Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


28 febbraio 2011

GREGOTTI E LE VERDI ARCHISTAR

E’ una piacevole sorpresa l’ultimo articolo di Vittorio Gregotti sul Corriere della Sera, Le ipocrisie verdi delle archistar.
Prima di tutto per lo stile con cui è scritto, ironico, direi beffardo, molto chiaro e diretto, contrariamente al suo modo consueto di scrivere piuttosto involuto e criptico. Ha tenuto, sì, a far sapere di conoscere Heidegger, ma per fortuna ha avuto il buon gusto di risparmiarcelo. Si vede proprio che questa volta aveva da dire qualcosa di veramente importante che gli usciva dai denti.
Intanto prendiamo atto che oggi dare dell’archistar ad un architetto è diventata quasi un’offesa. Se fosse vero anche in piccola parte, e probabilmente è vero, non sarebbe tanto importante lo svilimento dell’appellativo in sé quanto dei suoi presupposti, cioè del fatto che l’atteggiamento da profeti non solo dell’architettura ma anche della società, dei suoi costumi e perfino della sua economia (vedi il falso “effetto Bilbao”) vacillerebbe non poco. E sarebbe l’ora che gli architetti tornassero a fare gli architetti, almeno quelli che possono, e non i falsi profeti e/o i portavoce dei grandi gruppi editoriali, finanziari e di potere. E sarebbe anche l’ora che tornassero a farlo meglio il loro mestiere, progettando per la città e per se stessi e non per se stessi e basta.

Gregotti, in fondo, nel suo articolo dice esattamente questo, ironizzando sul lato modaiolo eco-bio-compatibile-sostenibile dell’architettura spettacolo ma anche di quella più comune, cui quella spettacolo fa ovviamente da trailer e da spot pubblicitario.
Che dire, ad esempio, delle case prefabbricate in legno, di chiara origine nordica e trentina, che adesso sembra vadano bene per il caldo, per il freddo, per il terremoto e perfino per il paesaggio italiano? Non è forse un sistema smaccatamente lobbistico di far passare un prodotto che andrà bene in Trentino ma che per certo nel 95% del territorio antropizzato italiano è roba da baracche provvisorie o da giardino?

Gregotti colpisce la punta dell’iceberg, quella visibile. Colpisce la banalità del bosco verticale con la parabola della sua vecchia zia (davvero un Gregotti così spiritoso e familiare è sorprendente), o dell’EXPO 2015 che salverà il mondo dalla fame probabilmente con una bella operazione edilizia a fine esposizione.
I suoi strali si appuntano sull’architetto Boeri, per concludere con una puntatina su Rem Koolhaas, ma molti altri, noti e meno noti, potrebbero essere al centro della sua attenzione. Non c’è infatti progetto che non venga veicolato e decantato per le sue qualità di sostenibilità ambientale; per i grattacieli in specie - la tipologia più anti-ecologica, consumistica, energivora (oltre che anti-urbana) che l’uomo abbia mai inventato – la prima cosa che viene detta, quasi a mettere le mani avanti, è che sarebbero sostenibili, autosufficienti, addirittura, e amenità del genere.

Capisco che è un articolo di giornale, per cui Gregotti ha dovuto sintetizzare alcuni concetti, e l’ha fatto egregiamente, però non sarebbe male che, magari in un futuro, appuntasse la sua attenzione sulla vera e unica sostenibilità dell’architettura e dell’urbanistica, e cioè quella che si ottiene con un progetto che non sprechi territorio libero, che non tema la densità edilizia e non chieda come in un mantra “il verde” per giudicare la qualità di un insediamento, che densifichi gli insediamenti esistenti realizzati nella logica dei lotti senza relazione tra loro e con la strada, anzi senza strada, che utilizzi materiali tradizionali e il più possibile locali, con il doppio vantaggio di risparmiare nei trasporti e di costruire in armonia con la tradizione dei luoghi.

Non basta ironizzare sull’ambientalismo lobbistico e bugiardo, ma un architetto del calibro di Gregotti dovrebbe inquadrare il problema con una visione più ampia e proporre una alternativa ad un problema reale, quello dei consumi e dei costi energetici, proprio in questi giorni tornati di grande attualità.
Una città compatta e fortemente costruita, dove il pieno prevalga sul vuoto, con tutte le funzioni presenti e mescolate, gerarchizzate in senso verticale e non separate in senso orizzontale, riduce fortemente la necessità di trasporti meccanici, non solo, e forse non tanto, per gli spostamenti casa-lavoro, quanto per tutte le altre innumerevoli quotidiane attività urbane che, viceversa, in una città diffusa e divisa in aree funzionalmente omogenee costringono all’uso continuo dell’auto: accompagnare i figli a scuola, fare la spesa, spostarsi da un ufficio all’altro, andare dal dentista, pagare l’assicurazione, andare in banca o alla posta o in palestra, perfino a fare due passi per incontrare qualcuno.

Certamente in una grande città metropolitana i problemi si pongono in maniera più problematica e perfino drammatica, e il sistema della mobilità è più complesso e richiede un forte intervento di infrastrutture pubbliche, ma è assurdo ed insensato, una vera vergogna dell’urbanistica ortodossa, come la chiama Jane Jacobs, che nella stragrande maggioranza dei piccoli e medi centri urbani di cui è composta l’Italia ci si debba trovare nelle medesime condizioni delle aree metropolitane.
In queste realtà è possibile e indispensabile proporre e agire di conseguenza. Ritornare alla città, una bella frase, un concetto tutto sommato semplice da comprendere, è l’unica soluzione possibile. Ma è così semplice, almeno concettualmente, che evidentemente viene ritenuto non adatto alla complessità delle soluzioni che deve proporre un architetto, visto che tutto continua ad andare nella direzione opposta. Tutto continua come prima, con rigide zonizzazioni e classificazioni di aree, addirittura di edifici, per funzioni, l’attenzione è puntata sempre sulla funzione, sul “cosa collocare in quel luogo”, con una occhiuta, illiberale e dirigistica velleità di decidere non solo "ciò che" ma anche "dove" serve alla società. Se lasciassero decidere alla legge del mercato, alla libera iniziativa, questa saprebbe esattamente ciò che serve, e quindi rende, e ciò che è superfluo, e quindi è improduttivo.

Eppure la risposta dovrebbe essere una sola: un pezzo di città!
Invece si producono rigide classificazioni, norme sulle distanze che impediscono ogni intasamento dei lotti e ogni ristrutturazione urbanistica che ridisegni intere aree delle periferie, l’attenzione "eco" puntata sempre e comunque sul singolo manufatto, sull’oggetto, sulle soluzioni tecnologiche, senza uno sguardo all’insieme, al disegno della città, l’unico che può garantire soluzioni di lunga durata e una vita urbana a misura del pedone.
C’è una straordinaria relazione tra riduzione dei consumi energetici e miglioramento della qualità della nostra vita urbana: per soddisfare la prima occorre lavorare sulla seconda.
Ecco, nei prossimo articoli di Gregotti ci aspettiamo una indicazione in tal senso: meno attenzione agli oggetti e all’architettura e più all’insieme e alla città, la vera emergenza per la cultura degli architetti.

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24 febbraio 2011

PASSATISMO CONTRO MODERNO-NON-MODERNO

Questo post è in stretta relazione con il suo omonimo nel blog Archiwatch di Giorgio Muratore, scritto da Giancarlo Galassi, allievo di Gianfranco Caniggia, e alla sua lettura rimanda per una comprensione dell'argomento. Avverto che per leggere l'originario post è necessario scaricare un file di word.
Quello che segue è il commento, che io ritengo conclusivo dell'argomento, non una volta per tutte ma certamente in ordine alle argomentazioni oggetto del post stesso e di alcuni suoi commenti, scritto da memmo54 che mi ha autorizzato a pubblicarlo. Ringrazio anche Giorgio Muratore, a cui non ho chiesto il permesso, ma ho presunto che me lo avrebbe dato e comunque sono certo che non mi denuncerà per questo.
L'argomento è la proposta di ricostruzione di parte di un isolato in Via Giulia, a Roma, e nasce da un numero speciale de Il Covile a questo dedicato e che invito a scaricare e leggere.
Le premesse sono sinteticamente queste:
-il prof. Paolo Marconi viene invitato dal Comune di Roma a presentare una proposta metodologica di ricostruzione per l'area di Via Giulia;
- Marconi risponde con una ricostruzione filologica;
- il progetto non è condiviso dall'ufficio del centro storico e Alemanno invita sette architetti più o meno famosi a presentare altre proposte;
- tutti e sette gli architetti rifiutano il restauro filologico e presentano progetti "contemporanei";
- nel frattempo, però, gli studenti dell'Università di Notre Dame, guidati dal prof. Ettore Maria Mazzola avevano da tempo studiato l'area, producendo alcune soluzioni redatte da gruppi di studenti;
- il Sindaco decide di far scegliere i cittadini, limitando però la scelta solo ai progetti dei sette architetti "moderni" e non quello del prof. Marconi, tanto meno quello della Notre Dame.
Da questa palese manifestazione di pensiero unico nasce il numero de Il Covile e il conseguente post di Giancarlo Galassi su Archwtach.
Non voglio ripetere la mia ammirazione per il testo di memmo54, già espressa su Archiwatch, per non farla troppo lunga.

Il commento di memmo54:

Del sito conosciamo benissimo quanto demolito; meno bene le case romane che v’erano sotto. Non sappiamo se fossero domus, insulae o cos’altro. Lanciani non me ne da notizia: riporta solo alcuni tratti di strada romana su vicolo del Malpasso.
Dovendo procedere ad un progetto e/o restauro, sinonimi anche nel nostro caso, e nell’incertezza forse è più utile raccogliere le indicazioni, attendibili, più recenti : potrebbe anche essere una rifusione matura di celle primitive.

Comunque quanto demolito aveva senso compiuto ed era in sintonia con tutto il costruito dei pochi millenni trascorsi. Credo, sinceramente, che tutti l’abbiano ben presente.
Lo era per tipologia o derivazione tipologica; per tecniche, per materiali e per quel linguaggio epidermico, con cui confrontarsi inevitabilmente, che turba i sonni, lo sospetto, a più di un addetto ai lavori.
La tipologia, nel senso più esteso, è sicuramente una chiave di lettura ineludibile. Ma pur sempre “una” lettura e sarebbe riduttivo ed ingenuo derivarne tutto il progetto, a meno che una schiera di scatoloni di vetro o cls posti a schiera possano essere gabellati per romani purchè abbiano volumi e bucature al posto giusto.
La tradizione, nel suo fenomeno più radicale qui denominato passatismo, è comunque cosa complessa.
Così come complessi sono anche i materiali, le tecniche, il linguaggio: presi da soli non risolvono alcunchè non mettono al riparo da nulla.
Però quelle mostre quelle cornici quel bugnato, quei tetti, quei colori che tanto disturbano, sono parte integrante, dell’architettura e dell’universo; forse la più significativa ed immediata, la più leggibile, anche se non sempre calata nella situazione opportuna. Rimangono strumento insostituibile di comunicazione tra uomini ed architetture che sembrano, a prima vista, ignorarci ed ignorarsi.

Lo sono anche a dispetto della rigorosità e della coerenza con quanto “preordinato” strutturalmente o tipologicamente; così che in molte espressioni “genuine”, l’apparato linguistico di superficie travalica la semplicità insita, ponendosi come “sostanza” esso stesso.
Tutti concetti ovvi, banalissimi che sembra pleonastico rimarcare…ma tant’è …repetita juvant.

D’altronde il linguaggio, di qualsiasi genere lo si intenda, è “comunque” un copia ed incolla (…come si dice ora…): è, inevitabilmente, una ripetizione di esperienze passate, attimi di vita trascorsi, sedimento di generazioni e generazioni di architetti invisibili, scomparsi, sepolti: da cui dedurre, senza allontanarsi molto dal vero, che il tempo è il peggiore degli inganni; non è mai passato veramente.

Però 80 anni di civiltà industriale, ora in declino e prossima allontanarsi da questi lidi, hanno creato il deserto, nel cuore degli architetti, strappandoli dal naturale contesto, dalla vita, per consegnarli indifesi e soli a sbrigarsela ognuno col suo peccato, ad affaticarsi su indimostrabili miti, su approcci tecnico-scientifici volubili ed evanescenti, “insostenibili” sotto tutti i punti di vista.
Saremo costretti – malgrado noi, par di capire – a risperimentare il nostro passato dopo averlo superficialmente superato e dimenticato in questa febbre e frenetica incoscienza da divinità in delirio.

Il recupero potrebbe essere per molto tempo un aborto, una mescolanza infelice tra nuove comodità ed antiche miserie.
Ma ben venga anche questo modo confuso e caotico questo “passatismo”.
Tutto è meglio del tipo di architettura e di vita che la modernità impone.

Saluto
memmo54

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13 febbraio 2011

LETTERA A MASSIMILIANO FUKSAS

Quella che segue è una lettera aperta a Massimiliano Fuksas, quasi lo conoscessi, anzi, quasi fossimo amici. La forma epistolare è solo un espediente retorico che dovrebbe rendere più immediata e digeribile l’esposizione di qualche pensiero. Non lo conosco invece, e dunque non posso essere suo amico, né potrei esserlo, credo, anche se lo conoscessi. Non certo per la diversa collocazione politica, che questa non mi è affatto di ostacolo con altri amici reali, e neppure per l’oggettivo abisso professionale che ci separa, che anzi io sono sempre affascinato da chi è riuscito a raggiungere il successo, essendo convinto che questo è il frutto di una forte componente di merito individuale, in dosi variabili da caso a caso, naturalmente, ma per aspetti squisitamente caratteriali, almeno da quel poco che ho potuto intuire dai suoi interventi televisivi e giornalistici.
Diciamo che certi suoi atteggiamenti un po' ribaldi, pur risultando talora anche divertenti nella loro estemporaneità e (apparente?) genuinità, quella sua ingenua sicurezza di rappresentare sempre la parte giusta, l’unica naturalmente, confliggono con la mia timidezza nei rapporti personali che mi impedirebbe di mettermi al centro del mondo. Forse è anche la sua imponente figura da austero busto di antico romano ad accentuare una sua certa (apparente?) prosopopea, stemperata, per fortuna, dal forte contrasto con non rare sue iperboliche e improbabili affermazioni apodittiche (famosa quella su Cicerone, cui indubbiamente assomiglia), che contribuisce ad umanizzarlo e a renderlo simpatico.


Avrei potuto recentemente confermare queste mie impressioni andandolo ad ascoltare, e vedere, di persona ad Arezzo, essendo egli intervenuto alla presentazione di un suo libro, che ahimè non ho letto, ma si sarebbe svolta di sabato alle 21,00 e non me la sono sentita di rinunciare ad una tranquilla cena tra amici e di costringermi ad ingoiare qualcosa di corsa, come si fosse trattato di un giorno di lavoro qualsiasi. Alla prossima occasione.

*****
Caro Max
Ho letto su L’Espresso di questa settimana un tuo articolo dal titolo: “Dimenticare Bilbao”. Già dal titolo ho istintivamente peccato di vanità, lo ammetto, masticando tra me e me: “Mi hai fregato l’idea. Hai letto il mio post e te ne sei appropriato. Almeno, da amico, avresti potuto citarmi. Una citazione fatta da te mi avrebbe lusingato assai. Avresti potuto fare un piccolo accenno al fatto che ne abbiamo parlato insieme più volte, se proprio non volevi nominare il blog che, effettivamente, non è proprio schierato dalla tua parte”. E’ seguita una espressione a denti stretti che tralascio di scrivere per educazione.

Leggendolo per intero, poi, quella prima impressione si è anche irrobustita, perché l’articolo parlava anche d’altro e l’effetto Bilbao non è che ci azzeccasse molto, espressione questa cara ad un tuo amico che però non ci è comune, e della quale amicizia io non sono mai stato geloso.
Forse non è proprio esatto dire che non ci azzeccasse, direi che non mi è risultato chiaro se volevi parlare della fine dell’effetto Bilbao, e hai colto l’occasione di farlo con un progetto di Gehry che io non conosco, e del quale tu sembri apprezzare una certa, nuova e insolita sobrietà, oppure se volevi solo parlare del progetto di Gehry e ci hai infilato en passant la fine dell’effetto Bilbao perché l’avevi appena letto sul blog e non volevi perdere l’occasione per andare in testa al gruppo, come si conviene ad un campione.

Ripensandoci, poi, ho capito che era solo la mia immodestia ad avermi fatto immaginare una cosa del genere, e che tu non hai certo il tempo di spippolare troppo in internet, tanto meno di perderlo con il mio blog del quale conosci l’esistenza, perché te l’ho detto qualche volta, ma non sono affatto sicuro che tu lo abbia mai aperto.
Certamente tu sei sempre in giro per il mondo a seguire i tuoi progetti e penso che durante i viaggi tu sia indaffarato a riguardare relazioni, preparare gli incontri, documentarti sugli stati di avanzamento, ecc. Al più, in aereo, puoi prendere ispirazioni dall’oblò per una nuova nuvola, o puoi schizzare qualcosa di nuovo su un libriccino di appunti, nei rari momenti di relax!
Quindi, capitolo chiuso e, trascurando improduttive e stucchevoli questioni di primazia, resta il fatto che tu accogli con soddisfazione la dichiarazione della fine di questo effetto, se mai c’è stato veramente, e, soprattutto, la proliferazione dei tanti piccoli “effetti Bilbao” su tutto il territorio nazionale. Vorrei farti osservare che ad alimentare questo stato di cose hai contribuito, e non poco, anche te, magari inconsapevolmente, che non vuol dire incolpevolmente!

Vi hai contribuito con la tua architettura, che non è che tenda proprio a mimetizzarsi e a non farsi notare, che, insomma, parla di nuvole, mica di fondazioni e di muri e di tetti, che racconta di grattacieli sul mare capaci di riqualificare tutta un’area di Savona, che disegna la città viola che mette al centro del programma non dico lo stadio, ma addirittura l’etica del calcio e l’indottrinamento, pardon, l’educazione di giovani ed adulti ad una sana visone sportiva. Magari questa forma di città etica, terribilmente autoritaria nella sua concezione, non è nelle tue intenzioni, magari è solo uno spot pubblicitario del Presidente onorario che tra l’altro ha detto: “Io mi aspetto uno stadio comodo, fresco d’estate, caldo d’inverno, dove le famiglie possano trascorrere giornate intere. Io purtroppo non ci sono spesso ma Andrea mi dice che in Europa ci sono impianti di grandissimo valore“.
T’immagini una città del calcio dove le famiglie possano trascorrere intere giornate! E’ questa la tua visione di società e di città e del modo di trascorrere il tempo dei suoi abitanti? Io credo di no, però il tuo marchio su questa idea di città-spettacolo ci sarebbe. Ma il Presidente onorario aggiunge anche dell’altro: “Non esiste niente del genere nel mondo- dice il patron viola- e ancora museo d’arte contemporanea sulla scia dello splendido Guggenheim di Bilbao, hotel delle maggiori catene alberghiere, una strada aperta ai negozianti di Firenze, aree verdi, parcheggi. Investimenti previsti: 150 milioni di euro per lo stadio, 250 per il resto”. Come vedi l’effetto Bilbao è evocato e utilizzato a piene mani.

Insomma, tu sei una riconosciuta archistar, direi anzi che sei la vera e unica archistar italiana, dato che Renzo ha, a questo punto, superato quella fase per passare direttamente e senza processo alla beatificazione per acclamazione.
Quello che fai e dici te si riverbera su una infinità di architetti che ti imitano, che assumono il tuo modo di pensare l’architettura e la città. Questa è la responsabilità che ti deriva dall’essere architetto di grande successo. Tu hai, oggettivamente, obblighi di coerenza maggiore degli altri, maggiori di tutti noi, perché sei un esempio, un modello.

Se dunque hai appreso con soddisfazione la fine dell’effetto Bilbao, della spettacolarizzazione dell’architettura e della città, dell’idea che una città possa crescere grazie ai grandi gesti dell’architetto-demiurgo e tuttologo, che si sostituisce non solo alla politica ma addirittura ai cittadini, se tutto questo è vero, come in verità io e tutti gli amici del Gruppo Salìngaros diciamo e scriviamo da tempo, abbastanza snobbati nella forma, ma piuttosto ascoltati, sembra, nella sostanza, se oltre a te molti altri si sono avvicinati, almeno nelle dichiarazioni, a concetti simili, dunque sarebbe bene che, senza snaturare o abiurare il tuo modo di fare l’architetto, anche tu ti accostassi ad una maggiore sobrietà, cioè ad una minore spettacolarità, cominciando ad allontanarti dalla filosofia dell’oggetto per avvicinarti a quella dell’insieme.

Nessuno può chiederti di rinnegare e di abbandonare l’architettura che ti ha reso famoso, nessuno può chiederti, come invece fai te quando ti occupi di politica, di esigere una moralità assoluta e una elitaria virtù da Catone il Censore, che richiederebbe una coerenza tra pensieri, parole ed opere professionalmente suicida. Io almeno, che conosco e tollero e anche apprezzo la fallibilità umana e quell’impasto di fango e spirito di cui tutti noi siamo fatti, non lo chiedo e tantomeno lo esigo da nessuno.

Solo un po’ più di quella che con abusato termine si chiama onestà intellettuale e di sobrietà sarebbe richiesta. Proprio come negli accadimenti che in questi giorni riempiono le pagine dei giornali e di cui non se ne può proprio più, naturalmente da punti di vista diversi.
Con questo auspicio, e direi incoraggiamento, ti saluto e ti invito, se trovi il tempo durante un week-end, a venirmi a trovare in rete, per scoprire magari che potresti trovarvi altri spunti di riflessione e di ripensamento.
Ciao
Pietro

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2 febbraio 2011

L'ERESIA DELLA TRADIZIONE

Pietro Pagliardini

Il termine, fuori dall'ambito religioso, viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli”. Questa è una definizione incollata da Wikipedia. E’ una delle tante possibili, essendo le più riferite all’ambito religioso. Avrei potuto anche utilizzare una di queste ultime, ma avrei corso di rischio di aprire la strada alla facile, ma fuorviante, obiezione di due “dottrine religiose" contrapposte. Ho preferito rimanere nel campo delle scienze umane perché in effetti l’eresia cui mi riferisco si inserisce in un contesto “filosofico,politico, scientifico e persino artistico” in cui sono, sì, presenti anche forme e ingredienti di tipo religioso, con i dogmi (modernità), gli integralismi (fuck the contest), i sacerdoti (Maestri e/o archistar, cioè i nuovi Maestri a livello di massa), gli adepti (praticamente tutti gli architetti) e i tribunali speciali, cioè l’Inquisizione (docenti, metre a penser, commissioni di concorso), ma la verità è più complicata e pervasiva e non è costituita da qualche conventicola segreta (come dimostra il numero degli adepti) ma da ampi settori della cultura ufficiale “generalmente accettata come autorevole” (docenti, metre a penser, commissioni di concorso).
Non c’è dubbio che l’urbanistica e l’architettura che riscopre il valore della tradizione sia trattata al pari di un’eresia. Lo si è visto bene nel caso del piano di Tor Bella Monaca di Léon Krier.


Questi viene chiamato dal Sindaco di Roma, suppongo, per studiare una proposta urbanistica capace di ridare dignità urbana ad un quartiere romano dei primi anni 80, un PEEP, uno dei tanti di quel periodo, sorti in Italia sulla spinta delle nuove leggi, la 865/71 soprattutto e la 457/78.
Due leggi dalla forte impronta ideologica nei confronti del rapporto Stato-cittadini, in cui la proprietà privata viene posta sotto tutela, assoggettata com’è ad una serie di vincoli assurdi e complicati quali convenzioni ventennali per la cessione del bene a prezzi imposti, proprietà indivisa, diritto di superficie ecc. che hanno prodotto, per districarvisi, situazioni di semi-illegalità, come sempre avviene quando le leggi sono assurde, burocratiche e liberticide, le quali tuttavia sono state utili per creare una dipendenza del cittadino-elettore nei confronti del proprio amministratore-eletto, il quale non solo favoriva l’accesso alla casa, con il contributo dello Stato, ma anche favoriva questa o quella cooperativa, questa o quella impresa, anzi, addirittura creava questa o quella impresa o “consorzi di imprese”, e trovava il modo di pilotare i così detti “bandi”, inserendovi criteri ad hoc per questa o quella cooperativa o impresa e perfino rari soggetti singoli, a garanzia formale di una legge liberale.

Il processo edilizio era quindi a circuito chiuso e copriva ogni fase del ciclo, da quello pianificatorio, a quello gestionale, a quello della produzione del bene, imperniato sulla “filosofia” della “industrializzazione edilizia”, a quello politico che ne costituiva la cornice che tutto comprendeva. Un meccanismo perfetto ed oleato, che indubbiamente è stato utile a dare una casa a molti cittadini i quali diversamente avrebbero trovato difficoltà ad averla (in molti casi è più corretto parlare “di un tetto”, in senso metaforico), ma la contropartita è stata la rinuncia ad una quota di libertà, molti compromessi con il diritto e, soprattutto, pessimi risultati per la città e il territorio.
Già, perché il sistema prevedeva anche l’offerta progettuale, la cui dottrina di riferimento accettata come autorevole era quella rigorosamente modernista caratterizzata dalla “industrializzazione edilizia”, esasperata da rigidi parametri dimensionali previsti dalla legge 457/78, il rispetto dei quali produceva automaticamente una tipologia da Existenzminimum, cui per fortuna alcuni comuni più ragionevoli ovviavano con norme interpretative più ampie che allentavano un po’ le rigide maglie ideologico-progettuali. Insomma la matematica, in questo caso la geometria, diventava fortunatamente un’opinione, come i risultati elettorali commentati a caldo; in questi casi l’italico buon senso utilizzava il bizantinismo leguleio, mettendo qualche pezza ai guasti dell’ideologia, perché le leggi basate sull’utopia non possono che produrre quella che viene chiamata illegalità.

Tor Bella Monaca è uno dei prodotti di questo mix cultural-politico: quartieri disegnati al tecnigrafo dove un ordine geometrico astratto regna sovrano, casermoni prefabbricati o semi-prefabbricati che rispettavano, con eccessi di zelo, la regola del calcolo dell’altezza virtuale (che non spiego per carità di patria e che non deve creare sensi di colpa a chi ne ignorasse l’esistenza), edifici senza nessuna relazione con le strade se non per l’ingresso ai parcheggi delle auto (dove si dimostra che l’auto è veramente nemica dell’uomo in periferia più che in centro), enormi spazi aperti secondo il dogma lecorbusieriano, ovviamente deserti in quanto ostili, pericolosi e destinati a rapido degrado e a luoghi del malaffare. Se si confronta questo insediamento con quello più “spontaneo” a ovest, oltre la strada, quest’ultimo appare come un capolavoro da libro di storia.

Ebbene questo quartiere non è recuperabile urbanisticamente per una normale vita sociale. Né giova gridare alla solita mancanza di servizi: i servizi, se ci fossero, darebbero solo un “servizio”, appunto: se in una zona come questa si costruisce una scuola significa che è stato garantito agli abitanti il loro diritto di cittadini e contribuenti di avere una scuola senza doversi sottomettere a lunghi viaggi giornalieri. Dal punto di vista urbanistico e dell’organizzazione dello spazio urbano si è semplicemente rispettato il criterio del Manuale dell’Architetto, CNR, ma la periferia è rimasta periferia e non per questo e diventata città.

Arriviamo dunque al piano di Léon Krier e alla sua eresia.
Il piano è eretico perché demolisce non solo fabbricati ma un’idea, o meglio, un’ideologia, costruita con sapienza nel corso dei decenni, secondo la logica precedentemente spiegata. Demolisce perché non può fare altro, perché quel quartiere non è recuperabile né urbanisticamente né architettonicamente. Demolisce e al suo posto sostituisce un’altra idea, ad essa opposta, la quale tuttavia, a differenza di quella attuale, non è un nuovo esperimento socio-urbanistico ma è presente, da sempre, nel DNA della città europea. Una città di strade e isolati, di piazze e non di spiazzi, di zonizzazione verticale e non orizzontale, di edifici di altezza massima di 3-4 piani e non di casermoni, con una forte densità come è denso il centro storico, e perciò eco-sostenibile, cioè moderna, in quanto, a parità di densità occupa meno territorio.
Non entro nel merito del progetto, cioè nella correttezza delle scelte fatte rispetto al luogo e alle relazioni con l’edificato esistente e con le infrastrutture, perché non conosco il luogo se non fotograficamente. Altri dovrebbero farlo. Purtroppo, salvo rari casi, tra cui un post abbastanza equilibrato sul blog amatelarchitettura, che pure lascia trasparire sotto traccia un certo snobismo per la scelta di Krier, si discute di quel progetto ideologicamente, si ritiene quel progetto un’eresia, una bestemmia gridata contro lo status quo.
Se ne critica, come con il progetto Corviale di Ettore Maria Mazzola, la scelta della demolizione, guarda caso.
Vorrei portare all’attenzione di costoro il seguente comma della legge 865/71, proprio quella di cui parlavo a inizio post:
Possono essere comprese nei piani anche le aree sulle quali insistono immobili la cui demolizione o trasformazione sia richiesta da ragioni igienico-sanitarie ovvero sia ritenuta necessaria per la realizzazione del piano”.
Ecco, qui esistono ragioni igienico-sanitarie.
Concludo con questo post tratto da Archiwatch, riferito proprio a Tor Bella Monaca:
Volete Voi una città bella pulita e seducente? …
Oppure una città di merda, piena di monnezza e fatta di oribbili casermoni? …
Inopinatamente … pare … che in molti …
abbiano optato per la prima soluzione …
La sinistra … incredula …
La destra … esulta …


Ognuno lo interpreti come vuole, ma c'è del vero.

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