Pietro Pagliardini
Abbandonata sulla poltroncina di un treno, una conoscente l'ha raccolta e mi ha fatto pervenire una pagina de Il Messaggero, giornale non troppo diffuso dalle mie parti. Sapeva che avrebbe potuto interessarmi. E’ ingegnere con un forte interesse per l’architettura e l’arte.
Si tratta dell’anticipazione di un libro del poeta Giorgio Caproni, Prose critiche, Aragno. Non si tratta quindi di poesie in questo caso, anche se la prosa ha il ritmo della poesia. E’ un breve estratto e non ha un titolo e io citerò quello dell’articolo: Se la poesia non è di casa.
Non posso riportare il brano perché c’è la riproduzione riservata. Me ne dolgo perché è peccato sciupare quella prosa riducendola a semplici concetti, ma non ho scelta. Solo brevi brani sono costretto a non omettere, proprio per non travisare il senso del testo originale.
Semplici concetti dicevo, ma non così tanto semplici da essere compresi e soprattutto apprezzati e condivisi da molti architetti e dal modesto circo mediatico, detto anche culturale, che gira loro intorno.
“Se la poesia non è di casa” richiama esattamente il contenuto, la differenza che esiste tra gli edifici moderni e quelli antichi, tra la città contemporanea e la città storica. Nelle prime la poesia non è di casa perché le case sono prive di poesia. Caproni osserva le nuove costruzioni, con i loro intonaci dai colori freschi ma un po’ falsi, e le immagina tra qualche anno, invecchiati precocemente per le colature di pioggia, “annerite e striate le murature dal tempo e dal maltempo” quando “faranno l’effetto, ahimè, degli abiti vecchi, delle automobili vecchie, dei frigoriferi vecchi, insomma di tutte le cose vili e soltanto utilitarie che in pochi anni diventano vecchie senza poter diventare antiche, e quindi senza poter acquistare, sotto la patina del tempo, in bellezza e in valore”.
Immagini poetiche che non escludono un’analisi sociologica e antropologica, con l’essenziale differenza tra il bene di consumo o utilitario, legato al tempo, ai costumi, alle mode, e la casa, bene che racchiude altri significati simbolici legati all’esistenza stessa dell’uomo: il provvisorio rispetto al definitivo, all’eterno. La casa è per sempre. E il tempo, depositando la sua patina, le farà acquistare bellezza e valore, affettivo, di godimento estetico, economico perfino.
La casa del dopoguerra invecchia invece come un qualsiasi bene di consumo, diventa un rottame da buttare via. E più ci avviciniamo ai giorni nostri più questa precarietà, questo senso di provvisorietà della casa aumenta, con l’uso di materiali e di tecnologie meno durevoli, in barba a tutte le prove e certificazioni di durabilità. Chi certificherà la sensazione di disgusto di chi si troverà di fronte a questi ruderi contemporanei?
Il brano si conclude con la constatazione della “bruttezza degli interi quartieri nuovi che a suon di milioni crescono come funghi (…) Credo fermamente che se esistesse un controllo più oculato anche dal lato estetico, sulla base di tale cifra (una delle più modeste, dopotutto) si potrebbe avere una buona architettura media (…) Un minimo, senza pretendere capolavori, sufficiente a creare un paesaggio urbano accogliente e distensivo, capace, anche tra vent’anni, di non mortificare chi non ha ancora finito di pagarlo, e di non diseducare interamente, anziché contribuire a educare, i figli che vi nasceranno, e vi scorrazzeranno”.
Educare i figli alla bellezza con la bellezza dell'ambiente in cui crescono significa il diritto alla bellezza per tutti. Siamo agli antipodi dall'educazione all'abitare di cui parla il tiranno dell'urbanistica, Le Corbusier.
Ma chi glielo dice alle nostre scuole, ai giovani architetti dai docenti stimolati, spinti, costretti e illusi alla superbia creativa, al sublime, all’opera d’arte? Chi glielo dice a quei docenti che dovrebbero insegnare una “architettura media” quando loro stessi probabilmente non sanno cosa sia e risulta molto più facile celare la propria ignoranza dietro grandi fantasticherie cui i giovani, per merito d’età, hanno naturale e comprensibile propensione? Chi seguirebbe, nella scelta, un ciarlatano che offre grandezza, successo e vita eterna rispetto ad un professore che chiedesse solo modestia e mestiere? Il nodo dell’architettura nella società di massa, in fondo è tutto qui.
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25 marzo 2013
SE LA POESIA NON E' DI CASA
3 febbraio 2012
UN'ESEMPLARE LEZIONE DI ANTONIO PAOLUCCI
Rubo letteralmente dal sito Archiwatch un video in cui Antonio Paolucci, Direttore dei Musei Vaticani, storico dell'arte nochè grande e seducente comunicatore e divulgatore, oltre a raccontarci come il consumo di cultura e di arte segua direttamente la crescita o la decrescita economica del paese - con questo mettendo un punto fermo sul luogo comune che i "servizi" o gli "eventi" producano reddito quasi fossero indipendenti da tutto il resto - fa una impietosa e veritiera analisi delle condizioni in cui versano le città e il paesaggio italiano, a far data dalla seconda guerra mondiale.
Paolucci ha ben chiaro il fatto che è stato dissipato un vero patrimonio di "bellezza" che costituiva un patrimonio economico alla voce "turismo", oltre ad un grande patrimonio alla voce "cultura di un popolo", a causa del combinato disposto della enorme quantità del costruito degli ultimi 60 anni con la pessima qualità dello stesso.
Paolucci non attribuisce le responsabilità a questo o quel soggetto ma, per restare in casa nostra, gli architetti devono fare i conti con se stessi e riflettere sulle loro responsabilità, che sono enormi, non cercando di nascondersi dietro quelle della politica, della speculazione, delle varie mafie, che sono gigantesche, ma che sono state le scuderie che hanno fornito l'auto, il motore che ha corso, e di cui gli architetti sono stati, in buona parte, i piloti, coloro che hanno determinato la condotta di gara, che hanno fatto la scelta delle gomme.
Non abbiamo determinato noi architetti le quantità, di certo, ma buona parte della scadentissima qualità certamente sì.
Noi abbiamo fatto i piani urbanistici, poi peggiorati ulteriormente dagli interessi e dai decisori, noi abbiamo costruito edifici pessimi, poi ulteriormente peggiorati per lucrare. Ma noi, da soli, abbiamo determinato il fallimento dell'edilizia residenziale pubblica, cullati e accarezzati da una classe politica in cerca di consenso e potere.
Noi architetti ci esaltiamo per il MAXXI e i grattacieli a Roma, ed elucubriamo sulle magnifiche sorti e progressive della contemporaneità architettonica, semmai lamentandoci che è troppo poco per entrare in gara con i corrispondenti MAXXI e grattacieli del mondo.
Noi ci siamo inventati di sana pianta l'esistenza dell'effetto Bilbao, come se Bilbao vivesse del museo, come se Bilbao fosse Firenze.
Sempre noi ci riempiamo la bocca, girandoci il dito nell'ombellico, sulla necessità di lasciare i segni architettonici della nostra contemporaneità in paesaggi e in città da "camera con vista", come dice Paolucci, consegnateci belle dai nostri nonni, senza nemmeno sforzarci di capire che la nostra contemporaneità è proprio quella delle nostre brutte periferie, dei nostri brutti casermoni, delle nostre brutte architetture di cui noi siamo in buona parte gli autori.
E quello che è peggio, senza ancora aver preso atto che è necessario invertire la rotta, anche se ormai i buoi sono scappati dalla stalla.
Adesso godetevi questa intervista, non prima però di farvi notare che effettuando su Google la ricerca "Paolucci", il primo nome che appare è quello di un calciatore, il secondo è il nostro. Questo fa parte della nostra contemporaneità. Come in architettura.
9 dicembre 2011
BRUTTI SIMBOLI PER UNA BRUTTA EUROPA
I simboli con cui le istituzioni si presentano ai propri cittadini e al mondo hanno la loro importanza, nonostante vi siano coloro che non vedono o non vogliono vedere questa relazione.
I simboli dell’Istituzione Europea sono senza tempo, senza luogo, senza identità, senz’anima e rappresentano, appunto, un immenso non-luogo istituzionale e politico. L'annullamento dell'identità dei popoli può essere causa di conflitti tanto quanto l'esasperazione identitaria.
L’architettura fisica con cui l’Europa si celebra, rappresenta al meglio, o al peggio secondo i punti di vista, la sua architettura istituzionale e politica: una pura astrazione avulsa dall’Europa delle nazioni e dei popoli. Per rappresentare tutti si è scelto di non rappresentare nessuno, si è scelta una generica e brutta modernità priva di contenuti che non siano quelli della finanza, che è economia virtuale privata della componente del lavoro e quindi della componente umana. Una finanza delocalizzata per un’istituzione che non ha radici nei territori e nel cuore della gente.
Niente a che vedere con il Palazzo del Parlamento Italiano o con quello del Quirinale o con l’Eliseo o con Il Palazzo di Westmister o con la Casa Bianca.
L’architettura dell’Europa ha rifiutato la bellezza perché non poteva fare diversamente. In questo possiamo riconoscere, amara soddisfazione, che i simboli scelti sono sincera espressione di una misera realtà costruita su un ideale di universalismo politico, economico e culturale di cui, ironia della sorte, l’attuale, anomala situazione politica italiana sembra quasi manifestazione e sottoprodotto. Leggi tutto...
19 novembre 2011
SI PUO' COSTRUIRE NEI CENTRI STORICI?
Giornata piena alla Giornata di studio su Giorgio Vasari Architetto organizzata dall’Ordine degli Architetti di Arezzo. Non è il momento di un resoconto completo, in attesa di scaricare qualche video, ma vorrei commentare uno dei tanti spunti che sono stati lanciati da Luigi Prestinenza Puglisi, coordinatore dell’incontro del pomeriggio .
Nel corso della mattinata Giorgio Vasari Architetto è stato degnamente celebrato dalle approfondite relazioni del Prof. Francesco Gurrieri, del Prof. Gabriele Morolli e dell'arch. Anna Pincelli. Nel pomeriggio invece Vasari è stato toccato solo tangenzialmente avendo presentato alcuni loro progetti Massimo Carmassi e i due giovani Stefano Pujatti e Giovanni Vaccarini. Su questi ultimi due mi riservo di approfondire con i video, anche se anticipo di avere assistito ad una fiera della vanità a mio avviso alquanto priva di contenuti; Massimo Carmassi, che avevo incrociato in altre occasioni, è stato invece una sorpresa.
Non per i progetti, che sono noti a tutti e non c’è stata alcuna novità, ma per le cose che ha detto durante il dibattito, dando segni di evidente insofferenza rispetto ad atteggiamenti professionali e a progetti che lui ha giudicato molto negativamente sotto ogni profilo. Se posso dirlo (tanto lui non usa internet), l’età l’ha cambiato molto e direi in meglio: disponibile al dialogo, disincantato, perfino autoironico, ha abbandonato del tutto quella certa aria da architetto di successo nei quartieri alti della cultura architettonica che deve tenere il punto sul proprio lavoro senza nulla concedere ad un momento di spontaneità. Ha distinto nel bagaglio dell’architetto la sovrastruttura fatta di parole, utilizzate per valorizzare la propria figura professionale, dalla struttura reale, cioè il proprio lavoro che è quello che resta; ha invitato gli architetti a tornare alla realtà, ha sottolineato l’aspetto artigianale del nostro lavoro, ha chiesto maggiore umiltà e ha auspicato il ritorno ad un minimo comun denominatore di grammatica architettonica. Ma di questo ne riparlerò insieme agli altri due giovani.
Prestinenza Puglisi, da cui mi divide praticamente tutto, è però un ottimo comunicatore e intrattenitore, sapiente nel cogliere i vari temi che emergono dalla discussione che lui risolve dando spazio a tutte le opinioni anche a quelle che certamente non condivide. Uno di questi spunti, che non c’è stato tempo di approfondire e che è anche in qualche modo suggerito dall’opera di Giorgio Vasari, è il solito, eterno tema della opportunità o meno di progettare nei centri storici.
Io sono convinto che, detta in questo modo, limitandosi cioè a considerare la parte antica di ogni città come a se stante, come una sorta di parco architettonico-urbanistico e scrigno di bellezza in mezzo al brutto della città moderna, effettuando cioè la divisione netta tra centro storico e periferia, la risposta più corretta, saggia e prudente sia quella di dire, come è stato detto in effetti nella gran parte del paese, semplicemente: no, non si devono fare nuovi progetti. Se buona parte dei nostri centri storici sono conservati questo è dovuto al niet delle Soprintendenze, talvolta odioso nei dettagli e nella forma, ma senza il quale credo ci sarebbe rimasto però ben poco di quella bellezza. Quali sono le ragioni di questa convinzione? Sono legate al modello culturale dell’architettura ed anche dell’urbanistica dominante:
L’architettura:
- Attualmente è orientata ad una creatività tutta tesa ad esaltare l’oggetto architettonico come evento a se stante, autonomo dal contesto di riferimento e ad una ricerca della “sorpresa” e della valorizzazione del suo autore piuttosto che nello sforzo di soddisfare tutti i soggetti interessati all’opera di architettura, cioè il committente e tutti i cittadini cui la città, nel suo complesso e nelle sue parti, appartiene. Quest’ultimo input pare essere ormai completamente estraneo alla cultura dell'architetto contemporaneo. L'architetto ha un approccio al progetto che è di tipo mistico, cioè di colui che entra in relazione con la verità per istinto e non per razionalità e che quindi non può essere, per definizione, comunicata; il che lo autorizza a sentirsi libero da ogni vincolo, dal giustificare il progetto agli altri ma anche a se stesso, salvo il fatto di fare uso massiccio di espressioni ed impressioni di tipo immaginifico ed emozionale assolutamente non verificabili e il più delle volte prive di riscontro con la realtà e del tutto incomprensibili ad una elementare analisi sintattica e lessicale. Basta leggersi qualsiasi relazione ai concorsi o ai progetti. Basta guardare qualche intervista. D’altronde è chiaro che mentre è possibile fare un’analisi grammaticale, come è stata fatta dal Prof. Morolli, dell’opera del Vasari, è viceversa impossibile farla per i progetti contemporanei che direi per scelta rifiutano qualsiasi grammatica, anzi si dichiara che ognuno ha la sua grammatica: la mistica appunto.
Questo per l’oggi.
Ieri invece per la nota prevalenza del movimento moderno che avendo azzerato tutto il patrimonio di conoscenze accumulato nei secoli ritenuto non idoneo all’espressione della modernità e, direi meglio, all’uomo moderno - considerato assurdamente diverso da quello antico - non può avere certo le carte in regola per intervenire al’interno di parti della città che invece sono cresciute e si sono trasformate, mattone dopo mattone, con un processo evolutivo di crescita con forti attinenze a quello della natura e senza sostanziali e violente cesure e traumi.
L’urbanistica:
- Qui prevale ancora la zonizzazione selvaggia, figlia sempre del movimento moderno, che ha dissolto l’unità della città, ha eliminato la strada dal suo orizzonte relegandola a mero supporto funzionale al traffico veicolare, creando, con la certificazione legislativa della zona A, il “centro storico”, oggetto di salvaguardia, e lasciando piena libertà di azione nella rimanente parte di territorio, con unico limite e criterio progettuale quello quantitativo del metro cubo e dei vari parametri edilizi. In questo modo è andata persa del tutto anche la memoria di come avviene la crescita della città, i suoi meccanismi di stratificazione successiva, una armonica e naturale modificazione urbana. Attualmente poi si tende a considerare la periferia sotto il profilo emozionale, soggettivo e psicologico, cercando di valorizzare presunte spinte ideali individuali di appartenenza a quel non-luogo riconoscendo una inesistente vitalità, ma di fatto condannandola invece allo status quo ed anzi aggravandone la situazione con l’aggiunta di oggetti singoli che amplificano ancora di più il disordine, il rumore e la parcellizzazione urbana e sociale.
Permanendo questo stato di cose il centro storico non può che continuare ad essere considerato off-limits, area da escludere da ogni possibile invenzione che lo renderebbe del tutto simile alla periferia.
C’è una rinuncia totale nella cultura dell’architetto contemporaneo ad un’azione che tenda invece a modificare il corso delle cose, un’acquiescenza passiva allo spazio-spazzatura che non viene considerato come uno stato di fatto negativo ma si tende ad elevarlo a valore, esaltando paesaggi urbani caratterizzati dal precario e dallo squallore e inventando una sorta di poetica del provvisorio, del brutto, dell’instabile al solo scopo di giustificare il proprio progetto, espressione della propria grammatica individuale. E’ la vittoria del relativismo assoluto in cui sembra non si debba giudicare niente (evidentissima contraddizione anti-relativa) ma che è utilissima ad evitare ogni giudizio sul proprio prodotto salvo quello che se riesco a produrlo vuol dire che va bene. Una trasposizione banale, strumentale e involontaria dell’essenza delle cose in base alla quale l’essere è, il non essere non è e l’essere non può non essere.
Dimentica l’architetto, e quando qualcuno glielo ricorda non capisce o non vuol capire, che la città è il luogo in cui si esprime la comunità come insieme di individui ognuno con la propria libertà ma nel rispetto di quella altrui. Non capisce che la città coincide con la società dalla quale, invece, tende a subire passivamente e talvolta con gioia una quantità di regole e leggi tanto elefantiaca quanto inutile e dannosa. Ma rinnega la possibilità di regole urbane considerate un ostacolo alla sua libera e licenziosa espressione di creatività. Riduce le nostre città e la nostra società, a Dubai, visto come il luogo della libertà assoluta, non sapendo leggere e distinguere le diversità e la peculiarità di ciascun luogo, ammesso e non concesso che Dubai sia un luogo e non piuttosto una cassaforte per capitali, sempre più scarsi, in cerca di reddito.
Invece è proprio l’idea di periferia che deve essere rifiutata tendendo a farla diventare essa stessa emanazione e riproduzione del centro storico, che dovrebbe essere chiamato centro antico, non banalmente come si tende a dire per colpevolizzare l’avversario dando per scontato che a questa visione corrisponda necessariamente una visione antichista in senso stilistico, ma come parte di un organismo unitario che deve proseguire nelle regole insediative che hanno prodotto la città antica, interpretandole e adattandole alle varie situazioni geografiche, morfologiche e funzionali.
Nel centro antico sarà lecito e opportuno intervenire solo previo avveramento di questa condizione di carattere urbanistico e solo dopo che, se mai potrà avvenire, l’architetto abbia rinunciato per scelta razionale e non per intenzione moralistica o di basso profilo all’egocentrismo creativo.
Insomma solo dopo che l’architetto potrà tornare ad essere portatore di una cultura urbana e quindi civile.
13 luglio 2010
BELLEZZA ED EFFICIENZA SONO DAVVERO ALTERNATIVE?
“Forse, nell’oscillare tra la bellezza e l’efficienza, il trionfo contemporaneo della tecnica, il disastro dei quartieri costruiti negli ultimi cinquant’anni, sarà allora solo provvisorio, questo dilagare dell’indifferenza sarà soltanto una infatuazione momentanea cui seguirà il ritorno verso il centro della U, le case di questi cinquant’anni lentamente scompariranno – neppure il cemento armato è eterno – e i loro quartieri verranno ricostruiti più belli e sarà così salvo un principio fondamentale della nostra identità di europei, la bellezza delle città.
O forse no, forse questa infatuazione per una frustrante pretesa della tecnica di condizionare le nostre vite nell’urbs della nostra Europa finirà per dissolverla in un uniforme e desolante paesaggio planetario”.
E’ questa la conclusione di uno dei capitoli del libro di Marco Romano, Ascesa e declino della città europea, Raffaello Cortina.
Questi due opposti scenari, che comunque contengono un unico giudizio sulla città moderna, cioè la mancanza di bellezza e di identità, o almeno la mancanza di una bellezza riconoscibile e condivisa, si adattano ad un mio vecchio post, Il senso del limite, o meglio, mi ricordano il fatto che Emanuele Severino ha già scritto di questo argomento, cioè del trionfo ineluttabile della tecnica, dato che di mio in quel post c’era ben poco.
Aggiungerò alcuni altri pensieri di Severino, il quale ha il grande pregio di una logica rigorosa e stringente e mette l’uomo contemporaneo di fronte a scenari che lui ritiene inevitabili, che forse non lo sono, ma che è bene conoscere:
“La grandezza della tecnica è per ora deformata dall’interpretazione tecnicistica della tecnica; è avvolta nel grigiore dei suoi interpreti ufficiali, che a sua volta alimenta la rozzezza, ovunque percepibile, con cui le forze sociali dominanti intendono voltare le spalle alle “ideologie” e alla “politica” in nome della tecnica, dell’efficienza, della competenza. In nome della razionalità tecnologica ingenuamente intesa, stiamo correndo il rischio di perdere non solo il patrimonio grandioso del nostro passato, ma il significato stesso del nostro esserci dovuti separare da esso.
Vi sono motivi per pensare che la tendenza fondamentale del nostro tempo spingerà ad uscire dalla bassura presente, e che in questo processo restino rafforzate quelle forme di cultura che, come le filosofie dell’esistenza, tengono vivo il ricordo del nostro passato. La condizione fondamentale per allontanarsi dal passato è di conoscerne a fondo il significato. Altrimenti l’allontanamento è un semplice caso, che può venir meno da un momento all’altro. Oggi la nostra civiltà è un navigatore che allontanandosi da terra –dalla terra del passato – non si ricordi più dove sia la terra: può sbattervi contro, nella nebbia della dimenticanza, da un momento all’altro – e ritornare al passato più primitivo e più incolto”.
Il brano è tratto da Pensieri sul Cristianesimo, E.Severino, BUR. Ovviamente l’autore non sta parlando di architettura o civiltà urbana in senso stretto, ma quel ragionamento è perfettamente sovrapponibile all’una e all’altra, anche perché sono gli stessi concetti espressi nel suo Tecnica e Architettura, E.Severino, Raffaello Cortina.
Severino giudica ineluttabile il trionfo della tecnica, anche perché “ogni azione vuole rendere sempre più reale il proprio scopo, al di là di ogni limite e vincolo”.
Se questo fosse vero, la condizione ineluttabile della città sarebbe l’avveramento della seconda ipotesi di Marco Romano e non quello del ritorno alla bellezza della città. Ho già detto che alla logica di Severino è difficile, almeno per me, opporre argomenti che la smentiscano e ancora più difficile è farlo con il ricorso agli stessi suoi strumenti logici; posso solo dire, anche se ne colgo tutta la debolezza teorica e l’abisso qualitativo tra la forza delle due argomentazioni, che Severino mi sembra trascuri l’azione nella storia della volontà dell’uomo il quale, possedendo il dono della libertà di scegliere, può indirizzare gli accadimenti in un senso o nell’altro.
Severino è difficilmente confutabile (sempre da me, ben inteso) rimanendo all'interno delle grandi visioni filosofiche, ma lo è un po’ più facilmente nel momento in cui si riflette sul fatto che queste sono il frutto della mente, e quindi dell’azione, dell’uomo. Sarà un pensiero banale ma, se si esclude l'atto di fede, e Severino la escluderebbe senz'altro, ogni visione filosofica è prodotta dall'intelligenza umana e perciò stesso non può essere ineluttabile. Se così non fosse sarebbe necessario accettare l’ineluttabilità di ogni evento che sarebbe preordinato e determinato a prescindere dall’intervento umano. Ma è Severino stesso a riconoscere il fatto, ad esempio, che “solidarietà ed efficienza non sono più ciò che esse sono quando, separate, costituiscono lo scopo supremo delle azioni sociali che, rispettivamente, le perseguono. Unite, si limitano, si modificano a vicenda: il capitalismo non è più capitalismo e l’azione sociale del cattolicesimo non è più cattolicesimo”.
Dunque, oltre al fatto che semmai, per omogeneità dei termini, la conseguenza sarebbe che "l’azione sociale del cattolicesimo non è più azione sociale del cattolicesimo" - ma resta il cattolicesimo, decadendo con ciò solo un effetto del cattolicesimo- si ammette l’esistenza di una azione sociale diversa che non è più capitalismo e non è nemmeno azione sociale del cattolicesimo, ma qualcosa d’altro, e questo grazie all’azione e alla volontà umana. Se questo è vero, tornando al tema, sembra essere possibile evitare l’ineluttabile, per il fatto che ineluttabile non sarebbe, e poter tornare anche alla bellezza delle città.
Forse ad una bellezza che tenga conto dell’efficienza imposta dalla tecnica, ma la bellezza non cambia la sua essenza. D’altra parte l’alternativa che ci si presenta davanti da 50 anni a questa parte non è portatrice di bellezza e tanto meno di efficienza, che anzi molti critici della città contemporanea puntano l’indice proprio sull’inefficienza del risultato, sotto ogni profilo, oggi soprattutto sull’inefficienza energetica dei modelli urbani più diffusi, ma anche su quella sociale, ecologica, ambientale.
L’alternativa che Marco Romano segnala, in verità non sembra esistere, almeno logicamente, date le premesse, perché il modello della tecnica non esiste, non è stato trovato, che anzi siamo all’antitesi della razionalità della scienza, sia in campo urbano che architettonico, e non può essere per definizione che una città basata sulla tecno-scienza sia così profondamente inefficiente proprio sotto il profilo tecnico.
Che tecnica è se in 50-60 anni ha solo aumentato i problemi, dato che gli unici risolti sembrano quelli tecnologici di base relativi al solo abitare, ma le cui basi erano già state poste tra l’800 e il ‘900?
Riprendiamoci almeno la bellezza delle nostre città europee per scoprire che ripristineremo una buona parte dell’efficienza della vita comunitaria e del rapporto abitare-lavorare come alcuni studi (1) sembrano dimostrare.
(1) Minimizing car travel by changing how we think about development
Seguire il link Journal of the American Planning Association all’interno dell’articolo
16 maggio 2010
DEMOCRAZIA E BELLEZZA NEL NUOVO LIBRO DI MARCO ROMANO
Quello che segue è un piccolo estratto dal Prologo del nuovo libro di Marco Romano, “Ascesa e declino della città europea”, Raffaello Cortina, 2010 (Il libro è scaricabile anche in formato PDF nel sito Estetica della Città).
Quattro capoversi che sono una sintesi dell’origine della crisi della città e dell’architettura moderna, e la spiegazione del paradosso per cui, ad una società tesa ad allargare sempre più gli spazi di democrazia, ha corrisposto invece una città “scritta” con un linguaggio che esclude i cittadini che non capiscono ma devono subire.
“L’urbanistica contemporanea, figlia di un mondo dominato dal mito trionfale della tecnica, insiste sull’efficienza che sarebbe conseguibile con un buon piano regolatore, su come sarebbe più facile vivere in una città con le sue cose disposte secondo i principi razionali stabiliti dalla disciplina e raccordate da strade veloci che leghino le tre funzioni fondamentali, la casa, il lavoro, la ricreazione: e in questo, nel far coincidere l’efficienza con la bellezza, la conclamata bellezza di un silos, consiste tutta la dottrina estetica moderna sulla città.
La bellezza di una rigorosa efficienza era poi congruente con il rigore delle avanguardie artistiche contemporanee, e come le avanguardie andavano maturando una visione estetica nuova che tendeva a ridurre la pittura a una composizione di punti, linee e superfici (è il titolo di un noto libro di Kandinsky), quasi a prescindere dal suo significato, dalla consistenza figurativa del suo soggetto, così nella città doveva venire messa in campo una visione altrettanto astratta, e come dai quadri e dalle statue andava cancellata la riconoscibilità delle figure così dalle città dovevano scomparire tutte quelle cose che avevano costituito gli elementi essenziali della loro bellezza, le passeggiate e i boulevard, le strade principali e quelle monumentali, le lunghe prospettive trionfali e le piazz , in effetti cancellate dalle futuristiche prospettive della Ville Radieuse di Le Corbusier o della Groszstadt di Ludwig Hillberseimer.
Tuttavia, mentre una qualsiasi nuova forma di espressione artistica è legittima, dalla “maniera moderna” del Pontormo e di Rosso Fiorentino ai quadri luminosi di Claude Monet o ai tagli di Lucio Fontana, anche se coltivata e condivisa soltanto da pochi estimatori, la città deve venire invece apprezzata da tutti i cittadini, e dunque la sua bellezza non può venire fondata su un linguaggio estetico così nuovo da essere comprensibile soltanto da una élite ma deve per sua natura essere accessibile, proprio come il linguaggio verbale, all’intera cittadinanza, perché le scelte che la concernono debbono poter venire discusse da chiunque e non diventare il campo privilegiato di pochi esperti.
Quanto alla coincidenza tra la razionalità dell’organizzazione cittadina e la sua bellezza i conti non tornano, perché la sfera della tecnica è per sua natura soggetta all’intrinseca legge del progresso, dove ogni novità cancella la precedente, mentre l’aspirazione alla bellezza è quella di durare in eterno, sicché ciò che è nato nella sfera dell’efficienza tecnica non potrà mai aspirare all’eternità della bellezza…”.
Sono per me di grande interesse gli esiti degli ultimi due periodi, e cioè:
1. l’origine elitaria dell’urbanistica moderna, mutuata dalle teorie artistiche delle avanguardie, sovrapposte automaticamente alla città, con l’aggiunta di dati tecnici legati all’igiene e alla mobilità, già presenti dal XIX secolo, che sovrappone la visione urbana di pochi, peraltro dimostratasi da tempo del tutto sbagliata, alla visione estetica e ai bisogni reali dei più;
2. il riconoscimento del bisogno di “eternità della bellezza”, che implica il riconoscimento dell’esistenza del bello condiviso e assoluto, basato sulla osservazione della natura e della figura umana in particolare, che non può risiedere nella tecnica, destinata per sua natura intrinseca alla evoluzione e alla transitorietà.
Le teorie urbanistiche basate sul funzionalismo e sulla scomposizione del tempo di vita dell’uomo in “fasi” diverse, corrispondenti a diversi momenti del trascorrere della giornata di tutti e di ciascuno, estrapolate dal taylorismo industriale ed applicate anche alla città, con la divisione in zone a diversa destinazione programmata, hanno trovato la loro espressione grafica e compositiva nelle teorie artistiche “astratte”, che trattano la città come una tavolozza bianca da riempire con disegni che nulla hanno a che vedere con la complessità e ricchezza di relazioni proprie di un insediamento umano. La diffusione di questa teoria, ad ogni livello, fa dire a Marco Romano che, dopo vent’anni di insegnamento di urbanistica, egli non avrebbe saputo dare una risposta adeguata ad un Sindaco che gli avesse chiesto di progettare una città “bella”. E’ ormai abbastanza diffusa nella generazione cui appartiene Romano, non molto lontana da quella a cui appartengo io, la convinzione che l’uomo moderno non sappia più progettare città, tanto meno belle città. Ed è anche maturata la certezza delle cause del disastro, cioè il fallimento completo della disciplina che ha creato generazioni di architetti allevati al gusto “estetico e artistico” dell’astrattezza, con una divaricazione sempre maggiore tra città e abitanti, tra urbs e civitas.
Il disegno urbano moderno non prevede e non considera il fatto che, una volta realizzata, la città contenga persone, che hanno necessità ed emozioni che non trovano soddisfazione in quegli spazi frammentati, pur se progettati unitariamente, privi come sono di una narrazione continua, di un flusso sequenziale di informazioni, di cui gli individui hanno bisogno per muoversi, orientarsi e sentirsi a loro agio nello spazio.
La “bellezza” dell’architetto moderno è invece assolutamente autoreferenziale, prodotto ad uso interno di una categoria di persone capaci solo di immaginare oggetti separati in uno spazio sincopato, discontinuo e inanimato, in cui l'uomo assume lo stesso valore del materiale d’arredo. Scelta consapevole questa, dato che agli abitanti delle case e della città moderne si dovrà “insegnare ad abitare", secondo l'espressione di LC, come se l’abitare non fosse un istinto naturale e primordiale che esclude la possibilità di maestri.
Ma per l’uomo normale, non per l’architetto, la bellezza è eterna, è oggettiva, non necessita di, e non è inquinata da, teorie estetiche imposte dall’alto.
A questo proposito c’è una certa sintonia con Romano in un articolo scritto su Il Covile di Stefano Borselli da Luciano Funari, che è un grido di libertà e di rifiuto dai condizionamenti di una cultura conformista e acritica. Purtroppo non posso linkarlo perché per adesso è stato inviato in newsletter e non è ancora in rete, ma tra poco ci sarà (qui e poi sul N° 586):
“Prima di resuscitare la “Bellezza”, occorre mettere in terapia intensiva l’uomo stesso e applicare un defribillatore alla cultura umanistica, forza generatrice di autocoscienza e libertà! “Anomia, eteronomia, autonomia” scriveva alla lavagna mia madre-professore di liceo- il primo giorno del corso di filosofia: la cultura forma la capacità critica, la libertà ed autonomia di giudizio. Ma non basta! Ci vuole anche il coraggio. L coraggio di proclamare le proprie idee, senza timore alcuno dei mille epiteti e sberleffi che il “mondo” è pronto a lanciare: il mondo dei “conformisti dell’anti-conformismo”, del gregge ossequioso delle conventicole pseudo-intellettuali e delle consorterie politico-affaristiche.
Dunque, per salvare la Bellezza, lanciamo i kamikaze della Verità!....
La Verità, la realtà, lo spirito critico, l’autonomia di giudizio e il coraggio delle proprie idee...
Per salvare l’arte e le nostre città dal Brutto non c’è bisogno di un pubblico di eruditi, esperti in critica sensista: basterebbe tornare alla realtà, alla verità, alla natura delle cose, recuperando almeno la dimensione “organolettica” della fruizione artistica. Se una scultura, una pittura, un’architettura è brutta, lo è e batsa! Chi se ne importa di chi l’ha fatta e dei fiumi di chiacchiere, verstai dai ciarlatani prezzolati per convincerci del contrario, opportunamente mimetizzati dalla cortina fumogena del loro gergo da iniziati: “sfumature sintattiche, semiologia del’infrastruttura e semantica della struttura”, “morfemi di spazio negativo” e “polifemi del dopo immagine architettonico”… “Il significato sintattico non concerne il significato che compete agli elementi o ai rapporti effettivi fra gli elementi ma, piuttosto, concerne il rapporto fra diversi rapporti” (Eisenmann)….
In casuale quanto singolare coincidenza con quanto sopra, è uscito su Il Foglio un articolo di Fabrizio Giorgio, La mirabile visione, su Roggero Musumeci Ferrari Bravo, artista e scrittore dei primi del ‘900, che “rivelò” il canone della Divina Proporzione, cioè la “formula” del bello assoluto.
Dicevo casuale coincidenza, nel senso che certamente non c’è alcuna concertazione, ma non credo sia affatto casuale il fatto che da figure così distanti e diverse l’una dall’altra si affronti lo scivoloso e scandaloso tema della Bellezza. Posso almeno dire che di fronte a tanta bruttezza era finalmente l’ora?
31 agosto 2009
ELOGIO DELLA NORMALITA'
Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.
Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.
E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:
Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:
Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).
Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:
Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.
Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:
Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!
E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
“Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».
Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:
5 agosto 2008
LA FIGURA - Parte Prima
L’assenza è quella di un termine quasi mai nominato, un termine che invece dovrebbe essere preso a riferimento, nel pro e nel contro, delle idee contrapposte nel vivacissimo scontro tra modernisti e antimodernisti; il termine è: “FIGURA”.
Si condensano in questa parola tutta una serie di concetti, molteplici e tra loro concatenati, che attingono all’idea di natura e di necessità, di bellezza naturale e di bellezza artificiale, di figuratività e di astrattezza, concetti che si rivelano utilissimi a discernere e chiarire i reali antagonismi posti alla base di questa diatriba.
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Cos’è dunque la figura?
Un tempo, ai primordi della televisione in bianco e nero, ci si doveva spesso sintonizzare con fatica sull’unico canale disponibile, ed ecco che, girando lentamente la manopola della lunghezza d’onda, da un brulicare indistinto e frenetico di puntolini bianchi e neri (quasi l’immagine di una miscela gassosa) si iniziavano a intravedere delle strisciate o delle macchie bianco grigie, le immagini di una composizione astratta, che infine si ricomponevano, in un sospiro di sollievo degli astanti, nella FIGURA nitida del mezzobusto intento a leggere le pagine del telegiornale.
Probabilmente ognuno di noi, quando appena uscito dal ventre materno apre gli occhi su un mondo fatto di suoni e di luci indistinte, impara poi a riordinarli nelle figure e nelle voci della madre, del padre, della pallina appesa alla culla e, piano piano, degli oggetti di tutto il suo mondo.
Ma così facendo noi non facciamo altro che adeguarci, riconoscendolo, al processo con cui la natura si è lentamente organizzata in forme riconoscibili, cioè in figure.
E’ il processo attraverso il quale da un pianeta giovane, caratterizzato da una forte indifferenziazione (quali oggi sono, ad esempio, la Luna, o Venere o via dicendo) si è passati alla formazione di oceani e terreferme, di pianure e di montagne, di fiumi, di laghi, di alberi, di animali e infine di esseri umani. La formazione di differenze dall’indifferenziato porte con se la formazione di figure riconoscibili.
Osservando una montagna ne percepiamo la FIGURA come effetto di un lentissimo contrasto tra le immani forze sotterranee che dal basso spingono la crosta terrestre a formare le catene montuose e, di contro, le azioni del clima, che tendono altrettanto lentamente a disgregare ogni asperità e a portare a valle polveri e detriti.
Osservando una pianta secolare percepiamo la necessità di una forma a simmetria circolare, indifferente alle direzioni in quanto immobile sul terreno, mentre osservando un animale percepiamo la necessità di una simmetria rispetto a un piano verticale, ma con un davanti e un dietro, in quanto questa creatura è adattata a muoversi in una direzione e quindi a concentrare su una parte del corpo (il “davanti”) gli organi sensori più raffinati.
E dunque se questa natura si è organizzata in FIGURE, seguendo lentamente la spinta della NECESSITA’, il concetto di Figura e quello di Necessità sono fortemente collegati.
Ma ecco che, di fronte a qualsiasi manifestazione di una natura incontaminata noi percepiamo una quasi automatica sensazione di bellezza, perché il “brutto naturale” non può esistere “per definizione”. Cosicché finiamo per associare, in natura, il concetto di Bellezza al concetto di Figura e al concetto di Necessità.
Insomma: la Necessità fa si che la lenta evoluzione delle cose pori alla creazione di Figure e che queste figure siano per ciò stesso espressione della Bellezza del mondo naturale, sia “animato” che “inanimato”.
Ma questo concetto va ulteriormente definito e meglio dimostrato “a contrario”, cioè attraverso il suo opposto, perché non è sempre così, perché ci sono dei frangenti in cui questo ragionamento non vale per nulla, dei frangenti in cui la natura non si organizza per figure ma si struttura in ambienti e paesaggi che non sono fatti di figure, bensì di forme astratte.
Questo avviene nei casi particolari in cui i fenomeni naturali si presentano con un’accelerazione improvvisa e “catastrofica”: la colata lavica dopo l’eruzione di un vulcano, il paesaggio dopo un terremoto, una frana, un’alluvione, la concrezione di un geyser (l’Islanda è un campionario di paesaggi astratti).
In questi casi la necessità naturale non ha avuto il tempo di tradursi lentamente in figure riconoscibili e ha creato ambienti e paesaggi del tutto particolari.
Sono paesaggi astratti che hanno altrettanto fascino di quelli figurativi formatisi in milioni di anni, ma che da questi ultimi distano di quanto un quadro di Pollock dista da una Madonna del Beato Angelico.
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Siamo quindi giunti al termine della prima parte del ragionamento: il “brutto” in natura non esiste perché l’adesione spontanea della nostra mente alla necessità naturale che si organizza in figure fa tutt’uno con quello che siamo usi chiamare il sentimento della Bellezza.
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Vedremo nel proseguo come questo collegamento tra necessità, figura e bellezza, possa essere esteso dal naturale all’artificiale, dalle opere della natura alle opere dell’uomo, e come anche qui possano esservi da una parte opere che, pur frutto dell’artificio, possono ricondurre al concetto di figura naturale e di necessità e, dall’altra parte, opere che, simili alla natura quando questa si presenta in forme “catastrofiche”, si astraggono dalla necessità della figura per vivere in un universo solo concettuale.