Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


28 ottobre 2008

UOMO E NATURA

di Giulio Rupi

COME SI DISTRUGGE L’EQUILIBRIO DEL PAESAGGIO

Perché l’uomo costruisce un giardino? Per realizzare un luogo in cui sia realizzato un equilibrio armonioso tra i due poli contrapposti del Naturale e dell’Artificiale.
Per approfondire questo concetto vanno approfondite le caratteristiche di queste due polarità.

1 - LA FORMA
La natura è fatta di forme che sono complesse da qualunque distanza (cioè a qualunque scala) le si osservi. Un albero è una forma complessa, ma lo è anche ogni suo ramo, e così via, avvicinandosi, fino alle singole foglie e al sistema delle venature che le alimentano.
Al contrario la forma degli oggetti artificiali è semplice, si rifà alle forme astratte della geometria e per questo tali forme sono tutte esattamente riproducibili. Così una sfera rappresenta approssima-tivamente la chioma di un albero ma rappresenta esattamente una palla da biliardo.

2 - I MATERIALI E LA SUPERFICIE ESTERNA
La natura è fatta di materiali non omogenei, diversi da punto a punto sia al loro interno che alla loro superficie.
L’uomo, al contrario, fa passare i materiali naturali “attraverso il fuoco” e ne ricava materiali ar-tificiali omogenei al loro interno e uniformi alla loro superficie: il vetro dalla sabbia, il metallo dalle rocce, la lucida ceramica dalla terra, la plastica dal petrolio. Così gli oggetti artificiali sono geome-trici, semplici e riproducibili, uniformi all’interno e all’esterno.

L’uomo, nei millenni, è passato da un habitat quasi totalmente naturale a un habitat, l’attuale, quasi totalmente artificiale, e ha cercato costantemente di costruire luoghi, i giardini, in cui l’estraneità spesso ostile della natura fosse addomesticata a un ordine familiare e dominabile, in una sintesi armoniosa tra oggetto contemplato e soggetto contemplante.
Così il giardino arabo (valga per tutti l’esempio dell’Alhambra) rappresenta l’oasi murata in cui l’acqua che scorre fa da colonna sonora a di uno stato di felice sospensione dalle fatiche e dai dolori del vivere, relegati al di là del recinto.
Così il chiostro dell’Abbazia medievale e l’hortus conclusus, il giardino delle delizie, sono giardini introversi, diffidenti verso il mondo esterno, dove il piacere dei profumi si unisce al piacere della vista delle essenze coltivate.
All’opposto, quando in Inghilterra nasce la Rivoluzione industriale e, fin dalla fine del Settecento, fa esplodere le città creando caos, inquinamento, immensi suburbi e diffusa criminalità, l’uomo guarda alla natura esterna non più con ostilità e paura, ma con la nostalgia per un paradiso perduto.
Così nasce il giardino naturale all’Inglese, in cui minimo è l’intervento dell’uomo, e sulla scia di questa impostazione nascono nell’Ottocento tutti i parchi pubblici, naturalistici, delle città e così ogni piccolo giardino suburbano di villetta o di casa a schiera verrà realizzato con questa impronta naturalistica.
Giardino quindi come sintesi equilibrata tra due poli contrapposti: il Naturale e l’Artificiale.

* * *

Ma noi sappiamo che la Modernità spesso tende a distruggere ogni armonioso equilibrio. L’abbiamo visto con le architetture decostruttiviste delle Archistar, che distruggono volutamente ogni punto fermo, ogni riferimento tradizionale, ogni istinto naturale con cui l’uomo si era da sempre posto di fronte agli edifici.
Quello che sta succedendo in Architettura va succedendo, nella più grande scala, anche nel rapporto uomo natura, nel rapporto tra il costruito e il paesaggio, tra il Naturale e l’Artificiale?
E’ da tempo che si sono poste le premesse per distruggere quell’equilibrio, che si sta operando per stravolgerlo totalmente, per ridurre la natura a corpo vile, del tutto sottoposto all’arbitrio dell’astratto artificio.
E’ da tempo che vengono costruiti giardini in cui materiali e forme astratte predominano sulla polarità del Naturale.
Due esempi tra mille.
I giardini della Biblioteca nazionale di Parigi.Qui l’arte topiaria è rivisitata in maniera da geometrizzare le piante di bosso ingabbiandole in grate metalliche che le imprigionano e le costringono in forma di parallelepipedo, e lì accanto alberi di alto fusto, piantati in un cortile buio, che non ce la farebbero a salire fino alla luce e a stare ritti da soli, vengono tenuti in piedi da collari di ferro e tiranti di ferro solidamente agganciati alle strutture circostanti.
La commistione, il connubio tra la pianta naturale e il freddo, artificiale metallo è indecorosamente consumata fino in fondo. La volontà di far prevalere l’artificiale è chiaramente manifestata.Un altro esempio di questa violenza si trova in un recente giardino realizzato davanti alla Venarìa reale di Torino, dove, è un esempio tra i molti, si fa scempio di questa pianta, costringendola a passare sotto il giogo di un grosso macigno, non si sa bene con quale intento artistico se non quello di suscitare una reazione istintiva di pena e di compassione.
C’è dunque una tendenza attuale, nell’arte dei giardini, a spostare quell’equilibrio tra natura e artificio, togliendo del tutto alla natura la sua autonomia, a un livello che gli autori dei giardini più costruiti, dall’Alhambra ai costruttori dei giardini all’Italiana, mai si sarebbero mai immaginato.

Ma il precursore di questa operazione di squilibrio nel rapporto tra uomo e natura è il Bulgaro Christo Javacheff, che ha realizzato effimere ma gigantesche installazioni aventi le precipue caratte-ristiche dell’artificialità (plastiche coloratissime in forme geometriche), inserendole in paesaggi il più naturali possibile. Non è più l’equilibrio del giardino, ma è l’artificio che entra a gamba tesa in mezzo alla natura, negandola nella sua stessa essenza.
Il 9 ottobre 1991, all’alba, 1880 operai aprirono 3.100 ombrelloni distribuiti in varie maniere lungo una linea ideale dal Giappone alla California. Ogni ombrellone misurava 6 metri di altezza e circa 9 metri di diametro. L’installazione è durata 18 giorni.Surrounded Islands sono undici isolotti della Biscayne Bay nei pressi di Miami, che nel 1983 sono stati circondati da 60 ettari di tessuto di polipropilene rosa, galleggiante sull’acqua. L’installazione è durata 15 giorni.

Sono operazioni che creano un effetto di straneamento, di dissonanza e di disagio perché non siamo più di fronte al processo dialettico fin qui descritto: Tesi la natura, antitesi l’artificiale, sintesi il giardino. Qui uno dei due poli, la natura, viene negato nella sua essenza. Quelle gonnelline di plastica rosa che circondano le undici isole di un arcipelago sono lì per negare autonomia all’altro da noi, a ciò che non è artificiale. Queste opere riducono la natura a corpo vile, manipolabile, disponibile come si vuole all’invasione dell’artificiale, sono un primo passo per modificare il nostro rapporto e la nostra percezione della natura.

* * *
Le installazioni verranno smantellate ma il gesto è compiuto, un tabù si è rotto e si è dato un esempio.
Si è stabilito che, per una legittima creazione artistica (la “Land Art”), si possono posizionare in un ambiente assolutamente naturale una fila di oggetti seriali, tutti uguali, ognuno identico all’altro, quindi di produzione industriale, di grandezza spropositata e di forma semplice, geometrica, aventi una superficie esterna liscia, uniforme, e una colorazione omogenea artificiale.

* * *

Se questi oggetti seriali, invece che un paio di settimane si lasciano lì un paio di secoli, ecco che ho fatto la descrizione di un crinale costellato di pale eoliche...

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24 ottobre 2008

PERIFERIE E ARCHISTAR

Pietro Pagliardini

Un amico, proprio in quanto amico, mi cita nel suo nuovo blog “Riconosciuto”.

L’autore è persona gentile e non ricorre ai toni forti e spicciativi cui io faccio spesso ricorso; e infatti dice che io sostengo “la necessità di evitare certi eccessi del modernismo nella costruzione di città, edifici e opere di architettura”. Lo ringrazio molto per aver fatto apparire un po’ più gentile anche me.

Il fatto è che parlare di Archistar , stare a farne l’analisi linguistica, giudicarne la sapienza nell’uso di questo o quel materiale, valutarle in relazione ad altri suoi colleghi come se si trattasse di una cosa seria, proprio, non me la sento. E’ chiaro che anch’io so riconoscere e talvolta perfino apprezzare quel qualcosa di buono che c’è in ognuno dei progetti di quei signori che non sono affatto incapaci, anzi, sono molto capaci perché sanno piegare la tecnica ai loro desideri, hanno la fantasia di creare nuove “forme” e hanno studi professionali poderosi, organizzati ed efficienti, posseggono la dote di saper descrivere e pubblicizzare il proprio lavoro con metodi di tipo industriale e linguaggio immaginifico degno dei migliori pubblicitari, e molte altre.

L’oggetto di questo post sono però le periferie quindi trascuriamo per un po’ le Archistar (il cui nome comincia in realtà a diventarmi monotono ma non so e non voglio coniarne un altro adatto).
In molti commenti e in altri blog ricorre spesso il seguente Leitmotif: “Perché parlare di Archistar che producono solo l’uno per mille, e anche meno, del costruito totale? Non sono poi così importanti”. E poi segue la fatidica frase: “Altri sono i problemi (chissà perché, i problemi sono sempre “altri”) ad esempio le periferie”.

L’ultimo in ordine di tempo a lasciare un commento simile è stato Salvatore D’Agostino, autore di Wilfing Architettura, il quale sostiene, con qualche ragione, che la parola periferia è sbagliata perché la periferia è una città-altra.

Facciamo un’analisi linguistica:

Città-altra (o altra città)

In questa definizione di quella che generalmente chiamiamo periferia sembra non vi sia un giudizio di merito, è un’espressione che vorrebbe essere oggettiva, fatta per capirsi e per non confonderla con la città storica. Intanto, se questo è il motivo tanto varrebbe chiamarla città non storica; ma sono certo che qualcuno obietterebbe che andrebbe fissato il limite temporale o spaziale per cui una città diventa non-storica (agli architetti, e anche a me, piace sempre cavillare). Quello di essere compresa entro le mura, esistenti o abbattute che siano, non è elemento dirimente perché esistono parti di città storica anche oltre le mura. Troppo complicato, non ne so venire a capo. Resta il fatto che città-altra come espressione è troppo di tipo convegnistico, fa troppo architetto, è troppo concettuale insomma. Una cosa è però sicura: chiamare le periferie come città-altre significa attribuire alle periferie la dignità di città, e questo non mi piace, in linea generale.

Periferia

Questa definizione connota ormai nel linguaggio comune un giudizio di merito negativo, una sorta di marchio d’infamia. Chi abita in periferia, se tanto tanto c’è un po’ di verde intorno dice pudicamente di abitare “in campagna” e usa periferia solo se strettamente necessario. Un po’ come coloro che comprano una casa a schiera (in periferia) e poi dicono: “Ho comprato una villetta”. Fanno bene a dirlo perché hanno speso soldi e hanno il diritto di essere orgogliosi del loro acquisto. Periferia è troppo ampio e generico, perché esistono tanti tipi diversi di periferie, ma è parola ormai largamente diffusa e se gli architetti vogliono (lo vogliono?) parlare con la gente è inutile andare ad inventarne altre e poi in questa parola c’è la consapevolezza che la periferia è una non-città e anche una non-campagna (a parte le pietose bugie di cui sopra).
Chiusa la parentesi linguistica.

Dicevo che ci sono tanti tipi di periferia, diverse per composizione sociale dei suoi abitanti, per tipologie edilizie, per dotazione di servizi e attrezzature pubbliche e private, per lontananza o prossimità dal centro e/o dai mezzi di trasporto pubblici. Vi sono le periferie “virtuose” dei PEEP, quelle che hanno dato casa a prezzi bassi ai meno abbienti, e periferie cattive, quelle della più bieca speculazione edilizia, naturalmente più virulenta nelle grandi città, dove il controllo sociale è stato sicuramente più debole. Vi sono anche le periferie abusive, non necessariamente le peggiori. E poi esistono le periferie di livello alto, per posizione geografica e qualità apparente o reale delle costruzioni e delle tipologie edilizie.

Insomma, ve ne sono di ogni tipo, tanto da sembrare difficile abbracciarle tutte con un’unica parola e da far sorgere il dubbio che D’Agostino abbia ragione a volerle chiamare con un altro nome.

E invece no, esiste almeno un elemento che tutte le unisce e le accomuna e che consente di appiccicare loro quel termine dispregiativo e di non poterle chiamare città-altre, tantomeno città: "la monofunzione residenziale".

Tutte le periferie, di lusso o degradate, a ville o a torri, di edilizia pubblica o dei palazzinari, sono state progettate, approvate, realizzate, vissute nella totale mancanza di altre funzioni che non siano il solo risiedere. Ciò indipendentemente dalla presenza in zona di un ufficio postale o di una farmacia (ufficio postale e farmacia sono state ritenute, per anni, elementi capaci, da soli, di conferire dignità di cittadini a coloro che vivevano in periferia!)o di altri servizi.
I piani terra delle abitazioni sono pilotis, o simulacri di essi alti m. 2.40, garages, abitazioni a piano rialzato, tutto meno che attività di commercio, di artigianato, di servizio.

La zonizzazione selvaggia è stata, e continua ad esserlo, una scelta consapevole, anche se scellerata, di una cultura urbanistica che affonda le proprie radici prima di tutto in Le Corbusier e nel l’incubo della sua Ville Radieuse, nella città immaginata e teorizzata come una macchina, con funzioni rigidamente separate e distinte.
Stralci della Carta d’Atene:

I punti chiave dell’urbanistica consistono nelle quattro funzioni: abitare, lavorare, ricrearsi (nel tempo libero), circolare.

I piani determineranno la struttura di ciascuno dei settori attribuiti alle quattro funzioni chiave e fisseranno la loro rispettiva ubicazione nell’insieme.

Il ciclo delle funzioni quotidiane: abitare, lavorare, ricrearsi (recuperare) sarà regolato dall’urbanistica con la più rigorosa economia di tempo, considerando l’abitazione al centro delle preoccupazioni urbanistiche e quale punto di partenza di ogni valutazione”.


La parcellizzazione delle funzioni trova qui la sua istituzionalizzazione, evidentemente al termine di un processo culturale durato anni, ed è teorizzata come una regola assoluta senza possibilità di deroghe. Una visione della società che mette l’urbanistica, e perciò l’architetto, al centro delle scelte del piano. Perfino la scansione del tempo è regolato dal piano urbanistico che acquista in tal modo quello status di pervasività nella vita dei cittadini che è entrato a far parte del bagaglio culturale di base dell’architetto. In queste poche righe, e nel movimento che vi sta dietro, c’è tutta la visione urbanistica della seconda metà del secolo scorso, che ancora continua e che ha contribuito a consegnarci quelle non-città che sono le periferie.
Una visione che, letta oggi, sembra il frutto di una mentalità da Grande Fratello orwelliano.

Per inciso, la legge urbanistica della Regione Toscana prevede che lo strumento urbanistico generale disciplini anche le cosiddette trasformazioni non materiali tra cui rientrano anche “la competenza del comune in materia di orari e la distribuzione e localizzazione delle funzioni”. Questo vizio di entrare nella vita degli altri è duro a morire, come è dura a morire l’idea di regolamentare le “funzioni”, decidendo dove debbano essere collocate.

La prosa stessa della Carta d’Atene ha un tono inquietante e imperativo, quasi la lettura di un regolamento all’ingresso in caserma: ordine, efficienza, economia. Ironia della sorte: nella Storia dell'Architettura Moderna di Leonardo Benevolo, alla fine di questi brani della Carta di Atene c’è un fotogramma del film Metropolis messo con l’intenzione di rappresentare l’avanzata e il dilagare dei regimi totalitari in Europa al tempo della Carta stessa ma che, letta oggi, potrebbe essere il commento amaro alla Carta stessa.
Adesso alcuni brani da Urbanistica, di Le Corbusier:

"Le grandi città sono nate sui grandi nodi ferroviari. In altri tempi l’ingresso in città avveniva attraverso le porte delle mura; i carri e la folla dei pedoni si disperdevano lungo il tragitto per raggiungere il cetro, dove non vi era alcuna causa d’ingorghi. La ferrovia comportò la costruzione di stazioni al centro di grandi città. Questa zona è quella più solcata dalle strade più strette, e qui si riversa la folla. Qualcuno dirà: trasferiamo le stazioni alla periferia. La statistica risponde: no, gli affari esigono che alle 9 del mattino centinaia di migliaia di viaggiatori siano scaricati in pochi istanti proprio al centro della città, dove, sempre in base alle statistiche, ferve l’attività. Qui si denuncia pertanto l’esigenza di aprire vie molto larghe. Bisogna dunque demolire il centro. Se vogliamo che la città sopravviva, dobbiamo costruirle un nuovo centro.
Omissis
LA STRADA: La strada attuale non è altro che la terra che calpestiamo tutti i giorni, su cui è stato steso un manto di lastricato, e sotto la quale abbiamo costruito qualche metropolitana.
La strada moderna è un organismo nuovo, una specie di fabbrica sviluppata in lunghezza, magazzino areato dove si raccolgono molti organi complessi e delicati (le varie opere di canalizzazione).
Omissis
La strada corridoio non deve essere più ammessa, poiché appesta le case che la fiancheggiano e determina la formazione di cortili chiusi".


Dunque l’intenzione dichiarata non è solo fare tabula rasa delle regole architettoniche classiche ma anche azzerare la città, fino alla distruzione del centro per rinnovarla totalmente in una logica in cui l’igiene e la funzionalità sono solo i paraventi di una cultura totalizzante e utopica che porta fino alla dichiarazione paradossale e parossistica di demolire il centro.

Le periferie come noi le conosciamo sono dunque il frutto di questa furia ideologica distruttiva e poco conta che nella sua applicazione sia ulteriormente scaduta di livello a causa degli effetti della speculazione edilizia e della scarsa qualità progettuale.

Una nota di allegria: conosco un architetto,tecnico comunale, che chiede la verifica dei cortili anche tra due fabbricati posti sui lati opposti della strada. Ha evidentemente assimilato bene questo libro!

Io so di usare spesso espressioni esagerate e poco adatte al linguaggio della critica architettonica che, invece, deve inquadrare il fenomeno culturale nel suo contesto storico e politico e deve fare sottili distinguo valutando quali siano anche gli aspetti positivi di certa ricerca; ma io non sono un critico, ovviamente, e mi piace mettere in evidenza gli effetti più evidenti e devastanti di un’idea che ha fatto esplodere la città in agglomerati informi e che, soprattutto, hanno modificato il pensiero stesso di coloro che sono deputati a costruirla, cioè gli architetti.

Quanti di loro oggi sanno che una città ha come elemento generatore la strada ai bordi della quale nascono edifici nei quali si svolgono una pluralità di attività e non solo quella del dormire e mangiare e riposarsi ma anche attività commerciali, produttive, servizi e che, se si confinano queste attività in luoghi specializzati la città si disintegra perché perde le connessioni vitali che sono possibili con una moltitudine di collegamenti a rete tali da offrire scelte diverse, piuttosto che pochi collegamenti specializzati che attraversano un vuoto di residenze?

Questo è il guasto peggiore che non permette di recuperare i danni fatti e persevera nel commetterne altri.
Per questo, con tutto il rispetto per il suo indiscutibile genio, considero Le Corbusier un cattivo maestro e il padre di tutti i cattivi maestri che l’hanno seguito e che da lui hanno imparato.

E allora, cosa c’entrano le Archistar e perché accanirsi con loro se il problema è un altro?
No, il problema è lo stesso:
le Archistar, con i loro edifici-oggetto, monumenti a sé stessi, del tutto astratti dal contesto, esasperano l’idea dell’inesistenza della città, rendono periferia ogni luogo in cui costruiscono, completano l’opera di distruggere il centro, come indicato nella Carta di Atene e sono i nuovi cattivi maestri che stimolano altri architetti all’imitazione e alla moltiplicazione dei danni.
Con questo credo di aver risposto, a modo mio, alla domanda di Salvatore D’Agostino.

Concludo con un’informazione sulla foto in testa: quelle foto, ricavate dall’impagabile Visual Earth, non sono di città italiane ma di città spagnole. Questo in perfida polemica con tutti quei colleghi che spesso portano ad esempio la Spagna come esempio di grande architettura.
Ho impiegato veramente poco tempo a trovarle anche se, devo ammettere, in Italia avrei fatto molto prima.

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21 ottobre 2008

MANCANZA DI FORMA

Pietro Pagliardini

Storie Parallele: un altro testo di Vilma Torselli su Artonweb. Un’altra riflessione provocante, graffiante e lievemente amara che spiega molto ma non trae conclusioni e che finisce con un Perché? In neretto.
Il tema è la relazione tra la cultura ebraica e l’arte e l’architettura dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi. Alcuni passi significativi:
"Non è un caso che il logos sia alla base della cultura di matrice ebraica aniconica e iconoclasta, in opposizione a morphè, ciò che “la nostra infanzia greca” indica come forma sensibile, come modo di essere o di apparire, e non è un caso che sia l’espressionismo astratto che il decostruttivismo mettano in crisi proprio il concetto di forma.

Anche da un'analisi superficiale non è difficile individuare in certe scelte progettuali di Daniel Libeskind una relazione con i grandi vuoti mistici delle tele di Mark Rothko, nella fluida casualità dell’architettura gestuale di Frank Gehry una stretta corrispondenza con la deregolata soggettività espressiva dell’action painting di Jackson Pollock o con la casualità amebica delle forme liquide di William Baziotes. In tutti i casi ciò che viene messo in gioco e che brilla per la sua assenza è la forma.
Questa convergenza programmatica tra le due correnti è l’aspetto più interessante e più decisivo per legarle sotto una stessa chiave di lettura."


E conclude così:

"E la perdita del senso dei luoghi e delle cose, del loro orientamento, spaziale e simbolico, l’opposizione alla loro riconoscibilità ha come esito la distruzione del senso di appartenenza (ad una comunità, ad un’etnia o semplicemente alla specie umana).
Se questo vuol fare e fa l’architettura decostruttivista, ammesso che ciò che ho scritto ne riassuma il senso, resta comunque da scoprirne il motivo.
Perché?"


Una domanda che non aspetta una improbabile risposta conclusiva quanto una serie di risposte tutte parzialmente vere e perciò tutte parzialmente false.

La voglia di rispondere è stata forte da subito e ho cominciato a documentarmi. E’ incredibile quante cose si riescano a trovare di un argomento quanto l’argomento improvvisamente si presenta come se fosse nuovo. Tutto è già stato trattato, tutto è già stato discusso, sviscerato, approfondito.

A questo proposito consiglio questi link illuminanti e profondi:
http://www.area-arch.it/home.php?_idnodo=172394
http://www.chiweb.net/shenkar2.html
e tutte le interviste di Nadine Shenkar che vi sono nel sito.

Ma la risposta qual'è?

Rispondere vorrebbe dire cadere in una trappola, almeno per me, che mi sono ottusamente proposto di parlare, divulgare (parola grossa), parteggiare per l’architettura umana, tradizionale, classica.

Rispondere vorrebbe dire raccogliere una sfida e cominciare un dialogo; e dialogare è una condizione che ti avvicina agli altri e avvicinarsi agli altri vuol dire “mettersi nei panni di” altri e perdere qualcosa di te acquistando qualcosa dagli altri.

Ma per dialogare occorrono condizioni di parità. Ma gli altri sono troppo forti perché vi possa essere un dialogo. Sarebbe come dialogare tra schiavi e padroni.

Che dialogo può esserci tra schiavi e padroni!

Che dialogo può esserci con chi detiene il potere, tutto il potere, economico, editoriale, culturale, massmediologico, industriale, di marketing!

Che dialogo può esserci tra coloro che parlano a se stessi e coloro che vorrebbero parlare alla gente!

E allora, pur decidendo di continuare ad approfondire e cercare di capire, ho deciso di non provare nemmeno di tentare di dare una risposta al Perché?.

Perché? Perché il mio scopo è semplice, banale, da tutti comprensibile anche se non condiviso: io credo, anzi so, che l’uomo ha bisogno di città che diano il “senso di appartenenza”, di edifici che abbiano una forma che sia una figura e in cui l’uomo si possa riconoscere e che possa riconoscere come la propria “casa” (home e non house).

E allora all’instabilità, alla mancanza di forma, alla inutilità e provvisorietà del decostruttivismo non rispondo con parole mie ma con queste:
Devesi, avanti che a fabricar si cominci, diligentemente considerare ciascuna parte della pianta, e impiedi della fabrica che si ha da fare. Tre cose in ciascuna fabrica (come dice Vitruvio) devono considerarsi, senza le quali niuno edificio meriterà esser lodato; e queste sono, l'utile, o commodità, la perpetuità, e la bellezza: perciocché non si potrebbe chiamare perfetta quell'opera, che utile fusse, ma per poco tempo; ovvero che per molto non fusse comoda; ovvero c’havendo amendue queste, niuna grazia poi in se contenesse.

La
commodità si havrà, quando a ciascun membro sarà dato luogo atto, sito accommodato, non minore che la dignità si ricchiegga, ne maggiore che l'uso si ricerchi: e sarà posto in luogo proprio, cioè quando le Loggie, le Sale, le Stanze, le Cantine, e i Granari saranno posti ai luoghi loro convenevoli.

Alla
perpetuità si havrà riguardo, quando tutti i muri saranno diritti a piombo, più grossi nella parte di sotto, che in quella di sopra, e haveranno buone, e sofficienti le fondamenta: e oltre a ciò, le colonne di sopra saranno al dritto di quelle di sotto, e tutti i fori, come usci e fenestre saranno uno sopra l'altro: onde il pieno venga sopra il pieno, e il voto sopra il voto.

La
bellezza risulterà dalla bella forma, e dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: conciossiaché gli edificij habbiano da parere uno intiero, e ben finito corpo: nel quale l'un membro all'altro convenga, e tutte le membra siano necessarie a quello, che si vuol fare.

Considerate queste cose, nel disegno, e nel Modello, si deve fare diligentemente il conto di tutta la spesa, che vi può andare: e fare a tempo provisione del danaro, e apparecchiare la materia, che parerà far di mestieri; acciocché edificando, non manchi alcuna cosa, che impedisca il compimento dell'opera, essendo che non picciola lode sia dell'edificatore, e non mediocre utilità a tutta la fabrica; se con la debita prestezza vien fornita, e che tutti i muri ad egual segno tirati; egualmente calino: onde non facciano quelle fessure, che si sogliono vedere nelle fabriche in diversi tempi, e inegualmente condotte al fine.

Andrea Palladio, dal 1° Libro dell’Architettura, Capitolo I



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17 ottobre 2008

RISPOSTA AD UN COMMENTO

In un commento al precedente post, LineadiSenso mi domandava perché prendersela tanto con gli Archistar che sono una percentuale infinitesimale di coloro che fanno progetti nel mondo.
Gli ho già risposto ma, per chiarire ancora meglio e senza tante parole lo invito a guardare l'immagine di questo link dal Corriere della Sera:
http://sitesearch.corriere.it/gallery/Scienze/vuoto.shtml?2008/10_Ottobre/container/1&8

Non si tratta del progetto di un'Archistar (almeno non mi risulta) ma sarebbe possibile quel progetto senza le Archistar?
La speranza per chi ci sta sotto, e anche per chi dovesse starci sopra, è che non lo realizzino.

Pietro Pagliardini

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14 ottobre 2008

GLOBALIZZAZIONE DEL NULLA E ARCHITETTURA SENZA TEMPO

Pietro Pagliardini

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"Ed infatti il Guggenheim di Frank O. Gehry potrebbe tranquillamente collocarsi a Berlino o a Madrid anziché a Bilbao, la fiera progettata da Massimiliano Fuksas per Milano potrebbe collocarsi in qualunque metropoli occidentale, il progetto di Daniel Liebeskind per Ground Zero si adatterebbe senza fatica, fatti salvi alcuni retorici riferimenti contingenti, a Milano o a Parigi o a Kuala Lumpur, così come altre creazioni di progettisti contemporanei frutto di linguaggi personali in libertà potrebbero stare ovunque, non avendo nessun rapporto profondo con i luoghi e con le culture locali, conformati alla superficiale ecumenicità della cultura contemporanea.
E' pur vero che la sopravvivenza nell'epoca del global vuol anche dire adattarsi al nulla piuttosto che soccombere attaccandosi a qualcosa, ma esiste un limite oltre il quale la capacità di assimilare l'altro si scontra con l'ancestrale diritto alla difesa della propria identità.
Lungo questo delicato border-line l'architettura può essere, ha il dovere morale di essere, l'ultimo baluardo contro la "Globalizzazione del nulla" e preparare per le generazioni future un passato prossimo venturo che parli ad ognuno della sua storia, delle sue radici, della sua origine, perché sappia da dove viene, per sapere dove sta andando".

di
Vilma Torselli

www.artonweb.it – Architettura, forse - 2007

"C’è una maniera senza tempo di costruire. E’ vecchio mille anni ed oggi è esattamente lo stesso che è sempre stato. Le grandi costruzioni tradizionali del passato, i villaggi e le tende e i tempi in cui l’uomo si sente a casa, sono sempre stati fatti da gente che erano molto vicini al centro di questa maniera. Non è possibile fare grande edifici o grandi città, luoghi magnifici, luoghi dove ti senti te stesso, luoghi dove ti senti vivo, se non seguendo questa maniera. E, come vedrai, questa maniera condurrà tutti coloro che lo cercano verso costruzioni che sono esse stesse così antiche nella loro forma, come gli alberi e le colline, e come lo sono i nostri volti".

di
Christopher Alexander

da The Timeless Way of Building (Il modo di costruire senza tempo)

Il primo brano è tratto da un articolo di Vilma Torselli su Artonweb dal titolo “Architettura, forse”, l’altro da un libro di Christopher Alexander.

Per il momento quello che mi interessa è il primo.

Tutto il testo è, come al solito, ricco di spunti e intrigante per quell’altalenare di opposte asserzioni, per quell’affermare una cosa e poi scavarvi dentro fino a trovarne la contraddizione sulla sua veridicità.
Questo metodo che, superficialmente, potrebbe sembrare un non prendere posizione è invece la rappresentazione e l’analisi di una oggettiva situazione d’incertezza presenti non solo in architettura ma soprattutto in parti consistenti della società.

Gli scritti di Vilma Torselli sono tutti problematici, permeati dal dubbio, da quel suo essere costretta ad “adattarsi al nulla piuttosto che soccombere attaccandosi a qualcosa”, con la piena consapevolezza però del nulla che ci viene presentato, in architettura, ma non intravedendo alternative cui attaccarsi come certezze. Il titolo stesso dell’articolo, quel “forse”, resta sospeso tra ciò che c’è oggi disponibile e ciò che potrebbe esserci come alternativa.

Il fatto che questo blog si caratterizzi per una scelta di campo non significa però che esso debba chiudersi in una arroccata e ottusa difesa delle proprie idee, specialmente nei confronti di quelle che non pretendono di sopraffarti ed emarginarti. Anzi, la faziosità spinta è una deliberata, consapevole e ironica reazione ad un potere mediatico ed economico che tende ad escludere ogni voce diversa e che opera sul mercato con spregiudicatezza e arroganza, ma la faziosità non può che cadere di fronte a chi si pone problemi reali, per lasciare spazio al dialogo e allo scambio.

Nel testo sono indicati chiaramente i limiti, meglio, le colpe dell’architettura degli Archistar, il loro linguaggio assolutamente personalistico e perciò indifferente ai luoghi e del tutto autorefenziale, privo di possibilità di verifica, un’architettura che non può dare luogo ad una scala di valori che non sia semplicemente il giudizio del “mi piace” o “non mi piace”, il regno del relativismo assoluto.

E’ fin troppo forte la tentazione di interpretare questo brano alla luce degli accadimenti finanziari ed economici di queste settimane e troppo facile sarebbe costruirvi sopra una serie di considerazioni plausibili, ma non necessariamente vere, che giustificassero un cambio di rotta nella società e nell’architettura appellandosi ad una visione catastrofica del futuro. Giornali, radio e TV scoppiano, oltre che di grafici di borsa in caduta, di episodi di cronaca che indicano, come espiazione alla perdita di denari e al dramma umano che ne segue, scelte di vita monastiche dopo una vita da ricchi finanzieri, suicidi, buoni consigli per una vita quotidiana improntata ad uno stile più sobrio, insomma i soliti luoghi comuni dei media.

Non mi riferisco, ovviamente, al discorso di Benedetto XVI la cui missione è proprio quella di richiamare a valori permanenti, ma alla moda che ci opprimerà fino a quando non sarà passata la bufera e che sarà caratterizzata da catastrofismi e nuove visioni apocalittiche le quali scompariranno immediatamente ai primi sintomi d ripresa e tutto tornerà come prima. Proprio per questo non mi assocerò al coro e non farò previsioni sul ritorno ad una architettura più umana e “domestica”.
Non lo farò per due motivi:
1) il primo è che non sono del tutto certo che accadrà, o almeno che non accadrà in modo massiccio;
2) il secondo è che il bello non può e non deve affermarsi su una sciagura ma su una libera scelta consapevole.

Il primo dubbio è fortemente suffragato dal fatto che anche dopo l’11 settembre sembrava logico immaginare un cambiamento negli stili di vita occidentali e nell’architettura ma ben poco è cambiato, in realtà: qualche controllo in più negli aereoporti e nella posta elettronica, ma per il resto non si notano variazioni significative. Nulla è cambiato nel campo delle scelte architettoniche, anzi: a Ground zero ancora non si vede ancora niente ma il progetto è comunque un grattacielo; la corsa verso l’alto è continuata e ha raggiunto livelli parossistici in posti come Dubai (eterogenesi dei fini) e Cina. L’infezione si è estesa anche al nostro paese che, fino ad ora, aveva avuto il buon senso di non approfittarne.

L’incertezza sulle scelte architettoniche trova un suo fondamento nell’alternanza di messaggi e di previsioni che provengono dalla società. La corsa verso l’alto, l’architettura patinata e renderizzata viene spiegata come il frutto di una cieca fiducia nel progresso dovuto alla globalizzazione economica che ha come portato l’abbattimento delle frontiere, l’avvicinamento e la “contaminazione” tra culture diverse che tendono a perdere alcuni elementi distintivi e unici e si omogeneizzano; da qui a ritenere che anche l’architettura debba perdere le sue radici locali e storiche il passo è breve e fin troppo facile e automatico fino a diventare riflesso condizionato.

Però, come gli scenari sul futuro della società cambiano repentinamente alla prima, inaspettata crisi, così tutte le teorie architettoniche si liquefanno e perdono ogni fondamento teorico; e non si dica che è proprio l’incombere di queste crisi a determinare instabilità e a incrinare le certezze e quindi un’architettura “instabile”, perché non è che le crisi siano una scoperta di questo e del secolo scorso: la grande architettura classica, greca e romana, il romanico, il gotico, il rinascimento, il barocco, ecc. si sono sviluppati tra epidemie, carestie, guerre, passaggi di eserciti, e situazioni pressoché costanti di insicurezze e paure.
Restano però, dopo ogni crisi, gli edifici e intere città che hanno nel frattempo cambiato volto, ed è spesso un volto disumano, parti importanti di culture sedimentate dalla storia sono spazzate via (si veda la Cina, ad esempio) per fare posto al nulla.

A me sembra piuttosto l’eccesso di sicurezza, e non il contrario, a determinare gli eccessi dell’architettura contemporanea: un clima incerto dovrebbe consigliare prudenza e non protervia.

Si guardino le foto cliccando questo link:
http://sitesearch.corriere.it/gallery/Cronache/vuoto.shtml?2008/10_Ottobre/grattacieli/1&1

Basta guardare CityLife di Libeskind, Isozaki e Hadid per convincercene: quegli oggetti sparpagliati andranno a finire a Milano.
Sono diversi da quelli che andranno a Dubai? Si sono diversi, perché deve essere riconosciuta la paternità del progettista ma quello di Dubai potrebbe essere stato progettato per Milano e viceversa perché nulla hanno a che vedere con il luogo. La riconoscibilità di questi progetti non è dunque un valore positivo perché non può essere integrata con l’ambiente esistente e quindi non può offrire alcuna sicurezza al cittadino perché è un’architettura che non gli appartiene in quanto condivisa con decine di altre nel mondo: non crea nessun senso di appartenenza. Di quegli edifici si riconosce solo il loro autore, il marchio, al pari di una Ferrari che è riconoscibile a colpo d’occhio, anche senza conoscerne il modello specifico.

Eppure l’autrice di “Architettura, forse” si attacca a questo nulla di cui è perfettamente consapevole piuttosto che “soccombere attaccandosi a qualcosa” perché non la convince niente d’altro cui valga la pena di aggrapparsi per potersi opporre al nulla.Però fissa un confine oltre il quale nemmeno quel nulla diventa accettabile e richiama l’architettura ad un dovere morale di trasmettere la storia alle generazioni future perché sappiano dove andare.
Non fa una scelta stilistica, formale, tipologica o linguistica, è un principio, un punto fermo oltre il quale c’è la parola “basta”.

Per questo ho associato al testo di Vilma Torselli un brano di Christopher Alexander che non parla di stili e linguaggi ma di principi.
Parla di ordine, di architettura per l’uomo (per chi altri sennò), dell’architettura senza tempo perché l’uomo è rimasto, in quella parte di sé più vicina alla natura, sempre uguale a sé stesso e l’architettura entro cui egli prova benessere non può cambiare molto.
Non è quella di Alexander "la" risposta a Vilma , è solo una proposta da riempire di contenuti.

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13 ottobre 2008

PREMIO JAMES STIRLING 2008

Il premio James Stirling è stato assegnato ieri ad Accordia Estate, intervento residenziale costruito a Cambridge. Gli autori del masterplan e di alcuni edifici sono Feilden, Clegg, e Bradley Studios. Altri edifici sono progettati da MacCreanor Lavington Architects e Alison Brooks Architects.

Appena pubblicata la notizia su Timesonline è stato scritto un significativo commento che riporto di seguito tradotto:
Voi riferite di di aspirazioni ed estetica comuni, guardate le immagini, è uno spaventoso modernismo sostenuto da una massa di camini. Chi ha detto che i residenti abbiano parlato di liberazione dal giardinaggio? Non è l’Arcadia di Cambridge ma piuttosto sperimentalismo architettonico. Fateci vivere loro nelle loro costruzioni
Jane, WHITTLESEY, United Kingdom

Non posso riportare le foto perché sono tutte coperte da copyright.

Chi volesse vederle questo è il link:

http://www.dezeen.com/2008/10/11/accordia-wins-stirling-prize/#comments

Posso però avanzare un’ipotesi, tutta da verificare: mi sbaglierò ma ho come l’impressione che questo premio , che pure va ad un progetto che come dice la signora Whittlesey è di “uno spaventoso modernismo”, tuttavia mi sembra piuttosto prudente e sembra il frutto di un compromesso visto che si insiste molto sulla sostenibilità (non so dire se vera o presunta e se anche qui sono passati i Greenwashers), non mi pare si discosti molto da quella che è la consueta edilizia residenziale inglese moderna e non è stata premiata la solita Archistar, magari una nascente (non certo per questo progetto).

Magari sarò smentito domattina ma, forse, le dichiarazioni di Robert Adam, giudice del RIBA per 12 anni, e Quinlan Terry contro il pregiudizio del RIBA verso l’architettura tradizionale e classica possono aver contribuito a questo premio.

Sarò un inguaribile ottimista ma questo mi sembra un premio alla "normalità".


N.B. L'immagine è tratta da Google Earth

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8 ottobre 2008

GREENWASHERS

Questo post mi è stato inviato da Angelo Gueli, Architetto e Restauratore di Parchi e Giardini storici con studio a Firenze, e affronta il tema dell'architettura sostenibile in maniera originale e smaliziata. E' un'analisi molto razionale, disincantata e ironica che offre strumenti per orientarsi nel mondo dell'architettura eco-sostenibile.


GREENWASHERS
di Angelo Gueli

Premessa
E’ di qualche giorno fa un bell’articolo di Robert Adam che individua una nuova schiera di operatori nel settore edilizio: i Greenwashers. I pensieri di Adam mi hanno dato la possibilità di mettere per iscritto alcune considerazioni. Le mie riflessioni non sono quelle di un esperto o di un tecnico specializzato, ma quelle di un semplice professionista che vuole approcciarsi in modo “laico” al dibattito in corso sulla sostenibilità ambientale dell’architettura contemporanea. Questo vuole essere anche un modo di ribadire l’idea che l’attività professionale di ogni giorno, che attraverso i singoli percorsi personali trasforma il volto delle città e degli aggregati urbani in cui lavoriamo, deve essere permeata dalla consapevolezza del peso delle conseguenze delle nostre azioni progettuali. Un edificio, una strada, una lottizzazione, non sono soltanto delle opere di ars aedificandi, ma sono anche e fondamentalmente la loro ricaduta sociale e ambientale.

GREENWASHERS. Chi sono costoro?

Senza timore posso definire i Greenwashers un sottoprodotto dell’attuale cultura egemone in campo architettonico. Sono quei tecnici in grado di far rientrare anche i più funambolici esperimenti dell’architettura contemporanea dentro i cosiddetti parametri della sostenibilità ambientale. Ovvero essi attraverso le loro conoscenze scientifiche e tecnologiche, adattano gli edifici di questa o quella Archistar (ma anche di meno blasonati architetti), trasformandoli in edifici a basso consumo energetico.
Attraverso un sapiente gioco, intervengono sui progetti edilizi con accorgimenti tali da mimetizzare il vero carattere delle architetture che “ripuliscono”: un po’ di gas fra i cristalli, un vetro oscurato, un po’ di poltiglia di blu jeans, qualche pannello fotovoltaico e via discorrendo fino a raggiungere i risultati voluti. E fin qui niente di male; è lecito anzi doveroso pensare ad edifici che abbiano basse emissioni di gas serra, che consentano al loro interno dei parametri climatici ottimali per la vita degli esseri umani e al contempo non nuocciano all’ambiente. Questo essere eco friendly è uno dei cavalli di battaglia di certa architettura contemporanea e a dirla così sembrerebbe che il lavoro dei Greenwashers sia fondamentale per il futuro dei nostri aggregati urbani se non addirittura encomiabile.

Purtroppo però c’è l’inganno. I conti di questi demiurghi della coibentazione sono inattendibili, e di fatto costituiscono il dito dietro al quale gli estremisti dell’architettura ipermodernista si nascondono, uno dei mezzi attraverso i quali giustificano le loro spericolate sperimentazioni formali e materiche.

Le leggi, i protocolli e i regolamenti stabiliscono i parametri di calcolo del consumo energetico sulla base dei Kw/mq consumati o comunque si riferiscono a consumi energetici su base unitaria, su questi assunti si gioca la partita della sostenibilità ambientale. E proprio in questa considerazione si trova la risposta all’inganno dell’ecosostenibilità in chiave modernista.
Cercherò di essere più chiaro: al conto del consumo energetico e di conseguenza delle emissioni di gas serra che ogni edificio inevitabilmente immette in atmosfera va aggiunto il consumo energetico necessario alla sua costruzione. Ovvero il consumo energetico necessario alla realizzazione di ogni singola lastra di titanio, zinco, cristallo, poliuretano, calcestruzzo, acciaio e quant’altro utile e necessario per la sua realizzazione, sommata naturalmente al costo energetico necessario alla sua costruzione che va quindi dagli scavi alla copertura.

Non basta, a questo conto vanno aggiunti i costi energetici per il mantenimento e manutenzione dell’edificio, ed infine i consumi necessari alla sua alienazione, che sono quindi quelli del riciclaggio per i materiali riciclabili e dello stoccaggio per quelli non riutilizzabili.

A questo punto bisognerà aggiungere il consumo annuo per mq, questo sì calcolato su base unitaria, moltiplicato per il numero degli anni di vita presunta dell’edificio.

Quello che verrà fuori sarà un valore molto più attendibile di quanto non possa mai essere un kw/mq che fa riferimento esclusivamente alla conduzione dell’immobile. Mi si obbietterà che non è possibile calcolare esattamente la durata di un edificio e pertanto anche questo valore è falsato. Ma così non è, in quanto è facile stabilire un periodo di vita minimo per il quale non è economicamente sostenibile la realizzazione di un qualsivoglia edificio, e questo numero di anni potrà essere facilmente utilizzato come parametro per individuare un consumo energetico plausibile, che è fondamentale per consentire di confrontare le varie tipologie e tecnologie costruttive.

Fatte queste considerazioni, cerchiamo di applicarle alla quotidianità del costruire; la prima cosa che salta chiaramente agli occhi è che progettare edifici che siano portatori di elevati consumi energetici prima ancora di essere costruiti è di già un errore. Evitare l’errore è estremamente semplice: basta dimenticare come dove e quanto hanno costruito i nostri padri e guardare come dove e quanto hanno costruito i nostri nonni. E nel riferirmi a questo non ho nessuna intenzione di guardare a particolari cifre stilistiche ma tuttalpiù a indicazioni tipologiche e tecnologiche.

Nel selezionare i materiali da costruzione ci si deve rivolgere a operatori locali usando prodotti dalla trafila produttiva quanto più semplice possibile. É ovvio che l’impatto ambientale prodotto da una copertura in zinco/titanio è eccezionalmente superiore di quello prodotto da una copertura in laterizio, in primo luogo perché i produttori di lastre di titanio non stanno dietro l’angolo (e i lunghi trasporti non sono mai ambientalmente convenienti), come invece succede per le fornaci da cotto che capillarmente sono diffuse su tutto il territorio nazionale nel caso dell’Italia, ed in secondo luogo per la complessità del processo che a parità di mq prodotti consuma maggiori quantità di energia. Questo stesso principio di selezione può e deve essere applicato a tutti i materiali che oggigiorno sono utilizzati durante i processi produttivi, considerando con molta attenzione il “peso” di ogni materiale utilizzato nella pratica costruttiva e deve vedere nella sua più o meno complessità realizzativa uno dei fattori fondamentali di scelta. Non mi si fraintenda pensando che si debbano bandire tutti i nuovi ritrovati in campo edilizio ma si deve guardare i nuovi materiali non con sospetto ma con disincanto, basta pensare alle migliaia di “restauri” nei quali si sono utilizzati intonaci a base cementizia e tinteggiature al quarzo, c’è ancora chi le usa.

Fabbricare e costruire inquina comunque, la gestione di questo inquinamento è compito dei buoni progettisti.
Per mia grande fortuna abito in una casa realizzata tra la fine del Seicento e gli inizi del Settecento, niente di particolare, una casa costruita da e per dei contadini o poco più, eppure essa è in pace con il mondo, costruita con grossi e solidi muri in pietra e mattoni (naturalmente intonacati). Questa casa ha un bilancio energetico migliore di qualsiasi altro edificio costruito negli ultimi 50 o 60 anni non solo per come è stata costruita, o perché è orientata nel modo corretto, o per le sue finestre che sono proporzionate agli ambienti né troppo grandi né troppo piccole, ma soprattutto e fondamentalmente perché è vecchia. La sua età è il parametro fondamentale per poterne calcolare la sostenibilità, la quantità di energia che essa ha utilizzato per essere realizzata va distribuito per gli anni della sua durata.
Questo immobile sicuramente mi sopravvivrà. Sopravvivrà a me e molto probabilmente anche ai miei nipoti, la sua manutenzione ha dei costi energetici ridicoli. Quando malauguratamente dovrà essere demolita si trasformerà in un bel mucchio di sassi e legno o, in un caso più fortunato, diventerà una fascinosa rovina magari avvolta dall’edera. Per diminuire le emissioni di gas serra dovuti alla regolazione termica degli spazi di vita quotidiana è bastato uno strato coibente sotto i coppi e modificare l’impianto di riscaldamento, aggiungendo una bella stufa a legna collegata ad un cronotermostato (perché la modernità e la tecnologia non sono peccato ma un’enorme risorsa) e spero di poter presto sostituire l’intonaco esterno a base cementizia, realizzato una quindicina di anni fa dai precedenti proprietari, con un buon termointonaco a base di calce.

Cosa diventeranno gli edifici che le ultime generazioni di architetti hanno costruito? Nel più recente passato la promessa di eternità dell’onduline per i tetti si è avverata trasformandosi in vita eterna per i poveri operai che la producevano. Quali enormi costi energetici comporta e comporterà ancora per molti anni lo smaltimento di questi veleni?

Oggi, terrorizzati dal global warming, stiamo producendo milioni di metri cubi di silicio fotosensibile con una promessa di produttività di non più di 25 anni, ma chi smaltirà i pannelli fotovoltaici che oggi stiamo istallando sui tetti di mezzo mondo e quale è il costo energetico della loro produzione e quale sarà il costo energetico del loro smaltimento? Economicamente è certamente un bell’affare ma a conti fatti: produrranno molta più energia di quanta ne hanno dissipata per essere realizzati e di quanta ne consumeranno per essere smaltiti? Forse, ripeto forse, un buon professionista dovrebbe indicare ai propri clienti che anziché un ipotetico guadagno fra una decina d’anni (sono questi i tempi in cui diventa economicamente redditizia l’istallazione di un pannello fotovoltaico) è meglio investire il proprio denaro iniziando a risparmiare energia da subito utilizzando tecniche e metodi ben rodati, non escludo anzi mi auguro che in pochi anni la tecnologia ci porti a realizzare dei pannelli fotovoltaici in grado di produrre veramente energia, pannelli il cui costo ambientale di realizzazione e smaltimento sia nettamente sopravanzato dalla produzione di energia.

In Oriente intere città vengono costruite senza il seppur minimo controllo energetico, per il semplice motivo che i gruppi ingegneristici che le costruiscono fanno abuso delle consulenze dei Greenwashers; foreste di grattacieli che inesorabilmente sono destinate ad un veloce declino proprio perché nelle loro tecnologie costruttive, nel loro DNA progettuale, è memorizzata la data di scadenza. Mostri destinati ad immolarsi all’altare dell’ipercapitalismo. L’enorme dispendio energetico destinato alla loro conduzione e manutenzione e l’indeterminatezza che è innata nell’uso delle tecnologie avveniristiche utilizzate sono il cancro che li affligge fin dalla nascita, quando il loro mantenimento diventerà economicamente insostenibile allora dovranno essere demoliti.

Non tutti gli edifici sono la torre Eiffel che, in quanto simbolo, può permettersi una manutenzione dai costi inauditi, non tutte le villette unifamiliari sono la villa Savoye che in media ogni 10 anni deve essere restaurata per la carenza strutturale che la affligge.

Con grande attenzione noi progettisti dobbiamo avvicinarci ai temi del riuso e conversione del patrimonio edilizio esistente, utilizzando le nuove tecnologie in modo propositivo per trasformare gli edifici che ci circondano rendendoli vivibili e sostenibili: la grande sfida dei prossimi anni sarà quella della riconversione degli edifici che sono stati realizzati nell’ultima metà del secolo scorso.
Non tutti naturalmente possono abitare o vivere in ambienti lavorativi pluricentenari, ma tutti hanno il diritto ad usare degli edifici che abbiano una speranza di vita più che secolare. E’ profondamente immorale progettare degli immobili che non sopravvivano al progettista, non possiamo continuare a scaricare sui nostri figli gli effetti devastanti delle nostre scelte progettuali.

Le conoscenze e le tecnologie dei greenwashers sono una risorsa, ma in mani sbagliate si trasformano in una bomba ad orologeria.
In fondo in fondo una sola cosa terrorizza il greenwasher, che si possa anche per un istante pensare ad un muro in mattoni a due teste magari con intercapedine e controparte interna, questo lo spiazza, perché il potere del suo verbo si sgretola di fronte all’ovvietà del saper costruire.

Angelo Gueli

P.S.
Adesso scagli la prima pietra chi non si è mai servito di uno di questi maghi del kappatermico, io personalmente in preda ad una crisi da megavetrata ho fatto decine di telefonate ad uno di questi santoni, strisciando ai suoi piedi pur di avere quel magico numerino che ti certifica, e poi ottenuta la “divina relazione” mea culpa, mea culpa, mi sono pavoneggiato dicendo in giro che il mio progetto era eco.

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6 ottobre 2008

STAR-SYSTEM: INDICI DI ASCOLTO IN CALO

Pietro Pagliardini

In questi giorni Giorgio Muratore, dal suo blog Archiwatch, ha registrato qualche segno di stanchezza nell’opinione pubblica (cioè nella stampa nazionale) verso il mondo dello star-system o verso le Archistar o ego-architetti che dir si voglia.
Insomma, il reality “La città dei famosi” sembra avere gli indici di ascolto un po’ in calo.
Una serie di recentissimi articoli usciti su IlSole24ore e su Il Foglio, oltre a quelli di Avvenire, meno eclatanti ma ugualmente importanti, che fanno seguito ad altri, a far data dal periodo della campagna elettorale con la nota presa di posizione di Berlusconi, Celentano e Sgarbi contro il grattacielo milanese di Libeskind, seguiti dalla polemica contro la teca di Meier a Roma e l’ipotesi, per ora accantonata, della sua demolizione, e accompagnati da una serie di articoli di Nikos Salìngaros su il Domenicale, del filosofo Roger Scruton su il Foglio e altri ancora su Libero, il Giornale, ecc. danno la sensazione che questo sistema stia dando qualche segno di cedimento.

Per chiarezza va detto che, per quanto a mia conoscenza, alcuni di questi giornali, tra cui certamente Il Foglio e Il Domenicale, hanno sempre mostrato interesse per un genere di architettura che si pone in atteggiamento positivo verso la storia e il rispetto dei luoghi, ma anche il Corriere della Sera ha mantenuto una posizione equlibrata.

Di tutto questo movimento il prof. Giorgio Muratore prende atto, non senza una qualche soddisfazione accompagnata però dal timore che ad una moda estremista se ne contrapponga un’altra di pari virulenza ma di segno opposto.

Ma il timore, assolutamente comprensibile, ha un fondamento reale nei fatti oppure è una sensazione di irrazionalità di fronte al nuovo?
Per cercare di dare una risposta a questa domanda non si possono, tuttavia, separare le parole di Muratore da quelle pervenute nei vari commenti: certo, il pensiero dei frequentatori di un blog non possono essere attribuiti all’autore dello stesso, visto che, a quello che mi risulta, non è che Muratore censuri commenti a lui non graditi, ma sarebbe ipocrita non riconoscere che una certa influenza reciproca tra le due parti si viene a creare; si forma cioè una sorta di intesa su alcuni punti essenziali, tanto più in un blog come Archiwatch il cui autore ha una autorevolezza e un seguito notevole.

Dunque qual’é stata la reazione a questo ancor leggero cambiamento climatico? Penso che da parte del prof. Muratore, che nel corso della sua carriera universitaria deve averne viste tante, e non tutte belle, vi sia il timore di un nuovo conformismo, dato che sarebbe difficile negare la coincidenza tra questi accenni di cambiamento culturale e il cambiamento di guida politica nazionale e soprattutto romana.

Non che io creda sia in corso una manovra orchestrata da chissà quali gruppi di potere politico di concerto con chissà quali conventicole culturali le quali avrebbero chissà quali rapporti con il mondo dell’editoria. Anzi, da quel poco che mi risulta e da quanto riesco ad intuire, non esiste alcun paragone possibile tra la forza di un sistema mediatico-culturale ormai consolidato da decenni di relazioni, amicizie, scambi di favori leciti e meno leciti nel sistema dei concorsi (di architettura e universitari) e dall’occupazione permanente nelle varie riviste, supportato vigorosamente dal potere economico degli immobiliaristi, che poi nel caso italiano coincidono quasi sempre con i nomi più importanti dell’economia e della finanza, nei confronti di un manipolo di persone (prof. Muratore, manipolo è un modo di dire e non un riferimento politico) cui non si fa vincere un concorso che uno, non potendo godere appunto di scambi di favori, non hanno diffusione da parte dei media, non vengono praticamente citati, se non per dileggio, nelle facoltà di architettura, non hanno imprenditori di riferimento (diverso è invece il caso degli USA dove il New Urbanism ha un forte rapporto con il mondo imprenditoriale).
Il nome di Lèon Krier, ai suoi inizi, circolava tra gli studenti e se ne vedeva qualche disegno nelle riviste, e non in tutte per i suoi rapporti con James Stirling. Poi un lungo silenzio durante il quale il suo lavoro circolava come tra carbonari. C’è voluto il patrocinio di un personaggio famoso come il Principe Carlo d’Inghilterra (con la contropartita di molta gratuita ironia), oltre alla tenacia e alla forza delle idee di Krier, perché il suo nome acquistasse il prestigio internazionale che merita.

Nel nostro mondo globale è garantita libertà di circolazione a tutte le idee, anche alle più bislacche, alle più pericolose, alle più volgari, anzi, più bislacche, pericolose e volgari sono e, talvolta, più spazio hanno ma verso quelle di coloro che si battono per un ritorno ad una architettura più umana e che incontra certamente il favore popolare è stata applicata una scientifica congiura del silenzio. Non piacciono quelle idee a qualcuno? Lecito, ma non spetta a pochi decidere per tutti. Quindi, ammesso che coloro che le osteggiano le conoscano effettivamente, se qualche giornale comincia a parlarne e a divulgarle non si tratta altro che di una modesta riparazione alla censura perpetrata per anni ed è bene che tutti possano decidere dopo aver conosciuto.

Quanto ai vari commenti, devo dire, mi sembrano deboli, incerti e soprattutto inefficaci quanto lo è stata la critica allo star-system. Si invita a rileggere Ernesto Nathan Rogers, si parla di Semerari, si snobba Saverio Muratori e la sua scuola (troppo poco come citazione, si dice) si sposta, insomma, il problema conservandolo sempre e comunque su un piano di dibattito accademico, forse non volontariamente ma come riflesso condizionato di un metodo consolidato che tende a ricondurre il dibattito nelle cerchie ristrette di una elite, per altro fallimentare e burocratizzata, e tenerne fuori i soggetti reali che sono i cittadini e il mercato. La reazione a questa modesta “campagna” mediatica è, senza offesa per nessuno, piuttosto ottusa e vecchia. C’è la speranza lontana della famosa e chimerica terza via che viene evocata ed invocata quando non si sa dove sbattere la testa quando siamo in un vicolo cieco. Che poi consisterebe, per dirla semplice, in un modernismo “dolce e raffinato” che potrebbe produrre risultati apprezzabili in architettura ma in urbanistica sarebbe la riproposizione dei fallimenti visti dal dopoguerra ai nostri giorni.

Proviamo ad elencare alcuni fatti, così, in forma di pro-memoria:

1) Attualmente, salvo prova contraria, la stragrande maggioranza di ciò che si costruisce (e di ciò che si è costruito da 50 anni) in Italia può essere imputato a tutti meno che a Krier, Salìngaros, il Principe Carlo, Tom Wolfe, Camillo Langone e compagnia. Quindi colpe non ne possono avere né dirette come esecutori né indirette come mandanti. A carico loro non si potrebbe perciò neanche aprire un fascicolo di una ipotetica procura architettonica;

2) La stragrande maggioranza del costruito in Italia è figlio di anonimi autori i quali avranno operato a favore della speculazione, se ne saranno bellamente fregati di problemi urbanistici e architettonici, ma hanno progettato in base a principi e a forme che, volenti o nolenti, affondano le loro radici nella rottura delle regole voluta dal Movimento Moderno. Questi signori (escludendo il grosso abusivismo che esce dal dibattito culturale per entrare in quello penale) si sono basati su norme edilizie e su Piani regolatori elaborati, disegnati e scritti da architetti per conto delle amministrazioni comunali, con parole ricche di buone intenzioni ma con una filosofia ispiratrice che ha portato, anche nei decantati PEEP, ad uno “svuotarsi della linfa vitale della città”, e cito Rem Koolhaas, io direi alla fine della città.

3) I grandi interventi immobiliari in Italia, in Europa e nel mondo, con la sola eccezione forse degli stati del sud degli USA, sono appannaggio delle solite Archistar, le quali sono anche le uniche che progettano edifici simbolo, utilissime a fare da traino ai più corposi interventi immobiliari.

4) I premi Pritzker, Stirling ecc. che vengono considerati, guarda il caso, i più importanti come immagine, se li rigirano sempre gli stessi. Saranno bravi, non discuto, ma a me sembrano tutti uguali, nella sostanza e, dico subito, non mi interessa nemmeno stare a sottilizzare in cosa si distinguono, se non nel brand.

5) L’esperimento di Poundbury, il villaggio di Lèon Krier ed altri tanto sbeffeggiato dai nostri sapienti docenti universitari, snobbato dalle riviste specializzate (dirette sempre da loro), funziona, ha grande successo di pubblico, lo riconosce con stupore il Times di Londra, tanto da indurre il Primo Ministro Gordon Brown, laburista, ad assumerlo come modello per i prossimi nuovi insediamenti previsti nelle zone rurali. Sempre originali questi inglesi!

6) Come ulteriore aggravante, in Italia è invalsa la moda tra i sindaci, in modo assolutamente trasversale perché interessa amministrazioni di ogni colore politico, di dotarsi di opere simbolo delle suddette Archistar anche nei centri storici e anche in quelli più preziosi, in modo tale che dopo aver creato intere non-città, dopo aver invaso le campagne e le coste, potremo dare il colpo di grazia anche all’unico patrimonio rimasto a questa esangue nazione, togliendogli non solo una fonte di reddito sicura ma anche l’unico elemento che ci unisce da nord a sud, cioè la nostra cultura, la nostra storia, il nostro comune patrimonio artistico.

PROPOSTA

Per me l’unica via percorribile (e credo che difficilmente potrebbe finire peggio di ora) è quella di affidare le scelte importanti nelle mani dei cittadini perché a loro, cioè a noi tutti, è destinata la città con i suoi edifici, solo loro, cioè noi tutti, sono i titolari del contratto sociale che li rende parte della civitas e, quindi, padroni dell’urbs.

Capisco bene le ragioni per cui questa proposta non piace, anche se ognuno può accampare motivazioni diverse e ciascuna dotata di un fondamento: non piace perché si ritiene di perdere il potere dell’architetto demiurgo, detentore unico della capacità di ordinare, dare forma e decidere per tutti. Capisco che perdere il potere dello stregone del villaggio può causare gravi crisi di identità.
Ma io chiedo poco: solo di dare voce, cioè il voto, ai cittadini nei concorsi, e solo nelle opere pubbliche o di interesse pubblico, a maggior ragione nei progetti di aree urbane. Solo questo, ed è veramente poco perché da noi si fa pochissimo.

Però credo che sia una regoletta capace di far saltare il sistema, di rompere il giocattolo in mano ai soliti noti. In una società complessa (le Archistar sono esperte di complessità) non si interviene con scelte complesse ma con piccole operazioni mirate, capaci, come il battito d’ali di una farfalla, di amplificare enormemente i suoi effetti (teoria del caos, molto amata da certa saggistica architettonica). E’ come il decreto Bersani che ha eliminato, con tre righe, le tariffe minime degli architetti: impossibile fare una riforma delle professioni, troppe spinte diverse, troppe interessi da contemperare, e allora ha colpito il cuore del corporativismo, le tariffe. Oggi si può leggere la pubblicità sui giornali con le tariffe a misura, cioè a metro quadrato di edificio progettato.

Allora, professor Muratore, facciamo pure ironia, vigiliamo pure che non arrivino i nuovi barbari, teniamo alta l’attenzione su ciò che accade, ma almeno avendo l’onestà intellettuale di riconoscere, e io sono certo che lei ce l’ha, che attenzione e vigilanza è stata latitante per molti decenni da parte della cultura ufficiale.

Quei signori di cui si parla nel suo post non credo temano affatto il giudizio popolare, altri penso proprio di sì, e parecchio.

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1 ottobre 2008

TOSCANITA'

Il testo che segue è stato scritto dall’Arch. Roberto Verdelli di Arezzo in occasione di un convegno su Qualità, Città e Territorio organizzato dall’Ordine degli Architetti di Arezzo nel giugno 2006. Il testo, che è stato depurato di poche parti strettamente tecnico-legislative, ha il pregio di saper coniugare, in un linguaggio accessibile a tutti, una compiuta visione teorica con la specificazione di fondamentali e semplici regole di progetto da osservare nei luoghi di cui tratta, e non solo.
In questo senso vi si legge l’impronta del suo autore che riunisce in sé una notevole preparazione teorica, una conoscenza approfondita del territorio e un’alta qualità progettuale, frutto di pratica professionale multidisciplinare, dai piani urbanistici alla progettazione architettonica. Il tutto pervaso dall'amore per la sua terra.
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Roberto Verdelli

LE SPECIFICITA' DEI PAESAGGI E DELLE CITTA' TOSCANE

La Toscana è bella, è unica ed irripetibile. E’ stata la culla del Rinascimento e, nel tempo, culturalmente resistente alle mode e ai cambiamenti che venivano da fuori. Non credo del tutto casuale che la Toscana sia l’unica regione ad avere un ordine architettonico proprio “Il Toscanico” appunto. Un ordine più semplice ed austero degli altri, meno ricco e privo di fronzoli, una sorta di ‘minimalismo” ante litteram.

E’ complesso individuare le specificità del paesaggio e delle città Toscane. Molte delle considerazioni che andrò a fare sono comuni anche ad altri territori e realtà urbane ed appartengono anche ad altri ambiti culturali. L’insieme di tutte le considerazioni appartiene, forse, solo alla Toscana e credo che proprio questo insieme costituisca la sua specificità.

1) Il rapporto città-campagna

La città è cosa diversa dalla campagna. Tra la città e a campagna è sempre esistito un confine preciso, le mura o il fossato. Le tecniche costruttive e le modalità di trasformazione sono diverse.
La città diffusa è un concetto che non appartiene alla cultura Toscana fatta: di centri, di borghi, di paesi, di campanili e di piccole autonomie. Il toscano è geloso custode delle proprie tradizioni, le difende sempre e comunque e tanto più la città, il borgo o il paese “nemici”, sono vicini tanto più aumenta la rivalità.

Le mura, le porte, i confini che sanciscono le nostre diversità sono rimaste nella nostra testa, talvolta invisibili ed incerte come negli sviluppi lineari che fondono frazioni da sempre rivali o nelle periferie ove diventa difficile marcare la separazione tra i rioni o le contrade che si sfidano in rievocazioni storiche sempre più amate nonostante Internet.
Gli sviluppi moderni tendono a “sfumare” la città lungo i vecchi o i nuovi tracciati viari in modo che il passaggio tra la città e la campagna risulta quasi impercettibile. Un proliferare di città lineari che non sono proprie della nostra cultura e che insidiano l’antico senso di appartenenza al luogo. E’ pur vero che i sobborghi e gli insediamenti “extra moenia” sono processi antichi, ma è anche vero che essi erano estremamente compatti ed aderenti il più possibile alle mura. Una sorta di speranza che al prossimo ampliamento delle stesse fossero anch’essi ricompresi dentro a cinta.
Le nuove mura, rappresentate dai cartelli stradali, le disegnano i vigili urbani su parametri talvolta astrusi e comunque non facilmente percepibili.
La mancanza di confini di queste città spalmate sul territorio giustifica l’inserimento, in qualsiasi luogo, di attrezzature e servizi che sono sempre stati di appannaggio esclusivo della città. Le uniche pregiudiziali per il collocamento diventano il facile accesso e la possibilità di parcheggio. Le grandi strutture commerciali e di servizio (ipermercati, outlet, multisale etc) non dovrebbero essere collocati fuori della città. Esse, forse, possono costituire elemento di riqualificazione del tessuto di più recente formazione ma mai polo di attrazione centrifuga che distrugge il tessuto economico dei nostri centri storici ed aumenta a dismisura la mobilità su auto.
L’ubicazione degli “asteroidi”, come qualcuno li ha efficacemente definiti, è un problema di grande rilievo e, come per tutti gli altri problemi che andrò a segnalare, c’è un impellente necessità di individuare il soggetto giuridico ed istituzionale che si deve far carico della sua risoluzione. In alcuni casi tale individuazione è semplice, nello specifico mi sembra più complesso. In Francia queste strutture sono state fortemente limitate con legge dello Stato. Siamo certi che non si debba fare altrettanto anche in Italia? Magari attraverso una disposizione regionale?

2) La città, i borghi, gli aggregati

La città si percorre preferibilmente a piedi. L’auto è nemica della città: inquina, è rumorosa ed occupa spazio.
All’interno della città il traffico pedonale va privilegiato rispetto a quello carrabile.

Le nostre città, borghi e gli aggregati sono sempre stati caratterizzati dalla prossimità’ delle funzioni. La bottega dell’artigiano è prossima a quella del fruttivendolo che, a sua volta, è vicina allo studio del notaio ed alla banca. Gli uffici pubblici sono vicini alle abitazioni che, a loro volta, sono vicini alle botteghe ed ai negozi.
Occorre facilitare la complessità delle funzioni dell’organismo urbano superando il concetto di zonizzazione.

La piazza è l’elemento nodale della città, il luogo di incontro e di ritrovo, che da ordine alla struttura urbana. Le nuove trasformazioni hanno dimenticato le piazze. Quando va bene sono parcheggi fuori scala ubicati nei posti sbagliati. Occorre invece riappropriarsi della cultura della piazza.
Anche il rapporto tra strada ed edificio ha perso i suoi originari connotati. In città l’edificio ha sempre avuto un rapporto diretto con la strada senza alcuna mediazione spaziale. La facciata sta sulla strada che costituisce elemento ordinatore del tessuto edilizio, al piano terra della facciata sono normalmente collocate le botteghe o e attività, su retro stanno gli orti ed i giardini, il giardino sul fronte demonizza la strada e con questa anche la città.

Le rotonde all’interno del tessuto urbano sono la negazione della città. Non so quanti di voi abbiano provato a percorrere in bicicletta una delle tante rotatorie che ormai prolificano in ogni ambiente urbano come soluzione di tutti i mali. Pericolose per anziani e bambini sono il frutto del totale asservimento alla mobilità meccanica, ormai bisogna arrivare ad ottanta all’ora anche dentro la cinta muraria.
Più la città si espande più aumenta il problema della mobilità. Aumentando la mobilità si rende necessario realizzare sistemi infrastrutturali sempre più funzionali al mezzo meccanico e sempre meno adatti alla percorrenza pedonale (vedi le rotonde).

Uno dei mezzi possibili per contenere l’espansione della città è quello di aumentarne la densità edilizia.
Maggiore densità comporta economie di scala nella gestione dei servizi puntuali e di quelli a rete. Maggiore densità comporta, inoltre, un probabile innalzamento della qualità architettonica ed urbanistica. Non è possibile, né ci possiamo permettere che in città si realizzino tipi edilizi riconducibili all’edilizia della campagna. Edifici puntuali, collocati al centro del lotto che contraddicono la nostra storia ed i processi di formazione delle nostre strutture urbane. Le città toscane non possono essere ricondotte alle periferie delle grandi città statunitensi caratterizzate da chilometri e chilometri di villette unifamiliari con piscina, una dopo l’altra, senza un negozio, senza una bottega, senza una piazza, senza nulla. Sembra ormai sancito il diritto di possedere ed il dovere di realizzare abitazioni in città con caratteristiche tipologiche e formali dell’edilizia rurale. Ciò non è possibile. Non abbiamo lo spazio, non possediamo le risorse necessarie e non credo sia un bene per la collettività.
Occorre restituire ai nostri insediamenti gli elementi che ne costituiscono il fondamento:

- le piazze;
- il rapporto con la strada;
- la prossimità delle funzioni;
- le permeabilità e la possibilità di goderla a tutte le classi sociali e non solo agli automuniti.


Non so come poter raggiungere tali scopi. Se con leggi o piani territoriali o se attraverso semplici atti di governo del territorio. Se attraverso rigidi impianti normativi o piani “progetto” disegnati nel dettaglio. Quello che mi sembra più importante è che si riescano a condividere tali valori e, rispetto a ciò, credo ci sia ancora molta strada da fare.

3) La campagna

Il paesaggio toscano è caratterizzato da una diffusa antropizzazione. A differenza che in molte altre regioni le abitazioni dei contadini sono collocate al centro del podere, non esistono masserie e le coltivazioni sono (o erano) caratterizzate da un fitto livello di appoderamento. Ormai da alcuni decenni si stanno verificando alcuni fenomeni, prevalentemente economici e sociali, che stanno mettendo in crisi gli antichi processi di trasformazione.
Essi si possono riassumere in:
- progressivo abbandono delle coltivazioni, nelle aree meno fertili e soprattutto nella montagna, con conseguente fagocitazione del bosco, degli immobili e dei coltivi;
- fine dei contratti mezzadrili e della coltivazione diretta dei poderi nelle aree di pianura e di collina. Perdita progressiva della identità di un paesaggio legato ad una forte frammentazione territoriale e ad una economia autarchica;
- sostituzione della coltivazione diretta con coltivazioni intensive frutto di successivi accorpamenti fondiari, conseguente distruzione della maglia agraria originale;
- per gli ambiti di maggior pregio, sostituzione della originaria classe residente, nel frattempo inurbata, con nuove classi costituite in un primo tempo da stranieri e, successivamente, da ceti indigeni abbienti che utilizzano il bene come seconda casa. Conseguente difficoltà per il mantenimento delle coltivazioni nel vecchio podere e per la conservazione del ricco patrimonio antropico esistente (muri a retta, viabilità, ciglionarnenti etc);
- per i soggetti precedentemente inurbati, nostalgia della campagna, che si manifesta attraverso la realizzazione di manufatti più o meno abusivi che non sempre sono utilizzati come rimessaggio degli attrezzi e che finiscono per diventare una sorta di seconda casa ove evocare o ricordare i tempi andati. Tali manufatti tendono a concentrarsi immediatamente a ridosso della città prevalentemente per motivi logistici ma anche in funzione di un loro possibile diverso utilizzo (vedi sanatorie). La realizzazione dell’annesso indipendente dalla abitazione costituisce novità dirompente in una realtà caratterizzata dalla vicinanza e dalla stretto rapporto tra la pertinenza e l’abitazione.

Credo sia assai complesso arginare il fenomeno della mutazione del paesaggio agrario sia per l’oggettiva difficoltà di eseguire controlli che per la mancanza di risorse economiche che possano agevolare interventi tesi al mantenimento e alla conservazione della antica struttura.
Per quanto riguarda la proliferazione degli annessi le legge regionale toscana ha individuato un criterio che, pur se enunciato in maniera embrionale, istituisce un principio condivisibile. Il principio per cui nuovi annessi, dopo aver svolto la loro funzione, dovranno essere demoliti. E’ in realtà un’idea che contraddice la nostra stessa storia fatta dell’amorevole conservazione di tutto ciò che ci proviene dal passato ed è un’idea che potrà far proliferare le strutture precarie. Ma è forse una delle poche strategie possibili in un momento in cui il fenomeno della realizzazione di nuovi annessi sta assumendo proporzioni sempre più vaste.

4) L’architettura

Discutere dell’architettura e della sua qualità significa toccare un nervo scoperto. Allo stesso modo la semplice individuazione delle specificità dell’architettura Toscana potrebbe urtare convinzioni maturate in anni di studi e di professione. Idee e convinzioni, peraltro, formate sempre in perfetta buona fede e con processi di assoluta onestà intellettuale.

Individuare le specificità dell’architettura toscana non significa esprimere un giudizio negativo su tutto quello che tali peculiarità contraddice ma può essere utile a condividere, almeno, le proprie origini e radici culturali.

Per interi decenni, sull’altare di un fantomatico diritto alla libertà di espressione, si sono consumati danni irreparabili che sono, purtroppo, sotto gli occhi di tutti e che hanno contribuito alla formazione del degrado che caratterizza gli sviluppi recenti delle nostre città, dei nostri borghi e anche di parte delle nostre campagne.

Troppe differenze tipologiche, troppi materiali, troppi linguaggi che si sovrappongono in maniera incoerente senza logica e senza un disegno complessivo.
Ormai ogni operatore dell’edilizia: dagli architetti ai geometri, dagli imprenditori agli agenti immobiliari, sentono il bisogno di lasciare il proprio segno distintivo nel territorio. Un po’ come il maschio del cane che ha necessità di lasciare il proprio odore per marcare il suo ambito di influenza. Eppure mai come oggi ci sarebbe la necessità di non farsi notare. Di passare inosservati. La migliore costruzione o trasformazione edilizia ed urbanistica che si possa fare è quella che non da nell’occhio, che non si fa notare, che non fa girare la testa perché sembra che sia sempre stata lì.

Mi si obbietterà che è una rinuncia totale alla modernità, a lasciare il segno del nostro tempo. Ma se i segni del nostro tempo sono quelli che abbiamo profuso negli ultimi sessanta anni, credo che dobbiamo avere almeno l’umiltà di accettarlo.

E’ difficile capire come uscirne fuori. Forse trovare alcuni valori condivisi potrebbe aiutare a riconoscersi in linguaggi comuni. Perché almeno di questo sono convinto: in uno stesso territorio ed in uno stesso periodo occorre parlare lo stesso linguaggio.

Ed è per provocare il dibattito su questi temi che voglio enunciare cinque principi semplici sui quali discutere. Essi non possono essere che semplici perché le regole che hanno contribuito a formare le nostre città e che stanno alla base delle nostre architetture sono semplici.
E’ evidente che alla base dei processi di formazione e trasformazione territoriale ci sono anche ragioni economiche, politiche e sociali, ma io faccio l’architetto e solo di quelle più semplicemente tecniche mi voglio occupare.

Vedrete che non sarà possibile condividere alcuna di queste regole. Non perché non accettate nelle loro ragioni di fondo, che eviterò di spiegare perché note a tutti, ma in quanto non è possibile “generalizzarle” cioè renderle sempre e comunque buone.
Di queste regolette semplici se ne potrebbero scrivere cento. Io ne enuncerò solamente cinque e qualcuna volutamente provocatoria, perché la cosa che più mi interessa non è tanto verificare la condivisione delle regole quanto l’insofferenza alle stesse.

Le regole sono:

a) nella organizzazione delle facciate il pieno prevale sul vuoto;
b) l’organizzazione funzionale interna deve essere leggibile sull’esterno, le facciate debbono essere gerarchizzate in ragione delle funzioni svolte;
c) lungo le strade principali il piano terra deve essere allo stesso livello della strada e non avere funzione residenziale;
d) gli edifici in generale e quelli dell’edilizia di base in particolare debbono avere la copertura a falde inclinate e la gronda;
e) gli interventi in campagna debbono essere, in tutto coerenti con i caratteri tipologici ed architettonici del tessuto edilizio di antica formazione
.

So che, nel frattempo, sono stati inventati: l’acciaio, le facciate continue, il PVC, l’alluminio e lo zinco titanio ma penso che la Toscana ne possa fare a meno.
Posso capire che rinunciare alla modernità sia un atteggiamento codardo ma, forse, negli ultimi decenni, di coraggio ne abbiamo avuto anche troppo.

Un'ultima cosa la debbo dire rispetto alla bio-architettura.
Sembra che tale tecnica sia divenuta la panacea di tutti i mali e che solo attraverso di essa sia possibile conseguire quel miglioramento della qualità edilizia, architettonica ed urbanistica da tutti tanto auspicato.
Credo che come in tutte le nuove esperienze ci siano aspetti positivi ed altri che meriterebbero ripensamenti o approfondimenti. Possiamo convenire che gli aspetti positivi superano largamente quelli negativi ma penso che si debba riflettere almeno su questi tre punti:

1. il corretto orientamento dell’edificio può costituire elemento vincolante per gli interventi in campagna ove l’edificio si rapporta con il campo e la tessitura agraria, ma non può essere altrettanto vincolante in città ove diventa preminente il rapporto con la strada e la piazza. E’ del tutto evidente che un reticolo stradale urbano risente di vincoli: storici, strutturali e orografici che prevalgono sul semplice orientamento. Allo stesso modo, tracciata la strada diventa fondamentale che l’edificio si allinei su di essa e non indipendentemente da essa per seguire il sole. Così è sempre accaduto e così è bene che continui ad accadere, in Toscana come altrove;
2. le pendenze delle coperture devono essere funzionali al tipo edilizio ricorrente e non alle esigenze di un migliore rendimento dei pannelli solari o fotovoltaici;
3. le serre solari nella facciate degli edifici tendono ad alterare il corretto rapporto tra i pieni ed i vuoti di una facciata. Il loro inserimento è spesso complesso e richiama elementi architettonici quali il bow-window che non hanno richiami o riferimenti nella nostra tradizione.

Concludo, citando un carissimo amico “In Toscana così come il gotico ha dovuto addolcire la cuspide del suo arco acuto, la bioarchitettura rinuncerà alle serre nella facciata e ad orientamenti contradditori con il tessuto edilizio”.

Roberto Verdelli

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