E’ una piacevole sorpresa l’ultimo articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della Sera, Le ipocrisie verdi delle archistar.
Prima di tutto per lo stile con cui è scritto, ironico, direi beffardo, molto chiaro e diretto, contrariamente al suo modo consueto di scrivere piuttosto involuto e criptico. Ha tenuto, sì, a far sapere di conoscere Heidegger, ma per fortuna ha avuto il buon gusto di risparmiarcelo. Si vede proprio che questa volta aveva da dire qualcosa di veramente importante che gli usciva dai denti.
Intanto prendiamo atto che oggi dare dell’archistar ad un architetto è diventata quasi un’offesa. Se fosse vero anche in piccola parte, e probabilmente è vero, non sarebbe tanto importante lo svilimento dell’appellativo in sé quanto dei suoi presupposti, cioè del fatto che l’atteggiamento da profeti non solo dell’architettura ma anche della società, dei suoi costumi e perfino della sua economia (vedi il falso “effetto Bilbao”) vacillerebbe non poco. E sarebbe l’ora che gli architetti tornassero a fare gli architetti, almeno quelli che possono, e non i falsi profeti e/o i portavoce dei grandi gruppi editoriali, finanziari e di potere. E sarebbe anche l’ora che tornassero a farlo meglio il loro mestiere, progettando per la città e per se stessi e non per se stessi e basta.
Gregotti, in fondo, nel suo articolo dice esattamente questo, ironizzando sul lato modaiolo eco-bio-compatibile-sostenibile dell’architettura spettacolo ma anche di quella più comune, cui quella spettacolo fa ovviamente da trailer e da spot pubblicitario.
Che dire, ad esempio, delle case prefabbricate in legno, di chiara origine nordica e trentina, che adesso sembra vadano bene per il caldo, per il freddo, per il terremoto e perfino per il paesaggio italiano? Non è forse un sistema smaccatamente lobbistico di far passare un prodotto che andrà bene in Trentino ma che per certo nel 95% del territorio antropizzato italiano è roba da baracche provvisorie o da giardino?
Gregotti colpisce la punta dell’iceberg, quella visibile. Colpisce la banalità del bosco verticale con la parabola della sua vecchia zia (davvero un Gregotti così spiritoso e familiare è sorprendente), o dell’EXPO 2015 che salverà il mondo dalla fame probabilmente con una bella operazione edilizia a fine esposizione.
I suoi strali si appuntano sull’architetto Boeri, per concludere con una puntatina su Rem Koolhaas, ma molti altri, noti e meno noti, potrebbero essere al centro della sua attenzione. Non c’è infatti progetto che non venga veicolato e decantato per le sue qualità di sostenibilità ambientale; per i grattacieli in specie - la tipologia più anti-ecologica, consumistica, energivora (oltre che anti-urbana) che l’uomo abbia mai inventato – la prima cosa che viene detta, quasi a mettere le mani avanti, è che sarebbero sostenibili, autosufficienti, addirittura, e amenità del genere.
Capisco che è un articolo di giornale, per cui Gregotti ha dovuto sintetizzare alcuni concetti, e l’ha fatto egregiamente, però non sarebbe male che, magari in un futuro, appuntasse la sua attenzione sulla vera e unica sostenibilità dell’architettura e dell’urbanistica, e cioè quella che si ottiene con un progetto che non sprechi territorio libero, che non tema la densità edilizia e non chieda come in un mantra “il verde” per giudicare la qualità di un insediamento, che densifichi gli insediamenti esistenti realizzati nella logica dei lotti senza relazione tra loro e con la strada, anzi senza strada, che utilizzi materiali tradizionali e il più possibile locali, con il doppio vantaggio di risparmiare nei trasporti e di costruire in armonia con la tradizione dei luoghi.
Non basta ironizzare sull’ambientalismo lobbistico e bugiardo, ma un architetto del calibro di Gregotti dovrebbe inquadrare il problema con una visione più ampia e proporre una alternativa ad un problema reale, quello dei consumi e dei costi energetici, proprio in questi giorni tornati di grande attualità.
Una città compatta e fortemente costruita, dove il pieno prevalga sul vuoto, con tutte le funzioni presenti e mescolate, gerarchizzate in senso verticale e non separate in senso orizzontale, riduce fortemente la necessità di trasporti meccanici, non solo, e forse non tanto, per gli spostamenti casa-lavoro, quanto per tutte le altre innumerevoli quotidiane attività urbane che, viceversa, in una città diffusa e divisa in aree funzionalmente omogenee costringono all’uso continuo dell’auto: accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, spostarsi da un ufficio all’altro, andare dal dentista, pagare l’assicurazione, andare in banca o alla posta o in palestra, perfino a fare due passi per incontrare qualcuno.
Certamente in una grande città metropolitana i problemi si pongono in maniera più problematica e perfino drammatica, e il sistema della mobilità è più complesso e richiede un forte intervento di infrastrutture pubbliche, ma è assurdo ed insensato, una vera vergogna dell’urbanistica ortodossa, come la chiama Jane Jacobs, che nella stragrande maggioranza dei piccoli e medi centri urbani di cui è composta l’Italia ci si debba trovare nelle medesime condizioni delle aree metropolitane.
In queste realtà è possibile e indispensabile proporre e agire di conseguenza. Ritornare alla città, una bella frase, un concetto tutto sommato semplice da comprendere, è l’unica soluzione possibile. Ma è così semplice, almeno concettualmente, che evidentemente viene ritenuto non adatto alla complessità delle soluzioni che deve proporre un architetto, visto che tutto continua ad andare nella direzione opposta. Tutto continua come prima, con rigide zonizzazioni e classificazioni di aree, addirittura di edifici, per funzioni, l’attenzione è puntata sempre sulla funzione, sul “cosa collocare in quel luogo”, con una occhiuta, illiberale e dirigistica velleità di decidere non solo "ciò che" ma anche "dove" serve alla società. Se lasciassero decidere alla legge del mercato, alla libera iniziativa, questa saprebbe esattamente ciò che serve, e quindi rende, e ciò che è superfluo, e quindi è improduttivo.
Eppure la risposta dovrebbe essere una sola: un pezzo di città!
Invece si producono rigide classificazioni, norme sulle distanze che impediscono ogni intasamento dei lotti e ogni ristrutturazione urbanistica che ridisegni intere aree delle periferie, l’attenzione "eco" puntata sempre e comunque sul singolo manufatto, sull’oggetto, sulle soluzioni tecnologiche, senza uno sguardo all’insieme, al disegno della città, l’unico che può garantire soluzioni di lunga durata e una vita urbana a misura del pedone.
C’è una straordinaria relazione tra riduzione dei consumi energetici e miglioramento della qualità della nostra vita urbana: per soddisfare la prima occorre lavorare sulla seconda.
Ecco, nei prossimo articoli di Gregotti ci aspettiamo una indicazione in tal senso: meno attenzione agli oggetti e all’architettura e più all’insieme e alla città, la vera emergenza per la cultura degli architetti.
28 febbraio 2011
GREGOTTI E LE VERDI ARCHISTAR
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3 commenti:
Potrebbe essere che Gregotti, spaventato dall'avanzare dell'età, abbia pensato di cambiare approccio?
Io non gli credo, io lo considero un ipocrita che cerca di cavalcare l'onda: si è reso conto del successo che le pubblicazioni "anti-archistars" stanno avendo, e così ha deciso di unirsi - a modo suo - al coro. Per potergli credere sarebbe necessaria una sua dichiarazione pubblica di scuse nella quale, parafrasando se stesso, ci dica: "non faccio più l'architetto, voglio fare il proletario!"
Polemicamente
Ettore
Cattivissimo Ettore!!! Credo sarebbe sufficiente ammettesse che lo Zen è stato ed è un errore madornale che ha causato e causa danni incredibili a chi vi abita e alla società in genere.
Ma ormai mi sembra davvero impossibile che lo faccia, dopo la non certo antica, famosa e grottesca intervista alla Jene, la quale, purtroppo, non è più visibile su YouTube perché la società di produzione RTI, che credo sia di Mediaset, l'ha fatta ritirare per violazione del diritto d'autore.
Un peccato, davvero un gran peccato perché era, da sola, meglio di un saggio su un modo di pensare e di essere di architetti e uomini di cultura di un lungo periodo storico, che ancora sembra non sia passato del tutto, vedi le vele di Scampia. Ed era anche un monito a non seguire più quella strada.
Forse è possibile ritrovarla sul sito Mediaset, ma non ci ho provato.
Ciao
Pietro
sarò cattivissimo nel giudicare, ma la cattiveria del "maestro" nei confronti delle sue cavie umane non ha aggettivi per essere definita, né tantomeno una pena che gli si potrebbe infliggere.
Un'idea ce l'avrei: ogni volta che un crimine, o un suicidio, si verifica in certe realtà antisocializzanti, gli autori andrebbero condannati per omicidio colposo o istigazione al suicidio .. ma forse basterebbe rispolverare il codice di Hammurabi.
Cattivik Ettore
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