Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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26 dicembre 2010

GRATIS AL MUSEO

Nel 2011 musei gratis per tutti i cittadini italiani e UE nel giorno del loro compleanno. Questa la nuova, lodevole iniziativa promozionale del Ministero dei Beni Culturali in occasione del 150° dell’unità d’Italia.
Galli della Loggia potrebbe dire che la “vita” irrompe nei musei e prevale sulla storia; cosa c’è infatti di più legato alla vita se non il ricordo del proprio giorno genetliaco?
E poi quel giorno, quello del biglietto gratis dico, ognuno di noi potrebbe avere il suo momento di gloria: immagino me che il 10 ottobre, fatta la mia bella coda, arrivo alla cassa e dico con orgoglio mostrando il documento: “Oggi è il mio compleanno”, mi volto indietro e mi prendo il mio attimo di successo mentre tutti, applaudendo, intonano un happy birthday to me, ed io esco dall’anonimato, come in un reality. Sono soddisfazioni, c’è poco da fare!
E poi, in fondo, anche il Ministro Bondi è un poeta, uno che si appella ai sentimenti, uno che ama la narrazione, proprio come Niki. Dunque….


Per il mio turno dovrò aspettare più di 10 mesi. Pazienza, il problema non è questo ché anzi l’attesa alimenta il desiderio; il problema è la scelta.
Penso che andrò a Roma. Ho consultato l’elenco dei musei che rientrano nel programma e avrei stilato la mia check-list:
Museo Mario Praz
Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini
Galleria Borghese
MAXXI

Dato che escludo di poterli visitare tutti, sia per mancanza di tempo, sia per l’incapacità di mantenere a lungo il livello di attenzione, qualcosa dovrò tralasciare, anche per rispettare il senso di una check-list.
Certamente non perderò la Galleria di Palazzo Barberini, per le opere in essa contenute e per l’opera di Maderno, Bernini e Borromini.
Credo di riuscire a farmi anche il Museo Mario Praz, che è relativamente piccolo anche se ricco delle opere accumulate dal padrone di casa e degli arredi che fanno lo sberleffo ai loft di Manhattan.
La Galleria Borghese l’ho già visitata, metterebbe conto tornarvi ma non voglio esagerare con il biglietto a scrocco.

Mi resta il MAXXI! Sarebbe logico sceglierlo. Nella sua scheda riportata nel sito del Ministero c’è scritto:
Il MAXXI, Museo nazionale delle Arti del XXI secolo è la prima istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea pensata come un grande campus per la cultura.

Non è un invito particolarmente incoraggiante per me. Sì, ho un pre-giudizio, basato però su un post-giudizio: se la stragrande maggioranza delle opere della creatività contemporanea rifiuta per scelta bellezza, figura e quindi comprensibilità ma costringe invece a leggere un catalogo impregnato di discorsi incomprensibili all’uomo comune che io sono, è altamente probabile, per non dire certo, che io mi ritrovi nella situazione di dover fingere di apprezzare e capire opere incomprensibili e di rimpiangere la Galleria Borghese.
A meno che non vi possa trovare opere contemporanee come quelle di Luciano Ventrone della due foto ad inizio post, ma mi sembra arduo che venga considerata dai curatori del Museo un'opera della "creatività contemporanea". Chissà, magari verrà giudicata solo vile tecnica pittorica, roba da operaio specializzato dei pennelli.
Però c’è il MAXXI, che non è solo "istituzione nazionale dedicata alla creatività contemporanea" ma opera essa stessa della suddetta creatività, del tutto indipendente dal contenuto.
Ma oramai l’ho visto in tutte le salse: dal plastico ai rendering del concorso, dalle foto sui giornali e in rete, più numerose di quelle di Belen Rodriguez – che è certamente una bellezza contemporanea - ai post satirici e irriverenti su Archiwatch.
Certo, come scriveva Bruno Zevi, l’architettura non è rappresentabile attraverso la fotografia perché:
Lo spazio interno, quello spazio che.… non può essere rappresentato compiutamente in nessuna forma, che non può essere appreso e vissuto se non per esperienza diretta, è il protagonista del fatto architettonico. Impossessarsi dello spazio, saperlo «vedere», costituisce la chiave d'ingresso alla comprensione degli edifici. Fino a che non avremo imparato non solo a comprenderlo in sede teorica, ma ad applicarlo come elemento sostanziale nella critica architettonica, una storia e perciò un godimento dell'architettura non ci saranno che vagamente concessi. Ci dibatteremo in un linguaggio critico che giudica gli edifici in termini propri della pittura e della scultura, e tutt'al più elogeremo lo spazio astrattamente immaginato e non concretamente sentito (1)”.

Qui Zevi ha ragione. Ma forse quando ha scritto questo testo non poteva ancora immaginare a quale livello sarebbe potuta arrivare l’interpretazione dell’architettura e dello spazio da parte dell’architetto e soprattutto dal computer dei suoi collaboratori. Una interpretazione talmente individuale e personale, fuori da ogni schema, regola e da ogni linguaggio comprensibile e condivisibile, in senso letterale, che sembra costruita solo per il suo autore, come un diario privato, con la non piccola differenza che l’opera di architettura, quella pubblica a maggior ragione, appartiene a tutti e dovrebbe parlare una lingua nota a tutta la comunità.
Invece ai più non può restare che accettarla o rifiutarla, non per specifiche qualità dell’opera, difficili da trovare e ancor più da descrivere e comunicare, quanto per la maggiore o minore attenzione divistica attribuita al progettista dai media, corroborati dalle così dette scuole di architettura. Difficile anche comprenderlo in sede teorica, come auspica Zevi.
E allora farò a meno del MAXXI che non ha alcun segreto da svelare e su cui nemmeno Saper vedere l'architettura può essere di aiuto. Mi spiace solo dover rinunciare al terzo happy-birthday to me.

AGGIORNAMENTO: CONSIGLIO QUESTO LINK PER GODERE LE BELLEZZE DI UNA MOSTRA DI AVANGUARDIA. POTREBBE ESSERE IL MAXXI UNA SEDE ADEGUATA O SARA' UN EVENTO UNICO E IRRIPETIBILE?

Nota 1: Bruno Zevi, Saper vedere l'architettura, Einuadi, 1964

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31 agosto 2009

ELOGIO DELLA NORMALITA'

Questa bella donna qui sotto non è solo una bella donna ma è una buona notizia: si chiama Lizzi (o Lizzie) Miller e il Corriere della Sera la definisce la modella oversize che riscuote un successo enorme negli USA (credo sia apparsa su una copertina di Glamour). La buona notizia è, o sarebbe, appunto questa, il fatto cioè di un ritorno ad un modello estetico più normale, familiare, naturale, umano dopo i fasti della magrezza, della astrattezza corporea, dell’anoressia grave addirittura.
Il post potrebbe finire qui, e sarebbe già tanto, ma quando ho letto la notizia, e soprattutto ho visto la foto, non ho potuto fare a meno di associarla all’architettura e di immaginare non tanto le conseguenze che potrebbe avere, perché non ne avrà alcuna, quanto qualche confronto tra i due opposti ideali di bellezza femminile in atto e quelli tra l’architettura classica e quella contemporanea.


Che vi sia una relazione tra la percezione che la società ha del corpo umano e quella dell’architettura è un dato abbastanza evidente. Basta confrontare architetture di qualunque epoca con dipinti o sculture coeve, per rendersene conto: le Madonne gotiche hanno in genere linee flessuose e slanciate, le figure e le composizioni di Piero della Francesca sono strutturate come autentiche architetture rinascimentali; nel caso poi dell’Eretteo architettura e scultura costituiscono un tutt’uno inscindibile.

E allora questa giunonica, solare, carnale ma imperfetta Lizzi la accosterei alle curve di questa umanissima Chiesa della Salute, un’esplosione controllata di curve e attributi:



Confrontiamo ora i due opposti modelli di bellezza femminile:


Certo, il secondo è un caso estremo ma quello più “comune” non cambia poi molto. Cosa c’è di umano in quell’immagine? Poco, perché siamo nel campo della pura astrazione geometrica, drammaticamente applicata ad un corpo di donna, ridotto a campo di sperimentazione per la “valorizzazione” dei capi che indossa: siamo alle estreme conseguenze (talvolta mortali) dell’uso del corpo umano come strumento di vendita di prodotti di tendenza (mi domando, per inciso, quale superiorità morale possiamo accampare nel condannare i cinesi che sfruttano i lavoratori nel momento in cui noi occidentali facciamo di questo sfruttamento un fenomeno da star e quindi da imitare).

Il prototipo architettonico che si presta a questo ideale di bellezza potrebbe essere il seguente:


Mi sembra che la poetica da era post-atomica dello scheletro sia anche qui portata alla estreme conseguenze.

Il contrasto, non solo stilistico, tra due concezioni dell’architettura l’ho rappresentato con queste due immagini accostate:


Da una parte una cupola, quella di Sant’Ivo alla Sapienza, in cui il dinamismo e la "trasgressione" delle regole sono impostate su una complessa simmetria (o euritmia, come spiega Guido Aragona su questo post del suo Bizblog), dall’altra un edificio spigoloso, scontroso, enfaticamente asimettrico e senza la riconoscibilità dei singoli elementi architettonici; quali le pareti e quale la copertura? E come saranno i solai? Non ha nemmeno senso domandarselo perché non c’è, in questo tipo di architettura, alcuna figurabilità (imageability) e quindi nessun riferimento, anche lontano, alla natura e alla figura umana. Pensare che Bernini ha scritto del Borromini: "non fonda le proporzioni sul corpo umano... ma sulle chimere"!

E viene a proposito un bell’articolo su Il Foglio di sabato scorso scritto da Roberto Persico su un libro di Clive Staples Lewis, Quell’orribile forza, Adelphi,1999, che Persico definisce “una celebrazione della bontà della carne e della vita quotidiana”. C’è un brano che ha attinenza con l’argomento:
Il programma per la distruzione del «sistema delle preferenze istintive» prevede a un certo punto il soggiorno in una stanza in cui tutto, proporzioni, colori, quadri alle pareti, è strano, storto, squilibrato: l’allievo deve imparare che le vecchie prospettive a cui è abituato o queste nuove sono equivalenti. Ma proprio qui avviene la svolta: «Dopo circa un’ora, quella bara alta e stretta che era la stanza cominciò a produrre su Mark un effetto che il suo istruttore forse non aveva previsto. Come il deserto insegna per la prima volta ad amare l’acqua, o come l’assenza rivela per la prima volta l’affetto, su quello sfondo sgradevole e distorto si sovrappose una visione di ciò che è dolce e retto. A quanto pare esisteva davvero qualcos’altro - qualcosa che egli definì vagamente il Normale. Non ci aveva mai pensato prima, e invece eccolo lì – solido, massiccio, con una propria forma, simile a ciò che si può toccare o mangiare o di cui ci si può innamorare. Era un miscuglio di Jane, di uova fritte, di sapone, di sole, di corvi gracchianti a Cure Hardy, e del pensiero che fuori di lì, da qualche parte, in qualsiasi momento, c’era la luce del giorno». E Mark prende la sua decisione: «Sceglieva la parte con cui schierarsi: il Normale. Se il punto di vista scientifico conduceva lontano da tutto quello, al diavolo il punto di vista scientifico!».

Contro una visione anoressica dell'architettura, e soprattutto dell'umanità, questa foto:



Pietro Pagliardini

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7 giugno 2008

CIRO LOMONTE SUL GENIUS LOCI CRISTIANO

Dall’amico Ciro Lomonte, architetto palermitano, ho ricevuto la recensione del seguente libro: Frédéric Debuyst, Il genius loci cristiano, Sinai, Milano 2000, pp. 111, €18.50, che posto con grande piacere.
Il tema è l’architettura sacra, di cui Ciro Lomonte è profondo ed apprezzato conoscitore e teorico e su cui ha scritto e pubblicato articoli su diversi siti internet e riviste, tra cui Il Covile, curato da Stefano Borselli, il Domenicale, direttore Angelo Crespi, e molti altri, dei quali allego di seguito una selezione di link, oltre a tenere conferenze e lezioni, l’ultima delle quali questa settimana a Roma presso l’Accademia Urbana delle Arti. Come architetto ha curato numerosi adeguamenti liturgici.

Note biografiche di Ciro Lomonte
Il Covile: L’ornamento architettonico dopo il diluvio, di Ciro Lomonte - 1998
Il Covile: Architettura sacra contemporanea: religione o nichilismo? di Nikos Salingaros - Cura linguistica di Ciro Lomonte
II Domenicale: Perché le chiese moderne sono brutte, di Ciro Lomonte
Ridisegno dell’area presbiteriale nella Parrocchia di Maria SS. Immacolata - Sancipirello(PA), di Ciro Lomonte
Architettura Moderna: Ciro Lomonte presenta Nikos Salingaros

Nell’architettura sacra si misura, meglio che in altre tipologie specialistiche, la distanza che separa l’architettura moderna da quella tradizionale e la differente scala di valore e di valori tra le due.
Se è vero che per fare il progetto di una chiesa cattolica occorre una profonda conoscenza della liturgia, della sua evoluzione nella storia, che continua sino ai giorni nostri, e del diverso significato che essa assume in relazione a interpretazioni dottrinali, è altrettanto vero che la percezione dello spazio sacro è esperienza comune a tutti gli uomini, credenti e non, e chiunque apprezza la grande differenza che corre tra l’emozione di entrare all’interno di una qualsiasi chiesa storica delle città italiane ed europee rispetto e quella che si prova in una qualsiasi chiesa moderna o contemporanea le quali, con rare eccezioni, potrebbero essere utilizzate indifferentemente come palestre, auditorium, sale convegni.
L’edificio chiesa è un luogo speciale, denso di molti significati che Ciro conosce bene e che sa magistralmente trasmettere.

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Ciro Lomonte

Secondo gli antichi romani ogni luogo, naturale o artificiale che fosse, era protetto da una specie di nume tutelare. La credenza pagana nel genius loci è riconducibile a quell’aura peculiare che rende unici molti contesti. A tale fenomeno si riferisce un’opera di Christian Norberg-Schulz (Genius loci. Paesaggio, ambiente, architettura) apparsa nel 1979 e divenuta subito importante nell’ambito del dibattito architettonico contemporaneo. Il genius loci, lo spirito del luogo, sarebbe la sua identità perenne, caratterizzata da orientamento, riconoscibilità e carattere. L’autore norvegese indaga i rapporti tra l’architettura e l’ambiente e, più in particolare, le implicazioni psichiche ed esistenziali dell’abitare.

Debuyst, teologo e liturgista, restringe il campo di osservazione a chiese e monasteri. Il benedettino belga individua le proprietà specifiche dell’autentico luogo cristiano nelle domus ecclesiæ del III-IV secolo e nell’aggregazione di semplici case tipica dei monasteri, ben inseriti nella natura. Considera pertanto spurie tutte le architetture monumentali, in cui predomini la decorazione oppure un linguaggio troppo individualista (nel caso dell’architettura moderna). Risulta un po’ misterioso l’apprezzamento di Debuyst per le basiliche paleocristiane, che hanno assunto l’aspetto di case disadorne e spoglie a lui tanto caro soltanto dopo i pesanti restauri subiti nell’Ottocento e nel Novecento.

L’autore mostra grande interesse per le chiese di Emil Steffann e per l’opera del grande teologo italo-tedesco Romano Guardini, che anticipò la Riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Guardini ispirò la sistemazione del castello di Rothenfels sul Meno, il grande centro della Gioventù cattolica tedesca di Quickborn. Il restauro venne completato nel 1929 dall’architetto Rudolf Schwarz, insieme ai suoi amici del Bauhaus. L’amore per il rigore e la scarnificazione da ogni ornamento, criteri propri della scuola diretta da Gropius, guidarono le scelte relative sia all’edificio che all’arredo.

Debuyst continua la sua analisi fino ai giorni nostri, sottolineando la qualità di alcune architetture moderne (abbazia di Mount Angel, nell’Oregon, di Alvar Aalto; monastero di Clerlande, in Belgio, di Jean Cosse; ecc.) e i difetti di altre (per es. il convento di La Tourette, opera famosa di Le Corbusier).

Le opinioni del monaco belga suscitano numerose perplessità. Il nocciolo della questione è la riconoscibilità di un luogo cristiano. Dato che la fede cattolica è fondata nella storia, scritta da Dio e da uomini in carne ed ossa, essa richiede un’arte narrativa. La decorazione simbolica ha questa ragion d’essere, non è questione di monumentalità. Nelle architetture esaltate nel libro non è affatto netta l’identità cristiana, tant’è che sarebbe facile sostituire la loro funzione religiosa con una civile.

Il genius loci cristiano di Debuyst corrisponde ad un gusto minimalista per l’austerità e il nascondimento nel contesto, ma non è condiviso universalmente. Peraltro egli sembra non rendersi conto che il barocco di Borromini è molto più semplice e rigoroso del razionalismo di Steffann. Se il genio del luogo è muto oltre che invisibile, chi ne può percepire la presenza? Un nume neopagano, come quelli prodotti dal Bauhaus, è silenzioso perché non esiste non perché immateriale. Se invece il genio è l’angelo posto a guardia di un luogo reso sacro dall’iniziativa di Dio, allora ha molte cose da annunciare ed è veramente un genius loci cristiano.

È vero che in certe chiese riccamente decorate l’abitudine confonde lo sguardo, che può disperdersi nei dettagli perdendo di vista l’essenza della preghiera. Ma la soluzione è forse quella di eliminare del tutto l’ornamento? Non possiamo dimenticare che l’amore si nota nei particolari, anche nel caso dell’arte e della liturgia.
Qualche dubbio nasce, infine, sull’uso improprio nel volume del termine frate al posto di monaco, forse dovuto alla traduzione dal francese.

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