Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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4 marzo 2012

DIVERSE MODERNITA'

"Un'altra modernità è possibile", Lèon Krier


CONTINUA....








Vilma Torselli, a corredo del suo commento, mi manda le due foto che seguono, Ronchamp di Le Corbusier, che presentano analogie negli effetti di luce con le due foto della Pieve di Arezzo e con la chiesa di Foligno di Fuksas.
Emanuele ha colto ironia nel mio post fotografico. Una certa ironia c'è senz'altro ma è probabilmente involontaria.
In verità il post nasce da una passeggiata della domenica mattina nella parte alta della città, quando non c'è quasi anima viva, da qualche scatto con il cellulare e dalla ovvia constatazione che molti elementi architettonici vengono riproposti nel tempo in forme e all'interno di architetture e contesti completamente diversi.
Anche per questa ovvietà ho evitato di scrivere perchè mi sembrava, e mi sembra, superfluo, visto che le foto sono già abbastanza eloquenti. Ho lasciato che ognuno giudicasse in base alle proprie convinzioni, avendo io espresso la mia attraverso il titolo e la famosa frase di Léon Krier.
Il confronto più intrigante è quello della prima foto dove è la luce a farla apparentemente da padrona. Dico apparentemente perchè la luce è il prodotto e il risultato dell'architettura, non dell'illuminazione artificiale. La luce con la sua suggestione è ingannevole nel senso che può produrre effetti diversi in funzione dello spazio entro cui si colloca: in una chiesa la si giudica, o forse la si percepisce, come elemento fortemente legato al sacro con un richiamo evidente al cielo, all'infinito, all'atto della creazione; in uno spazio museale o dedicato all'arte esalta e valorizza le opere esposte e l'architettura stessa. Per certo la luce di Foligno, almeno giudicando quel solo scatto, non ha alcunchè di sacro, provenendo da una serie di aperture leziose, manieriste e banalotte, più adatte all'arredo di una discoteca, impressione prima che ho avuto anche dall'insieme del progetto. Quella di LC fornisce indubbiamente una suggestione più intensa, ma la composizione delle aperture, ancorchè su una parete dotata di una notevole massa muraria, unita alla consueta purezza della superficie intonacata bianca, restituisce un senso di astrattezza compositiva geometrica molto formalista.
La facciata interna della Pieve, con l'ordine regolare delle bucature a contorno del rosone, inserite in un muro di cui è ben visibile la trama delle pietre da costruzione, che svolge, come dice Salìngaros, la necessaria funzione di elemento di passaggio tra la piccola e la grande scala percettiva, restituisce allo stesso tempo suggestione e ne connota in maniera evidente il suo essere parte di una chiesa, oltre che contribuire all'illuminazione di fondo dello spazio. Eppure anche questa facciata ha elementi puristi, con il taglio netto delle finestre su una parete liscia priva di decori. Da qui la sua modernità.






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29 febbraio 2012

CONSIDERAZIONI SUL MODERNO:SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE- 1°

A corto di tempo causa prolungati impegni legati a vicende di tipo urbanistico-sindacale-ordinistico e quindi a corto di idee, queste essendo tutte orientate all'azione e alla scrittura di testi degni più di un politico che non di un architetto, mi arrangio facendo ricorso ad uno scambio epistolare del 2006 con un amico e collega, l'Architetto Mario Maschi, su un argomento allora alle origini e che proprio in questo periodo sta venendo a maturazione: la vendita di un edificio degli anni 70 sede della Camera di Commercio e il relativo dibattito sulla sua trasformazione.



L'Architetto Maschi mandò una lettera-appello per salvare l'edificio, molto circostanziata  e documentata, ma ben presto il discorso si spostò, in uno scambio via mail a più voci, sull'eterno tema del "moderno".
Riporto solo l'ultimo scambio tra me e Maschi, anche perchè con il passare del tempo si trasformò in uno scherzoso e ironico dibattito tra amici che non si trovano d'accordo sull'architettura ma riescono, tuttavia, a prenderla con leggerezza.
Questa la prima mail, di Mario Maschi che introduce appunto l'aspetto ironico:


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4 maggio 2010

AVANGUARDIA

Pietro Pagliardini

Inaki Abalos, spagnolo, architetto e teorico dell’architettura: come architetto pare sia famoso. Dico pare perché per me è un nome del tutto nuovo. I suoi progetti non appartengono certo al genere che interessano questo blog: grattacielo a forma di cactus, o di Montagne Rocciose, abitazioni nel pieno rispetto della moda con le finestrine verticali irregolari, forme di design. Bisogna leggere le solite riviste per conoscerlo, e io non lo faccio da tempo. Se posso trovargli un merito è quello di fare progetti molto diversi tra loro, non possiede marchio o brand, ed è già un merito.
Come saggista però è straordinario. Ho letto un suo libro del 2000 pubblicato in Italia alla fine del 2009: Il buon abitare. Pensare le case della modernità, Marinotti. Non conosco lo spagnolo ma ci vuole poco a capire che la traduzione è piuttosto libera. Titolo originale: La buena vida. Visita guiada a las casas de la modernidad. Ed in effetti il libro non ha intenti didattici, non è un manuale di progettazione per abitazioni contemporanee, come sembrerebbe dal titolo italiano, ma è proprio una visita guidata a sette abitazioni, di cui una è una scenografia cinematografica, che mostra “come il modo più diffuso tra gli architetti di pensare e progettare lo spazio domestico altro non sia che la materializzazione di certe idee archetipiche sulla casa e sui modi di viverla che hanno origine nella corrente positivista, nonostante da più parti si insista nel segnarla come l’unica ormai esaurita”.


Tra queste visite, la più singolare, divertente e illuminante sulla formazione dell’architetto moderno è quella nella casa che è al centro del film Mon Oncle, di Jacques Tati, attore e regista, e del suo celebre personaggio, Monsieur Hulot. La casa è una villa moderna progettata da un architetto moderno, con tutti i vizi, i tic e gli archetipi della villa moderna, dove vive la famiglia Arpel. La signora Arpel è cugina di Hulot, che, viceversa, vive in una approssimativa casa del centro storico.
In fondo al post una serie di link al film su YouTube, che consiglio di guardare, come consiglio di leggere il libro.
Riporto pochi brani da questa visita guidata:
Il confronto tra gli Arpel e di monsieur Hulot non scaturisce dai dialoghi o dalle opinioni espresse dai protagonisti…..ma dalle azioni e dagli ambienti che le vedono svolgersi; architettura e urbanistica, al pari dei suoni, sia naturali che artificiali, inducono a certi comportamenti, dei quali possono essere causa e/o conseguenza…..

Di fatto, come vedremo più avanti, la trama riproduce con grande efficacia la lotta tra due atteggiamenti filosofici, la cui influenza durante il XX secolo è stata decisiva. Da un lato il permanere e anzi l’estendersi alla sfera della vita privata del paradigma positivista, della fede nel progresso e nell’ordine come strumenti salvifici, a disposizione dell’uomo per lo sviluppo tecnico e scientifico;… Dall’altro la critica al positivismo condotta da Husserl e Bergson prima, Heidegger e Merleau-Ponty poi, con l’intento di ristabilire un nuovo soggettivismo, o vitalismo, che limitasse l’influenza della scienza e smascherasse il carattere ideologico del positivismo e dei suoi sviluppi sociali e tecnocratici….

In questo aspetto, ma non solo, riscontriamo una similitudine tra la dottrina positivista e l’architetto moderno, nonché l’evidenza della profonda influenza che la prima ebbe sul secondo: l’architetto moderno è incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli, siano all’industrializzazione o alla macchina; è incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato. Preferisce comportarsi come un pontefice nell’atto di annunciare l’imminente avvenimento di una mutazione che gli è appena stata rivelata…

Lo spazio della modernità sarà caratterizzato da un’analoga proiezione verso il futuro e dalla rimozione quasi completa del passato e si costruirà, come propugnato dal catechismo positivista, su una serie di leggi e norme universali che delegano al futuro prossimo la propria completa realizzazione. La pianta, la pianificazione e la sua oggettivazione come tecnica di controllo della crescita, l’urbanistica, saranno emblematiche manifestazioni di questa concezione del tempo, un tempo teleologico, perfetto o, per così dire, radioso. Il lavoro sulla pianta si riproduce con un automorfismo scalare dalla casa alla città, rendendo esplicita la tecnica dell’architetto, “tanto necessaria ed immodificabile come una legge fisica”. Lo spazio della casa, la sua atmosfera e la sua memoria, quasi non esistono più; sono stati eliminati per far posto alla quantificazione normativa, all’oggettivazione biologica della famiglia tipo attraverso la pianta, o meglio, l’organizzazione in pianta. La nuova categoria dominate è il “metro quadrato”, il principio ottimizzatore che l’architetto positivista mutua dalle tecniche di produzione industriale espresse da Frank W. Taylor in L’organizzazione scientifica del lavoro (1911) e trasla nella sfera privata
”.

E’ difficile non apprezzare la lucidità e la chiarezza espositiva di queste frasi. Mirabile è inoltre la visita alla casa ideale di Mies, in cui traccia un profilo psicologico dell'architetto e la sua corrispondenza con il Superuomo di Nietzsche.
Impossibile non domandarsi perché tra i progetti di Abalos e le sue analisi di questo saggio vi sia una simile frattura. O meglio, perché le conclusioni che ne trae siano così diverse dai contenuti espressi nel libro.
L’atteggiamento per me difficilmente comprensibile è quanta inerzia vi sia nel riuscire a prendere piena consapevolezza del fatto che, se una strada la si riconosce come sbagliata, non c'è altra soluzione che tornare indietro e riprendere quella giusta. Esiste infatti una sorta di schizofrenia tra l’osservazione lucida di ciò che è stato, e di ciò che continua ad essere, degli incommensurabili errori fatti per la casa e per la città che tuttora allungano la loro ombra e di cui ancora si osservano gli effetti nella quotidianità del costruire e dell’amministrare la città, e lo sperare ancora, dopo un secolo di tentativi sbagliati, di trovare una soluzione, invitando a “esercitare la fantasia, stimolare l’interesse che spinga a superare le inerzie acquisite e ad esplorare i limiti della conoscenza della nostra disciplina”, come scrive l’autore nell’epilogo,  denunciando l'inerzia altrui ma senza la consapevolezza della propria.

E dice anche altro: “Dobbiamo rallegrarci di avere avuto di aver avuto padri e nonni tanto fortunati ed eccentrici, e godere di esse (le case visitate): si tratta di un vero lusso. Se vogliamo considerarci buoni architetti dovremmo però anche saper essere all’altezza delle circostanze, imparare ad amministrare questo patrimonio e provare, soprattutto, ad accrescerlo e ad attualizzarlo”.

Ecco, probabilmente, la soluzione al problema del dualismo di Abalos il quale, nonostante la sua grande capacità di analisi, la sua raffinata, colta e intelligente interpretazione dei progetti alla luce del pensiero filosofico, è rimasto ancorato inevitabilmente all’idea di avanguardia, alla concezione dell’architetto-pontefice “incapace di dotare di contenuti concreti i propri appelli… incapace perfino di considerare se stesso uno scienziato”.
Uno scienziato, infatti, di fronte a un secolo di errori, avrebbe cambiato strada e avrebbe ricominciato da dove si è manifestato il primo sbaglio nell’esperimento, accorgendosi magari che c’era molto poco da sperimentare.
Come spiegare diversamente il solito, trito appello alla fantasia e alla ricerca, se non come l'impossibilità di sfuggire al condizionamento culturale dell'avanguardia che lui coglie perfettamente nella sua essenza negativa ma che non riesce a scrollarsi di dosso?


Link al film Mon Oncle:
Mon Oncle 1
Mon Oncle 2
Mon Oncle 3
Mon Oncle 4
Mon Oncle 5
Mon Oncle 6

Altri ancora ve ne sono su You Tube, basta cercarli


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19 marzo 2010

MA SOLO L'ANTICO E' FALSO?

Pietro Pagliardini

Quell’edificio crollato non deve essere ricostruito com’era perché sarebbe un FALSO!
Quel progetto in campagna non deve imitare una casa colonica perché sarebbe un FALSO!
Quell’edificio è adatto a Disneyland perché è una copia quasi identica ad una villa palladiana, ed è un FALSO!
Tre situazioni diverse che raccolgono la riprovazione della “cultura” architettonica imperante verso il “falso” e la mimesi.
Per il momento non vorrei confutarla ma vorrei portare casi diversi:
Quel progetto è fantastico! Si vede che è un allievo di Ghery.
Quel progetto ha il dinamismo e il senso dello spazio di Zaha Hadid!
Quel progettista fa uso di tecnologia con sensibilità e grazia. Mi ricorda Renzo Piano.
Niente paura, nessuna sparata contro le archistar; i loro nomi servono solo per l’esempio.

Ogni architetto, in specie nella fase giovanile, fa riferimento ad una figura di riferimento. In genere, con il tempo, acquisita sicurezza nei propri mezzi e maturata la capacità di dominare il progetto, tende a distaccarsene, fino all’abbandono, e ad elaborare un linguaggio personale. Voglio immaginare che il nostro architetto riesca a raggiungere un livello professionale alto, tanto che molti riconoscono l’autore negli edifici da lui costruiti.

Ma siamo assolutamente certi che questo bravo architetto non debba niente a qualcuno in particolare o a ciò che osserva viaggiando o alle riviste e ai libri che legge o a tutto quanto ha studiato all’università e, ancor prima, ai suoi stessi ricordi giovanili? Siamo sicuri che esista veramente qualcuno, in qualsiasi campo, che non debba la propria conoscenza e competenza ad altri?

L’apprendimento inizia con l’imitazione. Successivamente non si chiama più imitazione, ma studio, osservazione, esperienza ed elaborazione di informazioni.
Qualsiasi disciplina, intellettuale o manuale, è un accumulo di conoscenza ed esperienza sedimentata nel tempo in opere o libri o trasmissione verbale. Oggi anche in forme più tecnologiche e nuove: immagini, video, audio. Cambia e si evolve il mezzo, ma il contenuto è lo stesso: conoscenza di alcuni, fissata perché possa essere trasmessa ad altri.

Ogni disciplina, intellettuale o manuale, è imitazione, mimesi; quello che si osserva viene elaborato e riproposto in forme e modi diversi e in base alla propria inclinazione.
Ma ecco che interviene la variabile “ricerca”. C’è sempre stata, naturalmente. Chissà se l’anonimo inventore della ruota riconoscerebbe il suo prodotto guardando un gran premio di formula 1 nel momento in cui i meccanici ne cambiano 4 in 4 secondi! Alta tecnologia e specializzazione, ma il principio della ruota è sempre lo stesso: un cerchio rigido che gira intorno al suo centro. Ma la ruota non si è materializzata nella mente del suo inventore da una tabula rasa, anche se la rivoluzione è stata grande. Vai a capire i millenni che ci sono voluti per fare meno fatica a trasportare roba! Certo, il passaggio intermedio di una ruota quadrata non credo ci sia stato, ma molte slitte su rulli sì. Il principio era già a portata di mano, bastava vincolare il rullo. Alla fine è arrivata l’ideuzza giusta. Da quel momento l’evoluzione del mezzo: di materiali, di tecnica per diminuire l’attrito, nel centro e nella circonferenza, e resistere all’usura. Ma il principio è sempre lo stesso: copiare le idee altrui, quelle che si ritengono buone, per andare avanti, aggiungendoci del proprio. Gli scambi di opinione, ad esempio, servono a questo e sono anche un modo per trovare nuovi stimoli.

Torniamo alle esclamazioni iniziali.
I tre campioni di “falso” sono riferiti a tipi architettonici antichi o semplicemente vecchi. Qual è il limite superato il quale non si parla più di “falso” ma, al massimo, di progetto “datato? Difficile stabilirlo. Approssimando un po’ potremmo dire che il limite è l’introduzione di tecnologie nuove, quale il c.a., naturalmente nella fase di una certa diffusione. Ecco, un progetto anni ’60 di edilizia corrente, con mensole in c.a. a vista e marcapiani in c.a. riproposto oggi, magari con un minimo di “ironia”, verrebbe considerato “datato”, ma “falso” certamente no. Un progetto alla Rietveld, per alcuni datatissimo, per altri potrebbe essere l’inizio di un nuovo neo-ismo.
Fissando una data, credo si possa affermare sia considerato “falso” tutto ciò che non corrisponde ai canoni e alle forme di prima degli anni ’20 del secolo scorso.
C’è una logica. Apparente.

I nostri tre architetti che vengono confrontati con Ghery, Hadid o Piano, hanno, anche inconsapevolmente, “attinto” a quelle fonti; hanno fatto un’operazione mimetica. Hanno copiato, bene, da coloro che più apprezzano. Così come il nostro giovane architetto, venuto su bene, in autonomia e in libertà da banali copie del maestro di riferimento, non si è inventato tutto, né del progetto né, a maggior ragione, delle tecniche costruttive.
Diciamo che, al pari della ruota, hanno sviluppato e interpretato qualcosa che già esiste, aggiungendoci quel tanto di “gesto” individuale che lo rende riconoscibile e di successo.
Queste sono situazioni ideali! Ma se sfogliamo le solite riviste, cartacee oppure on line, si vedono centinaia di autentici “falsi” contemporanei. Hanno plagiato forse? Certamente no, hanno solo sviluppato ciò che ritenevano valido dell’opera altrui. E’ come con la musica: Ennio Moricone dice che il plagio musicale è ormai quasi inevitabile perché le combinazioni sono praticamente esaurite e quando una musica è nell’aria è facilissimo riproporla in buona fede come propria.
E’ normale, è logico persino, perché nessuno può pretendere, anche se vuole, di inventare ogni volta qualcosa di “nuovo”.

Ma i tre esempi iniziali invece vengono condannati senza appello come “falsi”. Solo loro tre, poverini, vengono additati al pubblico ludibrio. Perché?
Ma è chiaro, perché sono “modelli” ante anni ’20 del secolo scorso!

Il concetto di falso, così come viene utilizzato dalla kultura arckitettonica ha esclusivamente una connotazione temporale: è falso tutto ciò che non è moderno o contemporaneo!

Il concetto di moderno o contemporaneo, invece che servire da semplice “datazione” di prima approssimazione, assurge al rango di valore fine a se stesso. E’ una condizione del tutto priva di senso
.
Io copio (come tutti, sia chiaro) un progetto che ho visto in internet e sono magari bravo; io copio un tipo di casa colonica della bonifica lorenese, perché devo fare un progetto in campagna, e sono un imbroglione!
Io devo ricostruire una casa nel centro storico e, se la faccio di vetro, copiando da un repertorio infinito di nefandezze attuali, va bene, ma se la rifaccio com’era, o come si può ricavare che fosse, vengo classificato antichista e nostalgico!
Bossi, Bossi! Qui ci vorrebbe la tua lapidaria frase in milanese per chiudere il discorso!


Credits: Le foto sono tratte da Dezeen.
L'idea del post mi è venuta grazie al dibattito seguìto alla conferenza di Ettore Maria Mazzola ieri 18 marzo ad Arezzo. Praticamente ho fatto un "falso".

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17 gennaio 2010

JANE JACOBS (2): STRADE

Pietro Pagliardini

In Vita e morte delle grandi città di J. Jacobs, Einaudi 1969, è ricorrente il tema della strada come struttura di base della comunità cittadina. L’autrice è una giornalista, perciò l’argomento è trattato da un punto di vista sociologico, ma le sue osservazioni portano inevitabilmente a conclusioni che gli urbanisti dovrebbero tenere in considerazione.
In verità non esiste un capitolo del libro intitolato “La strada”, ma esiste un capitolo dal titolo “Le funzioni dei marciapiedi”, con le sue articolazioni: la sicurezza e i contatti umani.
Va sempre tenuto conto che il libro è stato scritto negli anni ’50 e il campo di studio sono gli USA e prevalentemente una metropoli, New York, oltre ad altre città sempre e comunque di grandi dimensioni, quindi con una realtà temporale e fisica molto diversa da quella di oggi e da quella dell’Italia e dell’Europa. Ma ciò nonostante, basta escludere parti specifiche decisamente datate e localizzate, le considerazioni svolte potrebbero essere riferite ad una qualsiasi città europea e, in alcuni casi, come il tema della sicurezza su cui si insiste molto, addirittura sembrano scritte in funzione della nostra quotidiana cronaca.
Le funzioni di autogoverno delle strade sono tutte modeste, ma indispensabili. Nonostante molti tentativi, pianificati o no, non s’è ancora trovato nulla che possa sostituire una strada vivace e animata”: in queste due frasi è sintetizzato gran parte del pensiero di J.Jacobs.


L’osservazione continua della sua strada, del suo quartiere, della sua e di altre città, con animo sgombro da precostituiti dogmi urbanistici, ma tesa invece all’analisi dei comportamenti sociali e personali della gente, la induce a ricavare alcune regole generali in ordine alle differenti conseguenze che un tipo di organizzazione urbanistica di vicinato ha rispetto ad un altro tipo.

E ne ricava che:
Le strade e i marciapiedi costituiscono i più importanti luoghi pubblici di una città e i suoi organi più vitali. Quando si pensa ad una città, la prima cosa che viene alla mente sono le sue strade: secondo che esse appaiano interessanti o insignificanti, anche la città appare tale”.
E poi:
Caratteristica fondamentale di un quartiere urbano efficiente è che chiunque per strada si senta personalmente al sicuro, senza sentirsi minacciato dalla presenza di tutti questi estranei”.

A scanso di equivoci, alla parola “estranei” non deve essere attribuito un significato negativo ma è solo una qualità oggettiva riferita a tutti coloro che non vivono direttamente nella strada e a tutti coloro che, in una grande città, sono naturalmente sconosciuti agli altri. L’estraneità in J.Jacobs è un valore, casomai, positivo perché è una caratteristica propria della città, di quella grande in particolare, che permette di incontrare tanta gente diversa e di arricchire la propria vita.

La Jacobs ne ricava anche una regola su cosa possa garantire senso di sicurezza:
La prima cosa da capire è che l’ordine pubblico nelle strade e sui marciapiedi della città non è mantenuto principalmente dalla polizia, per quanto questa possa essere necessaria: esso è mantenuto da una complessa e quasi inconscia rete di controlli spontanei e di norme accettate e fatte osservare dagli abitanti stessi. In certe zone urbane, come ad esempio in molti vecchi complessi di case popolari e in molte strade con rapido cambio di popolazione, il mantenimento della legge e dell’ordine sui marciapiedi è affidato quasi interamente alla polizia e a guardie speciali: ebbene queste zone sono vere giungle, perché non c’è polizia che basti a garantire la civile convivenza una volta che siano venuti meno i fattori che la garantiscono in modo normale e spontaneo. Il secondo punto da tener presente è che il problema della sicurezza non si risolve accentuando la dispersione degli abitanti, sostituendo cioè al carattere urbano quello tipico del suburbio. Se così fosse Los Angeles dovrebbe essere una città sicura”.

Allora cos’è che contribuisce a rendere sicure strade e marciapiedi?:
Tutti sanno che una strada urbana frequentata è probabilmente anche una strada sicura, a differenza di una strada urbana deserta. Ma come vanno effettivamente le cose, e che cosa fa sì che una strada urbana sia frequentata oppure evitata? Perché viene evitato il marciapiede di Washington Houses, che dovrebbe costituire un’attrazione, e non i marciapiedi della città vecchia immediatamente adiacente? Che cosa avviene nelle strade che sono animate in certe ore ma ad un certo punto si spopolano improvvisamente?
Per essere in grado di accogliere di accogliere gli estranei e di approfittarne per accrescere la propria sicurezza, come sempre accade nei quartieri più vitali, una strada urbana deve avere tre qualità principali:
1. Dev’esserci una netta separazione tra spazi pubblici e spazi privati; lo spazio pubblico e quello privato non devono essere compenetrati, come in genere avviene negli insediamenti suburbani o nei complessi edilizi.
2. La strada deve essere sorvegliata dagli occhi di coloro che potremmo chiamare i suoi naturali proprietari. In una strada attrezzata per accogliere gli estranei e per garantire lo loro sicurezza e quella dei residenti, gli edifici devono essere rivolti verso la strada; non è ammissibile che gli edifici lascino la strada priva di affacci, volgendo verso di essa la facciata posteriore o i lati cechi.
3. I marciapiedi devono essere frequentati con sufficiente continuità sia per accrescere il numero delle persone che sorvegliano la strada, sia per indurre un congruo numero di residenti a tenere d’occhio i marciapiedi dagli edifici contigui. A nessuno piace starsene seduto sul terrazzino d’ingresso o affacciato alla finestra a guardare una strada deserta (e infatti quasi nessuno lo fa), mentre c’è molta gente che si diverte a dare di tanto in tanto un’occhiata a ciò che avviene in una strada animata”. 

Omissis
Condizione essenziale per attuare tale sorveglianza è che lungo i marciapiedi del quartiere sia disseminato un congruo numero di negozi e di altri luoghi pubblici, e in particolare di esercizi e luoghi pubblici frequentati nelle ore serali e notturne. Così soprattutto i negozi,i bar e i ristoranti possono favorire in modi diversi e complessi la sicurezza dei marciapiedi
”.
Omissis
L’idea stessa di eliminare per quanto è possibile le strade urbane, di degradare e minimizzare il ruolo sociale ed economico che esse hanno nella vita cittadina, è la più pericolosa e deleteria invenzione dell’urbanistica ortodossa”.

Il quadro urbano che emerge è quello di una città fatta di edifici posti lungo la strada e su questa affacciati con il loro prospetto principale, con negozi a piano terra, con una chiara distinzione tra ciò che è privato e ciò che è pubblico. L’esatto contrario di un edificio lontano dalla strada e a questa indifferente, immerso in un verde che non è pubblico e non è privato, cioè non è di nessuno. L’idea folle di edifici staccati immersi nel “verde” viene liquidata dalla Jacobs, nell’originalissimo capitolo in cui parla dei parchi, con la seguente, lapidaria espressione:
Il fatto è che i frequentatori dei parchi urbani non vanno in cerca di un ambiente per gli edifici, ma di un ambiente per se stessi: per loro, i parchi rappresentano il primo piano e gli edifici lo sfondo, e non viceversa”.


Altro elemento essenziale è quella della varietà delle destinazioni che determina la complessità della vita sociale urbana, contro la monofunzionalità della zonizzazione, che la impoverisce fino ad annullarla.
Queste condizioni, quasi mai rispettate in quelli che l’autrice chiama i “complessi edilizi”, cioè quegli insediamenti progettati unitariamente seguendo le regole del’urbanistica “moderna”, consente una sicurezza intrinseca che nasce dalla presenza di vita in tutto l’arco della giornata, e che fa sì che siano i cittadini stessi ad esercitare tale controllo.
Non c’è niente di bucolico o di idealizzato in questa visione, solo la constatazione di fatti, che la Jacobs racconta ed enumera in maniera ricorrente e documentata.
La sua visione coincide, senza che questo sia il uso scopo, con una città tradizionale, intesa non in senso stilistico, naturalmente, ma come struttura urbana che si è evoluta nell’arco dei secoli e che da un certo momento in poi si è voluto abbandonare, proponendo alternative ideologiche e che non trovano alcuna giustificazione nei comportamenti umani.

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13 ottobre 2009

LANGONE SU TERRAGNI E IL MERCATO IMMOBILIARE

Camillo Langone su Il Foglio è una riserva inesauribile di trovate e io lo linko, nonostante sia in forte concorrenza con il precedente link al servizio di Report cui, se fosse americano, spetterebbe di diritto il Premio Pulitzer.

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17 marzo 2008

EQUIVOCI, scritto per il foglio dell'Ordine Architetti Arezzo

di Pietro Pagliardini, Arezzo 2004

Vecchio e Nuovo.
I due aggettivi richiamano alla memoria altri opposti di uso comune:
Riformista - Conservatore
Bello - Brutto
Buono - Cattivo
Giusto - Sbagliato
ecc., ecc.
Questi termini così categorici non servono solo a collocare noi stessi rispetto al mondo e a far capire agli altri cosa e come pensiamo ma servono soprattutto alla nostra mente per semplificare, discernere e catalogare comportamenti, situazioni, oggetti, individui.
La cultura della modernità tende a farci attribuire a Vecchio una valenza prevalentemente negativa e a Nuovo una prevalentemente positiva; per Riformista-Conservatore vige la stessa regola.
Gli altri opposti, invece, non si discutono, rappresentano un valore assoluto, non relativo alle circostanze e il giudizio di valore non è dipendente dal periodo storico, culturale o sociale.
Dunque:
Bello, Buono e Giusto ......... sono termini ....... sempre positivi.
Vecchio e Conservatore ...... sono termini ....... quasi sempre negativi.

Qualche esempio:
-Conservatore, usato come sostantivo, è anche l’iscritto al nostro Ordine che si occupa della Conservazione dei monumenti e dei beni artistici e perciò si suppone abbia valore positivo;
-Vecchio attribuito a certe qualità di vino ha un valore (anche economico) fortemente positivo.
-Muore un anziano politico di “destra” molto stimato in quanto onesto, retto e coerente nelle sue scelte di vita e amici e avversari - in vita - gli rendono omaggio - in morte - definendolo “un esempio di Vecchio conservatore”: usati insieme i due negativi diventano “molto” positivi (tanto è morto e non da noia a nessuno)
-Però “Vecchio conservatore!!!” gridato alla stessa persona in vita durante una discussione politica sarebbe suonata come “molto” negativa anzi dispregiativa.
-Il Riformista è anche il titolo di un giornale: mica avranno dato un titolo negativo ad un giornale!
-Però “Riformista!!!” detto fino agli anni ’70 (e oltre) da un comunista ad un socialista era molto più di un’offesa (a parere del comunista, non del socialista che però s’incazzava lo stesso).

Dopo questo delirio verbale che neanche il Prof. Alberoni (che peraltro non leggo perché il lunedì non compro mai giornali e comunque non compro quasi mai il Corriere della sera) veniamo al dunque: come la mettiamo con l’architettura?

Per capirsi: semplificherò attribuendo a Vecchio il significato di Antico e a Nuovo quello di Moderno e che mi riferirò all’architettura moderna, con significato esclusivamente temporale e non stilistico. In campo architettonico l’ambivalenza nel significato di Vecchio e Nuovo è ancora più in relazione alla fonte di provenienza. Vi sono sostanzialmente due gruppi sociali diversi che utilizzano i due termini con valore diverso:

Gruppo A
E’ quello che ha la voce più forte, è l’establishment dell’architettura, cioè il mondo accademico, che trova sponda nel mondo dell’editoria (per pochi intimi), che dirige senza alcun controllo i concorsi, facendo ben attenzione a non premiare i migliori ma ad alimentare le proprie opinioni e a fare favori che saranno restituiti quando si invertiranno le parti. Se la suonano e se la cantano. Per questa “casta”, Vecchio ha connotazione fortemente negativa; anzi, per una consolidata tecnica egemonica, Vecchio non esiste proprio: ignorare per discriminare; chi lo predica non ha neanche diritto d’asilo culturale, non ha voce, non si discute con questi ignoranti. Solo il Nuovo esiste. E l’altra “casta” che con essa dialoga, quella dei politici, l’ha accontentata, inserendo nella legge Merloni un bel punteggio per premiare la “sperimentazione” nei concorsi. Sperimentazione è sinonimo di Nuovo e poiché, notoriamente, siamo agli albori di una civiltà urbana, dato che viviamo in villaggi decrepiti di capanne e visto che il territorio della selvaggia Italia ed Europa è una tabula rasa in cui architetti d’estro devono inventare città e case, la legge è Riformista e premia le invenzioni.

Gruppo B

E’ il gruppo della massa (che paga) di utenti, cittadini, fruitori dei singoli beni e della città nel complesso, i quali non sono addetti ai lavori, non conoscono tutte le sfumature del linguaggio architettonico, non hanno necessariamente cultura storica o artistica, esprimono più un bisogno di pancia che una riflessione critica consapevole ma chiedono “segni” evocativi di quella civiltà urbana o rurale che viene, dalla contro-parte (che riscuote), ritenuta tanto indegna da essere ignorata con la sperimentazione. E allora per soddisfare chi apprezza (e paga) quei “segni” di Vecchio, ecco che il mercato si attrezza con un repertorio di archetti e capitelli in c.a., tetti di svariata tipologia, timpani, colonne, ecc. insomma quanto di meglio noi tecnici riusciamo a fare per soddisfare quel bisogno, con i pochi mezzi culturali di cui disponiamo, visto che all’università ci hanno insegnato solo forme astratte nello spazio vuoto con cui si vincono i concorsi ma non si mura un metro cubo che uno. E le nostre città diventano le sommatorie di Nuove lottizzazioni, con case che sono un simulacro e una parodia del Vecchio e che finiscono per fare il gioco di coloro che aspirano al Nuovo.

In realtà questo è il solito gioco di potere di una minoranza che riesce a imporre alla maggioranza il proprio punto di vista mediante legami forti di casta e fra caste. Io penso (se non si fosse ancora capito) che il Gruppo A, che predica il Nuovo, sia Vecchio e Conservatore (in senso negativo) e il Gruppo B che aspira al Vecchio sia Nuovo e Riformista (in senso positivo), perché penso che l’architettura Vecchia sia prevalentemente Positiva, mentre quella Nuova prevalentemente Negativa.

L’equivoco sta nel fatto che l’architettura che si professa Nuova è Vecchia, quella Vecchia è Nuova.

Come tema per il prossimo numero di questo foglio consiglierei di prendere in esame una delle seguenti coppie di opposti:
mondo accademico - mondo professionale
disegni - realizzazioni
architettura delle riviste - architetture della gente

che è poi come dire, in altro campo:
stato - mercato
istituzioni - società civile

Sarebbe un modo utile per capire, non rassegnarsi e cominciare, per esempio, a discriminare i falsi cultori del Nuovo.

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Lettera di un modernista pentito ad un antichista incallito

Caro Roberto,

ti mando una foto di Ragusa-Ibla, una della Chiesa Madre di Scicli e una di un paesaggio del ragusano . Sul paesaggio della prima foto mi sono affacciato per una settimana almeno due volte al giorno, ed ogni volta non ho potuto fare a meno di constatare quanto ampio sia il solco che divide il vecchio dal nuovo, l'antico dal moderno. La foto della Chiesa di Scicli con accanto la scuola non ha bisogno di commenti. Quella del paesaggio parla di un dialogo corretto con l'ambiente.
Sono considerazione vacanziere, fatte in surplace, con i calzoni corti e le ciabatte.

Giulio dice che la Toscana non ha retto alla modernità ed ha ragione, ma non è un difetto genetico di noi toscani perchè neanche la Sicilia ha retto. In realtà credo che non abbia retto nessun territorio che possedesse una storia e qui la storia trasuda da ogni sasso, da ogni albero, da ogni giardino (gli aranceti), da ogni muro a secco lungo le strade e tra i campi, dalle facce della gente di campagna non ancora segnata dalle rotondità del benessere.

Sarà che nei luoghi non familiari l'occhio è più attento e critico ma a me sembra che qui non vi sia uno, dico uno, esempio di modernità, in sè bello o brutto, che possa reggere il confronto con il vecchio, che abbia una dignità, che si inserisca armonicamente con la natura o con la città. Ogni nuova costruzione o manufatto è uno strappo, un'offesa a ciò che esisteva e questo a prescindere dall'abusivismo o dalla regolarità della costruzione, dalla pianificazione o dalla spontaneità della stessa.
E qui la spontaneità abbonda; mentre da noi si limita a qualche baracchetta di campagna
trasformata in residenza domenicale, in Sicilia vi sono intere zone "spontanee", castelli di c.a. abbandonati, case di tre piani con un piano finito e due grezzi, non si sa mai. Gela e Vittoria sono intere città "spontanee", inemendabili (viene voglia di sperare che sfugga qualche missile dalla vicina base di Comiso).
Ma il problema non è l'abusivismo, il problema è che la modernità non ha trovato canoni adeguati ai luoghi che possiedono una storia. Costruzioni normali, di qualità non pessima, sia come progetto che come esecuzione, sono totalmente dissonanti con il contesto naturale e/o urbano. Se fai attenzione potrai notare che il progettista della scuola di Scicli, in fondo, si è anche sforzato di interpretare forme barocche in chiave moderna: forse non era nemmeno uno sprovveduto per essere un progettista di paese negli anni 60!!!
Un territorio come questo, aspro, pietroso, arido, assolato, caratterizzato dalla dominante giallo-dorata delle sterpaglie e dal segno grigio della pietra che riverbera i raggi del sole, con piantagioni rade di olivi misti a carrubi, con i campi segnati non dai fossi (acqua poca) ma dai muri a secco che non hanno, in genere, funzione di retta, come in Toscana, ma di divisione delle proprietà e contenimento delle mandrie e che formano un reticolo fitto in cui questi sembrano vene sporgenti sul corpo rinsecchito di un affamato, non può sopportare né la casetta del geometra con la terrazza a sbalzo torno, torno né il condominio in c.a. verniciato al plastico, con le finestre orizzontali o verticali da cima fondo. La masseria o la villa con gli annessi attaccati sono le tipologie per questo territorio: tertium non datur, o almeno non ho visto altro di adeguato.
Constato tutto ciò con grande rammarico e con un senso di sconfitta, non tanto perchè io ho sbagliato a credere nell'architettura moderna quand'ero più giovane (di questo me ne frego alquanto, perchè è meglio accorgersi dei propri errori che perseverare, anche in politica), ma perchè scopro che la modernità e il progresso che hanno il grande merito di produrre benessere, ricchezza e libertà hanno fallito totalmente proprio nel campo della nostra "disciplina" mentre medici, informatici, agronomi, ecc possono essere orgogliosi delle loro scoperte. Noi architetti invece dovremmo solo vergognarci perchè non abbiamo capito veramente niente, ma in compenso non ci è mancata arroganza e presunzione. Ma queste sono considerazioni "intimistiche" che non hanno rilevanza generale.
Il vero rovello è invece di tipo intellettuale e consiste nel non riuscire a trovare soluzioni ai problemi, nel dover accettare e digerire il PARADOSSO DELLA MODERNITA': la libertà produce una società anti-urbana.

Proprio una società di uomini liberi che dovrebbe esaltare la polis come il luogo di massima espressione di libertà genera invece l'esplosione e la distruzione della città.
In fondo, duole ammetterlo, i ragionamenti di Branzi hanno un fondamento. Una società libera fatta da individui non uniti da forti legami tradizionali non può che portare alla disgregazione della città. Ogni individuo è un universo e ogni universo è un mondo a parte, che ha un suo inizio e una sua fine e non comunica con l'altro: come sperare di trovare valori comuni per la città! Certo la risposta di Branzi è quella di una presa d'atto di questa realtà e dunque la città non può che nascere dalla mente degli architetti creatori o creativi, che trattano l'architettura come un fatto di costume, come la moda o il design, come semplice comunicazione. Fare architettura o urbanistica, in queste condizioni, diventa solo un fatto di potere, come fare pubblicità ad un prodotto, perchè il potere più grande non è quello politico ma quello della comunicazione, del messaggio pubblicitario. L'architetto più bravo è l'architetto più potente, quello che riesce ad affermare il suo prodotto che dura una stagione (non so dire se la stagione dell'architettura sarebbe quello di una collezione autunno-inverno oppure avrebbe tempi più lunghi).
Ma la risposta di Branzi (o Mendini o Fuksas o chi altri) non soddisfa (non tanto per ma la "gente") e allora l'unica alternativa, molto pragmatica e molto poco dogmatica è quella di tornare all'antico nella semplice constatazione che soddisfa di più l'occhio e, forse, anche la coscienza. Se milioni di persone si spostano per visitare i centri storici italiani ed europei vuol dire che certi canoni formali sono duri a morire nel cervello della gente, o forse si adattano più ad esso che non le astrazioni dei suddetti Maestri. E allora ben venga Krier con le sue paradossali, buffe ma evocative architetture, ben vengano i muratoriani con la loro città irriproducibile (distanze, codice della strada, sismica, USL, sicurezza, anti-incendio, barriere architettoniche, ecc): sempre meglio un simulacro di città antica che una non-città.
Adesso avrai capito perchè il buon Giulio, nel suo foglietto in cui traccia una linea tra architetti modernisti e antichisti mi abbia collocato molto vicino al confine: io sono un border-line. Non riesco infatti, ed è un mio limite, a separare la scelta architettonica dalla società che la produce.
La libertà genera solitudine, individui liberi ma isolati l'uno dall'altro, che si riuniscono per lavorare, per grandi "eventi" (concerti, manifestazioni politiche, discoteche, vacanze, acquisti, ecc) ma che, in quanto liberi, sono incapaci di accordarsi insieme in un progetto unitario e condiviso di città. Ognuno ha la propria visione del mondo e aspira a vederla riconosciuta e nessuno è disposto a rinunciarvi. La Prova d'orchestra di Fellini è la miglior descrizione visiva di quanto penso: ogni musicista va per conto suo e il direttore è incapace di tenere unite le individualità.
La solitudine è il prezzo della libertà; solitudine esistenziale e solitudine sociale: il canone urbano e architettonico della solitudine è il vuoto, non il pieno. Nel vuoto non c'è città.
Per me che, nonostante recenti traversie personali, non ho perso l'ottimismo di fondo che mi fa vedere tutti i lati positivi del nostro tempo rispetto a quelli passati è durissimo (intellettualmente e non a livello di conflitto personale) non riuscire a risolvere questa contraddizione.
E allora, CHE FARE?
Sposare la causa degli antichisti, direbbe Danilo; ricreare false condizioni sociali perchè il bello è meglio del brutto (direbbe Catalano) sperando che ci sia più da ristrutturare che da creare ex-novo (ristrutturare vuol dire leggere ciò che c'è già e, oltre che più facile, crea meno problemi di coscienza).
Inoltre vi è, fortissima, la motivazione economica: il nostro territorio è veramente una enorme risorsa da conservare e valorizzare; distruggerlo con i nostri mostri moderni è come dare fuoco ai pozzi di petrolio.
Ma voglio concludere con una nota di ottimismo: la scelta antichista è anche il frutto di una società evoluta economicamente e culturalmente, post-moderna, non industriale ma terziaria avanzata, la quale, esaudito ed esaurito in gran parte il fabbisogno abitativo, si pone il problema di migliorare la qualità della vita e per fare ciò si rivolge a quei modelli più collaudati e che hanno più appeal sul mercato. Risolto il problema dell'essenziale, ricchi e pasciuti ci preoccupiamo del superfluo e il gusto si affina, nelle arti, nella cultura, nella moda, nell'alimentazione, nell'abitare e affrontiamo argomenti di ordine superiore, più evoluti.
Per fare ciò è necessario studiare quei modelli (tornano in campo i muratoriani) e applicarli con serietà altrimenti facciamo come la Fiat, che a furia di sbagliarli (i modelli) rischia l'estinzione.
Il mercato è la nostra salvezza e la nostra guida.
Un'altra proposta in positivo: il prossimo obbiettivo potrebbe essere modificare le brutture esistenti, per esempio, rifare una bella facciata al palazzo della UPIM in piazza San Jacopo: sarebbe un bel manifesto del nostro Centro Studi Rinascimento Urbano (il progetto di ristrutturazione di Krier ad Alessandria è decisamente meglio del nuovo).
Adesso ti lascio, lascio questa splendida terrazza in un palazzo di Ibla (il centro storico di Ragusa), lo sfondo di questo meraviglioso presepe illuminato davanti a me e vado a dormire. Domani mi sposto a Noto, capitale del barocco, dove un grattacielo (dimensioni di quello scongiurato della Margheritone) è lì a ricordarci gli scempi edilizi della modernità.
Affogherò nel mare le mie ansie architettoniche. Madonna, quest'anno ho fatto le vacanze intelligenti!

Un saluto a te e ad Anastasia

Piero

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