Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


30 settembre 2011

TRASPORTO PUBBLICO E CITTA' DISPERSA

Un link ad un articolo del Prof. Gabriele Tagliaventi che, con il caso Bologna, affronta, numeri alla mano, il tema generale della città compatta alla luce della difficoltà del trasporto pubblico. Argomento che vale per tutte le città.

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22 settembre 2011

IL PARADOSSO DELLE CITTA' INVISIBILI

Segnalo un paradosso che esemplifica il completo distacco dell’urbanistica operante dalla realtà della città e dallo stesso senso della realtà:

la Regione Toscana ha “esploso” la categoria edilizia dell’ampliamento, il cui significato è sufficientemente comprensibile a tutti, dividendolo in due categorie diverse:
l’addizione funzionale e l’addizione volumetrica.
Non sto a riportare la definizione ufficiale e la semplifico: l’addizione funzionale è quell’”ampliamento” che non costituisce un nuovo organismo edilizio e deve essere “funzionale” ad uno già esistente. A titolo di esempio: se ingrandisco il mio soggiorno o aggiungo una camera per un figlio o una stanza al servizio della casa esistente, una serra per esempio, si parla di addizione funzionale.
Se invece accanto alla mia casa costituisco una unità autonoma, oppure accanto alla mia casa costruisco un nuovo volume da utilizzare come “laboratorio” per un’attività lavorativa, a prescindere dalle dimensioni della stesso, si parla di addizione volumetrica.

Ora è evidente, in base al troppo bistrattato “buon senso”, che in entrambe i casi io costruisco fisicamente un “volume”. Per adesso teniamo a mente questa constatazione.

Cosa distingue i due diversi volumi?
In linea di principio tale distinzione non è né astratta né peregrina, perché segue, in qualche misura, il processo di crescita spontaneo di un organismo, di uno stesso organismo edilizio, che si sviluppa nel tempo in base alle necessità di chi vi abita, e questo viene nella legge classificato come “addizione funzionale”.
Se invece inserisco un organismo edilizio nuovo e diverso, faccio un salto di scala, modifico la natura del tessuto, e questo viene classificato come addizione volumetrica. In sostanza, l’addizione funzionale risponde a normali esigenze di crescita legati all’abitare e quindi va incontro alle normali aspettative dei cittadini.

Tutto questo in linea di principio. Ma cosa accade poi nel momento in cui i principi si sostanziano in articoli di legge? Accade, tra le altre cose, che le addizioni funzionali non rientrano nel “dimensionamento” del PRG, mentre le addizioni volumetriche sì.
Già, perchè esiste il dimensionamento del piano, che sarebbe la madre di ogni PRG. Dico madre, ma sbaglio, dovrei dire figlio, perché si suppone che il mitico numero che segna e direi mette il marchio su ogni nuovo piano dovrebbe scaturire dall’altrettanto mitico quadro conoscitivo.
Ora come possa un numero, la cui determinazione è così complessa, scaturire da un quadro conoscitivo territoriale nessuno è in grado di stabilirlo e infatti il dimensionamento è una scelta a monte, una scelta politica che successivamente viene giustificata con una massa di dati, a valle, una parte dei quali certamente necessari, i più invece superflui e abbastanza risibili. Comunque nessuno di questi da solo può determinare automaticamente un valore credibile, ad eccezione di quelli della rete dei servizi: acqua, fognature, ecc. oppure dei servizi scolastici, ma solo se si esclude di poterli incrementare; e questa è, appunto una scelta politica.

In verità è molto più semplice ed anche più logico lavorare per approssimazioni successive, e per sintesi, ipotizzando un certo valore di cubatura, in base a criteri sintetici fondati essenzialmente su scelte di progetto e quindi proiettare, in base al numero di abitanti prevedibili a regime, la necessità dei vari servizi.
E’ chiaro che l’indirizzo del dimensionamento è quello di restringersi al minimo fino a raggiungere lo zero, conseguendo cioè l’altro mito chiamato volume zero.

Con queste condizioni, l’addizione funzionale sfugge al dimensionamento, perché la sua quantità totale non è facilmente prevedibile e perché l’addizione funzionale è classificata nella categoria della ristrutturazione edilizia.
Sì, avete capito bene: con la ristrutturazione edilizia si può ampliare casa ma quel’ampliamento non è classificato come volume. Non è una deroga, in verità (e sta qui la grande furbizia) ma è proprio la categoria dell’intervento edilizio cui si fa appartenere l’addizione funzionale che esclude per definizione l’esistenza del volume in aggiunta. Quindi è un volume inesistente e quindi, anche in un piano che si dicesse essere a volume zero, nella realtà a zero non è.

Paradosso della norma: il dimensionamento, stabilito a monte come principio ideologico, è salvo.
Si stabliscono limiti improbabili allo sviluppo (sostenibile) e contemporaneamente si introduce sotto banco la scappatoia a quei principi. Si introduce cioè una norma fatta apposta per evadere la norma, quindi si può dire che non è il cittadino a compiere azioni criminogene, come qualcuno sostiene, ma è lo Stato, in questo caso la Regione, che produce norme che sono potenzialmente criminogene. La furbizia pubblica incoraggia certamente quella privata.

Dice: ma è tutto fatto a fin di bene, per uno scopo nobile. E io rispondo che è vero, ci mancherebbe, tuttavia si vorrà ammettere che la logica e lo stesso principio di realtà vanno a ramengo?

Una norma che volesse rispettare il principio della crescita naturale dell’abitato esistente, il principio di realtà e un minimo sindacale di logica umana, avrebbe dovuto conservare la categoria dell’ampliamento, regolamentando quello corrispondente alle addizioni funzionali, con incrementi a scalare in base alle necessità, quindi con una norma che conceda di più a chi ha di meno (una casa piccola ha più necessità di una casa grande)e considerare gli ampliamenti per quello che sono, cioè nuovi volumi. Ma non si può farlo perché il dimensionamento, dato ideologico-politico imposto a monte lo impedisce.

Il risultato finale è che:
- un parte della crescita della città risulta essere invisibile, perché non esiste ufficialmente come volume; questa palese assurdità autorizza il cliente a pensare che tu lo stia prendendo in giro o che non ci abbia capito niente. Vaglielo a spiegare al cliente che un volume non è volume, e quello ti dice, d'istinto, che se non è volume allora perché lo limitano! E’ possibile dargli torto?
- il dimensionamento, posto come limite massimo per legge, ma senza una motivazione reale, tant’è che lo si svicola con una norma che con l’arcivernice fa sparire gli ampliamenti, diventa il nodo scorsoio dei PRG imposto dalla politica e non dalla realtà delle cose, dato che la realtà non è un numero ma la forma della città e il vero dimensionamento è quello che compatta la città in base ad un disegno coerente e non la fa espandere nella campagna;
- la ristrutturazione, che ha una sua accezione chiara nella legge nazionale, a livello regionale diventa un elastico entro cui ci può stare ogni cosa e che contribuisce al sorgere di interpretazioni leguleie da cui la qualità della città ha solo da perdere.

Morale: come rovinarsi la vita con le proprie mani senza ottenere alcun risultato qualitativo accettabile, rovinando la vita ai progettisti, incrementando a dismisura la loro dipendenza dalle interpretazioni degli uffici e inquinando quello che dovrebbe essere il normale rapporto tra la legge e i cittadini: leggo, capisco, applico.
Troppo facile per uno Stato sofferente di bulimia burocratica che ci sta portando alla morte.

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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5 settembre 2011

GABRIELE TAGLIAVENTI SU CATTIVA URBANISTICA E DEBITO PUBBLICO. ARTICOLO CHE SI SPOSA CON IL POST PRECEDENTE

Un articolo di Gabriele Tagliaventi sul rapporto tra urbanistica e debito pubblico italiano.
Un articolo che conferma la bontà e la necessità di quei principi affermati nella modifica alla Legge urbanistica della Regione Toscana di cui ho scritto nel post predcedente.

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