto è breve il testo, di Nicola Emery, Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell’abitare, Casagrande. Poi in un decalogo di Italia Nostra nazionale, arrivato ieri per e-mail dal sito Sarzanachebotta, redatto con il contributo di cinque conosciuti urbanisti italiani, sul tema “La città è un bene comune”.
I cinque urbanisti sono: Edoardo Salzano, Vezio de Lucia, Pier Luigi Cervellati, Maria Pia Guermandi, Paolo Berdini. Mi è sembrato di capire che l’iniziativa del decalogo sia nata a seguito, o in coincidenza, non ha molta importanza, di un convegno in cui i suddetti urbanisti hanno tenuto le loro relazioni.

Ho letto l’editoriale su Eddyburg da cui ho dedotto che la mia diffidenza sulla città come bene comune è ampiamente giustificata. E’ bene intendersi: Eddyburg è un sito autorevole, schierato politicamente ma in maniera limpida, serio nelle sue analisi, una parte delle quali non possono non essere condivise; però non c’è dubbio, proprio leggendo quelle analisi, che bene comune connota chiaramente una posizione politica e si trascina dietro risposte e un atteggiamento culturale nei confronti della città che personalmente non condivido perché trascura, come ha sempre trascurato, il tema principale della città, cioè il suo disegno, la sua forma e le conseguenze che i progetti sbagliati comportano su chi li subisce. Naturalmente questa è una generalizzazione perché in realtà Cervellati ha affrontato, con la sua esperienza a Bologna, il tema del centro storico sotto il profilo tipologico e non a caso (lo ha raccontato lui stesso) si è fatto qualche nemico.

Nicola Emery, invece, affronta da filosofo il tema dell’etica in architettura per arrivare a stilare una premessa filosofica ad un Codice deontologico dell’architettura che inizia così:
Lo spazio è un bene comune: pianificatori, architetti e costruttori hanno il dovere di progettare e costruire rispettando questo bene che deve andare a vantaggio di ognuno.

L’ultima coincidenza sta nel fatto che proprio in questi giorni mi sono interessato delle Vele di Scampia, del loro auspicabile abbattimento, della reazione di una buona parte della cultura ufficiale a questa proposta e quindi del rapporto tra forma della città e comportamenti sociali nonché del ruolo che i cittadini devono avere nelle scelte per la città, proprio in quanto bene comune.
Il decalogo di Italia Nostra nazionale è il seguente:

Non credo in questo caso di poter essere accusato di faziosità se dico che, oltre ad avere una impostazione politica fortemente caratterizzata “a sinistra”, propone solo soluzioni “quantitative” e generiche, quali il “recupero delle immense periferie degradate cresciute negli ultimi decenni”.

E’ vero che è un decalogo e non un trattato, ma quale tipo di recupero si intende? E quel generico “negli ultimi decenni” - che se letto insieme all’articolo su Eddyburg è riferibile al periodo dagli anni ’80 in poi, anni di Craxi, della Tatcher e di Reagan - tutto giocato in chiave esclusivamente politica senza nessun accenno a quello direttamente urbanistico delle teorie moderniste sulla città, non lascia forse qualche dubbio che si tratti di una operazione squisitamente politica?
E quel decimo punto, la “partecipazione di cittadini e associazioni alle scelte urbanistiche”, non appare un po’ troppo di maniera in quel voler rimarcare la presenza di associazioni, ritenendo evidentemente, i cittadini da soli un po’ meno rappresentativi?

Vorrei domandare a Italia Nostra nazionale cosa ne pensa delle Vele di Scampia o dello Zen o di Corviale.
Mi piacerebbe sapere se la demolizione è da demonizzare oppure se è una delle opzioni possibili, almeno in qualche caso.
Mi piacerebbe sapere se Italia Nostra e i cinque urbanisti ritengano che anche gli anni ’70 abbiano prodotto immense periferie degradate oppure se quelle dei Piani di Zona e dei PEEP siano buone per il solo fatto di essere pubbliche e non frutto dell’urbanistica contrattata.
Vorrei sapere se l’urbanistica consociativa sia migliore di quella contrattata e se abbia prodotto splendide città dove la gente vive felice!
Vorrei sapere se Italia Nostra ritiene che il problema fosse, negli anni ’70, solo dare un tetto (metaforicamente perché di tetti neanche… l’ombra) oppure una casa, con tutti i suoi attributi connessi. E sarei davvero curioso di sapere se l’urbanistica degli standard e dei servizi (pubblici, perché il privato è escluso al punto 4) è quella che viene riproposta oggi. E, ad esempio, il negozio di alimentari o il bar o l’edicola di giornali rientrano nell’iniziativa privata oppure c’è tolleranza per un limite dimensionale entro cui questa è ammessa, al pari della Cina ai tempi di Mao?
Davvero stupefacente questo decalogo: sembra una voce dall’oltretomba, un tuffo nel passato, un ricordo di una giovinezza che non è più!

Di diverso tono è l’analisi di Nicola Emery, tutta giocata sull’idea di un’architettura che ha “un suo alto mandato sociale”. Partendo da Platone e passando per Vitruvio, probabilmente forzando un po’ il pensiero di entrambi, Emery riconosce che l’architettura, in quanto “arte utile”, non può limitarsi all’“essere-in-sé”, cioè un’arte autoreferenziale al servizio dei soli architetti, ma all’”essere-per-gli-altri” che “nei casi peggiori può rovesciarsi in un suo essere-contro-gli-altri. Non è forse questo capovolgimento d’essenza a prendere disgraziatamente forma nei così detti eco-mostri?”.
Cos’è che non mi convince del tutto nella tesi di Emery? Il fatto che facendo ricorso a Platone e alla sua affermazione che la città è come un pascolo, e come tale dovrà essere costruito in modo da “risultare nutriente e sano”, mi sembra che non afferri e non dimostri appieno la necessità della città come “bene condiviso”, risultando alla fine un discorso un po’ moralistico e retorico in base al quale gli architetti, dovrebbero rinunciare a gran parte del proprio essere-per-sé (atteggiamento archistar, tanto per intenderci) a vantaggio dell’essere-per-gli-altri.
Manca, a mio avviso, una spiegazione razionale intrinseca all’essenza stessa della città, che è bene comune in quanto spazio e luogo in cui si svolge la vita dell’uomo come essere sociale, che necessita dunque di rapporti con gli altri. La città è il luogo di scambio sociale e di relazione per eccellenza, il luogo in cui ognuno entra in rapporto con gli altri; la città è un organismo sociale di persone, la quale deve essere regolata da leggi specifiche che garantiscano ad ognuno il massimo della libertà senza invadere la libertà altrui.
A me sembra invece che la metafora del pascolo, ancorché efficace, lascia trasparire una gerarchia precisa: il pastore e il gregge, dove la legge la detta il primo. E questo in perfetta sintonia con lo spirito de la Repubblica (di Platone, non del quotidiano….)che non concede molto alla democrazia ma auspica il governo dei filosofi. Insomma, preferisco un'etica che sia intrinseca alla disciplina stessa e non un'etica basata su generiche buone intenzioni.

Quindi il termine bene comune è applicabile indifferentemente ad una città governata in modo autoritario e a quella governata in modo democratico. Personalmente preferisco bene condiviso, che significa che occorre un dialogo, uno scambio di opinioni, una lotta politica per mettersi d’accordo sulla forma della città.

E le Vele, che c’entrano le Vele? C’entrano perché Emery, con Platone e Vitruvio, ritengono che la forma città eserciti un’influenza sul benessere o malessere delle persone e incidano sui comportamenti individuali e collettivi.
Scrive Emery: “Assumendo l’idea dello spazio come bene comune, l’architettura può cercare di offrire spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà, spazi che con i loro pieni e i loro vitali vuoti significano altrettante offerte per mescolare in modo proporzionale i diversi. Addirittura, come si legge ancora in Platone, dovrebbe disegnare spazi per far crescere universali legami fraterni…..”.

Anche in questo caso prevale la forma e la sostanza retorica, non si sa se dovuta più a Platone o a Emery, ma comunque il significato è abbastanza chiaro. Riferendoci alle Vele potremmo dire che queste non non offrono spazi favorevoli alla coesione e alla solidarietà e il loro disegno non fa crescere legami propriamente fraterni.
E Italia Nostra nazionale che c’entra con le Vele? Mi piacerebbe davvero saperlo, anche se una vaga idea me lo sono fatta.

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11 aprile 2011

DIVERSI PARERI SULLE VELE DI SCAMPIA

Di seguito alcune opinioni prese dal web sull'abbattimento delle Vele di Scampia. In rosso i miei appunti.


… Di fronte ai continui riferimenti al così detto “stravolgimento” del progetto, divenuto ormai una sorta di leggenda metropolitana ripetuta spesse per sentito dire, ritengo necessario ribadire, ancora una volta, che le modifiche apportate al progetto non c’entrano assolutamente nulla col processo di degrado che ha trasformato le Vele in un inferno abitativo.
Le cause sono ben altre e sono quelle che abbiamo esposte sulla stampa cittadina e, in particolare, nei miei libri "Dalle case collettive alle Unità urbane", Esi, 1996, e "Il Testimone", DenaroLibri, 2001……
Con il grande Riccardo Morandi chiamato a progettare le strutture antisismiche che dimostrarono tutta la loro solidità in occasione del terremoto del 23 novembre 1980…..(1)
Gerardo Mazziotti- Le Vele/2 – Un errore abbatterle, Repubblica 17 agosto 2006
1) E’ rassicurante cominciare con un sano benaltrismo, vero collante dell’unità nazionale, atteggiamento mentale utilissimo a svicolare su problemi e responsabilità. E’ anche interessante sapere che per dimostrare la bontà dell’esecuzione si porta a prova il successo il non essere crollate durante il terremoto. Come se tutte le case di Napoli fossero crollate e le Vele no!




Eppure, quello che per Saviano è un "simbolo marcio del delirio architettonico", per i docenti di storia dell'architettura, di restauro architettonico e per diversi sovrintendenti italiani è un "segno" da salvare, come lo sono stati anche altri segni del "male", come alcune architetture fasciste, e come lo sono il Corviale, lo Zen e molti altri quartieri ad alto tasso di degrado. E intendono opporsi a un nuovo abbattimento delle vele.(2)
Pierluigi Panza - Blog Fatto ad arte, 31 marzo2011
2) Ove si evidenzia che esistono due mondi incomunicabili: quello dei docenti e di diversi soprintendenti, cioè della cultura architettura ufficiale, e quello della gente. Ingiustificabile, dato che l’architettura è per la gente

Le Vele di Scampia non sono che un esempio fra molti di questa architettura inumana, totalitaria, tipica degli anni ’60 e ’70. Quando si scoprì che la thalidomidina induceva deformazioni nei feti umani, venne bandita dal mercato farmaceutico. Gli ecomostri invece continuano a ricevere l’appoggio fervente di un’intera classe di architetti alla moda, nonché di istituzioni che si vorrebbero responsabili della formazione di giovani professionisti. C’è più di un parallelo con quelle scuole di farmacologia dove s’insegnava che il Thalidomide era un buon medicamento contro la nausea provocata dalla gravidanza; ma quel crimine, con le conoscenze raggiunte, non lo si permette più. Perché allora tanto timore reverenziale, ancora, verso gli architetti famosi che promuovano gli ecomostri, e fanno finta che Corviale, Zen2, Vele e Tor Bella Monaca sono «bellissimi»? (3)
Nikos Salìngaros, Blog Fatto ad arte, 31 marzo 2011
3) Qui si narra dell’atteggiamento antiscientifico del mondo dell’architettura che rifiuta la verifica dell’errore. Prima hanno fatto gli esperimenti, non hanno funzionato, continuano a difendere l’errore. Condanna con le aggravanti specifiche.

Il portico, l'atrio, la scala, sono divenuti luoghi di pericolo, nuove carceri piranesiane, dove, nella penombra di ogni angolo, la microcriminalità può agire indisturbata.
È una cronaca amara e questo senza arrivare a scomodare i ceffi mascherati di Arancia Meccanica di Stanley Kubrick.
Così molta gente prova rimpianto per i tempi passati nei quartieri del centro antico dove la vita, pure svolta in un basso o in un buio monolocale, certamente però avveniva in un tessuto sociale più omogeneo e compatto, ove le relazioni interpersonali si svolgevano in uno spazio prossemico noto e controllato.
Questa diffusa condizione di malessere e di ripulsa per il proprio ambiente di vita, generata da uno spazio che ha la capacità di modificare e determinare i comportamenti degli individui che ospita, genera a sua volta delinquenza.
Il fallimento dell'Unità di Abitazione di Marsiglia di Le Corbusier, rimasta prototipo, così come il fallimento delle Vele di Scampia rappresentano la disgregazione dell'ideologia e della politica dello zooning, della città considerata come insieme di funzioni separate anche se poste in luoghi vicini.
La città antica, invece, garantiva l'integrazione sociale ed economica, aggregando negli stessi luoghi realtà di estrazioni diverse, anche culturali, oltre che sociali ed economiche. (4)
Enrico Sicignano, "Costruire in Laterizio" n° 65-1998, ripreso da www.progettoscampia.net
4) Togliere le persone dai vicoli , dalla città, per cacciarli dentro una utopica città nella città è stata una deportazione di massa. Le Corbusier non l’ho citato io. Descrizione e commento molto pertinente.

«Io distinguerei due livelli - continua Gizzi - l'aspetto architettonico-progettuale, cioè l'interesse architettonico, e il degrado sociale. Anche il fatto che abbiano fatto da sfondo a pellicole cinematografiche vuol dire che segnano una presenza, alla stessa stregua dei palazzoni della ex Berlino Est che hanno fatto da fondale a molte scene dei film di Wim Wenders» (5).
Stefano Gizzi, Soprintendete Napoli - da La Stampa
5) Distinguere i livelli significa negare la relazione tra l’architettura e la sua utilitas. E significa anche indifferenza verso chi ci abita. Per il resto, no comment, perché già fatto nel precedente post.

Daniele Sanzone abita a cinquanta metri dalle Vele ed è il cantante degli A67, formazione di crossover rock che nei suoi testi parla di degrado, camorra e, appunto, di Vele.
«Quelle - spiega - sono la metafora del male. Chiedete a chi ci abita, a chi ha perso un figlio o un amico che cosa bisogna fare. Abbattere le Vele significherebbe dare un segnale a tutti, ma non basterebbe. Bisogna fare tanto per questo quartiere, dalle case al lavoro. Qui tra amianto e topi crescono bambini e non è più tollerabile».(6)
Daniele Sanzone, da La Stampa
6) L’opposto del benaltrismo: si riconosce il problema, si trova la soluzione primaria e si allarga poi il discorso alla complessità degli altri numerosi problemi correlati.

E non è assolutamente vero che, per l'esigenza di ridurne i costi, la realizzazione delle Vele è cosa ben diversa dal progetto Di Salvo. E’ vero invece che, mentre erano ancora in costruzione, senza acqua, luce e fogne, la giunta Valenzi (nella quale probabilmente c'era già Siola in qualità di assessore) assegnò gran parte degli alloggi delle Vele ai terremotati del novembre '80 e ai senzatetto storici. Ed è vero, perché da me documentato, che la trasformazione del complesso in un inferno abitativo (direi di più: in una corte dei miracoli) è da contestare, non già a carenze progettuali o esecutive, ma alle varie amministrazioni comunali che l'hanno abbandonato a ogni forma di manomissioni (verande, edicole votive, box, eccetera), di trasformazioni (devastante la chiusura dei piani porticati con alloggi abusivi) e di vandalismi (le trombe degli ascensori sono state per anni utilizzate come depositi di rifiuti).(7)
Gerardo Mazziotti, Il denaro,it
7) Qui sia afferma che progetto ed esecuzione dello stesso non sono il problema. Il problema è l’abbandono da parte delle amministrazioni comunali che avrebbero dovuto accompagnare gli edifici come un genitore fa come i propri figli piccoli. Avrebbe dovuto, in sostanza, insegnare ad abitare.

“Ananke” è parola greca che vuol dire destino; quello delle Vele è stato fermato dal soprintendente Stefano Gizzi con la proposta di salvaguardia mediante dichiarazione di interesse culturale. Non un vincolo che mantenga in eterno la condizione attuale, bensì una leva per indurre un corretto restauro e il riutilizzo, nel rispetto di quello che aveva progettato l’architetto Franz Di Salvo, considerato uno dei migliori interpreti della lezione di Le Corbusier e di Kenzo Tange (le grandi “unità di abitazione” piccole città autosufficienti in tema di servizi), ossia qualcosa di ben diverso da ciò che fu realizzato fra il 1962 e il 1975, al punto da indurlo a ritirare la sua firma dall’opera. Le sue sette Vele prevedevano in tutto 6.500 vani, ma l’intero villaggio doveva essere dotato di scuole, teatri, cinema, centri sociali, spazi per il gioco e lo sport: nulla di tutto ciò fu realizzato né in contemporanea né dopo, e vi si rinunciò del tutto quando il terremoto del 23 novembre 1980 scatenò l’ennesima ondata di occupazioni abusive. Già l’insulso sistema di punteggi per l’assegnazione delle Case Popolari comportava il concentramento di quanto di più socialmente degradato; l’aggiunta dell’abusivismo, l’assenza di servizi elementari, provocarono da subito una miscela infernale, condita anche dal rapido degradarsi dei pessimi materiali: condense diffuse di umidità nonostante l’esposizione quasi totale al sole delle abitazioni, impermeabilizzazione carente, ascensori costantemente guasti nonostante altezze di 14 piani.(8)
l’Altro quotidiano.it – Iniziativa “Salviamo le Vele”
8) Qui si afferma esattamente l’opposto del punto 7. Evidentemente tutte le ragioni sono buone pur di assolvere il progetto

“Pessime da abitare ma di notevole qualità…stupenda opera di architettura” dichiara l’ex soprintendente Mario de Cunzo. (9)
Eleonora Putillo, L'altro quotidiano.it
9) Mario de Cunzo: precedente Soprintendente di Napoli. Vedi punto 5. Bisogna riconoscere una notevole coerenza ai Soprintendenti!!

E’ stato il progettista de “Le Vele” di Secondigliano coadiuvato da un pool di valenti tecnici - uno per tutti il noto Riccardo Morandi che ha studiato le strutture portanti - realizzando quell’interessante complesso demolito di recente senza scrupoli con l’assurda motivazione che l’Architetto era addirittura responsabile del degrado sociale e culturale in cui verte tutta la zona di Secondigliano. (10)
Alessandro Castagnaro, PresS/Tiletter
10) Filone: la colpa è sempre degli altri e io mi tappo gli occhi per non vedere

Quasi d' obbligo a questo punto la scelta di Garrone e Saviano e così le Vele per tre mesi sono diventate la Cinecittà della finzione camorristica. Da antologia, le scene della piscina sul terrazzo di una Vela e del ragazzo che corre nello spettrale corridoio al piano terra. Franz di Salvo e l' architettura napoletana avrebbero volentieri rinunziato a questo supplemento di notorietà. Sperano solo in un paradosso: che il prevedibile successo mondiale del film induca a conservare e restaurare almeno una Vela, se non come testimonianza di un progetto interessante e coraggioso, almeno come location d' elezione di un film di successo. (11)
Pasquale Belfiore, repubblica 22 maggio 2008
11) Io direi che gli abitanti avrebbero fatto volentieri a meno della pubblicità. Ma evidentemente sono un problema secondario.

In un primo momento il Comune intende localizzare in una delle Vele la sede della Protezione Civile e dei Vigili del Fuoco. Ma successivamente si decide così come chiesto dai comitati di abbattere tutte le vele. Comincia la lotta per la riqualificazione.(12)
Da una slide del filmato "Comitato di Lotta Vele Scampia"- http://www.youtube.com/watch?v=BNLAi1odkPE
12) C’è poco da osservare: gli abitanti ne vogliono l’abbattimento. Ci deve pur essere qualche ragione!

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7 aprile 2011

LE VELE DI SCAMPIA? UN MONUMENTO NAZIONALE!

L’intenzione di vincolare le Vele di Scampia da parte del Soprintendente Stefano Gizzi è lo specchio del distacco totale tra la cultura italiana e la realtà. Se si domandasse infatti a qualunque persona comune cosa pensa delle Vele e se andrebbe a viverci la risposta appare scontata.
Se si domandasse a Gizzi forse non risponderebbe come Gregotti per lo Zen, ma dubito risponderebbe affermativamente.
In Italia esiste una cultura che si auto-considera alta ma che non prova disagio a dire che quell’oggetto ha valore storico e architettonico. Gizzi giustifica questa scelta con due argomenti, tra gli altri, che sono significativi (Fonte: La Stampa):
1) le Vele sono state lo sfondo del film Gomorra e, come i casermoni della Germania est sono stati lo sfondo dei film di Wenders, hanno per ciò stesso un valore culturale in senso ampio.
2) uno studio commissionato anni fa dal Ministero dei Beni Culturali a varie università ha decretato il valore di quel progetto.

Si può immaginare quanto possano interessare a chi è costretto a vivere in un inferno i film di Wenders!
Le Vele sono considerate la scenografia di un film dai colori plumbei e i suoi abitanti le comparse di quel film. Il discorso di Gizzi è tutto concettuale in quanto gli edifici dell’Arch. Franz Di Salvo sono trattati come fossero un’idea astratta e ne parla al pari di oggetti d’arte, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che l’architettura esiste per assolvere alla funzione dell’abitare, cioè per accogliere al proprio interno persone che ci vivono e all’esterno persone che lo vedono e che si muovono nello spazio circostante.

Gizzi trascura del tutto il valore civile dell’architettura che significa che la città appartiene a tutti i cittadini, e quindi anche le sue case appartengono, in un certo senso, a tutti e non solo ai loro proprietari. Un edificio è costituito una parte privata, l'interno, e da una parte pubblica, l'esterno, e chi è proprietario di casa non è proprietario di tutta la casa o almeno non ha diritto assoluto su tutta la casa. Lo ha certamente per quello che riguarda l’interno ma l'esterno è parte integrante della città e appartiene a tutta la città ed è per questo motivo che il proprietario ha obblighi di decoro, se non di bellezza, nei confronti dei suoi concittadini.
La città è cioè un luogo e un bene condiviso tra tutti i suoi abitanti e con essa tutti gli edifici che insieme la compongono. Non è casuale che il Sindaco abbia il potere di emettere ordinanze per ripristinare il decoro di edifici in cattivo stato di manutenzione.

Tutto ciò deriva non solo dalla storia della città europea ma dall’essenza stessa della città, che è l’ambiente entro il quale si svolge la vita dell’uomo. Per questo motivo se un’architettura è brutta e indecorosa in quanto invivibile e anti-umana non è civile ma in-civile in quanto rompe e trasgredisce le regole della città e della società e chi abita in ghetti pubblici (vorrei sottolineare pubblici) come le Vele si trova, so malgrado, ad essere automaticamente ai margini della società. Gli abitanti di posti come questo, prescindendo del tutto dai loro comportamenti e dalla loro condizione sociale, sono bollati come emarginati. Quindi la bruttezza è emarginante.

Eppure per Gizzi, che è architetto e che, come quasi tutti gli architetti, ha probabilmente assimilato all’università l’ideologia modernista di Le Corbusier e C., l’ideologia della macchina per abitare, della macro-struttura, dell’oggetto che deve riassumere in sé tutte o quasi le funzioni urbane, del falansterio, cioè dell’anti-città e dell’anti-socialità, viene, prima di tutto, il progetto e il suo progettista, prescindendo da chi lo abita.

Gizzi, con questa sua intenzione di vincolo, perpetra nel tempo e congela, storicizzandolo, l’esperimento di ingegneria sociale fatto in corpore vili.
Il movimento moderno, nato come avanguardia culturale si è trasformato ormai da anni in un movimento reazionario di conservazione dell’esistente, in teoria regressiva.
L’architetto modernista rappresenta per la città quello che il filosofo rappresenta per la polis nella Repubblica di Platone, cioè il migliore che, per questo, è l'unico abilitato a governare. Una visione profondamente anti-democratica e politicamente anti-moderna, vecchia più che antica. Così come Platone irride alla democrazia della polis greca, ritenendo che essa porti, per la troppa libertà concessa agli individui, al disordine, i modernisti sono sostanzialmente contrari al fatto che i cittadini possano avere voce nella forma della città, dove deve invece governare il loro astratto e funebre ordine geometrico. L'architetto modernista si pone da solo sullo scranno del comando, in quanto migliore, per decidere le sorti della città. Il modernismo è quindi una forma attualizzata di platonismo privo però della grandezza del pensiero di Platone. E’ una brutale reazione anti urbana e politica, nel senso di polis. E' autoritarismo allo stato puro.
E dire che a coloro i quali ritengono che i cittadini siano abilitati a scegliere e decidere la politica della città, cioè la forma urbis, viene attribuito il termine di populisti! Evidentemente i modernisti non è che siano poi così culturalmente attrezzati come vogliono sempre far credere.

Il secondo argomento, quello del verdetto delle università, è la riprova di tutto questo, perché dimostra come sia proprio il sistema culturale dell’architettura e dell’urbanistica italiana ad essere rimasto fermo all’ideologia modernista, dichiarando il valore delle Vele. Gizzi non è un’eccezione ma è parte di quel sistema culturale che va profondamente trasformato nella speranza di riportare l’architettura al suo significato originario di casa dell’uomo e per l’uomo, contro un’architettura che è invece per l’architetto e dell’architetto, che ne fa un gioco autoreferenziale sulle spalle dei cittadini.

Una riprova del sistema? Il mese scorso si è svolto un dibattito sulle Vele di Scampia nell'ambito della Fiera d'Oltremare e il Soprintendente Gizzi era annunciato nella locandina come moderatore! E' come se in un processo il Pubblico Ministero facesse anche da  giudice.
Se ha una speranza l’architettura italiana è quella di rimettere ai cittadini le decisioni sulla città, perché è la civitas a dover decidere dell’urbs.

Auguriamoci che il Comune, come ha già annunciato, si opponga al vincolo: evitiamo almeno il ridicolo.

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5 aprile 2011

RAPIDA SINTESI SULLA ZONIZZAZIONE

Ho trovato su Slideboom questa sintesi sullo zoning di cui però non conosco l'autore, a parte le varie slides che recano in basso il nome dei vari autori da cui sono tratte.
Poiché è pubblico lo posto volentieri, come pro-memoria o introduzione a quella sciagura urbana che è la zonizzazione.
Forse seguirà un approfondimento.

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4 aprile 2011

UNA RAGIONE IN PIU' CONTRO I GRATTACIELI

La mia cultura di architetto laureato nel 1976 non mi ha certamente fornito alcun pregiudizio contro i grattacieli, dai quali anzi sono stato, e sono in certi casi tutt’ora, affascinato e intrigato. Ci sono città che traggono da questa tipologia la loro forte caratterizzazione, come New York e Chicago e, non foss'altro che per la fama e il mito dato loro dal cinema americano, ritrovarsi in mezzo ad essi appena sbarcato dall’aereo è stata una delle esperienze di viaggio che ricordo con maggiore intensità.
Ricordo con commozione quel primo viaggio in taxi verso l’albergo a New York, con il naso incollato al finestrino e la testa volta in su ad ammirare luoghi ed edifici resi familiari dal cinema e dai libri: Fifth Avenue, Rockfeller Center, Empire, Chrysler Building, Pan Am e poi l’albergo vicino al City Corp Centre, incredibile edificio con i quattro angoli a sbalzo e la punta tagliata a 45°. E in quel taxi mi veniva in mente un film con Alberto Sordi nella mia stessa situazione.

Immagine tratta dal sito del Comune di Milano

E poi quella immensa parete di indirizzi dell’Empire State Building, e la sua punta che di notte cambia colore e infine la salita in cima alle Twin Towers da cui si abbracciava la penisola di Manhattan, Il New Jersey, la statua della Libertà, il ponte di Brooklyn e tutte le icone di questa città simbolo della potenza americana, del mondo occidentale e della libertà. Fosse stato per me avrei ricostruito le torri come erano e dove erano, come segnale di forza e di determinazione contro una furia distruttrice irrazionale e assassina. Ma gli abitanti hanno deciso diversamente e non si può che rispettare questa scelta.
Per me sarebbe sbagliato rinnegare tutto questo e comunque assolutamente impossibile.

Ma un conto è l’emozione e i ricordi personali, altro è ragionare.
E molte sono le ragioni per cui ritengo del tutto sbagliato la ripetizione di questo tipo in ogni angolo del pianeta, e ancor più in Italia, che di seguito riassumo:

• Esportarlo ovunque significa spogliarsi della propria identità assumendone una diversa che appartiene ad un altro popolo, pur a noi così vicino: ogni città, ogni luogo è unico e diverso dagli altri e questa unicità deve essere mantenuta e salvaguardata, allo stesso modo in cui si salvaguarda l’identità e l’unicità dei paesaggi naturali.

• Il grattacielo è l’edificio più energivoro che esista, sia per la produzione dei materiali da costruzione con cui deve essere costruito, sia per la sua gestione che richiede massicce dosi di energia per la movimentazione verticale nelle due direzioni delle persone e dei fluidi per riscaldamento, refrigerazione, rete idro-sanitaria, scarichi perfino. Il grattacielo è un edificio di grande fragilità ed è totalmente dipendente dall’energia; senza energia è l’anticamera di una bara.

• Il grattacielo è pericoloso, come si capisce bene, in caso di incendio, tra l’altro non infrequente per il tipo di materiali che deve utilizzare per ovvi motivi strutturali, tutti leggeri ed infiammabili.

• Per lo stesso motivo è, dal punto di vista dell’isolamento termico e dei consumi, estremamente inefficiente, essendo le pareti dotate di scarsa massa e quindi, non accumulando calore, necessita di calore continuo in inverno e di raffrescamento d’estate, per supplire al noto effetto baracca. La sbandierata sostenibilità ambientale ed autonomia energetica altro non è che una semplice presa in giro.

• La sua sagoma sconvolge del tutto la percezione delle nostre città e del nostro paesaggio, i cui unici elementi verticali sono le torri e i campanili delle chiese, con ciò impoverendo quella che è anche la nostra unica materia prima: la bellezza delle nostre città e del nostro patrimonio artistico.

• Il grattacielo è un formidabile attrattore di traffico, concentrando in pochi metri quadri di terreno un gran numero di persone e di attività, rendendo imprevedibile e ingovernabile quanto accade a terra.

• La vita all’interno del grattacielo è totalmente artificiale, essendo difficile dotarli di finestre apribili, date le fortissime correnti d’aria, che tra l’altro influiscono non poco sul clima circostante. Quindi l’ambiente deve essere completamente climatizzato.

• I costi di manutenzione sono altissimi, basti pensare alla pulizia o al rinnovo delle facciate, di qualunque materiale esse siano.

• L’idea che si occupi meno suolo e che si liberi una gran quantità di verde è destituita di fondamento ed è uno dei tanti falsi luoghi comuni, utili ad agevolarne l’approvazione presso le varie comunità cittadine.
Mi fermo, ma l’elenco potrebbe continuare.

Esiste però, nel caso specifico della realtà italiana, un’altra importante ragione per contrastare con forza la scelta dei grattacieli. E’ una ragione che potrei definire di carattere strumentale e vale sia per la cultura urbanistica che per la politica.
La cultura urbanistica attuale sembra pigramente e acriticamente incentrata sulla sostenibilità ambientale, articolata in maniera più o meno seria: dalla giusta attenzione che i piani rivolgono alla salvaguardie delle risorse naturali in senso ampio, dopo che la legge urbanistica nazionale era invece rivolta solo alla città (anche se in maniera sbagliata), a dichiarazioni di principio influenzate da un ambientalismo che vede l’uomo come un nemico e la natura amica (amica di chi, se l’uomo è un nemico?) con la conseguente cascata di slogan: consumo di suolo, volume zero, dimensionamento di piano e quant’altro.

Una visione urbanistica tutta in negativo e sostanzialmente anti-urbana che non va al cuore del problema, non cerca le ragioni del fallimento della città moderna, accontentandosi, al massimo, di attribuire ogni colpa alla speculazione.
Ragionamento anche questo in negativo, perché riduce l’urbanistica ad una storia di malaffare, attribuendo di fatto ogni responsabilità a tutti tranne che agli architetti, e quindi alla politica, ai palazzinari, ai cittadini cattivi, al mercato, alla rendita fondiaria. Questa svolge, ed ha sempre svolto, un ruolo importante e certamente tutto a favore degli interessi privati, ma se fosse la ragione prima dei fallimenti allora dovremmo avere, a controprova, parti importanti di città che, in quanto costruite in base a piani di iniziativa pubblica, dovrebbero essere esempi di qualità da cui attingere e da prendere a modello. Invece non è così, ed anzi la stragrande maggioranza di quei piani sono i simboli negativi par excellence.

Si rifiuta di riconoscere il fatto che le responsabilità maggiori sono proprio della cultura urbanistica che ha sposato entusiasticamente, e a tutt’oggi continua su questa strada, la zonizzazione selvaggia, la specializzazione della città in aree omogenee, la fine della strada, la logica del lotto piuttosto che dell’isolato, il principio della somma di oggetti invece che quello dell’insieme, il disegno geometrico astratto e privo di ogni relazione con lo svolgimento della vita dell’uomo, insomma il modernismo architettonico ed urbanistico.
L’ambientalismo di oggi, con le dovute eccezioni, è il frutto della cattiva coscienza che crede di poter porre rimedio alla disintegrazione della città con dosi massicce di un verde idealizzato, dopo aver creduto di fare supplenza alla mancanza di disegno urbano attraverso gli standard e i servizi. La quantità definisce meglio di ogni altra cosa l’urbanistica moderna.

Il grattacielo è, in questo senso, un’altra scorciatoia, un altro rimedio alla mancanza di analisi della realtà, il simbolo presunto di una rigenerazione urbana e di rilancio delle città verso una non meglio definita modernità, del tutto priva di contenuti. Si possono, o meglio si dà per scontato che possano, appiccicare al grattacielo le etichette di eco-compatibilità, sostenibilità, risparmio di suolo, con ciò dando la percezione di essere in linea con il fariseismo del volume zero ma permettendo ugualmente operazioni immobiliari importanti sotto il profilo quantitativo.
Il grattacielo diventa dunque l'occasione per un altro rinvio, un altro ostacolo a scelte inderogabili di vera rigenerazione urbana, basata sulla maggiore densità, su una difficilissima opera di ristrutturazione urbanistica che dovrebbe fondarsi nel ritorno alla strada, alla prossimità, alla promiscuità delle funzioni, all’identità dei luoghi.

La politica, che naturalmente possiede il dono di fiutare il vento, sfrutta il trend e vede nel grattacielo l’opportunità di veicolare attraverso di esso, che avrebbe tutte le doti di eco-compatibilità possibili e immaginabili, interventi immobiliari importanti, con quel quid plus di fascino che esercita la verticalità nell’immaginario collettivo, a perenne memoria dell’amministratore che per primo ha introdotto la propria città nella contemporaneità, che ha sprovincializzato una realtà da sempre ostile alle novità.
E così si alimenta il luogo comune, per non dire la menzogna, del grattacielo sostenibile, nelle sue varie versioni boscate e/o pannellate al silicio, energeticamente autosufficiente, con tanto verde intorno.
E così si ripetono a scala maggiore gli stessi errori e la (in)cultura urbanistica continua a rotolarsi su se stessa senza imboccare mai la strada giusta.


PRECEDENTI POST SUI GRATTACIELI:
Grattacieli sostenibili e sostenuti
Qualche numero interessante sui grattacieli "sostenibili"
Ancora sui grattacieli sostenibili
L'assioma del grattacielo

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