Riporto di seguito la magistrale descrizione della città di Gerusalemme tratta dal libro libro “Contro l’idolatria”, Einaudi, 2005, di Moni Ovadia:
"L’arrivo a Gerusalemme è di quelli che ti si imprimono nella memoria. Non parlo della Gerusalemme vecchia, con l’eccezione di qualche luogo, risulta deludente. Lo sviluppo della città nuova colpisce, è davvero impressionante. Le case sono accorpate fitte fitte sulle colline che circondano al Città santa. Il loro colore unico, ma non uniforme, è di straordinario impatto. Una legge inglese, tuttora in vigore, impone che tutte le case siano edificate con la pietra del luogo, o per lo meno che, di quella pietra, ne sia garantito il rivestimento esterno. La stessa regola vige per le abitazioni residenziali come per gli edifici commerciali o le grandi strutture istituzionali. Perfino i pochi grattacieli non si sottraggono alla normativa, anche se questi sparuti giganti appaiono soli e sconfortati nel contesto di quella selva di piccole case popolate sempre più da uomini che vibrano per la Torah. La fibra calcarea, gessosa, conferisce alla morfologia della città una personalità fortissima che si sposa ad altre ragioni di natura spirituale, rendendo questo luogo davvero unico al mondo.
Parlare di speculazione edilizia sarebbe assolutamente sensato, ma non è, a mio parere, il merito della questione. Quelle case appaiono uscite dalla pietra stessa, come vi fossero inscritte. Stonano paradossalmente i boschi di alberi piantati saggiamente dal KKL (il Fondo nazionale israeliano per la forestazione) nella parte bassa delle alture. Quel verde è salubre ma non coerente. Le case sembrano invece scaturite da un deserto, seguendo la profezia: “Sarete numerosi come i granelli di sabbia nel deserto (di giorno) e come le stelle nei cieli (di notte)”. Come quella profezia era intrisa della sabbia del deserto, culla del progetto identitario ebreo, così quelle case sembrano possedere il colore e il calore della parola divina. E come le rocce e la sabbia nel deserto , di giorno la pietra di quelle case riflette la spietata volontà del sole, mentre al crepuscolo si abbandona a una pietà rosata e accoglie la brezza collinare che conforta la giornata del residente e quella del commosso e atterrito viandante che sono. Gerusalemme mi attrae con la mistica ferocia di una donna santa, e mi sgomenta come una bella donna che abbia sposato la santità come destino. Mi rifugio in albergo a smaltire la violenta sbornia di liquore millenario distillato nella contemporaneità che ho tracannato tutto d’un fiato."
Qui potreste anche interrompere la lettura per non rovinare l'emozione di questo brano con le modeste considerazioni che seguono, ma la tentazione di un commento è troppo forte.
Perché questo brano in un blog di architettura? In verità mi è ritornato in mente a causa degli avvenimenti a margine del salone del libro di Torino, e mi è sembrato il modo giusto per rendere un modesto omaggio a Moni Ovadia che non è israeliano ma che, da saltimbanco, come lui si definisce, diffonde cultura ebraica.
Ma il motivo vero è che con questo veloce sguardo a Gerusalemme, l’autore riesce a cogliere in modo emozionale ed esemplare tutte le qualità essenziali della città, che costituiscono un compendio del bello e del brutto della città in generale. Vediamo perché:
1) Intanto non parla della città vecchia, del centro storico, ma della parte nuova. Se si trattasse di una delle nostre città non c’è dubbio che ci aspetteremmo di leggere la rappresentazione del degrado. Qui no, qui in realtà l’autore non dà un giudizio esplicitamente positivo, ma è evidente che, dal contrasto con una certa delusione per il centro antico, questa parte di città lo colpisce in modo positivo. Le case sono “accorpate fitte fitte”, come deve essere una città, densa, con il pieno che prevale sul vuoto, come nei nostri centri storici. Il vuoto nelle città è il lascito del razionalismo, è la Ville Radieuse di Le Corbusier che dilata la città in orizzontale, allontanando gli edifici dalle strade e lasciandoli soli in mezzo ad un lotto, terra di tutti e di nessuno.
2) Il colore delle case è “unico, non uniforme”, al pari dei nostri centri storici, in cui vige il principio dell’omogeneità nella diversità. Omogeneità delle caratteristiche morfologiche ma ogni casa ha elementi di caratterizzazione individuali nei dettagli e nelle decorazioni di facciata, nei portoni d’ingresso, nelle riquadrature delle finestre, nei davanzali, nelle gronde, nel colore delle facciate.
3) I grattacieli, che sono anch’essi trattati con la stessa pietra, appaiono “soli e sconfortati” e soprattutto forte è il contrasto tra le piccole case, in cui c’è vita, rappresentata dagli uomini che “vibrano per la Torah”, e il vuoto di quelli.
4) La pietra di cui sono rivestiti tutti gli edifici, pubblici e privati, alti o bassi, fa apparire la città tutta come uscita dal deserto, manifestando l’appartenenza al luogo e alla sua geografia. Una città di acciaio e vetro a quale luogo può appartenere?
5) Infine la frase conclusiva in cui vi è il riconoscimento che la contemporaneità è il distillato di una cultura millenaria, cioè nella visione della città odierna si legge la problematicità di due sensazioni diverse ed opposte perché il distillato è allo stesso tempo qualcosa di meno, perché è un estratto della materia originale, e qualcosa di più e di diverso nella esaltazione e nella trasformazione del prodotto originale in un sapore nuovo e più inteso ma che trae la sua origine in quello precedente.
Un saluto e molte scuse al saltimbanco Moni Ovadia.
Pietro Pagliardini
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