Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


22 maggio 2008

ARCHITETTURA COME ARTE CIVICA (2)

Pietro Pagliardini

Ritorno ancora sul libro di Marco Romano “La città come opera d’arte” - Einaudi, € 9,00 - nella parte in cui tratta dei temi collettivi, cioè quegli edifici o spazi pubblici che ciascuna comunità assume come rappresentativa di se stessa nella sua interezza, quali cattedrale, palazzo comunale, ecc. e la cui caratteristica, come spiega l’autore, è specifica ed esclusiva della città europea.

La tesi principale del libro è che alla base della città europea ci sia un principio estetico adottato per scelta consapevole della cittadinanza e viene raccontato in che forme si sia manifestata questa volontà che nasce da una volontà collettiva, espressione della somma delle volontà individuali dei cittadini. Ne riporto alcuni stralci significativi:

La civitas europea ha dunque una sua riconosciuta personalità, di ordine superiore a quella dei cittadini che la compongono, e proprio come i singoli cittadini in quanto individui confrontano il proprio status nella facciata della loro casa, così i medesimi cittadini in quanto civitas rappresentano il rango che considerano confacente alla propria città nella grandiosità e nella magnificenza relativa dei suoi temi collettivi, in un confronto che le coinvolge tutte, dal villaggio alla città, mentre nelle altre civiltà del mondo gli edifici monumentali li vediamo soltanto nelle città maggiori e invano cerchereste una moschea o un tempio nella miriade di modeste cittadine e di villaggi nelle campagne dell’Islam o dell’India.
omissis
La democrazia non ha lo scopo di perseguire scelte “razionali”, cioè oggettivamente “giuste”, (omissis) è soltanto una procedura accettabile per prendere decisioni nella sfera collettiva riconoscendo a tutti la dignità dei loro desideri individuali e la legittimità degli argomenti dei loro sostenitori, quali che essi siano, a prescindere dal loro effettivo merito e dunque senza necessariamente farli propri.
La lite su un nuovo tema collettivo è per questo endemica, viene prolungata e ramificata nella scelta dell’architetto, nella conduzione del cantiere, nell’enormità della spesa, finché, una volta realizzato, e archiviati i litigi, il nuovo tema apparirà col tempo, per la sua stessa natura di rispecchiare un tema sociale europeo, esito di una concorde volontà civica, e nella misura in cui in effetti rappresenta il sentimento della civitas della propria consapevolezza di sé, costituirà davvero l’espressione della volontà di fare della città un’opera d’arte.
Omissis
La civitas costituisce in se stessa, nella specifica organizzazione dialettica della sua democrazia, il committente dei temi collettivi, e per questo la loro grandiosa dimensione, come abbiamo accennato, li rende espressivi del suo desiderio di manifestare il proprio rango. Anche se lo stile di volta in volta adottato nasce sempre nell’ambito della sfera specifica della cultura architettonica - spesso con punti di vista contrastanti come conviene a una società dove la competenza e la capacità di innovazione nel mestiere sono oggetto di apprezzamento come quando Brunelleschi riuscì a voltare la grande cupola di Santa Maria del Fiore, rimasta da un secolo incompiuta - il giudizio sulla loro congruità, sulla loro utilità e sul loro decoro costituisce per principio una competenza di tutti i cittadini della civitas in quanto tali, dove tutti siamo legittimati ad avere un punto di vista sul se e sul come realizzarli a prescindere dalla nostra specifica cognizione dell’arte.
Se nel Trecento la forma dei capitelli di Santa Maria del Fiore venne sottoposta e referendum, in uno sketch giornalistico del tardo Ottocento Carlo Collodi tratteggia la lite tra un macellaio e il suo cliente sul come avrebbe dovuto venire completata la sua facciata, allora in concorso, tricuspidata o orizzontale, lite culminata a lanci sanguinolenti.


Tutto quanto sopra spiega bene il significato che del termine di “architettura come arte civica” e che ne fa cosa tutt’affatto diversa da ogni altra espressione artistica. Pittura, scultura (quando non destinata a spazi pubblici), letteratura, poesia sono arti che possono avere certamente una valenza civile nel senso che in esse la società o parte di questa può riconoscersi come nazione o come comunità locale o come gruppo specifico però il loro atto creativo, qualunque ne siano gli esiti, non può essere sottoposto a nessuna censura preventiva, a nessuna valutazione preliminare, non solo per garantire a tutti libertà di espressione, ma perché l’uso che ne verrà fatto dai cittadini dipende anch’esso da una scelta individuale: io posso leggere o no un libro, guardare o meno un quadro, ascoltare o meno un brano musicale; invece nell’architettura io non sono libero di scegliere cosa vedere, perché cammino nella mia città e lungo il percorso mi imbatto, per forza, in edifici che altri hanno progettato e costruito e non dovrò essere costretto a chinare il capo per non guardare ciò che ritengo sbagliato o brutto.

Per questo appellarsi come fanno spesso gli architetti alla “libertà di espressione” per avere mani libere nella progettazione, è argomento usato in modo molto superficiale, quando non in mala fede, se non si inquadra nella giusta prospettiva il rapporto libertà del progettista-libertà dei cittadini.

La civitas, come dice Romano, costituisce in se stessa il committente dei temi collettivi. La città è un bene collettivo, come l'ambiente naturale, su cui tutti hanno il diritto di esprimersi; questo spiega il motivo dell’esistenza della commissione edilizia (oggi in disuso per una errata, e spesso ipocrita, esigenza di snellimento burocratico)che è una logica semplificazione della forma assembleare per la gran massa degli edifici che vengono costruiti dai privati, cioè per l’edilizia di base; ed è sempre per questo che, salendo il livello di complessità e di importanza, i piani urbanistici, di dettaglio e generali, vengono approvati dal Consiglio Comunale, che è un'assemblea rappresentativa dei cittadini, previo esame delle osservazioni da questi presentate. Al vertice per importanza urbana, cioè per aree ed edifici pubblici (molti dei quali sono, come dice Romano, temi collettivi) che interessano tutti, ma proprio tutti gli abitanti di una città, anche i cittadini dovrebbero poter esprimere il loro parere, senza lasciare politici e amministratori in balia delle scelte di architetti o “esperti” a vario titolo o, peggio, senza delegare solo a questi soggetti la decisione ultima.

Con questo sistema, che non è certo lineare come io l'ho descritto ma è sicuramente conflittuale come conflittuale è la democrazia, il progetto della città torna patrimonio comune di chi la vive e l'esperto acquista un ruolo determinante, come progettista e come uno tra i molti soggetti giudicanti, non l'unico.

Mi domando spesso: a chi e perché fa paura il voto popolare?

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