Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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27 gennaio 2013

RIGENERAZIONE URBANA: MODELLI ASSURDI E MODELLI VIRTUOSI

di Ettore Maria Mazzola

In questi giorni è circolata la notizia (Matt Robinson su Daily Mail del 24 gennaio 2013) che in Gran Bretagna, una megastruttura residenziale (2700 alloggi) – erroneamente definita “torri” – realizzata tra il 1967 e il ’79 sta per essere “rasa al suolo e sostituita con un quartiere di case a schiera tradizionali, per ridurre la criminalità e migliorare gli standard di vita dei più poveri nella società britannica”.
La scelta non è stata, come qualche malizioso potrebbe accusare, basata sull’ideologia, oppure sulla visione “nostalgica” del Principe Carlo, bensì è stata suggerita da un lungo studio dei ricercatori di “Think-tank Policy Exchange” che ha dimostrato le seguenti cose:
1. La concentrazione di esseri umani all’interno di palazzoni multipiano esclusivamente residenziali tende ad aumentare la criminalità, facendo sì che queste strutture e quartieri divengano “no-go zone” (luoghi da evitare);
2. Chi vive in queste strutture ha maggiori probabilità di soffrire gravemente di stress, problemi di salute mentale; inoltre, tra queste persone, si registra un’impennata dei divorzi;
3. Considerato invece che vive in quartieri tradizionali di case a schiera è meno esposto a queste patologie e/o dinamiche, la sostituzione di certe realtà con quartieri di tradizionali di questo tipo può migliorare drasticamente le condizioni dei residenti.


Lo studio ha fatto emergere il desiderio dei cittadini, i quali hanno concordemente ammesso di “voler vivere in case realizzate sul modello di quelle costruite per secoli in tutto il Regno Unito, non solo per combattere la criminalità, ma anche per ridurre lo stress e salvare il proprio matrimonio!
Lo studio riporta come, nonostante l’evidenza di certi dati allarmanti, tutt’oggi oltre 140 mila famiglie inglesi vivano in realtà spersonalizzanti multipiano.
Il rapporto porta gli autori a suggerire che non solo questo quartiere degradato, ma tutti i quartieri similari realizzati nel Regno Unito negli ultimi 70 anni, essendo divenuti “no-go zones” debbano essere sostituiti al più presto!
In base ai dati del rapporto, è stato stimato che, nella sola Londra, potrebbero realizzarsi 260.000 nuove case nei prossimi 7 anni sostituendo i “grattacieli” e “casermoni” esistenti.
Boys Smith va oltre, ed elenca le problematiche relative ad un certo tipo di edilizia, auspicando che la si smetta di compiere gli errori del recente passato, ricominciando a “costruire strade lungo le quali la gente vorrebbe vivere per evitare di rendere la vita delle persone miserabile”.
Da alcuni anni, effettivamente, in Inghilterra si sta procedendo con interventi di questo genere, per esempio a partire dal 1997 come primo discorso da Primo Ministro, Tony Blair visitò un quartiere degradato proponendo la sua sostituzione con qualcosa di più umano e rispettoso dei residenti, e oggi quel quartiere è oggetto di un intervento di Rigenerazione Urbana di 1,5 mld di Sterline!
Stiamo parlando di dimostrazioni di civiltà, stiamo parlando di persone che, al di là dell’ideologia, riescono ancora a mettere in primo piano le esigenze della collettività.
Ma perché in Inghilterra certe cose avvengono, mentre da noi in Italia si viene condannati solo se si osi proporre qualcosa di simile?
Forse è il Regno Unito ad essere un Paese speciale? Forse perché lì c’è la monarchia e, conseguentemente, si è in grado di fare programmi a lunga scadenza cui i politici locali “a tempo determinato” debbono uniformarsi indipendentemente dal colore dei loro predecessori?
Non credo.
Infatti, se ci avviciniamo all’Italia, possiamo documentare il caso della Francia, dove a seguito dei fenomeni rivoluzionari delle banlieuses, lo Stato ha approvato e messo in pratica una legge che ha consentito di investire 60 mld di Euro per la sostituzione edilizia di quartieri degradati e degradanti, ma la cosa era già in atto da prima se, basti pensare al “fenomeno” di Plessis Robinson … fenomeno del quale in Italia, specie tra gli architetti e docenti di architettura, ci si guarda bene dal parlare!
Da noi è difficile che certe iniziative possano mai avvenire, probabilmente per ragioni di ignoranza, o forse per un assurdo e ingiustificato complesso di inferiorità culturale verso quei Paesi più votati al modernismo estremo, o anche e soprattutto per un vergognoso servilismo nei confronti di alcuni mostri sacri italiani.
Tutto ciò porta la stragrande maggioranza degli architetti italiani comportarsi in maniera ottusa, accusando di passatismo nostalgico, populismo, qualunquismo e quant’altro chi osi proporre certe cose.
Si rifletta però sul fatto che, proprio coloro i quali accusano di “passatismo” i sostenitori della sostituzione di quartieri degradati con esempi di urbanistica tradizionale, si comportano come i peggiori fondamentalisti-iperprotezionisti quando si tratti di dover buttare giù delle brutture del genere che, a loro dire, rappresenterebbero degli importanti "segni" o "memorie" storiche del tempo in cui sono sorti … costoro sono perfino arrivati a chiedere di porre un vincolo artistico sulle Vele di Scampia e il Corviale di Roma!.
E' ovvia la ragione, e l'ho già scritta tempo fa: gli architetti, per la maggior parte i "grandi luminari" 60-70enni, identificandosi con gli edifici che hanno realizzato, non accetterebbero mai di vedersi privare di un pezzo di se stessi … sarebbe come farsi amputare un braccio o qualcos'altro, sicché combattono anche con argomentazioni patetiche, qualsivoglia demolizione del "moderno" ... hai visto mai che prima o poi possa toccare ad un proprio edificio?
Costoro, piuttosto che pensare alla presunta importanza dell’appartenenza di un edificio al suo progettista, avrebbero dovuto – e dovrebbero – pensare a come concepire edifici che stimolino il senso di appartenenza dei cittadini a quel luogo, ma significherebbe mettere da parte la propria autoreferenzialità!
Così, in queste ultime settimane, abbiamo tristemente assistito alla patetica celebrazione, in vari modi, di personaggi come Pietro Barucci (autore di mostruosità come Tor Bella Monaca, Torrevecchia, Laurentino ’38, Quartaccio) e Michele Valori (co-progettista del Corviale con Mario Fiorentino) , personaggi che si sono resi responsabili di alcune delle più disumane progettazioni dello scorso secolo, e il prossimo 7 febbraio assisteremo alla celebrazione di un altro personaggio che ha fatto il bello e cattivo tempo dell’architettura e dell’urbanistica italiana, dirigendo Casabella e costruendo abomini come lo ZEN di Palermo: Vittorio Gregotti, il quale riceverà la sua passerella in occasione di una manifestazione organizzata presso l’Accademia di San Luca dedicata alle “Rigenerazioni Urbane in Italia”. Durante questa manifestazione verrà presentato il progetto di “rigenerazione del quartiere Acilia Madonnetta a Roma” … per chi non lo conoscesse, si tratta di un surrogato del suo ZEN di Palermo!
Ma come è possibile che in Italia si continuino a cantare le lodi di certi personaggi?
Lo ZEN è probabilmente il peggior esempio di progettazione di Case Popolari Italiano, primato tristemente condiviso con le Vele di Scampia di Franz Di Salvo, altro personaggio al quale è stato recentemente dato un tributo su alcuni blog!
Servilismo? Sudditanza psicologica nei confronti di personaggi (quelli in vita) ancora influenti per mettere una buona parola per diventare famosi? Davvero una cosa indegna!
Inutile dire che, in occasione della manifestazione dedicata a Gregotti ed alle “Rigenerazioni Urbane”, non è stato minimamente ipotizzato di presentare quei progetti di Rigenerazione elaborati da coloro i quali hanno per primi portato avanti questo discorso in Italia, professionisti che hanno elaborato progetti che dimostrano non solo come risulti possibile fare architettura e urbanistica a dimensione umana, ma che la cosa possa farsi in maniera totalmente pubblica, e a costo zero, rifocillando, piuttosto che dissanguando le finanze pubbliche, generando altresì centinaia e centinaia di posti di lavoro, migliorando fattivamente l’esistenza di tantissimi individui; i loro studi hanno inoltre dimostrato come certi progetti porterebbero delle ricadute economiche positive sull’intera collettività, anche grazie all’eliminazione di quelle problematiche elencate dallo studio inglese.
A tal proposito vorrei fare un paio di progetti che ho sviluppato di recente, non solo per spiegare come potrebbero funzionare, ma perché non vorrei recitare la parte di colui che critica gli altri senza mostrare delle alternative.
Nel caso di Corviale a Roma, se si procedesse alla sostituzione dell’abominevole complesso residenziale attuale, non solo si potrebbero insediare circa 2000 abitanti in più, per favorire l’integrazione sociale, ma si potrebbero portare una serie di attività quali una scuola materna ed elementare, una scuola media, una scuola superiore, alcune strutture sportive, una chiesa, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Cinema-Teatro, un Centro Culturale con Biblioteca di quartiere, un Edificio Postale, una Loggia per il Mercato, circa 58500 mq di negozi al piano terra degli edifici della spina centrale, circa 30000 mq di laboratori artigianali lungo le strade a margine, nonché un enorme parco di quartiere, inoltre l’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani; tutto questo potrebbe addirittura realizzarsi restituendo al territorio circa 12 ettari di terreno e, alla fine dei conti, semplicemente applicando dei prezzi calmierati e non facendo speculazione, potrebbero restare nelle casse dell’ATER circa 413 mln di euro da reinvestire per risanare altri quartieri degradati!
Stessa cosa è emersa dalla progettazione per la rigenerazione urbana del quartiere ZEN di Palermo, dove gli abitanti potrebbero crescere di 5125 unità, si potrebbe creare un enorme parco cittadino, all’interno del quale sorgerebbero anche due grandi centri polisportivi per un totale di 122750 mq, collegati a 360° da un percorso per jogging e pista ciclabile, una Clinica specializzata di 67573 mc, una Stazione di Polizia, un Comando dei Carabinieri, un Municipio, un Comando dei VV.UU., un Ufficio Postale, una Scuola Materna ed Elementare dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Media dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Scuola Superiore dotata Centro Sportivo da mettere a disposizione dei residenti, una Loggia per il Mercato, la nuova Chiesa di San Filippo Neri, con canonica, oratorio e centro sportivo per i ragazzi del quartiere, un Centro Culturale, un Cinema-Teatro. L’intero quartiere e il parco risulterebbero dotati di numerose aree per il gioco dei bambini e per il tempo libero e le attività degli anziani.
Anche in questo caso, le principali strade verrebbero animate da 45679 mq di negozi mentre, lungo le strade secondarie, potrebbero sorgere 46861 mq di laboratori artigianali, ogni appartamento sarebbe inoltre dotato di box auto privato, ovviamente il progetto ha previsto il rispetto della normativa in materia di parcheggi pubblici, così come anche quello per il Corviale.
Questi progetti non sono frutto di fantasticherie, né si ha la presunzione di sostenere di aver inventato il sistema di sviluppo per illuminazione divina, né tantomeno si tratta di un’imitazione dei sistemi New Urbanism o quant’altro proveniente dall’estero: si tratta semplicemente di progetti per i quali è stato ipotizzato di riutilizzare norme e strumenti in vigore in Italia finché il fascismo non decise di impedirli: certe norme e strumenti basati sul buon senso riuscirono a risanare le finanze del Comune di Roma ormai in bancarotta, quelle norme e strumenti generarono migliaia di posti di lavoro e contribuirono ad eliminare del tutto fenomeni violenti pari a quelli delle banlieuses francesi del 2005.
Perché allora non riprenderli a modello?
La crisi ci ha ormai messi in ginocchio, e i nostri edifici, così come quelli inglesi di cui allo spunto iniziale, necessitano di essere sostituiti, non solo per le ragioni di sicurezza e salute pubblica riportati nello studio inglese, ma anche perché, come denunciato dalla Commissione Europea per l’Ambiente – a causa della pessima qualità dell’architettura costruita negli ultimi 70 anni in Europa – l’incidenza in termini di fabbisogno energetico dell’edilizia industriale attuale è pari al 36%, (a fronte del 31% dell’industria e del 31% del trasporto), mentre le emissioni di CO2 dell’edilizia sono pari al 34,5 % (a fronte del 32,5% dell’industria e del 30,5% del trasporto).
Dalle stesse stime risulta che l’intero settore edilizio è responsabile del 50% dell’energia consumata a livello Europeo, di cui il 36% è imputabile al fabbisogno energetico in fase d'uso degli edifici, mentre circa il 14% è causato dal settore industriale legato all’edilizia.
Oltre a ciò va considerato che gli edifici comportano un notevole consumo di materiali ed energia sia in fase costruttiva che durante il loro uso e la loro dismissione: il settore edilizio consuma circa il 40% dei materiali utilizzati ogni anno dall’economia mondiale e produce circa il 35% delle emissioni complessive di gas serra, senza contare i consumi di acqua e di territorio, nonché la produzione di scarti e rifiuti dovuti alla demolizione.
La logica suggerirebbe quindi, al pari del Regno Unito e della Francia, di rivedere l’intero patrimonio immobiliare realizzato nell’arco dell’ultimo secolo, piuttosto che proseguire imperterriti nella produzione di edifici energivori e inquinanti … a conti fatti, una revisione del genere potrebbe risanare le esangui casse statali e, di conseguenza, potrebbero ridursi drasticamente gli sperperi di denaro pubblico e le tasse dei cittadini. Cosa stiamo aspettando?

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17 aprile 2012

NOI PER LO ZEN: IL PROGETTO

Il video della presentazione a Palermo del progetto del Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri in luogo dell'attuale Zen

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12 aprile 2012

ZEN-CORVIALE: UNA COINCIDENZA

Guardo il TG2 delle 20,30, l’unico TG decente che riesco a seguire per intero e che si adatta ai miei orari.
C’è un servizio sulle periferie di Milano (Quarto Oggiaro), Roma (Corviale), Napoli (Ponticelli).
Interviste agli abitanti più giovani per conoscere le speranze per il loro futuro. Non mi fido quasi mai di queste interviste, conosciamo tutti il clichè delle interviste TV al mercato (è aumentato tutto….), in spiaggia (tanto sole dopo l’inverno…), all’uscita degli esami di maturità (era difficile, speriamo bene…), ecc., la sagra dell’ovvietà, però un piccolo e impressionistico spaccato di umanità delusa e senza grandi speranze nel futuro nel servizio esce fuori.
A Napoli mi ha colpito l’intervista ad un padre Comboniano che adesso opera nel quartiere. Mi colpisce che un sacerdote dica che non c’è speranza e penso, mentre mangio, che forse farebbe meglio ad appendere al chiodo la tonaca e a cambiare mestiere. Poi, a fine pasto, ci ripenso: forse si è espresso male, forse voleva dire qualcos’altro. Si vede che le mie impressioni oscillano in base alla fame o alla sazietà.
Le immagini di Corviale, non della località ma proprio del serpentone sono devastanti, il degrado è inimmaginabile, il vuoto dei corridoi è assoluto, la porta che si apre sulle scale mostra spazi disumani, come salire in un locale impianti.

Le frasi introduttive del giornalista in studio sono ambivalenti: “il serpentone figlio dell’ideologia anni ‘70” non posso non condividerlo perché è vero, poi conclude con la speranza per i giovani riposta nello sport (almeno lui ce l’ha la speranza, a differenza del sacerdote), nel senso di una squadra di rugby che, con la sua disciplina, possa fornire valori a quei ragazzi costretti a vivere in quel malvagio sogno utopico. Ambivalente perchè se è vero che lo sport, come altre iniziative capaci di dare il senso di appartenere ad una comunità civile, è sicuramente utile, è altrettanto vero che quello stesso sport lo si potrebbe ugualmente svolgere, come avviene in centinaia di altre situazioni, senza essere costretti a fine allenamenti a dover rientrare in quel disumano edificio. Lo sport quindi come cura ad un malessere causato proprio dall’ambiente costruito. La miglior cura sarebbe stata però la prevenzione (mai luogo comune è risultato più vero), cioè non averlo costruito in quel modo.

Dopo cena salgo al computer, guardo la posta e trovo dall’amico Ciro Lomonte una mail con un link al Corriere del Mezzogiorno che annuncia oggi pomeriggio alle 15,00 la presentazione a Palermo del progetto di Ettore Maria Mazzola per il Borgo San Filippo Neri al posto dello Zen, quello di Gregotti, Purini & C.
Leggo con piacere che saranno presenti molti candidati alla carica di Sindaco e pure i rappresentanti degli imprenditori. Non dubito che apprezzeranno, non fosse altro perché hanno bisogno di consenso. Non intendo con questo minimamente sminuire il progetto dell’amico Mazzola, ma il fatto è che conosciamo tutti i nostri politici e in fondo i politici di tutto il mondo: quando c’è da prendere voti non badano a spese. Tuttavia è un segnale di attenzione, vuol dire che riconoscono un problema, sanno anche che non è un progetto di restauro e se si muoveranno vuol dire che hanno la percezione che c’è da ottenere consenso popolare. Questo, per me che sono considerato populista e che vado orgoglioso di questo appellativo quando chi me lo appiccica è qualche elitario scarsamente democratico, rappresenta la certezza di un sentiment diffuso contro quell’insediamento.

Non dubito nemmeno che il progetto creerà due partiti fieramente opposti, come è giusto che sia.
Da una parte i sostenitori dell’iniziativa, e questo è ovvio, ma credo con un largo seguito popolare, e questo sarebbe estremamente positivo, almeno per un populista come me.
Dall’altra una parte del mondo della cultura, specie architetti, alcuni in buona fede, i più per pura ideologia, per abitudini consolidate, come dice Ciro Lomonte nell’articolo, per un pregiudizio di appartenenza al gruppo della figliolanza di Gregotti.
Poi ci sono gli imprenditori. Beh, loro sono importanti, anzi fondamentali, ma è sicuro e normale che giudicheranno in base al loro interesse imprenditoriale, quindi dovranno essere i numeri a convincerli, oltre alla vendibilità del progetto, al suo appeal. Certo, i tempi non sono proprio quelli adatti agli investimenti.


Comunque vada, che le mie previsioni siano giuste o sbagliate, quello di cui sono sicuro è, anche dopo aver visto quelle immagini del Corviale, che tutte le opinioni possono essere rispettabili, ad eccezione di quella di mantenere una testimonianza storica di un periodo. E’ un lusso che non ci possiamo né dobbiamo permettere sulle spalle e sui dolori degli altri. Per essere autorizzati solo a pensarlo, a prescindere dal fatto che l’operazione possa o meno prendere avvio, è necessario che si assumano in prima persona l’impegno solenne di andarci a vivere, cioè abitare, lavorare, divertirsi, tanto per rimanere in tema. Viceversa, tacciano e tornino a rimirarsi il proprio ombellico.

PS
Ancora non ho informazioni su come si sia svolto l’incontro. Immagino che domani troveremo notizie e comunque mi saranno comunicate.

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18 marzo 2012

IL GREGOTTI SCATENATO

Sull’ultimo numero di Sette, magazine del Corriere della Sera, ci sono quattro pagine di un’intervista di Vittorio Zincone a Vittorio Gregotti. Il professore è letteralmente scatenato ed anche molto incisivo: la forma dell’intervista evidentemente gli si confà perchè lo costringe alla massima sintesi.
Inizia con una sparata contro l’abuso dei rendering: “Il nostro dovrebbe essere un lavoro di approssimazioni successive. Se, invece, basta un clic per realizzare un progetto…… si perde il rapporto tra la mente e la mano. Che è fondamentale”. A parte l’ingenuità del clic, difficile dargli torto sul fatto che l’uso esasperato dei software attuali per la progettazione tende a cambiare la sostanza del processo progettuale e del progetto stesso, per cui la tecnica va ben oltre l’aspetto meramente rappresentativo, trasformandosi da strumento per il progetto a essenza del progetto stesso, fino ad assumere, in architettura, il significato che nella comunicazione ha la famosa frase di Mc Luhan: “ Il medium è il messaggio”, vale a dire “Il software è il progetto”.

Venezia: Cannaregio di V.Gregotti - Foto di Steve Cadman

Inoltre, quel richiamo alla relazione tra “mente e mano” è il segno di una cultura antica in gran parte persa, a onor del vero già da prima dell’uso massivo del computer, dove il bel disegno, la bella rappresentazione grafica, certamente fondamentale, sembrava potesse prescindere dal contenuto.

Alla domanda su CityLife e sui tre grattacieli di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind, è lapidario: “Abominevoli”.

Poi continua osservando come i nomi siano solo il pretesto per gli affari dei costruttori. Non è la scoperta dell’America per questo blog, tanto meno per l’amico Nikos Salìngaros che ci ha scritto un libro, No alle Archistar, LEF, Firenze, e ha imperversato, rara avis, su quotidiani e riviste italiane e straniere, però è pur sempre un’affermazione importante.

Gregotti dice poi di apprezzare Renzo Piano ma alla richiesta di un suo giudizio sull’Auditorium di Roma, la definisce “un’opera sfortunata….. che con Roma non c’entra nulla. Tra gli architetti contemporanei c’è un’ideologia diffusa per cui ci si deve ribellare alla storia e al contesto”.
Zincone domanda se un sindaco, un presidente di Regione o un premier non abbiano il diritto di voler lasciare il proprio segno in una città e Gregotti risponde: “Anche i Papi volevano lasciare un segno. Ma almeno si rivolgevano alla persone giuste. E poi non si può ragionare in termini di competizione: a chi lo fa più alto. Anche perché se no si finisce come Shangai, con 2.000 grattacieli tutti diversi e paradossalmente non più distinguibili. Quando manca una regola, l’eccezione non esiste”.

In questa settore dell’intervista, pur trasparendo una sorta di rimpianto per i tempi che furono, quelli cioè in cui Gregotti era il dominus della cultura urbanistica italiana, una sorte di santone chiamato ovunque, e quando aveva anche forti relazioni politiche, certamente determinate anche da una sua passione civile figlia del momento storico, tuttavia fa un richiamo alla responsabilità della politica che ha, anche secondo il mio parere, il diritto e il dovere che le deriva dal voto popolare, di fare scelte per la città di cui possano e debbano rispondere. Scelte che, con la paura della corruzione e del clientelismo, che peraltro continuano imperturbabili ad ogni legge (l’onestà non si ottiene per legge), sono affidate ormai al caso e comunque escono dall’ambito di responsabilità e di decisione dell’amministratore. Che sia concorso o che sia gara, resta tutto nell’ambito degli uffici e, a posteriori, l’amministratore deve necessariamente subire ma farsi vanto dell’opera realizzata. Potrebbe fare altrimenti? Una situazione a dir poco grottesca.

Notevoli le considerazioni sul rifiuto della storia da parte degli architetti contemporanei e sulla mancanza di regole (non di leggi, che straripano, ma di regole urbane) che determina la mancanza di qualità.

L’intervista è molto più lunga e non posso riassumerla tutta né trascriverla per ovvi motivi, ma non mancano giudizi su Ghery, su Meier, sul MAXXI - di cui dice: “Pura calligrafia. Senza senso. E con errori elementari. C’è più superficie di percorso che superficie espositiva” - sulla eco-sostenibilità - “è un mezzo, non un fine….. Il verde verticale non mi pare molto diverso dal balcone pieno di piante di mia zia” - e, verso la fine, investe necessariamente il suo progetto dello Zen, che Gregotti continua a difendere con le stesse argomentazioni di sempre. Sorvolo. Degna di nota invece la proposta urbanistica che segue la fatidica domanda sul quartiere Zen: “Ne hanno fatto un quartiere abbandonato, monoclasse e monofunzionale. Nelle città, invece, ogni quartiere dovrebbe avere una sua articolazione: un centro, i servizi, il verde pubblico, ecc….. Alle grandi città bisogna restituire la qualità diffusa”. Un esempio di qualità diffusa è “….San Gimignano o una qualsiasi città europea medievale. La qualità diffusa [è uscita dai progetti urbanistici] dagli anni Settanta. L’idea del “disegno urbano” ha lasciato il posto alla prevalenza dimostrativa dei singoli oggetti architettonici”.

Trascurando lo Zen e senza considerare un certo distacco tra teoria e prassi professionale, tra pensiero e opere, Gregotti con gli anni è migliorato parecchio: in genere è vero il contrario.

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1 giugno 2011

GREGOTTI A MEZZO DEL GUADO

Dall’ultimo libro di Vittorio Gregotti, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, un breve brano tratto dal capitolo XII, Periferie. A seguire un commento.

La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale, connessa anche al tentativo di industrializzazione dell’edilizia come ripetizione estesa “product-oriented”. A nostro avviso, la mescolanza sociale e funzionale è ingrediente indispensabile per la trasformazione delle periferie, trasformazione che per attuarsi deve però passare attraverso un progetto complessivo della specifica parte urbana; cioè oltre che attraverso il completamento efficiente dei servizi e dei trasporti, con la presenza di attività diversificate e di funzioni rare che mettano in relazione obbligata la parte con il resto della città. Tutto questo con una modificazione morfologica che restituisca il senso del tessuto urbano e della prossimità fisica tra le parti (il caso del nuovo piano di Roma fondato sull’idea della costituzione delle 9 centralità nelle periferie ne è un esempio). E’ necessario predicare, diversamente dall’igienismo sociale della prima metà del XX secolo (sospinto anche dalle condizioni di abitabilità inaccettabili dei quartieri operai del XIX secolo e dalla connessione tropo diretta abitazione-lavoro), la mescolanza compatibile di funzioni, di strati sociali, di usi, di servizi collettivi di qualità, cioè dei materiali costitutivi della città storica estesi in modo nuovo alla periferia urbana.

Naturalmente contro tutto questo si costituiscono come difficoltà da un lato il neofunzionalismo immobiliare, che tende a selezionare la destinazione delle aree in funzione del reddito, dall’altro il desiderio di selezione sociale e di difesa dal diverso da parte degli architetti. Di qui l’interrogativo intorno a quali regole morfologiche l’organizzazione di tale periferia possa produrre, quali spazi tra le cose costruite, quali servizi e attività siano ad esse organiche, quali gerarchie, quali compatibilità con le nuove funzioni e relazioni; in che modo, e se, la relazione con la geografia e la storia emerga come identità non deduttiva ma riconoscibile dagli stessi cittadini oltre che dagli architetti. Una concezione quindi della periferia della grande città capace di utilizzare anche la propria posizione e la propria ricchezza di infrastrutturazione accumulata (un modo anche di estendere il principio della ricostruzione della città sulle proprie tracce) costruendo un insieme di centralità dotate di alta mescolanza sociale e funzionale per l’intera città e capaci di articolare e fornire di servizi le distese abitative che già si sono accumulate negli ultimi due secoli. Centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano, cioè di qualità degli spazi tra le cose oltre che nella qualità dialogante delle cose stesse costruite, e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le parti”.

Che dire? Bene, benissimo, in specie la prima parte. La seconda è più tortuosa, involuta e tipicamente gregottiana: problemi in campo non tutti chiaramente comprensibili, affermazioni che lasciano intendere anche altro possibile, propalazione di molti dubbi lasciando intravvedere risposte che lui saprebbe dare ma che non sembra voler dire. In particolare mi sembra incerto, fumoso e soprattutto datato l’interrogativo sullo spazio “tra le cose costruite” con “centralità dotate di identità e di qualità nel disegno urbano……e nella chiarezza disponibile della loro proposta di ordine morfologico e gerarchico tra le sue parti”. Periodo faticoso da leggere tutto d’un fiato e molto acrobatico, tanto per non parlare della strada, che è il vero “spazio tra le cose costruite”, anzi è la strada che genera le cose costruite. Insomma mi sembra un modo per eludere la realtà dello spazio urbano.
Ma l’analisi delle periferie è giusta e il rimedio che viene proposto condivisibile e necessario.

Ciò che mi sembra a dir poco lunare è il fatto che “La messa in discussione del principio delle periferie urbane nell’ultimo mezzo secolo è figlia della critica della separazione, proposta un tempo per ragioni di funzionamento e igieniche, delle aree di abitazione e di servivi da quelle industriali, estesa poi a principio di pianificazione generale e sovente proposta come forma antiurbana di ghettizzazione sociale”.

E’ lunare l’affermazione che sarebbero cinquant’anni che si è scoperto che la periferia è figlia della separazione, e però è dagli stessi cinquant’anni che si continua con la separazione. Perbacco, com’è andata? L’hanno forse scoperta nei laboratori di ricerca dell’università e non ce lo hanno detto? L’hanno tenuta così segreta questa scoperta che, per non farla trapelare, lo stesso Gregotti nei suoi piani, vedi il PRG di Arezzo del 1987, vigente fino a 10 giorni fa, ha continuato nella separatezza più assoluta, nella rigida zonizzazione, sia nelle carte di piano a retini con le zone omogenee, sia nella normativa, e pure nei Piani-Progetto, numerosi, allegati al piano e ampiamente documentati, in cui avrebbe potuto fornire esempio di trasgressione a questa rigida regola?

Tutto il libro, in verità, è sulla falsariga di questo brano: analisi in buona parte giuste, storia tirata un po’ per la giacchetta, nessuna autocritica (sempre confidiamo fiduciosi in quella sullo Zen), visione del mondo improntata ad un marxismo d’antan (ma questo è un punto di vista legittimo e rispettabile). Davvero difficile, almeno per me, tirarne una sintesi e dare un giudizio compiuto e obiettivo, tanti sono gli elementi contraddittori.

Azzardo però a dire che Gregotti possiede senza dubbio tutti gli strumenti per individuare i problemi, per incamminarsi verso la loro soluzione e per modificare radicalmente il suo pensiero sulla città, avvicinandosi fortemente ad una visione urbana vicina a quella della città storica, ma è riluttante, quasi fosse frenato dal timore di apparire troppo semplicistico, di tradire l’immagine tipica dell’intellettuale problematico e pensoso, quello che scopre sempre esserci ben altro e ben oltre, forse di non voler riconoscere gli errori.
Uno sforzo, suvvia, che non succede niente! Età ed autorevolezza sono sufficientementi importante da consentire tutte le trasgressioni, soprattutto se giuste, e ce n’è ancora abbastanza per lanciarsi in nuove avventure.


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17 maggio 2011

INTERVISTE A EISENMAN E GREGOTTI

Quasi contemporaneamente sono apparse due interviste a due diversi architetti: una sul Washington Post a Peter Eisenmann, l’altra a Vittorio Gregotti su Le Storie, RAI3, con un elemento comune: totale distacco tra vita pubblica e vita privata.
Peter Eisenman dichiara con onestà intellettuale, come direbbe qualcuno, con sfrontatezza, come direbbero altri, di aver progettato per i propri committenti case in un certo modo mentre la sua personale scelta è stata quella di dividere la sua esistenza tra due abitazioni: la prima è “un piccolo appartamento muto a New York con una cucina dove non c’è posto tra due persone”, la seconda una “meravigliosa vecchia casa del New England, in pietra, mattoni e piastrelle", che era un mulino del 18° secolo ed è costruita sopra una cascata. "Nessun architetto ha mai lavorato su di essa. Non si potrebbe progettarne una come questa. Accade nel tempo, come hanno fatto i successivi proprietari che l’hanno modificata per soddisfare i propri bisogni”.

Alla domanda del perché di questa scelta Eisenman risponde: “Sono immerso nell’architettura tutto il giorno, lavorando nel mio studio o insegnando”. E dopo “voglio tornare nella mia casa accogliente”.
Molto sincera ed anti-retorica, molto poco epica ed anche dissacratoria questa visione del mestiere di architetto.
Di particolare interesse la notazione che una casa diventa accogliente non a causa di un progetto ma grazie ad un processo nel tempo di cui l’architetto non fa parte ma in forza di successivi adattamenti e modificazioni da parte dei proprietari. Non è una scoperta, certamente, perché è sempre stato storicamente così, almeno fino a quando il forte inurbamento ha costretto a regolare in maniera minuziosa e perfino invasiva le modificazioni e la crescita della città ma, detto da Eisenman, che ha progettato case immodificabili e certamente non intime e accoglienti, quali la serie 1-10 - e già il nome utilizzato per identificarle, anonimo e non riferito né ai luoghi né ai committenti la dice lunga - è addirittura stupefacente. E l’intervista prosegue con la sua storia personale che l’avrebbe portato a “non volere entrare nella tua vita”, cioè a non voler più progettare case private ma solo “icone pubbliche che la gente vada a vedere per poter dire: E’ grande”.

Ammetto di apprezzare lo spirito di quel “non voler entrare” nella vite degli altri, quasi una citazione del famoso film, perché progettare la casa di un altro è, in qualche misura, anche un atto di violenza, un dover spiare per decidere come quella persona dovrà vivere, una intrusione nel lato più intimo della sua vita privata e familiare.
Se è inevitabile ed anche gratificante progettare residenze, tuttavia avere almeno consapevolezza dell’importanza e della responsabilità di questo atto, può contribuire a cambiare il modo di porsi nei confronti dell’architettura e della professione.

Tuttavia rimane in Eisenman una contraddizione straordinaria e lampante, che mi è perfino difficile immaginare non sia arrivato a cogliere, quella cioè di continuare a considerare l’architettura pubblica come spettacolo per i cittadini, quasi non fosse parte integrante della città al pari dell’edilizia privata, e non fosse portatrice ancor più che le residenze di valori simbolici e rappresentativi della collettività e della comunità cittadina. Se il problema nei confronti della residenza privata si pone, in prima istanza, nei confronti del singolo, quello dell’architettura pubblica si pone nei confronti di tutti e quindi l’approccio al progetto dovrà essere ancora più attento a non colpire la sensibilità della collettività e a fare in modo che il progetto sia il più condiviso possibile. Quella frase, che può prestarsi, interpretandola in modo molto benevolo, anche ad una interpretazione diversa e positiva, vale a dire l’attenzione dovuta ai progetti di quelli che Marco Romano chiama i temi collettivi, se collegata ai progetti e alle idee di Eisenman non può che essere letta come la consueta esaltazione dell’architetto che vuole stupire e meravigliare per far esclamare “E’ grande”, riferito evidentemente all’autore più che all’opera.

Come è possibile che un progettista dichiari di preferire vivere in case tradizionali e quasi da edilizia spontanea, arrivando a rigettare l’idea stessa dell’intervento dell’architetto per queste, ma contemporaneamente si dedichi alla realizzazione di opere pubbliche con un genere di progetti opposto, tutti improntati a forme estranee non solo alla tradizione ma a qualsiasi idea di riconoscibilità di un edificio collettivo, se non per le maggiori dimensioni?

Per Gregotti il caso è diverso. Teniamo presente la nota intervista delle Jene in cui alla domanda se vorrebbe vivere allo Zen risponde, quasi cadendo dalle nuvole, che lui non è un proletario e quindi la domanda è priva di senso.
Gregotti è intervistato da Corrado Augias sul tema del suo ultimo libro, Architettura e Postmetropoli, Einaudi, che ho cominciato a leggere, con grande fatica, in questi giorni. L’intervista è invece godibile. Gregotti fa osservazioni condivisibili, quali la mancanza di progetto nello sviluppo delle postmetropoli ma anche delle città minori, scopre con un po’ di ritardo, nel caso della conurbazione continua del nord-est, che le persone dimostrano il desiderio di una vita urbana, di vivere vicini l’uno all’altro ma allo stesso tempo di desiderare individualità e privacy, scopre perfino che in molte casi la città si sviluppa per zone a diversa composizione sociale. Tutto il discorso di Gregotti è impostato sulla necessità di una vita urbana e conclude con un appello all’umiltà da parte degli architetti, ironizzando sul loro desiderio di creatività. Come non essere d’accordo! Salvo dettagli, personalmente potrei sottoscrivere tutto.

Però, e qui c’è l’analogia e la differenza con Eisenman, Gregotti non ne trae alcuna conclusione di tipo personale, come, almeno per il tema residenza, fa Eisenman.
Non è il giudizio morale che interessa, almeno a me, ma le differenze tra due modi di intendere il proprio lavoro, la propria disciplina e la differenza abissale con cui i due “Maestri” pongono se stessi rispetto a questa:
- Eisenman è consapevole di essere quello che è, cioè un’archistar famosa e venerata, una vedette dello spettacolo mediatico dell’architettura, dello show-business. Lo dice, lo dichiara, non ha retro pensieri e non nasconde questo suo essere icona de-costruttivista che ha fatto scuola. Dice, basta saper leggere, che la sua architettura non è fatta per gli uomini, non è fatta per abitare perché lui cerca altro. Dunque chi lo segue dispone di tutte le informazioni per poter scegliere consapevolmente e per capire che la sua architettura è altro dalla costruzione della casa e della città per l’uomo.

- Gregotti, al contrario, dice cose ragionevoli, si mostra preoccupato per lo stato dell’architettura e per le condizioni in cui versano le città, grida contro l’estrema personalizzazione dell’architettura stessa e nel libro, come nell’intervista, denuncia la perdita della forma della città e la fine dell’idea stessa del progetto e del piano, denuncia la divisione della città per classi sociali ma non ne trae alcuna conseguenza. Non indica una strada possibile e credibile, non dichiara i suoi errori passati, pontifica quasi che lui non avesse lasciato un segno non positivo negli anni passati con le sue opere e con la sua azione culturale da direttore di Casabella e da punto di riferimento di una fetta importante della cultura architettonica per circa un ventennio. Nella sua risposta in cui mostra “stupore” alla domanda se lui avrebbe voluto abitare allo Zen c’è tutta la diversità con la cultura di Eisenman in cui è invece possibile trovare sì cinismo ma è impossibile negare consapevolezza del proprio essere e onestà intellettuale.

Gregotti è all’opposto l’esempio di una cultura italiana elitaria, algida e cristallizzata nelle proprie convinzioni, chiusa al mondo esterno tanto da non avere remora alcuna a dichiarare che lui “non è un proletario” per cui il problema non si pone proprio.
Da Eisenman un giovane studente o architetto dotato di cervello e capacità critica può difendersi rifiutandone i principi di fondo oppure sposarne le convinzioni; da Gregotti è più difficile, perché il potere elitario e carismatico che attribuisce all’architetto induce a credere che progetti come quello dello Zen siani giusti per il solo fatto che lo ha stabilito l’architetto. Quel tipo di progetto sarebbe giusto per quel tipo di classe sociale e non per tutti gli uomini. Evidentemente attribuisce una diversità antropologica al proletario e al borghese, in base alla quale le due classi non hanno diritto alla stessa qualità della vita, non hanno le stesse necessità, gli stessi desideri, le stesse aspettative, le stesse umane debolezze.
Gregotti cristallizza e condanna ognuno ad appartenere alla sua classe sociale d'origine. Parla e scrive di marxismo, ma di un marxismo di tipo gregottiano e, aggiungerei, italiano. Roba da buttare alle ortiche.

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9 maggio 2011

L'ORA DELLO ZEN

Dopo il successo dell'iniziativa palermitana sullo Zen, ripropongo un articolo dell'architetto Ciro Lomonte, organizzatore della conferenza tenuta da E.M. Mazzola, pubblicato sul numero 640 de Il Covile, naturalmente con la raffinata veste grafica che gli è propria.

L'ORA DELLO ZEN
Visitando nel 1983 lo ZEN 2 di Palermo, René Furer, docente di Gestaltungstheorie dell’ETH di Zurigo, si chiedeva se Vittorio Gregotti non fosse il migliore architetto italiano del momento. Più prudentemente, Ignacio Vicens y Hualde, professore di Proyectos Arquitectónicos della Universidad Politécnica di Madrid, nel corso di un’analoga visita del 1986 faceva notare che il linguaggio e i materiali adoperati erano più adatti a gente ricca, in quanto avrebbero comportato continue e costose opere di manutenzione.
Nella trasmissione Le Iene del 20 febbraio 2007 il progettista novarese, dopo avere dichiarato di considerare lo ZEN 2 il migliore esempio di edilizia popolare del mondo, declinava l’invito ad andarci ad abitare: «Io non faccio il proletario, faccio l’architetto». In effetti, se non si trattasse di una guerra tra poveri, le continue occupazioni — che hanno richiesto anche in questi giorni l’intervento delle forze dell’ordine — farebbero pensare che tutti ambiscano vivere allo ZEN 2.

Nel 1989 Edoardo Bennato pubblicò la canzone “ZEN” nell’album “Abbi dubbi”. Il ritornello ripeteva: «Zona Espansione Nord— abbreviazione: ZEN, / non c’è ragione no — non c’è ragione. / Quartiere di Palermo — città d’Italia, / non c’è ragione no — non c’è ragione». Bennato, che aveva studiato architettura, alludeva al razionalismo di Gregotti.
Ci troviamo di fronte ad un caso emblematico. Il sonno “nella” ragione genera mostri. Non è il sonno “della” ragione che produce degrado sociale, bensì il sonno nel carcere del razionalismo (abitare lì, dormire lì). La riprova è sotto gli occhi di tutti. Il vicino ZEN 1 è stato realizzato prima, con tipologie di edifici condominiali non belle ma neppure ingenuamente sperimentali. Ebbene, i proletari a cui vennero assegnate queste case (i loro figli, i loro nipoti) sono oggi persone civili, che non a caso evitano accuratamente di farsi identificare con gli abitanti del limitrofo campo di concentramento.
Ciò che desta ulteriore stupore è l’indifferenza del gruppo di progettazione dello ZEN 2 alle esperienze positive che si erano fatte a Palermo nei decenni precedenti. Nel 1956 Giuseppe Samonà aveva realizzato Borgo Ulivia, un esteso quartiere di edilizia popolare che si è mantenuto in buone condizioni senza bisogno di interventi successivi. Volendo cercare il pelo nell’uovo, Samonà non avrebbe dovuto usare rivestimenti in laterizio, estranei alla tradizione costruttiva siciliana, data l’abbondanza in loco di ottima pietra da taglio. Per gli abitanti però il vero limite di queste case è l’assenza di balconi, che essi hanno aggiunto abusivamente con una grande libertà compositiva, degna di un Piet Mondrian.

Andando a ritroso nel tempo, è molto istruttivo verificare la durata degli alloggi popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, confortevoli e gradevoli, anche dal punto di vista dell’integrazione urbanistica con gli edifici circostanti destinati ai ceti medi e alti. Non sono ghetti, come lo ZEN.
Di questi esempi forse il migliore è il Quartiere Matteotti, che oggi si presenta come un borgo residenziale di prim’ordine. In questo caso infatti sono stati curati dettagli costruttivi tradizionali, qualità degli interni e bellezza dei volumi, inseriti in piacevoli giardinetti.
Il nuovo assessore alla Casa della Regione Lazio si è riproposto di abbattere il Corviale, un famoso ecomostro di Roma, lungo un chilometro. Fiore all’occhiello dell’intellighenzia visionaria che ha prodotto edilizia popolare negli anni Settanta, il cosiddetto Serpentone è tristemente famoso, come gli altri esempi del genere, per l’imbarbarimento sociale e i fenomeni di violenza favoriti dagli stessi criteri progettuali utopistici. Il Gruppo italiano di Nikos A. Salìngaros ha presentato due soluzioni dettagliate per sostituire lo sterminato lager compatto con un quartiere a misura umana.

A questo punto c’è da chiedersi se anche a Palermo non sia giunta l’ora di demolire lo ZEN 2 e disegnare un borgo autosufficiente più ancorato nella storia della città e ben contestualizzato in quella zona naturalisticamente unica di Piana dei Colli. Il sindaco Cammarata aveva fatto molte promesse sulla riqualificazione di Palermo: per es. la pedonalizzazione del centro storico e notevoli miglioramenti delle periferie. Ma, aldilà di qualche parcheggio e del cantiere della metropolitana, non si è visto molto di più.
Qualcuno potrà obiettare che le casse del Comune sono vuote, eppure questo è un falso problema. Lo ZEN 2 è ancora lungi dall’essere completato ed è, come tutti i quartieri popolari del suo genere, un buco nero di fondi pubblici. La Regione ha assegnato di recente almeno 20 milioni di euro per lavori da effettuarsi su questo complesso di edilizia popolare. Sarebbe un errore utilizzare questi fondi per costruire altre insulae, seguendo il fallimentare progetto originario. Il Gruppo Salìngaros è pronto a fare delle proposte concrete anche per lo ZEN 2. Bisognerà studiare approfonditamente natura dei luoghi e storia urbanistica della Sicilia e delle sue tradizioni edilizie (conci di calcarenite, pietra di Billiemi, intonaco Livigny, coccio pesto, coppi siciliani, ecc.). Sarà un incentivo ulteriore alla rinascita dell’artigianato locale, composto da maestranze molto capaci che rischiano di sparire.
CIRO LOMONTE

La foto è di Guido Santoro

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7 aprile 2011

LE VELE DI SCAMPIA? UN MONUMENTO NAZIONALE!

L’intenzione di vincolare le Vele di Scampia da parte del Soprintendente Stefano Gizzi è lo specchio del distacco totale tra la cultura italiana e la realtà. Se si domandasse infatti a qualunque persona comune cosa pensa delle Vele e se andrebbe a viverci la risposta appare scontata.
Se si domandasse a Gizzi forse non risponderebbe come Gregotti per lo Zen, ma dubito risponderebbe affermativamente.
In Italia esiste una cultura che si auto-considera alta ma che non prova disagio a dire che quell’oggetto ha valore storico e architettonico. Gizzi giustifica questa scelta con due argomenti, tra gli altri, che sono significativi (Fonte: La Stampa):
1) le Vele sono state lo sfondo del film Gomorra e, come i casermoni della Germania est sono stati lo sfondo dei film di Wenders, hanno per ciò stesso un valore culturale in senso ampio.
2) uno studio commissionato anni fa dal Ministero dei Beni Culturali a varie università ha decretato il valore di quel progetto.

Si può immaginare quanto possano interessare a chi è costretto a vivere in un inferno i film di Wenders!
Le Vele sono considerate la scenografia di un film dai colori plumbei e i suoi abitanti le comparse di quel film. Il discorso di Gizzi è tutto concettuale in quanto gli edifici dell’Arch. Franz Di Salvo sono trattati come fossero un’idea astratta e ne parla al pari di oggetti d’arte, senza lasciarsi sfiorare dal dubbio che l’architettura esiste per assolvere alla funzione dell’abitare, cioè per accogliere al proprio interno persone che ci vivono e all’esterno persone che lo vedono e che si muovono nello spazio circostante.

Gizzi trascura del tutto il valore civile dell’architettura che significa che la città appartiene a tutti i cittadini, e quindi anche le sue case appartengono, in un certo senso, a tutti e non solo ai loro proprietari. Un edificio è costituito una parte privata, l'interno, e da una parte pubblica, l'esterno, e chi è proprietario di casa non è proprietario di tutta la casa o almeno non ha diritto assoluto su tutta la casa. Lo ha certamente per quello che riguarda l’interno ma l'esterno è parte integrante della città e appartiene a tutta la città ed è per questo motivo che il proprietario ha obblighi di decoro, se non di bellezza, nei confronti dei suoi concittadini.
La città è cioè un luogo e un bene condiviso tra tutti i suoi abitanti e con essa tutti gli edifici che insieme la compongono. Non è casuale che il Sindaco abbia il potere di emettere ordinanze per ripristinare il decoro di edifici in cattivo stato di manutenzione.

Tutto ciò deriva non solo dalla storia della città europea ma dall’essenza stessa della città, che è l’ambiente entro il quale si svolge la vita dell’uomo. Per questo motivo se un’architettura è brutta e indecorosa in quanto invivibile e anti-umana non è civile ma in-civile in quanto rompe e trasgredisce le regole della città e della società e chi abita in ghetti pubblici (vorrei sottolineare pubblici) come le Vele si trova, so malgrado, ad essere automaticamente ai margini della società. Gli abitanti di posti come questo, prescindendo del tutto dai loro comportamenti e dalla loro condizione sociale, sono bollati come emarginati. Quindi la bruttezza è emarginante.

Eppure per Gizzi, che è architetto e che, come quasi tutti gli architetti, ha probabilmente assimilato all’università l’ideologia modernista di Le Corbusier e C., l’ideologia della macchina per abitare, della macro-struttura, dell’oggetto che deve riassumere in sé tutte o quasi le funzioni urbane, del falansterio, cioè dell’anti-città e dell’anti-socialità, viene, prima di tutto, il progetto e il suo progettista, prescindendo da chi lo abita.

Gizzi, con questa sua intenzione di vincolo, perpetra nel tempo e congela, storicizzandolo, l’esperimento di ingegneria sociale fatto in corpore vili.
Il movimento moderno, nato come avanguardia culturale si è trasformato ormai da anni in un movimento reazionario di conservazione dell’esistente, in teoria regressiva.
L’architetto modernista rappresenta per la città quello che il filosofo rappresenta per la polis nella Repubblica di Platone, cioè il migliore che, per questo, è l'unico abilitato a governare. Una visione profondamente anti-democratica e politicamente anti-moderna, vecchia più che antica. Così come Platone irride alla democrazia della polis greca, ritenendo che essa porti, per la troppa libertà concessa agli individui, al disordine, i modernisti sono sostanzialmente contrari al fatto che i cittadini possano avere voce nella forma della città, dove deve invece governare il loro astratto e funebre ordine geometrico. L'architetto modernista si pone da solo sullo scranno del comando, in quanto migliore, per decidere le sorti della città. Il modernismo è quindi una forma attualizzata di platonismo privo però della grandezza del pensiero di Platone. E’ una brutale reazione anti urbana e politica, nel senso di polis. E' autoritarismo allo stato puro.
E dire che a coloro i quali ritengono che i cittadini siano abilitati a scegliere e decidere la politica della città, cioè la forma urbis, viene attribuito il termine di populisti! Evidentemente i modernisti non è che siano poi così culturalmente attrezzati come vogliono sempre far credere.

Il secondo argomento, quello del verdetto delle università, è la riprova di tutto questo, perché dimostra come sia proprio il sistema culturale dell’architettura e dell’urbanistica italiana ad essere rimasto fermo all’ideologia modernista, dichiarando il valore delle Vele. Gizzi non è un’eccezione ma è parte di quel sistema culturale che va profondamente trasformato nella speranza di riportare l’architettura al suo significato originario di casa dell’uomo e per l’uomo, contro un’architettura che è invece per l’architetto e dell’architetto, che ne fa un gioco autoreferenziale sulle spalle dei cittadini.

Una riprova del sistema? Il mese scorso si è svolto un dibattito sulle Vele di Scampia nell'ambito della Fiera d'Oltremare e il Soprintendente Gizzi era annunciato nella locandina come moderatore! E' come se in un processo il Pubblico Ministero facesse anche da  giudice.
Se ha una speranza l’architettura italiana è quella di rimettere ai cittadini le decisioni sulla città, perché è la civitas a dover decidere dell’urbs.

Auguriamoci che il Comune, come ha già annunciato, si opponga al vincolo: evitiamo almeno il ridicolo.

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28 febbraio 2011

GREGOTTI E LE VERDI ARCHISTAR

E’ una piacevole sorpresa l’ultimo articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della Sera, Le ipocrisie verdi delle archistar.
Prima di tutto per lo stile con cui è scritto, ironico, direi beffardo, molto chiaro e diretto, contrariamente al suo modo consueto di scrivere piuttosto involuto e criptico. Ha tenuto, sì, a far sapere di conoscere Heidegger, ma per fortuna ha avuto il buon gusto di risparmiarcelo. Si vede proprio che questa volta aveva da dire qualcosa di veramente importante che gli usciva dai denti.
Intanto prendiamo atto che oggi dare dell’archistar ad un architetto è diventata quasi un’offesa. Se fosse vero anche in piccola parte, e probabilmente è vero, non sarebbe tanto importante lo svilimento dell’appellativo in sé quanto dei suoi presupposti, cioè del fatto che l’atteggiamento da profeti non solo dell’architettura ma anche della società, dei suoi costumi e perfino della sua economia (vedi il falso “effetto Bilbao”) vacillerebbe non poco. E sarebbe l’ora che gli architetti tornassero a fare gli architetti, almeno quelli che possono, e non i falsi profeti e/o i portavoce dei grandi gruppi editoriali, finanziari e di potere. E sarebbe anche l’ora che tornassero a farlo meglio il loro mestiere, progettando per la città e per se stessi e non per se stessi e basta.

Gregotti, in fondo, nel suo articolo dice esattamente questo, ironizzando sul lato modaiolo eco-bio-compatibile-sostenibile dell’architettura spettacolo ma anche di quella più comune, cui quella spettacolo fa ovviamente da trailer e da spot pubblicitario.
Che dire, ad esempio, delle case prefabbricate in legno, di chiara origine nordica e trentina, che adesso sembra vadano bene per il caldo, per il freddo, per il terremoto e perfino per il paesaggio italiano? Non è forse un sistema smaccatamente lobbistico di far passare un prodotto che andrà bene in Trentino ma che per certo nel 95% del territorio antropizzato italiano è roba da baracche provvisorie o da giardino?

Gregotti colpisce la punta dell’iceberg, quella visibile. Colpisce la banalità del bosco verticale con la parabola della sua vecchia zia (davvero un Gregotti così spiritoso e familiare è sorprendente), o dell’EXPO 2015 che salverà il mondo dalla fame probabilmente con una bella operazione edilizia a fine esposizione.
I suoi strali si appuntano sull’architetto Boeri, per concludere con una puntatina su Rem Koolhaas, ma molti altri, noti e meno noti, potrebbero essere al centro della sua attenzione. Non c’è infatti progetto che non venga veicolato e decantato per le sue qualità di sostenibilità ambientale; per i grattacieli in specie - la tipologia più anti-ecologica, consumistica, energivora (oltre che anti-urbana) che l’uomo abbia mai inventato – la prima cosa che viene detta, quasi a mettere le mani avanti, è che sarebbero sostenibili, autosufficienti, addirittura, e amenità del genere.

Capisco che è un articolo di giornale, per cui Gregotti ha dovuto sintetizzare alcuni concetti, e l’ha fatto egregiamente, però non sarebbe male che, magari in un futuro, appuntasse la sua attenzione sulla vera e unica sostenibilità dell’architettura e dell’urbanistica, e cioè quella che si ottiene con un progetto che non sprechi territorio libero, che non tema la densità edilizia e non chieda come in un mantra “il verde” per giudicare la qualità di un insediamento, che densifichi gli insediamenti esistenti realizzati nella logica dei lotti senza relazione tra loro e con la strada, anzi senza strada, che utilizzi materiali tradizionali e il più possibile locali, con il doppio vantaggio di risparmiare nei trasporti e di costruire in armonia con la tradizione dei luoghi.

Non basta ironizzare sull’ambientalismo lobbistico e bugiardo, ma un architetto del calibro di Gregotti dovrebbe inquadrare il problema con una visione più ampia e proporre una alternativa ad un problema reale, quello dei consumi e dei costi energetici, proprio in questi giorni tornati di grande attualità.
Una città compatta e fortemente costruita, dove il pieno prevalga sul vuoto, con tutte le funzioni presenti e mescolate, gerarchizzate in senso verticale e non separate in senso orizzontale, riduce fortemente la necessità di trasporti meccanici, non solo, e forse non tanto, per gli spostamenti casa-lavoro, quanto per tutte le altre innumerevoli quotidiane attività urbane che, viceversa, in una città diffusa e divisa in aree funzionalmente omogenee costringono all’uso continuo dell’auto: accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, spostarsi da un ufficio all’altro, andare dal dentista, pagare l’assicurazione, andare in banca o alla posta o in palestra, perfino a fare due passi per incontrare qualcuno.

Certamente in una grande città metropolitana i problemi si pongono in maniera più problematica e perfino drammatica, e il sistema della mobilità è più complesso e richiede un forte intervento di infrastrutture pubbliche, ma è assurdo ed insensato, una vera vergogna dell’urbanistica ortodossa, come la chiama Jane Jacobs, che nella stragrande maggioranza dei piccoli e medi centri urbani di cui è composta l’Italia ci si debba trovare nelle medesime condizioni delle aree metropolitane.
In queste realtà è possibile e indispensabile proporre e agire di conseguenza. Ritornare alla città, una bella frase, un concetto tutto sommato semplice da comprendere, è l’unica soluzione possibile. Ma è così semplice, almeno concettualmente, che evidentemente viene ritenuto non adatto alla complessità delle soluzioni che deve proporre un architetto, visto che tutto continua ad andare nella direzione opposta. Tutto continua come prima, con rigide zonizzazioni e classificazioni di aree, addirittura di edifici, per funzioni, l’attenzione è puntata sempre sulla funzione, sul “cosa collocare in quel luogo”, con una occhiuta, illiberale e dirigistica velleità di decidere non solo "ciò che" ma anche "dove" serve alla società. Se lasciassero decidere alla legge del mercato, alla libera iniziativa, questa saprebbe esattamente ciò che serve, e quindi rende, e ciò che è superfluo, e quindi è improduttivo.

Eppure la risposta dovrebbe essere una sola: un pezzo di città!
Invece si producono rigide classificazioni, norme sulle distanze che impediscono ogni intasamento dei lotti e ogni ristrutturazione urbanistica che ridisegni intere aree delle periferie, l’attenzione "eco" puntata sempre e comunque sul singolo manufatto, sull’oggetto, sulle soluzioni tecnologiche, senza uno sguardo all’insieme, al disegno della città, l’unico che può garantire soluzioni di lunga durata e una vita urbana a misura del pedone.
C’è una straordinaria relazione tra riduzione dei consumi energetici e miglioramento della qualità della nostra vita urbana: per soddisfare la prima occorre lavorare sulla seconda.
Ecco, nei prossimo articoli di Gregotti ci aspettiamo una indicazione in tal senso: meno attenzione agli oggetti e all’architettura e più all’insieme e alla città, la vera emergenza per la cultura degli architetti.

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22 gennaio 2011

IL LATO B DI AREZZO

Con elegante stile letterario il prof. Brilli ci ha restituito un’immagine viva e vera del quartiere la Catona. Ha fatto, anzi, molto di più, perché ha colto il tratto essenziale e unico di Arezzo: quello di avere “un davanti e un retro”, un lato A e uno B. Con tono garbatamente allusivo, Brilli assimila la forma della città alla figura umana, descrivendocela come aperta davanti ma chiusa e impenetrabile dietro, ed evocandone lo stupore nelle rare volte che qualcuno riesce a “prenderla alle spalle”. A quale altra città è concessa una simile, carnale, metafora?
La forma a ventaglio di Arezzo, il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano il confine tra città e campagna è stata colta anche dai progettisti dei vari piani regolatori. Sia il padano Gregotti che l’americano Calthorpe avevano subìto il fascino e intuito le ragioni geografiche e climatiche della naturale inedificabilità della zona, e che tale condizione si sposava felicemente con l’armoniosa bellezza del duetto tra città e campagna.


E’ una percezione immediata e istintiva che non necessita di difficili ragionamenti per essere dimostrata vera, basta girare la sguardo dalla Fortezza; è l’essenza stessa di Arezzo, orientata a sud, accessibile da est e da ovest, ma chiusa a nord.
Ma nonostante questa evidenza c’è chi giudica quel vuoto a nord una povertà, piuttosto che una ricchezza, e pensa che la città debba essere richiusa “come tutte le altre città”. Eppure proprio questa espressione dovrebbe suscitare il dubbio che sarebbe meglio non perdere l’unicità assoluta di Arezzo. Purtroppo proprio Calthorpe, forse per curare il “rachitismo” del quartiere di cui parla Brilli, ha formalizzato l’edificabilità di parte della zona.

Nel frattempo quel retro, il lato B, veniva violato dalle scale mobili: ciò che prima era eccezione si è fatta regola, e turisti e aretini, su e giù per le scale, provano quotidianamente il fascino della trasgressione, banalizzandolo e unendo ciò che prima era diviso. Abbiamo perduto “il piacere di penetrare in una città da un ingresso inconsueto”.

E’ difficile non pensare che proprio le scale, che ci hanno assuefatto a “prendere la città alle spalle”, diventino il grimaldello per poter affermare che è maturo il tempo di espandersi a nord, di trasformare una città a ventaglio in una città radiocentrica, di cancellare il lato B, ormai privo di segreti, e di omogeneizzare sapori forti in un amalgama insipido.
Se dopo secoli di storia quella parte di Arezzo è rimasta campagna, non sarà certo perché i nostri avi non sapessero costruire città! Né si penserà, spero, che Arezzo sia stretta in una vallata che non offre più spazio e che rimanga solo quella parte per farla crescere, ammesso ve ne sia bisogno!
Arezzo, nei confronti di mille altre città italiane, è unica per l’insieme, più che per le singole parti; occupare quel retro umido e ombroso sarebbe un intervento di chirurgia estetica irreversibile e l’insieme non sarebbe più lo stesso.
Abbiamo grossolanamente abbattuto le mura urbane, ma per la nobile causa di aprirsi al progresso, alla modernità, al mondo stesso, ed oggi le rimpiangiamo; però non saprei trovare un solo scopo nobile, o semplicemente utile, per riempire quel vuoto a nord.
Pietro Pagliardini


Articolo pubblicato su La Nazione, cronaca di Arezzo

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8 dicembre 2010

STRADE 10° : BERNARDO SECCHI

E' la volta di una concezione della strada completamente diversa da quella dei post precedenti. Un punto di vista a mio avviso sbagliato e allo stesso tempo sfuggente, nello stile personale di Bernardo Secchi, piuttosto involuto e prolisso, pur se immaginifico, ma anche nello stile di Casabella, direzione Gregotti. Nel testo ci sono però lo stile e i contenuti del tempo, con la percezione che qualcosa stava cambiando, che niente andava più bene, ma senza saper individuare una direzione da prendere, a parte la ormai abusata formula del così detto progetto di suolo, che ha informato di sè tutto un periodo di leggi e di piani urbanistici. Il progetto di suolo, un metodo assurto a merito, privo di contenuti se non si stabilisce "come", in base a quali criteri, con quale scopo il "suolo" debba essere progettato. Alla fine il progetto di suolo è diventato la presa d'atto di ciò che già esiste, una formula per congelare la realtà, molto spesso sbagliata. Quando invece diventa progetto, si esplicita in una occhiuta attenzione ad ogni dettaglio del territorio, tanto insopportabile e invasiva della sfera privata quanto irrealizzabile e iper-burocratica. Nel testo vi è una parte di analisi corretta e condivisibile, un insieme di suggestive narrazioni ma la sintesi è assente o, almeno, scarsamente comprensibile.
Bernardo Secchi è un urbanista che ha davvero influenzato l'urbanistica italiana di fine millennio, ma i suoi effetti si allungano fino ai nostri giorni.
Persona amabile e gentile, ha purtroppo dato vita ad una serie di allievi pessimi imitatori dell'originale, che hanno esasperato gli aspetti peggiori, più astratti e burocratici, del suo già abbastanza astratto insegnamento.
Il testo è tratto da un articolo di Casabella n° 553-554 del 1989, numero monografico dal titolo "Sulla strada".


Lo spessore della strada
Casabella n° 553-554

"Gli edifici sono uno accanto all'altro. Sono allineati. E previsto siano allineati, per loro è una grave colpa non essere allineati: si dice allora che sono fuori allrneamento, ciò vuol dire che si può demolirli per ricostruirli allineati con gli altri.
L'allineamento parallelo di due serie di edifici determina ciò che si chiama una strada: la strada è uno spazio bordato, generalmente lungo i suoi lati più lunghi. da case; la strada è ciò che separa le case le une dalle altre ed anche ciò che permette di andare da una casa all'altra, sia lungo la strada che attraversandola...

Contrariamente agli edifici che sono quasi tutti di proprietà di qualcuno, le strade non sono di alcuno. Esse sono suddivise. abbastanza giustamente, in una zona riservata alle automobili, che si chiama carreggiata, e in due zone, ovviamente più strette, riservate ai pedoni, che si chiamano marciapiedi. Un certo numero di strade sono riservate ai pedoni, in via permanente o in occasioni particolari. Le zone di contatto tra la carreggiata e i marciapiedi permettono agli automobilisti che non desiderano più circolare di parcheggiare. Essendo il numero dei veicoli che non desiderano più circolare molto maggiore del numero di posti disponibili, le possibilità di parcheggio sono state limitate...
Non è molto frequente vi siano alberi nelle strade... La maggior parte delle strade, invece, è fornita di attrezzature specifiche corrispondenti ai diversi servizi: vi sono così dei lampadari che si accendono automa¬ticamente... delle fermate di autobus... delle cabine telefoniche... delle buche per la posta... dei parchimetri... dei cestini per la carta... dei semafori... delle indicazioni stradali..."
Al suo esercizio di descrizione elementare George Perec fa seguire una "esercitazione": "Osservare ogni tanto la strada, magari con intenti sistematici. Applicarsi. Prendersi il tempo necessario. Notare il luogo... l'ora... la data... che tempo fa... Notare tutto ciò che si vede. Ciò che avviene e che sia degno di nota. Cosa è degno di nota? lo sappiamo? C'è qualcosa che ci colpisca? Niente ci colpisce. Non sappiamo vedere".

1. Non si può che essere insoddisfatti delle strade che abbiamo: inadeguate a risolvere i problemi del traffico e della sosta, luogo della massima concentrazione dell'inquinamento acustico, aereo e paesistico, suddividono incongruamente lo spazio urbano ed il territorio, ne esaltano le potenzialità e possibilità edificatorie, ne moltiplicano indefinitamente il carattere frammentario, la dispersione delle origini, delle destinazioni e delle motivazioni dello spostamento e con ciò aggravano lo stesso problema che sono state “ridotte” a risolvere.
La strada è oggi “luogo” cruciale per una riflessione sulla città ed il territorio: manufatto e spazio fondamentalmente ambiguo, destinato contemporaneamente a svolgere funzioni assai precise, solitamente interpretate in termini di meccanica dei fluidi, ed assai vaghe, interpretate solitamente in termini di meccanica dell'interazione sociale; destinato a svolgere ruoli palesi, di collegamento, ed impliciti, di redistribuzione della ricchezza, la strada impone un ritorno a visioni d'assieme che esplorino nuovamente, attraversando numerosi strati di riflessione, territori vasti e tempi lunghi.

La strada ci costringe ad abbandonare due grandi “miti d'oggi”: aiutati dall'orgoglio inconsapevole di una cattiva ingegneria e di un'urbanistica troppo adattativa, essi hanno cumulativamente riempito tutto l'immaginario collettivo dei paesi occidentali nell'ultimo mezzo secolo. Con conseguenze nefaste.

2. Nel nostro paese si potrebbe iniziare dall'alta valle del Chienti, nei pressi di Piastra, dove la nuova superstrada in costruzione ha aperto nei fianchi della montagna incisioni enormi, distruggendo, alterando, modificando interamente un paesaggio, senza porsi il problema di quello che avrebbe costruito e che pur avrebbe potuto essere progettato.
Si potrebbe proseguire lungo 1'Autosole nel tratto appenninico, o lungo l'autostrada della Cisa, o in molti altri luoghi analoghi, laddove il nuovo manufatto stradale già sovrasta alcuni strati di sue recentissime rovine: tratti di autostrada franati ed abbandonati. La vecchia statale e la più antica vicinale passano sinuosamente ai loro piedi ed insinuano il dubbio: che non si sappia abbastanza dei materiali, della loro durata, dei terreni e della loro stabilità, delle nostre stesse tecniche di costruzione: che si voglia andare troppo in fretta.
Si potrebbe entrare in città con la sopraelevata, correndo all'altezza delle finestre di appartamenti che un tempo guardavano il mare e ora si affacciano su rumori, gas di scarico e polvere. Oppure scendere per attraversare il traffico al passaggio pedonale non protetto, sull'esiguo marciapiede occupato dalle autovetture in sosta, prendere il sottopasso scuro, maleodorante; camminare in fretta lungo la strada periferica deserta, o tra la folla che non riesce a stare in marciapiedi così stretti, con le macchine parcheggiate in doppia fila.
Si potrebbe riconoscere in tutto ciò i caratteri del paesaggio metropolitano, rendersi conto che ciò è il portato di un cambiamento radicale che ha investito negli ultimi decenni la nostra società, la sua cultura e la sua città, dire a cosa tutto ciò si associa. Oppure pensare che tutto ciò derivi da errori evitabili: non si è previsto ciò che pur si poteva, non si sono mobilitate risorse adeguate, non si sono riservati i terreni necessari, non si sono valutate le conseguenze di ogni intervento. Tutto ciò ho l'impressione racconti solo una parte della storia. L'altra parte riguarda più da vicino il progetto urbanistico e di architettura.

3. Quando sta facendo un piano, qualunque sia la dimensione dell'area o del centro urbano investito, la questione delle strade diviene per l'urbanista un rompicapo ed un incubo.
Attorno ad essa, nei testi e discorsi degli amministratori, dei rappresentanti dei di versi gruppi sociali e di interesse, nella stampa, nella pubblicità, nelle analisi e nei progetti di altri tecnici e studiosi, nella loro stessa fraseologia, nelle metafore ed analogie cui essi ricorrono con maggior frequenza e che si riversano poi sulla società divenendone buon senso e senso comune, si viene quasi inevitabilmente ad addensare un nugolo di enunciati “anonimi, contorti, frammentari, chiacchieroni”, che, nel loro insieme, costruiscono il problema della strada in modo pressoché insolubile.
Alcuni pretendono di avere un carattere eminentemente inferenziale che possa essere sottoposto alla verifica o falsificazione. Nella maggior parte di questi enunciati Roland Barthes e Alfred Sauvy avrebbero riconosciuto alcuni dei principali “miti d'oggi”. Altri tendono a rinviare l'urbanista ad una visione d'assieme e ad un tempo lungo, a ramificati ed estesi sistemi di relazioni tra soggetti, attività, luoghi e saperi tra loro fisicamente o concettualmente distanti. Molti, all'opposto, gli propongono visioni limitate a situazioni contingenti, a soggetti, luoghi e saperi particolari ed ai loro specifici caratteri e ruoli. Alcuni enun¬ciati costruiscono il problema al di fuori dello specifico campo d'indagine dell'urba-nistica e dell'ingegneria ed architettura della strada, ma altri propongono e disegnano soluzioni di emergenza per problemi non ancora correttamente costruiti. Nessuno appare proprio di uno specifico soggetto parlante, deposito di uno specifico sapere; ma il loro insieme dà luogo ad una “rappresentazione collettiva” internamente contraddittoria che attraversa obliquamente i diversi gruppi sociali e di interesse e che tende a permanere con grande stabilità nel tempo; difficile da rimuovere e che peraltro si oppone con forza ad altre ed altrettanto importanti rappresentazioni: è da questa opposizione che nasce il rompicapo e l'incubo.
Ciò che domina la rappresentazione è un'immagine idraulica “banale”, solitamente utilizzata nelle due flessioni organica ed alluvionale per ridurre ed esaltare il ruolo della strada, ridurlo ad un unico scopo ed esaltarne l'importanza: si tratta di incanalare flussi; smaltire, evacuare, far circolare; evitare la formazione di ingorghi, allargare, dare nuovi sbocchi, impedire che il flusso rompa gli argini, straripi e sommerga la città. Nello spesso linguaggio, “intessuto di abitudini, di ripetizioni di stereotipi, di clausole obbligate e di parole-chiave” dell'odierna rappresentazione collettiva dei problemi del traffico e della viabilità le strade divengono “gronde”, “scolmatori”, “arterie” e “capillari”, "infrastrutture semplici", nel disegno delle quali si vorrebbe rappresentata un'idea pervasiva del movimento, della sua continuità e velocità; dalle quali si vorrebbe togliere nascondendola ed occultandola ogni incrostazione, ogni scopo diverso, come il fermarsi, lo stare, il voltarsi indietro e guardare.
Il frammento, l'eterogeneo, l'incongruo, il molteplice, la differenza hanno costruito un'altra grande e forse ancor più importante rappresentazione collettiva, un altro “mito d'oggi”; esso invade ogni aspetto del mondo fisico e delle idee opponendosi con forza ad ogni sguardo, ad ogni discorso e ad ogni pratica che aspiri a farsi generale. Siamo talmente immersi in questa nuova rappresentazione del mondo che vi riferiamo ogni incoerenza riscontrabile nei fatti o nei discorsi; l'usiamo in modo acquietante per trasgredire le regole linguistiche, le sintassi argomentative, le procedure d'interazione che ci siamo dati; per accettare la frequenza dell'imprevisto, per disfarci del peso della regola che si fa norma, per giustificare ogni progetto, forse ogni sua motivazione. Ad esempio per non rilevare le aporie contenute nell'idraulica della precedente rappresentazione collettiva. Per accettare che entrambi i miti rendano la strada, confinata allo svolgimento di una sola mansione tecnica, sempre più estranea alla costruzione del territorio, dello spazio urbano e del loro senso. La strada è divenuta oggetto di uno specialismo che la sottrae al campo dell'urbanista.

4. Per lungo tempo, invece, la strada è stata ineludibilmente costitutiva dell'oggetto di studio e del progetto dell'urbanista. Attraverso le strade l'urbanista ha letto ed interpretato la città, il territorio e la loro storia; attraverso le strade ha cercato di dare loro nuovi sensi e ruoli. Mi sembra persino difficile pensare il problema urbanistico od una sua qualsivoglia articolazione senza riconoscervi il ruolo assolutamente cruciale della strada.
L'urbanista ha usato le strade per misurare il territorio, per suddividerlo, per significare le differenze tra le sue parti ed il carattere di ognuna, per porre della distanza tra le cose, tra gli oggetti architettonici, le attività ed i loro soggetti, per definire allineamenti, regole d'ordine e loro eccezioni, per rappresentare il potere e la gerarchia, per separare, stabilire limiti e mediazioni, tra l'interno e l'esterno, il sopra ed il sotto, il privato ed il pubblico, ciò che si può o vuole mostrare e ciò che si nasconde; oppure per collegare, per mettere in comu¬nicazione tra loro territori, popolazioni e società, per attivare od imporre scambi, per rendere accessibili risorse umane e materiali, sfruttare loro giacimenti, rendere edificabile e valorizzare uno specifico luogo o terreno, deviare un flusso di traffico, attirarlo, consentire la sosta e la circolazione, delle persone e delle merci, lo scambio delle cose e delle idee. La strada, nella inesauribile serie delle sue specifiche varianti tecniche, funzionali, formali e simboliche, solo pallidamente ripetuta dalla varietà dei nomi mediante i quali vi facciamo riferimento, è sicuramente uno dei principali materiali con i quali l'urbanista si è da sempre trovato a lavorare; di volta in volta per affermare il valore della “regolarità”, della “continuità”, della “permanenza”, del “visibile”, dell'”organico”, della “tecnica”, della “velocità” entro differenti concezioni ed immagini dello spazio.
Alla strada, metafora del vivere, del conoscere e dei diversi percorsi della storia, nel progetto dell'urbanista è stato da sempre affidato un ruolo collettivo; non solo nel senso di costituire lo spazio dove per eccellenza la collettività si vede e riconosce sé stessa, la propria cultura ed i propri "miti", ma anche in quello di divenire segno di ciò che rende discreto, non omogeneo, articolato e cionondimeno coeso lo spazio sociale. Con il suo ambiguo carattere di traccia che collega e di limite che separa la strada, spazio tra le cose, si è fatta struttura cui gli altri spazi urbani, edificati e non, si riferiscono per acquisire significato: individualmente, come parti dotate di una propria riconoscibile identità, od insieme, come dettagli di una forma comprensibile e più generale. In questo senso la strada può rendere tra loro non incompatibili le due rappresentazioni collettive che dominano Io spazio urbano ed il territorio contemporaneo.

5. La cultura diffusa dei paesi occidentali è oggi percorsa da una ambigua nostalgia per la città antica in tutte le sue diverse declinazioni, ivi compresa la città del secolo scorso, e da un ingiusto rifiuto della città moderna; quasi una nuova rappresentazione collettiva in via di formazione che si esprime, per ora, in modo implicito ed inconsapevole come insieme disordinato di pratiche sociali, di procedure amministrative e di atteggiamenti progettuali. Della città antica non vengono rimpianti e riproposti per la conservazione e ripetizione i caratteri dello spazio privato, individuale, quanto piuttosto quelli dello spazio collettivo: la strada e gli gli spazi urbani, aperti o coperti, pubblici e privati, che ad essa si articolano. È mia impressione che di tutto ciò non si stia capendo molto: che si scambi il nuovo atteggiamento per una maggiore consapevolezza storica, per una più gelosa cura delle testimonianze storiche del passato, per una nuova specie di “antiquariato”, per uno snobismo di gruppi emergenti, soprattutto per un programma di ricerca dell’urbanistica e dell’architettura moderna.
Al contrario il nuovo atteggiamento mi sembra riveli “solo” l’emergere vago, cioè ancora aperto alle più diverse interpretazioni interpretazioni, di una domanda di spazio collettivo; di uno spazio, altrettanto vago, nel quale la collettività possa rappresentarsi, osservarsi e comprendersi nelle sue articolazioni e nel suo insieme, nel suo passato e nel suo divenire.
Il compito che sta oggi di fronte all’urbanista è appunto quello di restringere la vaghezza di questa domanda fornendole interpretazioni adeguate al carattere delle società contemporanee, che si rappresentino attraverso un “progetto di suolo”, inizialmente un progetto dello spazio stradale e di quelli che ad esso si articolano. Che si incominci conservando ed imitando, rivolgendo psi con qualche nostalgia al passato, osservando i caratteri “elementari” delle maggiori interpretazioni che ci hanno preceduto, cercando di descriverle, di classificarle, di ordinarle in differenti strati di senso, mi sembra normale, ma ancora insufficiente.
Ciò che occorre è ridare alla strada il suo spessore funzionale e semantico, farla divenire ancora elemento costitutivo del progetto urbano e territoriale, materiale resistente che, con la propria forma, si opponga al prorompere frammentario degli eventi e degli interessi, al fluidificarsi e mescolarsi delle idee, all’annullarsi di ogni riconoscibile identità, di ogni differenza tra progetti alternativi, di ogni criterio atto a stabilire la loro legittimità.
Ciò non si ottiene attraverso affrettate e burocratiche classificazioni e separazioni, risolvendo la questione per parti distinte: ad un estremo le strade destinate a smaltire il flusso informe del traffico con attaccati i loro parcheggi, all’altro, dietro il muro del parcheggio, la piazza commerciale riempita dei piccoli segni dell’arredo urbano. Non vi è niente oggi di più destinato all’insuccesso del piano di settore. Neppure si ottiene solo aumentando le dotazioni di superficie per la circolazione e la sosta delle nostre città. Le stime più ragionevoli ci portano a dire che non abbiamo le risorse fisiche, monetarie e temporali per ottenere significativi risultati risultati lungo questa strada. Ciò implica invece che i temi proposti alla politica urbanistica vengano di nuovo formulati, soprattutto che ne venga ripensata l’importanza e la priorità: la sintassi. In particolare, ciò implica che il problema del traffico venga per un momento de-drammatizzato, fatto uscire dall’emergenza “alluvionale” e ricollocato entro un progetto che aspiri ad una propria coerenza e legittimità nel tempo lungo. Si vedrà che questo è di nuovo un progetto complessivo: al centro vi saranno gli assetti morfologici, i principi insediativi e le loro mutue relazioni, le architetture urbane; dettagli che comporranno e trarranno significato da un insieme, da un piano urbanistico.


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15 ottobre 2010

GREGOTTI VUOLE SALVARE LE VELE DI SCAMPIA!

Leggo nel Riformista che Vittorio Gregotti vuole salvare le vele di Scampia. Dopo il sovrintendente che le vuole vincolare adesso abbiamo il grande architetto che afferma che devono essere completate e “messe sotto tutela”.
Quello del completamento è un refrain che oltre che vecchio e auto-assolutorio, comincia a diventare alquanto malinconico ma il “mettere sotto tutela” l’edilizia sociale pubblica è proprio nuova, almeno per me.
Cosa intenderà Gregotti? Farla piantonare dalla polizia? Oppure mettere insieme squadre di manutentori appositamente costituite allo scopo, a spese nostre naturalmente? Oppure una squadra di manutentori insieme a squadre di assistenti sociali e mediatori culturali? Chissà!
Ad essere sincero mi sembra molto più preoccupante il soprintendente che non l’architetto Gregotti, in cui leggo più una inconscia (o conscia) auto-difesa per interposto progetto, essendo anche lo Zen oggetto di critiche analoghe a quella di Scampia e di qualche sacrosanta proposta di demolizione.

A questo proposito ricordo una lamentela di qualche anno fa in cui si diceva che in Italia non si demolisce mai niente! Non mi riferisco a Gregotti del quale non saprei dire, ma a coloro, ed erano tanti, che lamentavano un certo immobilismo della cultura urbanistica italiana. Naturalmente, ma è davvero un ricordo senza nomi, ci si riferiva all’edilizia privata; quella certamente scadente, talvolta anche abusiva, abusi di necessità il più delle volte senza per questo voler esaltare l’illegalità come un valore, sicuramente anonima quanto ad autore. Però erano case, in cui la gente viveva, spesso frutto di lavoro e di fatiche. Erano case come Scampia (oddio, più che case queste chiamiamole riparo), come Corviale, come Zen, come Laurentino. Perché quelle si volevano demolire e queste no? Cosa hanno in comune questi formicai? Molte cose, ma due in particolare: l’essere pubblici e l’avere un padre con nome e cognome. Le altre erano orfane.

Per costruire il Laurentino leggo che sono state completamente “demolite” le case abusive precedenti. Come fossero quelle case e come fosse l’insediamento nel suo complesso non lo so. Però so che guardando alcune borgate romane, in cui l’edilizia spontanea, nel senso ex-abusiva perché condonata, è sovente intervallata da edilizia progettata e ci si rende facilmente conto che è molto più semplice integrare la prima in un disegno urbanistico che le consenta di diventare città, piuttosto che la seconda, fatta di segni forti dal disegno astratto e scollegato da ogni riferimento al territorio o alla viabilità. Non esiste alcuna possibilità di comprendere questi oggetti dalle dimensioni considerevoli e dalle forme bizzarre in un disegno urbano ragionevole.
Come non esiste alcuna possibilità che un progetto come le vele di Scampia possa diventare accettabile.

Ma i segni forti non devono essere demoliti, quelli anonimi e deboli e recuperabili alla trama urbana sì.
Vorrei fare un’ipotesi per assurdo per sapere quale sarebbe il giudizio dell’architetto Gregotti e di tutti coloro che difendono progetti come questo: mettiamo che le Vele, o il Corviale o analoghi, non fossero case popolari, ma alberghi o residence in qualche località balneare di grande popolarità. Mettiamo pure che fossero mantenute, per ovvi motivi, in buono stato di manutenzione. La domanda è: sarebbero lodate e difese a spada tratta con la stessa forza o piuttosto, in caso di minaccia di demolizione, i nostri non gioirebbero considerandola una conquista di civiltà e una vittoria sulla bieca speculazione?

La domanda è retorica perché la risposta è certa. Se è vero, e sappiamo essere vero, significa che dietro questa difesa non esistono motivazioni oggettive o merito in relazione al progetto, ovviamente, ma una scelta puramente ideologica di difendere se stessi e la propria storia. E’ una scelta di tipo puramente concettuale, perché non conta il prodotto in sè ma conta il contesto storico, politico, culturale in cui il progetto è maturato, è stato progettato ed eseguito, conta l’idea stessa che ha prodotto quel progetto. Conta la storia personale dell’architetto che l’ha progettato e quella collettiva del periodo in cui è nato.
Ad essere sinceri a me della storia personale degli architetti che hanno progettato quella roba lì non interessa proprio niente e certamente non interessa a chi è costretto a viverci.

Per questo motivo chi accusa coloro che ne vogliono la demolizione di scelta puramente ideologica in parte sbagliano ma in parte hanno ragione.
Sbagliano perché quegli stessi edifici, collocati in situazioni ambientali, storiche e culturali completamente diverse sarebbero considerati, giustamente, degli errori architettonici e umani colossali privi di qualsiasi qualità e, dato che non esiste possibilità di un loro miglioramento, l’unica soluzione sarebbe demolirli.
Hanno ragione perché quelli non sono, relativamente agli autori, tanto edifici quanto concretizzazioni di un’idea mostruosa, cioè simboli, e l’unico modo per abbattere quell'idea è abbattere gli edifici stessi. Demoliti quelli, e sostituiti con edifici civili, potrà restare la malinconia e il rimpianto solo per un ristrettissimo gruppo di persone. Ma sarebbe un fatto personale di scarso interesse pubblico.
Non posso credere, mi rifiuto di credere che Gregotti, che ha i suoi meriti, che sa cos’è e come si fa un progetto (l’importante è che non ce lo spieghi) possa ritenere le Vele di Scampia edifici da salvaguardare.
Architetto Gregotti, se le immagini dunque al mare, ad esempio sulla sputtanatissima costa spagnola accanto a centinaia di altri edifici simili, e si faccia un esame di coscienza. Nessuno chiede abiure, ma nemmeno irragionevoli e improbabili difese.

Pietro Pagliardini

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