Pietro Pagliardini
Non ho ancora letto il libro di Franco La Cecla “Contro l’Architettura”, Bollati-Boringhieri, € 12,00, recensito da Pierluigi Panza sul Corriere della Sera, perciò mi limiterò a qualche considerazione sul tema affrontato dall’articolo, cioè: La moda ha ucciso l’architettura.
Qualche giorno dopo è uscito un altro articolo di Panza: Architetti: La moda non fa paura, in cui alcuni architetti, intervistati dal giornalista, esprimono sul libro di La Cecla pareri diversi e alquanto singolari:
Italo Rota:«La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l' Expo di Milano». Come dire che il problema c’è solo a Dubai e non invece in tutta Europa, nelle capitali e non solo, e non solo per lo 0,1% degli architetti ma per tutti i loro numerosi emuli che scimmiottano, in piccolo e in grande, quel tipo di architettura, modificando così in maniera violenta un atteggiamento culturale degli architetti i quali ormai pensano, nella stragrande maggioranza, di avere il dovere di essere “creativi” e liberi da regole (progettuali intendo, e non edilizie-urbanistiche, che queste sì sono il vero patrimonio “culturale” dell’architettura del nostro tempo e che vengono addirittura insegnate all’università). Ci sarebbe poi da dire qualcosa sul fatto che gli interventi edilizi alla scala e del tipo che vengono eseguiti e proposti a Dubai possano innescare nel mondo arabo un processo di identificazione tra le mostruosità dell’architettura e il mondo occidentale, identificando perciò queste operazioni immobiliari come una forma di colonialismo economico e culturale. Ed è molto strano che vi sia chi è fortemente critico sull’idea dell’esportazione con la forza del modello democratico - critica del tutto legittima - ma non trovi poi niente da ridire su questa forma di imposizione imperiale di un modello culturale che è violento e straniante per lo stesso occidente, in particolare per l’Europa., a maggior ragione per un mondo in cui è esasperato il valore dell’identità culturale e religiosa.
Ma il vero problema, dice anche Rota, è che a Milano si stanno spartendo le aree dell’Expo; ma cosa diavolo c’entra la speculazione edilizia (che non credo sia solo a Milano) con il discorso di La Cecla? Mi sembra che il miglior modo per non parlare di architettura sia quello di rifugiarsi nella denuncia della speculazione, specie quando non ci siamo dentro.
Mario Botta ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l' immagine, ma non è così: l' architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un' attività che lavora sul territorio della memoria. L' architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Questo giudizio è molto più assennato e profondo, peccato che, ammesso che passi la moda, gli edifici non si possono mettere nell’armadio come i vestiti dell’anno precedente. E non ci si possono mettere, aggiungo, neanche i cilindri, i cubi e i tronchi di cono di cui ha disseminato il mondo, pur riconoscendo la differente scala di valori tra l’architettura di Botta e quella, che so, di Libeskind.
Per Vittorio Gregotti che condivide in parte l’analisi di La Cecla, ma rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia, lo Zen di Palermo è diventato un vero tormentone vicino ad un incubo.
Entra nel merito invece Angelo Crespi, direttore de il Domenicale:
Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l' ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L' architettura e l' arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza.
Io penso che La Cecla abbia centrato il problema; aggiungerei però che il fenomeno non è limitato al mondo delle griffe di moda - anche se questo è il più importante e omogeneo con il processo che genera le archistar - perché le strategie di marketing di molti prodotti da pubblicizzare utilizzano come sfondo paesaggi urbani costituiti da architetture contemporanee di archistar o similari.
Alcuni esempi a memoria:
1) Per un modello di BMW c’è un uomo che esce dall’acqua gelida di una piscina all’aperto, in pieno inverno, contento come una pasqua, e sullo sfondo c’è una villa da incubo con due volumi sovrapposti come due blocchi di ghiaccio ruotati l’uno sull’altro. Evidentemente si vuole trasmettere un senso di perfezione e pulizia di forme, ma anche una totale disumanità in quel signore che esce, privo di sensorialità corporea, dal gelo dell’acqua al gelo dell’aria.
2) Una nuova auto Ford si aggira invece fra le strade di un borgo antico ma, guarda caso, trasfigurato in un enorme plastico di colore bianco, alberi finti compresi: ancora più perverso perché si prende una città antica e la si sublima completamente, togliendole proprio quegli attributi che la rendono reale e adatta all’uomo, cioè la materia con la sua grana e le variazioni cromatiche.
3) Per un dentifricio che promette di ricostruire lo smalto dei denti, c’è il ricercatore che creato la formula intervistato nel suo ufficio asettico, da manager, entro un grattacielo, con sullo sfondo una vetrata da cui si vedono altri grattacieli di acciaio e vetro.
Quando si vuole vendere qualcosa che ha a che fare con la tecnologia e con la ricerca, l’architettura volutamente scelta è quella della perfezione geometrica dei volumi semplici, della mancanza di colore, in grado, si presume, di rappresentare la modernità.
La natura, la campagna e i borghi medioevali sono invece funzionali ai prodotti alimentari che devono comunicare genuinità, tradizione, tipicità e appartenenza ai luoghi.
E’ vero che talora anche le auto corrono nella natura ma il più delle volte, come in uno spot BMW, è una natura arida, attraversata da un nastro sinuoso di asfalto lucente, con dominante plumbea, totalmente artificiale.
Il modello che si impone, in generale, è dunque questo:
prodotto a forte valenza tecnologica - architettura decostruttivista o high-tech
mentre il modello che si impone nella moda è, mutuando dalla matematica:
la griffe della moda sta all’ abbigliamento di tendenza come la griffe dell’architettura sta architettura di tendenza.
Potrebbe perciò sembrare che moda ed architettura fossero due termini omogenei ed infatti molti difensori della “modernità dell’architettura” si appellano a questa presunta analogia per rivendicare che l’architettura capace di rappresentare la contemporaneità non possa che essere quella dei vari Koolhaas, Libeskind ecc. Questo è un equivoco lampante perché tale analogia è possibile solo nel campo della comunicazione visiva - che poi è comunicazione pubblicitaria - ma non nella realtà urbana che è costituita e vissuta da uomini che affrontano ogni giorno la propria vita reale e non da attori che girano uno spot pubblicitario. La trasposizione di uno scenario da video clip pubblicitario nelle città le renderebbe tutte al pari di immensi studi televisivi in cui il 100% del tempo è occupato da pubblicità senza interruzioni e pause per la vita reale; lo slogan “non interrompere un’emozione”, usato nel referendum contro la pubblicità televisiva assumerebbe significato inverso: “non interrompere la pubblicità a favore della vita”.
L’architettura non è merce da buttare quando è passata di moda ma è l’ambiente “naturale” di vita dell’uomo e farne uno scenario da film di cartapesta significa distruggere le basi su cui è nata la città europea e tutta la sua civiltà ed anche la percezione che l’uomo ha di se stesso nel proprio ambiente.
E’ tra l’altro curioso osservare come coloro i quali giudicano mistificante il ritorno a tipologie e forme del passato in architettura, perché pura finzione, non colgano poi la stessa contraddizione, all’ennesima potenza, che si presenta proprio nella città della comunicazione che, per definizione è totalmente virtuale.
Non ho assolutamente niente contro la pubblicità, che è forse l’espressione artistica veramente capace di rappresentare il nostro tempo perciò, se alla vendita è funzionale quell’immagine, per me va benissimo ma sarebbe bene che gli architetti, oltre a saper tirare linee, avessero la capacità critica di discernere tra il linguaggio che è funzionale al mercato delle merci e il linguaggio dell’architettura e della città, che è funzionale alla vita dell’uomo.
La foto dello spot Ford è tratta da You-Tube
Il nudo è tratto dal Corriere della Sera
Italo Rota:«La moda non ha ucciso nessuno: un paio di jeans di Cavalli che migliorano la forma di un 60enne lo aiutano a vivere meglio, così come una casa a Dubai, che costa meno che in Brianza. La Cecla parla dello 0,1% del mondo degli architetti e ignora quindi il 99,9% dei problemi. Ad esempio, il fatto che i costruttori si stiano già spartendo le aree per l' Expo di Milano». Come dire che il problema c’è solo a Dubai e non invece in tutta Europa, nelle capitali e non solo, e non solo per lo 0,1% degli architetti ma per tutti i loro numerosi emuli che scimmiottano, in piccolo e in grande, quel tipo di architettura, modificando così in maniera violenta un atteggiamento culturale degli architetti i quali ormai pensano, nella stragrande maggioranza, di avere il dovere di essere “creativi” e liberi da regole (progettuali intendo, e non edilizie-urbanistiche, che queste sì sono il vero patrimonio “culturale” dell’architettura del nostro tempo e che vengono addirittura insegnate all’università). Ci sarebbe poi da dire qualcosa sul fatto che gli interventi edilizi alla scala e del tipo che vengono eseguiti e proposti a Dubai possano innescare nel mondo arabo un processo di identificazione tra le mostruosità dell’architettura e il mondo occidentale, identificando perciò queste operazioni immobiliari come una forma di colonialismo economico e culturale. Ed è molto strano che vi sia chi è fortemente critico sull’idea dell’esportazione con la forza del modello democratico - critica del tutto legittima - ma non trovi poi niente da ridire su questa forma di imposizione imperiale di un modello culturale che è violento e straniante per lo stesso occidente, in particolare per l’Europa., a maggior ragione per un mondo in cui è esasperato il valore dell’identità culturale e religiosa.
Ma il vero problema, dice anche Rota, è che a Milano si stanno spartendo le aree dell’Expo; ma cosa diavolo c’entra la speculazione edilizia (che non credo sia solo a Milano) con il discorso di La Cecla? Mi sembra che il miglior modo per non parlare di architettura sia quello di rifugiarsi nella denuncia della speculazione, specie quando non ci siamo dentro.
Mario Botta ritiene veritiere le critiche di La Cecla, ma toccano, afferma, «solo una degenerazione impietosa del nostro tempo. È vero che la moda ha spopolato in settori non solo di costume attraverso la pubblicità e altre forme edonistiche del vivere. Ora sembra contare solo l' immagine, ma non è così: l' architettura resta costruzione dello spazio in rapporto con un contesto, un' attività che lavora sul territorio della memoria. L' architettura è il risultato delle forze fisiche relative al processo di creazione. Se sono in atto solo quelle edonistiche è chiaro che la forma finale sia quella del decostruzionismo contemporaneo. Ma anche la moda passerà di moda». Questo giudizio è molto più assennato e profondo, peccato che, ammesso che passi la moda, gli edifici non si possono mettere nell’armadio come i vestiti dell’anno precedente. E non ci si possono mettere, aggiungo, neanche i cilindri, i cubi e i tronchi di cono di cui ha disseminato il mondo, pur riconoscendo la differente scala di valori tra l’architettura di Botta e quella, che so, di Libeskind.
Per Vittorio Gregotti che condivide in parte l’analisi di La Cecla, ma rifiuta la critica di «non assunzione di responsabilità» da parte degli architetti che hanno costruito alloggi popolari in periferia, lo Zen di Palermo è diventato un vero tormentone vicino ad un incubo.
Entra nel merito invece Angelo Crespi, direttore de il Domenicale:
Ogni civiltà ha costruito case che rappresentavano un modo di pensare e vivere; i nostri architetti fabbricano alloggi e mausolei per futuri cadaveri. Pensiamo alle periferie ideate dai modernisti: sono luoghi orrendi, degradati, in cui gli abitanti hanno come disvalore di riferimento il brutto. Pensiamo invece a quanto i borghi medievali, costruiti senza l' ausilio di urbanisti e architetti, siano integrati nel paesaggio e funzionali alla vita umana. L' architettura e l' arte hanno rinunciato a pensare in termini di bellezza.
Io penso che La Cecla abbia centrato il problema; aggiungerei però che il fenomeno non è limitato al mondo delle griffe di moda - anche se questo è il più importante e omogeneo con il processo che genera le archistar - perché le strategie di marketing di molti prodotti da pubblicizzare utilizzano come sfondo paesaggi urbani costituiti da architetture contemporanee di archistar o similari.
Alcuni esempi a memoria:
1) Per un modello di BMW c’è un uomo che esce dall’acqua gelida di una piscina all’aperto, in pieno inverno, contento come una pasqua, e sullo sfondo c’è una villa da incubo con due volumi sovrapposti come due blocchi di ghiaccio ruotati l’uno sull’altro. Evidentemente si vuole trasmettere un senso di perfezione e pulizia di forme, ma anche una totale disumanità in quel signore che esce, privo di sensorialità corporea, dal gelo dell’acqua al gelo dell’aria.
2) Una nuova auto Ford si aggira invece fra le strade di un borgo antico ma, guarda caso, trasfigurato in un enorme plastico di colore bianco, alberi finti compresi: ancora più perverso perché si prende una città antica e la si sublima completamente, togliendole proprio quegli attributi che la rendono reale e adatta all’uomo, cioè la materia con la sua grana e le variazioni cromatiche.
3) Per un dentifricio che promette di ricostruire lo smalto dei denti, c’è il ricercatore che creato la formula intervistato nel suo ufficio asettico, da manager, entro un grattacielo, con sullo sfondo una vetrata da cui si vedono altri grattacieli di acciaio e vetro.
Quando si vuole vendere qualcosa che ha a che fare con la tecnologia e con la ricerca, l’architettura volutamente scelta è quella della perfezione geometrica dei volumi semplici, della mancanza di colore, in grado, si presume, di rappresentare la modernità.
La natura, la campagna e i borghi medioevali sono invece funzionali ai prodotti alimentari che devono comunicare genuinità, tradizione, tipicità e appartenenza ai luoghi.
E’ vero che talora anche le auto corrono nella natura ma il più delle volte, come in uno spot BMW, è una natura arida, attraversata da un nastro sinuoso di asfalto lucente, con dominante plumbea, totalmente artificiale.
Il modello che si impone, in generale, è dunque questo:
prodotto a forte valenza tecnologica - architettura decostruttivista o high-tech
mentre il modello che si impone nella moda è, mutuando dalla matematica:
la griffe della moda sta all’ abbigliamento di tendenza come la griffe dell’architettura sta architettura di tendenza.
Potrebbe perciò sembrare che moda ed architettura fossero due termini omogenei ed infatti molti difensori della “modernità dell’architettura” si appellano a questa presunta analogia per rivendicare che l’architettura capace di rappresentare la contemporaneità non possa che essere quella dei vari Koolhaas, Libeskind ecc. Questo è un equivoco lampante perché tale analogia è possibile solo nel campo della comunicazione visiva - che poi è comunicazione pubblicitaria - ma non nella realtà urbana che è costituita e vissuta da uomini che affrontano ogni giorno la propria vita reale e non da attori che girano uno spot pubblicitario. La trasposizione di uno scenario da video clip pubblicitario nelle città le renderebbe tutte al pari di immensi studi televisivi in cui il 100% del tempo è occupato da pubblicità senza interruzioni e pause per la vita reale; lo slogan “non interrompere un’emozione”, usato nel referendum contro la pubblicità televisiva assumerebbe significato inverso: “non interrompere la pubblicità a favore della vita”.
L’architettura non è merce da buttare quando è passata di moda ma è l’ambiente “naturale” di vita dell’uomo e farne uno scenario da film di cartapesta significa distruggere le basi su cui è nata la città europea e tutta la sua civiltà ed anche la percezione che l’uomo ha di se stesso nel proprio ambiente.
E’ tra l’altro curioso osservare come coloro i quali giudicano mistificante il ritorno a tipologie e forme del passato in architettura, perché pura finzione, non colgano poi la stessa contraddizione, all’ennesima potenza, che si presenta proprio nella città della comunicazione che, per definizione è totalmente virtuale.
Non ho assolutamente niente contro la pubblicità, che è forse l’espressione artistica veramente capace di rappresentare il nostro tempo perciò, se alla vendita è funzionale quell’immagine, per me va benissimo ma sarebbe bene che gli architetti, oltre a saper tirare linee, avessero la capacità critica di discernere tra il linguaggio che è funzionale al mercato delle merci e il linguaggio dell’architettura e della città, che è funzionale alla vita dell’uomo.
La foto dello spot Ford è tratta da You-Tube
Il nudo è tratto dal Corriere della Sera
2 commenti:
Mi disturba non poco vedere personaggi come Botta e soprattutto Gregotti dire cose di questo tipo visto quello che hanno sparso in giro per il mondo (soprattutto il secondo). Non voglio di certo metterli sulla graticola, per carità, ma mi sembra che quanto a delicatezza e sensibilità rispetto al contesto abbiano ben poco da insegnare a chicchessia (di nuovo, soprattutto il secondo).
Povero Gregotti, che ti ha fatto? E' vero, è ermetico nell'espressione dei suoi concetti o meglio, alla fine della lettura di un suo testo viene da domandarsi: ma che diavolo voleva dire? c'ha anche questa macchia dello Zen che si ostina a non riconoscere ma come progettista (di fama) c'è di peggio, di molto peggio!
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