Pietro Pagliardini
Storie Parallele: un altro testo di Vilma Torselli su Artonweb. Un’altra riflessione provocante, graffiante e lievemente amara che spiega molto ma non trae conclusioni e che finisce con un Perché? In neretto.
Il tema è la relazione tra la cultura ebraica e l’arte e l’architettura dalla seconda metà del secolo scorso ad oggi. Alcuni passi significativi:
"Non è un caso che il logos sia alla base della cultura di matrice ebraica aniconica e iconoclasta, in opposizione a morphè, ciò che “la nostra infanzia greca” indica come forma sensibile, come modo di essere o di apparire, e non è un caso che sia l’espressionismo astratto che il decostruttivismo mettano in crisi proprio il concetto di forma.
Anche da un'analisi superficiale non è difficile individuare in certe scelte progettuali di Daniel Libeskind una relazione con i grandi vuoti mistici delle tele di Mark Rothko, nella fluida casualità dell’architettura gestuale di Frank Gehry una stretta corrispondenza con la deregolata soggettività espressiva dell’action painting di Jackson Pollock o con la casualità amebica delle forme liquide di William Baziotes. In tutti i casi ciò che viene messo in gioco e che brilla per la sua assenza è la forma.
Questa convergenza programmatica tra le due correnti è l’aspetto più interessante e più decisivo per legarle sotto una stessa chiave di lettura."
E conclude così:
"E la perdita del senso dei luoghi e delle cose, del loro orientamento, spaziale e simbolico, l’opposizione alla loro riconoscibilità ha come esito la distruzione del senso di appartenenza (ad una comunità, ad un’etnia o semplicemente alla specie umana).
Se questo vuol fare e fa l’architettura decostruttivista, ammesso che ciò che ho scritto ne riassuma il senso, resta comunque da scoprirne il motivo.
Perché?"
Una domanda che non aspetta una improbabile risposta conclusiva quanto una serie di risposte tutte parzialmente vere e perciò tutte parzialmente false.
La voglia di rispondere è stata forte da subito e ho cominciato a documentarmi. E’ incredibile quante cose si riescano a trovare di un argomento quanto l’argomento improvvisamente si presenta come se fosse nuovo. Tutto è già stato trattato, tutto è già stato discusso, sviscerato, approfondito.
A questo proposito consiglio questi link illuminanti e profondi:
http://www.area-arch.it/home.php?_idnodo=172394
http://www.chiweb.net/shenkar2.html
e tutte le interviste di Nadine Shenkar che vi sono nel sito.
Ma la risposta qual'è?
Rispondere vorrebbe dire cadere in una trappola, almeno per me, che mi sono ottusamente proposto di parlare, divulgare (parola grossa), parteggiare per l’architettura umana, tradizionale, classica.
Rispondere vorrebbe dire raccogliere una sfida e cominciare un dialogo; e dialogare è una condizione che ti avvicina agli altri e avvicinarsi agli altri vuol dire “mettersi nei panni di” altri e perdere qualcosa di te acquistando qualcosa dagli altri.
Ma per dialogare occorrono condizioni di parità. Ma gli altri sono troppo forti perché vi possa essere un dialogo. Sarebbe come dialogare tra schiavi e padroni.
Che dialogo può esserci tra schiavi e padroni!
Che dialogo può esserci con chi detiene il potere, tutto il potere, economico, editoriale, culturale, massmediologico, industriale, di marketing!
Che dialogo può esserci tra coloro che parlano a se stessi e coloro che vorrebbero parlare alla gente!
E allora, pur decidendo di continuare ad approfondire e cercare di capire, ho deciso di non provare nemmeno di tentare di dare una risposta al Perché?.
Perché? Perché il mio scopo è semplice, banale, da tutti comprensibile anche se non condiviso: io credo, anzi so, che l’uomo ha bisogno di città che diano il “senso di appartenenza”, di edifici che abbiano una forma che sia una figura e in cui l’uomo si possa riconoscere e che possa riconoscere come la propria “casa” (home e non house).
E allora all’instabilità, alla mancanza di forma, alla inutilità e provvisorietà del decostruttivismo non rispondo con parole mie ma con queste:
Devesi, avanti che a fabricar si cominci, diligentemente considerare ciascuna parte della pianta, e impiedi della fabrica che si ha da fare. Tre cose in ciascuna fabrica (come dice Vitruvio) devono considerarsi, senza le quali niuno edificio meriterà esser lodato; e queste sono, l'utile, o commodità, la perpetuità, e la bellezza: perciocché non si potrebbe chiamare perfetta quell'opera, che utile fusse, ma per poco tempo; ovvero che per molto non fusse comoda; ovvero c’havendo amendue queste, niuna grazia poi in se contenesse.
La commodità si havrà, quando a ciascun membro sarà dato luogo atto, sito accommodato, non minore che la dignità si ricchiegga, ne maggiore che l'uso si ricerchi: e sarà posto in luogo proprio, cioè quando le Loggie, le Sale, le Stanze, le Cantine, e i Granari saranno posti ai luoghi loro convenevoli.
Alla perpetuità si havrà riguardo, quando tutti i muri saranno diritti a piombo, più grossi nella parte di sotto, che in quella di sopra, e haveranno buone, e sofficienti le fondamenta: e oltre a ciò, le colonne di sopra saranno al dritto di quelle di sotto, e tutti i fori, come usci e fenestre saranno uno sopra l'altro: onde il pieno venga sopra il pieno, e il voto sopra il voto.
La bellezza risulterà dalla bella forma, e dalla corrispondenza del tutto alle parti, delle parti fra loro, e di quelle al tutto: conciossiaché gli edificij habbiano da parere uno intiero, e ben finito corpo: nel quale l'un membro all'altro convenga, e tutte le membra siano necessarie a quello, che si vuol fare.
Considerate queste cose, nel disegno, e nel Modello, si deve fare diligentemente il conto di tutta la spesa, che vi può andare: e fare a tempo provisione del danaro, e apparecchiare la materia, che parerà far di mestieri; acciocché edificando, non manchi alcuna cosa, che impedisca il compimento dell'opera, essendo che non picciola lode sia dell'edificatore, e non mediocre utilità a tutta la fabrica; se con la debita prestezza vien fornita, e che tutti i muri ad egual segno tirati; egualmente calino: onde non facciano quelle fessure, che si sogliono vedere nelle fabriche in diversi tempi, e inegualmente condotte al fine.
Andrea Palladio, dal 1° Libro dell’Architettura, Capitolo I
21 ottobre 2008
MANCANZA DI FORMA
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6 commenti:
Siamo proprio sicuro che abbiamo perso il senso dei luoghi e delle cose, o forse stiamo comodi nelle nostre città e non abbiamo gli strumenti per leggere e capire lo 'stato delle cose' (permettetemi un vecchio termine wendersiano). Siamo così distratti che ci ossessioniamo sempre su due o tre archistar e non indaghiamo sull'idea dell'architettura attuale. Perché parlate ancora di decostruttivismo? Perché confondete le operazioni di forma di F. O. Gehry con il pensiero decostruttivista? Perché non riflettete sul fatto, che il blocco ideologico/conservativo dei cultori del belpaese ha creato altre città che qualcuno chiama periferia (gli amanti delle semplificazioni o delle differenze), ma che la stragrande maggioranza della popolazione italiana vive? Perché vi ostinate a semplificare con delle formule obsolete (dato che è cambiata la tecnologia del costruire) la bellezza ideativa/creativa dell'architetto?
SD di WA
Salvatore, intanto le cose devono avere un nome altrimenti non ci si capisce e le periferie le puoi descrivere come altre città, ma per capirsi bisogna chiamarle periferie.
E poi cos'è il blocco ideologico-conservativo? Chi è che ha creato le periferie? Da quale idea, ammesso ce ne sia una, nascono le periferie? Questo è un bel titolo per un post che però mi sembra più adatto al tuo blog e e io poi lo commento.
Però è vero che il problema delle "altre città" è più importante di quello delle archistar. Ma ognuno ha i suoi interessi e a me interessano questi in quanto sono le icone di riferimento per gli architetti e sono portatori di un'idea che distruggerà "la città", nel suo insieme, centro e periferia.
Saluti
Piero
Pietro,
la periferia, sostantivo creato dai conservatori, è città, il linguaggio dei suoi edifici è architettura, anche se il 99% è edilizia.
L'incapacità degli 'architetti del decoro' di creare città stratificate (per semplificare sovrapponendo l'architettura del proprio tempo a quella del passato, vedi esempi mirabili: il Duomo di Siracusa o il museo di Carlo Scarpa a Castelvecchio) ha generato l'espulsione della 'città altra' (medio reddito e povera) fuori dal contesto della città storica (semplifico, ma possiamo trovare casi diversi e contrari come Genova o la zona San Berillo a Catania).
Esempio di questa logica la recente vicenda del Parcheggio Pincio a Roma, per Alemanno (e lo stuolo degli architetti conservatori/del decoro) bisognava costruirlo altrove, cioè spostare i problemi non affrontarli.
Per finire la città è stata distrutta dagli architetti nostalgici, quelli che riducono la ricerca architettonica in codici classici e non leggono la complessità delle dinamiche sociali/tecnologiche attuali.
Non sono i due/tre archistar che distruggono la città, ma i 200/300 ARCHIPOPolari del finto antico/rustico.
Quelli dell'intervento filologico rivolti al passato e non al presente.
Insomma quelli che vogliono costruire a 'scala umana' (una presunzione senza confini) barricati nei loro studi del centro storico (vedi l'ultimo libro di La Cecla Gregotti/Purini/ZEN di Palermo).
La sfida dell'architetto di oggi, non è nella critica facile e sterile sui grattacieli/musei/ponti degli archistar, ma sui luoghi della quotidianità, come afferma Mirko Zardini parafrasando Gilles Clement sul 'terzo paesaggio'.
Salvatore D'Agostino
Caro Salvatore, tu porti due esempi veramente mirabili: il Duomo di Siracusa, costruito su un tempio, e Carlo Scarpa. Ma non ti viene in mente che far mettere mano, ad esempio, a Palazzo Vecchio a Firenze, per sovrapporvi l'architettura del nostro tempo sarebbe una doppia sciocchezza: la prima perché non ce n'è alcun bisogno se Dio vuole, la seconda perché di Carlo Scarpa ne nascono due o tre in un secolo e invece adesso siamo oltre 100.000 architetti, la stragrande maggioranza dei quali presuntuosi, protervi, ignoranti, incolti, artistoidi, fradici di architettura di riviste, allevati nel culto dei maestri che credono di aver raggiunto e superato. Gente che non sa scrivere tre righe senza commettere tre errori d'ortografia e, credimi, non sto esagerando. E tu ti sentiresti di far sovrapporre la loro architettura a quella di Palazzo Vecchio!
Ah, già, ci sono i concorsi. Bene: lo vince l'archistar X e toglie la torre per sostituirla con una storta o lo vince Y e sopra il tetto ci mette una bella nuvola! Esagero? Sì, ma mica tanto: l'uscita dagli Uffizi è una enorme pensilina di attesa per i bus!
Quanto alla periferia... ci ho ripensato e forse lo faccio io il post perché intanto esistono tante periferie e poi questo tormentone, non solo tuo, che il problema delle periferie sia "solo architettura" e non "anche architettura" va sfatato perché la città è prima di tutto urbanistica e disegno urbano. Questo tormentone è la riprova che le Archistar SONO un problema perché insegnano che la città è una somma di oggetti e invece è tutta un'altra cosa.
Saluti
Piero
Savatore, per correttezza preciso: non tutti gli architetti sono come da me descritti, solo la stragrande maggioranza ma, per il calcolo delle probabilità, bisogna avere proprio un gran "culo" a beccarne uno per Palazzo Vecchio.
E a scanso di equivoci i presenti sono sempre esclusi da ogni giudizio, come si conviene, compreso il sottoscritto.
Saluti
Piero
Pie(t)ro,
errata corrige ARCHIPOPopolari e non ARCHIPOPolari che sono soprattutto gli architetti che descrivi nel tuo commento, ovvero gli architetti che ignorano totalmente le dinamiche dell'architettura.
Aspetto il tuo periferico post.
Saluti Salvatore
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