Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


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22 agosto 2012

EGEMONIA DEL PARAMETRICISMO? E' COME AUSPICARE UNA EPIDEMIA!

di
Ettore Maria Mazzola


Recentemente, sul blog “amatelarchitettura.com” è apparso un articolo che intendeva far riflettere sul significato, e giustificarne l’aspetto, dell’orribile Casa della Musica realizzata da Rem Koolhaas a Porto. Questo è il link:
Cu nasci tunnu un’ pò moriri quadratu

Volendo dimostrare il fatto che i posteri arrivano sempre a dimostrare la validità di un’opera incompresa dai suoi contemporanei, l’autore del post aveva redatto una ipotetica critica scritta da un iguvino del ‘300 disturbato dalla realizzazione del Palazzo dei Consoli della sua città.
A quel post aveva fatto seguito un altro post, apparso su De Architectura, nel quale Pietro Pagliardini dimostrava l’assurdità del contenuto dell’articolo in questione. Questo è il link:
Gattapone archistar?

Ne è scaturito un acceso dibattito, provocato anche dal mio intervento, “not really politically correct”, con il quale esponevo le ragioni per cui ritenevo che Pagliardini fosse stato troppo magnanimo nei confronti dell’anonimo autore del post su Koolhaas e Gubbio.


A chiarire ulteriormente le ragioni per cui il testo su Koolhaas e Gubbio fosse fuori luogo, Pagliardini ha pubblicato un nuovo post, molto ben articolato, col quale discute di argomenti poco digeribili da parte dei sostenitori di Koolhaas & co., vale a dire se si debba svolgere la professione all’interno di regole universalmente riconosciute, oppure se sia meglio fregarsene in nome del “fuck the context”, slogan e vera e propria ragione di vita dell’architetto olandese.
Questo è il link:
Gattapone ovvero delle regole vs la casualità

Nell’articolo, stimolato dal mio commento nel quale raccontavo del mio scontro con Patrick Schumacher (teorico del “parametricismo”) in occasione di una conferenza/confronto tenutasi a Londra un paio di anni fa, Pagliardini ha parlato del modo di progettare dei cosiddetti “parametricisti”, dimostrando come, alla fin fine, il progetto venga elaborato più dal computer che dall’architetto che ne faccia uso.
La progettazione parametrica è proprio quella descritta da Pagliardini, una progettazione nella quale i presunti "schizzi" di Zaha, possono tramutarsi in "architetture" solo grazie agli “schiavetti” in grado di gestire il software, adattando il modellatore CAD affinché esca fuori qualcosa che assomigli allo scarabocchio iniziale … un po’ pochino per essere considerati delle archistars!
Generalmente infatti, queste archistars non sanno nemmeno come il loro progetto sia venuto fuori, e gli ingegneri che (come nel caso del MAXXI) sono riusciti a farlo stare in piedi, resteranno degli illustri sconosciuti pur essendo i reali realizzatori dell'opera.
Vale a dire che tutti quei sindaci, affamati di fama, che spendono una barca di soldi pubblici per portare nelle “loro” città la griffe dell'archistar di turno, portano nel “loro” territorio il lavoro di un computer passato attraverso le dita di qualche giovane “smanettatore” (magari sottopagato perché sta facendo esperienza!) che resterà sempre ignoto all’umanità.

Agli architetti incapaci – come Zaha e Patrick Schumacher – di progettare in maniera rispettosa della tradizione, ovvero quegli architetti che condannano chi lo faccia di falsificare la storia, o di essere passatisti, non comporta alcun senso di colpa realizzare opere che, oltre a non essere state disegnate da loro, risultano anche essere il clone di porcherie similari.

Questo modo di progettare porta infatti a delle “opere” che sono il risultato dell'uso di softwares che lavorano per modelli precostituiti … ecco il perché il MAXXI e l'obbrobrioso museo di Liverpool sembrano essere usciti dallo stesso stampo!

In pratica, siamo davanti ad un modo molto facile per potersi sentire architetti, anche se si è incapaci di progettare, è la legge parassita della nostra società, una società basata sul principio del "massimo del guadagno con il minimo dello sforzo".
... Forse Schumacher intendeva questo quando ha affermato che il "parametricismo" sarebbe divenuto la "tradizione egemone" ... le colonie di parassiti infatti, come le cellule cancerose, quando vengono ad “avere la vita facile”, si moltiplicano a dismisura a danno delle cellule sane e, se non si provvede a fermarle in tempo, finiscono per distruggere ciò che le circonda!
Mi dispiace per l'orrendo paragone finale, ma ogni tanto è necessario arrivare a tanto per portare la gente a riflettere!

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30 luglio 2012

LA MORTE DELLA CULTURA URBANA

Si può sempre apprendere qualcosa da altri popoli, da altri gruppi e farlo proprio, ma ogni sistema culturale integra comportamenti estranei soltanto se questi non sono in contraddizione con il modello di base , se non ne altera la “forma” significativa. Gli studi compiuti dai maggiori antropologi in questo campo sono ormai dei classici, impossibili da mettere in dubbio. Da Boas a Kroeber a Benedict a Mead a Malinowsky a Leroi-Gourhan, non c’è chi non abbia dedicato la maggior parte delle sue ricerche a scoprire e verificare il funzionamento del “sistema significativo” che sostiene ogni modello culturale.
Il risultato è sempre lo stesso, e non avrebbe potuto non esserlo visto che la “cultura” è il fattore naturale che contraddistingue la specie umana e ne guida i comportamenti. Ogni modello culturale possiede una “forma”, nel senso gestaltico del termine, e rigetta perciò gli elementi estranei non compatibili, in analogia con il sistema immunitario di sorveglianza e di identificazione con il quale li rigetta l’organismo biologico. Non appena, quindi, viene meno la reazione di rigetto e il sistema comincia a lasciarsi invadere da elementi appartenenti a sistemi diversi, inizia il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come “etnologico”: segnale di pseudo vita, di “vita morte”….”
.


Questa è una parte del testo con cui Ida Magli, nel suo atroce ma rivelatore libro Dopo l’Occidente, BUR, descrive il metodo attraverso il quale modelli culturali appartenenti a sistemi diversi entrano in contatto tra di loro e come uno di essi può soccombere fino ad estinguersi.

Non sono l’architettura e l’urbanistica al centro dell’attenzione del libro, essendo invece un grido di dolore con poche speranze sulla fine dell’Occidente e della sua cultura secolare, ad iniziare dall’Europa, l’anello più debole della catena, ma i richiami all’arte, all’architettura, alla storia, alla letteratura, al pensiero filosofico europeo e a quello italiano in particolare sono frequenti ed accorati perché i popoli d’Europa si risveglino ed evitino l’estinzione, minati come sono da una cultura di morte per avere perso ogni legame con la tradizione, con il proprio passato, con i legami familiari, con la propria religione, con tutto il suo patrimonio culturale, con il comune buon senso.

Non si occupa di città Ida Magli ma, pur non essendo certo io esperto di antropologia, come pensare che la città, come tutti gli insediamenti umani, non faccia parte del patrimonio culturale dei popoli, se è vero che la città è l’ambiente creato dall’uomo per potervi sviluppare tutti i propri rapporti sociali? Si può dire che la città è il luogo della società. E allora come non osservare i cambiamenti che le città hanno avuto negli ultimi cento anni, e nel nostro caso negli ultimi sessant’anni, grazie ad un “modello culturale” ad essa prima estraneo e di “forma” completamente diversa e volutamente a quello opposta!

L’annientamento della strada, prima di tutto, con la perdita delle sequenze spazio-temporali di quel continuum che era la città precedente, a vantaggio di uno spazio sincopato e frammentato, disegnato esclusivamente per il mezzo meccanico, per l’auto soprattutto, e costituito da zone tra loro separate e ciascuna monofunzionale e super specializzata.
La perdita quindi della ricchezza delle relazioni umane, della varietà delle azioni da compiere nell’arco dell’intera giornata.
La perdita della scoperta continua di situazioni e della possibilità di azioni diverse che accadono nell’arco spazio-temporale di qualche centinaio di metri e della stessa giornata, una variazione dei rapporti umani improntati alla regola della “uniformità nella diversità”, al pari delle abitazioni dell’edilizia di base, ciascuna con le medesime caratteristiche tipologiche eppure ognuna morfologicamente diversa dall’altra per la variazione di pochi elementi architettonici.

Cosa ha a che vedere una città-organismo in cui ogni parte è in relazione al tutto e dove l’insieme delle varie parti è ben più della somma delle stesse, con un modello frammentato, esploso, splittato in cui le singole parti sono relazionate alle altre solo con strade adatte alle automobili, impraticabili a piedi, e dove l’insieme, l’organismo, non esiste perché ogni parte funziona (male) separatamente dall’altra?

Cosa ha a che vedere un modello di città denso caratterizzato dalla pluralità di funzioni, dalla prossimità, intesa in senso spaziale, funzionale e simbolico, con un modello in cui ad ogni zona corrisponde una sola funzione e per assolvere a più funzioni nell’arco della giornata è necessario spostarsi con il mezzo meccanico? La prima città in un certo senso si muove con il cittadino, perché il suo fluire continuo ti accompagna ovunque; la seconda è immobile e gli abitanti devono spostarsi in massa da un luogo all’altro: se si bloccano gli spostamenti in auto, la città non funziona più, si paralizza. Paradossalmente i due estremi ingorgo-blocco del traffico producono lo stesso risultato: la paralisi della vita urbana.

Cosa ha a che vedere un modello di città caratterizzata da fronti continui che racchiudono la strada, lungo la quale si sviluppa la vita di relazione, con quello di una somma di edifici scollegati tra loro, tenuti insieme da vuoti informi, da verde di tutti e quindi di nessuno e/o da parcheggi, entrambi destinati presto a diventare luogo di degrado?
Il secondo modello, totalmente estraneo e diverso dal primo, è figlio di una cultura diversa, immessa a forza nel sistema culturale esistente da una macchina propagandistico-culturale straordinaria, che si è impadronita di quella precedente, ma ha iniziato “il suo itinerario verso l’estinzione e manda il tipico segnale che l’antropologo percepisce come etnologico”, cioè quello di una cultura morta. Questo fenomeno è già certamente avvenuto nella mente degli architetti, cioè di coloro che insieme alla politica, al mondo accademico, ai media avrebbero avuto il compito di capire in tempo cosa stesse accadendo e di porvi rimedio. Ma così non è stato e così non è tuttora, anche se vi sono segnali, deboli e incerti che vanno nella direzione opposta.

Segnali confusi però in mezzo a molti altri segnali, non sbagliati in se stessi, ma il cui forte rumore mediatico finisce per coprire i primi:
• la "smart-city", sistema tecnologico fors’anche utile, ma di secondo o terzo livello, solo software, quando la città invece è hardware, è forma delle varie parti relazionate tra loro. Una città funziona se la sua forma è giusta e i sistemi tecnologici sono utili supporti che, da soli e in presenza di una forma non idonea, poco o niente possono risolvere. Al pari di una abitazione, in cui ciò che conta è il tipo, gli spazi interni che la definiscono, la materia con cui è costruita, non gli impianti, avanzati quanto si vuole, ma che possono essere cambiati o migliorati in ogni momento.
•la città “sostenibile” o “green”, concetto generico entro cui ci sta tutto e il suo contrario. Non è certamente sostenibile per la sola presenza di un po' fotovoltaico, è sostenibile se il risparmio energetico deriva dalla sua forma, cioè se è pedonabile non per decreto del Sindaco ma perché è compatta ed è possibile accedere alla gran parte delle funzioni di uso quotidiano senza la necessità dell’auto.

In questi segnali non è difficile leggere il marchio delle lobbies industriali e commerciali che hanno tutta la convenienza a lasciare le cose come stanno, cioè a conservare la morta città attuale, per vendere i loro prodotti salvifici. Il mondo della cultura urbanistica non deve lasciarsi distrarre da queste idee, continuamente e ossessivamente veicolate dai media, che allontanano la ricerca della soluzione, per cadere ancora una volta nella trappola tecnicistica, dopo quella dello zoning che favoriva prima e adesso obbliga all’uso esclusivo e massiccio dell’auto.

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31 maggio 2012

L'IMCL DI PORTLAND PREMIA IL BORGO CORVIALE DI E.M.MAZZOLA

Questa è dunque la prima accusa che noi formuliamo contro di voi: l’iniquità dell’odio vostro per il solo nome di tradizionalista. Quella stessa ragione che sembra scusare la vostra iniquità, in realtà l’aggrava e la refuta: voglio dire l’ignoranza. Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano, anche se è meritevole di odio? Essa non merita il vostro odio, se voi non sapete che lo meriti. Se la conoscenza di ciò che essa meriti fa difetto, come difendere la fondatezza di un odio, che non può essere provato dal fatto, ma dalla intima conoscenza? Quando gli uomini odiano perché ignorano quale sia l’oggetto del loro odio, non può allora darsi che esso sia tale da non meritare d’essere odiato? Così dunque noi contestiamo ambedue le cose, e l’una con l’altra, la loro ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.

Questo splendido e incalzante atto di accusa è tratto dall’Apologeticum di Tertulliano, ma con l’introduzione, da parte mia, di una pesante e strumentale mistificazione: al posto di “tradizionalista”, nel primo periodo, l’oggetto dell’odio cui l’autore si riferisce è il “cristiano”.


Intanto è bene chiarire che non voglio apparire per quello che non sono, cioè Umberto Eco, ma devo solo ringraziare la lunga serie economica del Corriere della Sera (1 euro) di classici greci e latini della BUR.

Certo che, fatte le dovute proporzioni, l’ostracismo da parte del mondo accademico e della cultura urbanistica dominante del nostro paese nei confronti di chi si occupa di architettura e urbanistica tradizionale, nell’insegnamento come nella professione, presenta caratteri qualitativamente analoghi e congruenti con quelli del brano: l’odio preconcetto nei confronti di ciò che non si conosce e/o non si vuole conoscere e riconoscere. Si è mai visto un concorso di architettura non dico vinto, ma che abbia presentato nella rosa di premiati o segnalati almeno un progetto ispirato alla tradizione o alla classicità? Niente sforzi, non lo trovereste. Ho sempre pensato invece che, in assenza di un pregiudizio ideologico, in un concorso non dovrebbero essere premiati progetti sostanzialmente uguali o dello stesso genere, come invece accade, ma, tra quelli meritevoli, una gamma di soluzioni proposte, una selezione rappresentativa di varie idee e tendenze. Questo dovrebbe essere lo scopo di un concorso: esaltare le differenze, oltre che premiare il progetto migliore. Così non è. In Italia però, perché altrove invece la situazione è molto diversa.

E così accade che un progetto di rigenerazione urbana in cui al posto di un “gratta terra”, quale il Corviale a Roma, ha ricevuto un prestigioso premio negli USA, a Portland, Oregon, da parte dell’International Making Cities Livable. Il progettista è naturalmente l’amico Prof. Arch. Ettore Maria Mazzola.

Non sarò io a raccontare i dettagli della 49th International Making Cities Livable Conference on True Urbanism: Planning Healthy Communities For All & Exhibit on Successful Designs For Healthy Inclusive Communities, durante la quale è stato presentato il progetto da Mazzola ed è stato consegnato il premio, perchè non c’ero.

C’è invece il link al resoconto che mi ha mandato E.M. Mazzola, che offre un quadro più ampio del contesto in cui il riconoscimento si è inserito.

Io ho linkato un video e, soprattutto, insisto su questa palese contraddizione che dimostra il chiuso provincialismo accademico di casa nostra: c’è un progetto diverso, assolutamente diverso da quelli che generalmente circolano nelle riviste (quali non saprei, dato che oramai sono tutte scoppiate sotto il peso di internet e della loro noiosissima ripetitività) o in internet o nelle varie sagre dell’architettura dove invece che la porchetta si espongono progettifici industriali in serie; ammetto, come fa Tertulliano, che questo progetto possa anche essere “meritevole di odio” ma perché non mostrarlo, non cercare di capirlo? “Che cosa infatti di più iniquo per gli uomini dell’odiare una cosa che ignorano”.


Se si è così sicuri che esso progetto, una volta conosciuto, divulgato, reso pubblico, diventato oggetto di discussione, sarà disprezzato dai più, perché allora ignorarlo, non volerlo conoscere, tenerlo nascosto? Quanto più grande sarebbe la vittoria una volta che il giudizio sul progetto fosse unanimemente negativo in quanto consapevolmente e criticamente riconosciuto come sbagliato, non adeguato, peggiore addirittura di ciò che vuole andare a sostituire!

Invece….niente, non accade niente. Il metodo prevede il silenzio e il disconoscimento della esistenza stessa di quel progetto. Possibile che, tra le tante cazzate (unico termine adeguato al caso) che non lasciano tracce di sé tra quelle che si presentano in convegni, seminari, mostre, lezioni universitarie, mai una volta che un progetto diverso come quello del Borgo Corviale non possa trovare un perfido critico o docente che se la senta di sputtanarlo pubblicamente invitando il suo autore? Sarebbe una grande soddisfazione, per il perfido critico, ovviamente. Non è forse degno quel progetto, almeno per la sua veste grafica, di mettere piede nel sacrario di un’aula universitaria?

Sia chiaro, E.M. Mazzola non ha bisogno di entrare in un’aula dell’Università pubblica italiana per dimostrare le sue capacità, tanto meno per essere legittimato. Altrove fuori d’Italia il suo lavoro è apprezzato e parecchio, e non mi riferisco solo al Premio a Portland, ma ad altre situazioni quali la Biennale di Architettura Classica e Tradizionale di Mosca, cui Ettore partecipa con 12 pannelli dedicati ai progetti per il Corviale e per lo Zen di Palermo in Russia, e ad altre ancora su cui adesso è opportuno non insistere.

Il fatto è che, parafrasando Martin Luther King, I have a dream: che non esistano le Biennali di Architettura Classica e Tradizionale e le Biennali di Venezia, che non hanno attributi dichiarati, ma che di fatto sono a senso unico, anche se dicono di mettere in mostre varie tendenze. Non è vero, mettono in mostra variazioni della stessa tendenza.
Questa non è cultura, semplicemente è “ignoranza di ciò che odiano e l’ingiustizia di un odio per ciò che essi ignorano”.


P.S.
Riporto di seguito il commento che memmo54 ha lasciato sul blog Archiwatch di Giorgio Muratore, nel post dedicato proprio al premio in oggetto. Mi sembra colga un punto essenziale ma spesso trascurato dell'odio per la tradizione da parte della cultura ufficiale:

"Ciò che non si perdona ad Ettore è l’assoluta mancanza di riferimenti “illustri” recuperati tra i maestri internazionali. Quelli citati sulla vulgata bibliografia che ogni architetto pone innanzi a se come dichiarazione d’appartenenza
Non una citazione di alcun personaggio di spicco: non si intravede Mis Vanderrò, non si scorge Gropìus, tantomeno Le Curvasier.
Difetta anche di Dudok, Asplund, Bonatz, Oud, De Klerk ud ed altri nordici.
Ciò è letteralmente imperdonabile.
Ci si può ispirare al più lontano maestro islandese , finlandese, lappone, swahili o polinesiano..
Chiunque è benvento ed apprezzato: riconosciuto ed omaggiato.
La storia di tutti (…indistintamente “tutti”…di tutte le epoche di qualsiasi tendenza e/o ispirazione) è seriamente ed ampliamente considerata nonchè apprezzata.
Quella propria no !
Robetta, minuzie di cui non vale la pena interessarsi.
Stanche rimasticature beaux arts… al massimo “barocchetto” decadente. Le più astiose s’imperniano intono al mesto concetto di “falso storico”: come se la storia fosse solo quella nostra, contingente, e tutto il resto un sogno: incubo indotto da un demone pervicace.
Come definire quest’atteggiamento che lascia fuori, sminuisce e dileggia, per definizione, ciò che appartiene ed è sempre appartenuto alla propria cultura.
Provinciale ? Ci sono, forse, termini più adatti ?
Autolesionismo ? Cupio dissolvi ?
Eppure si sentono “impapocchiare” fumose spiegazioni sul al passo con i tempi, vagheggiamento di tempi futuri cui adeguarsi necessariamente, laboriose subornazioni della sociologia progressiva e democratica nonchè altre amenità .
M proprio questa mancanza, questo profilo quotidiano, dimenticato ma vero, è la carta vincente.
Saluto
memmo54
"

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29 aprile 2012

VOLTE A STELLA

Ho ricevuto una mail che mi segnala questo sito sulle volte a stella e volentieri lo rilancio, come già ha fatto il prof. Giorgio Muratore su Archiwtach.
Ogni opportunità è buona per valorizzare un mestiere tradizionale:

VOLTE A STELLA

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1 dicembre 2011

BLOCCO DEL TRAFFICO

Pubblico questo post di E.M.MAzzola il cui argomento non è direttamente pertinente con i contenuti di questo blog, ma che tuttavia affronta un tema che riguarda la città, la sua mobilità, la salute dei cittadini e il rispetto delle tradizioni e della cultura dei vari popoli che compongono la sempre meno allegra brigata che si chiama Europa.
Non saprei dire se una trasmissione TV sia in grado di affermare verità assolute, ma certamente la mia sfiducia nell'Europa e nelle sue nevrotiche normative sempre più stringenti, nello specifico con i vari motori Euro n, ma anche nell'abolizione dei forni a legna, nella normativa sulle dimensioni dei seggiolini degli autobus (come se tutti gli europei avessero lati B della stessa taglia), nel "liberalizzare" i nomi dei vari prodotti locali e di tutto quanto appartenga, in genere, alla specificità dei luoghi e dei costumi della numerosi comunità che la compongono, insomma nella sua ottusa determinazione di annullare le differenze tra i popoli in nome di un mondialismo assurdo e pericoloso ma sempre più vicino, mi inducono a pensare che ci sia molto di vero anche nella storia dei motori.


Blocco del traffico, targhe alterne: una truffa pianificata dalla lobby dei produttori di auto
di
Ettore Maria Mazzola


L’ultima puntata de “le Iene” ha proposto un interessantissimo servizio dell’inviato Pelazza.
Uno specialista di “nanodiagnostic”, il dr. Stefano Montanari, ha mostrato come le auto di nuova generazione, ovvero le uniche ammesse a circolare in occasione del blocco del traffico, risultino molto più inquinanti di quelle vecchie.

Nei motori di vecchia generazione, il tubo di scappamento emette delle particelle a base di carbonio che, al loro interno, contengono delle particelle più piccole (ferro, cromo, manganese, magnesio, bario). Ebbene, il prodotto della combustione dei vecchi motori, essendo caratterizzato da particelle di carbonio all’interno delle quali restavano imprigionate le particelle dei metalli nocivi, risultava meno pericoloso di quello che accade oggi: le dimensioni di quelle particelle, infatti, erano tali da non arrivare all’interno degli alveoli polmonari degli esseri viventi.

Poco prima del 2000 venne inventato il “filtro antiparticolato”, il cui scopo è quello di trattenere le polveri sottili prodotte dal motore. Però, ogni 500/1000 Km il filtro deve pulirsi, sicché parte un processo di combustione delle particelle di carbonio che libera quelle particelle finissime che erano contenute nelle particelle di carbonio, espellendole dal tubo di scappamento. Questa volta, però, quelle particelle sono così sottili da penetrare all’interno degli alveoli polmonari!

Alla domanda dell’inviato sulle conseguenze di questa situazione, lo scienziato ha risposto: “queste particelle, una volta annidate nel nostro organismo, possono provocare ictus, infarto, parecchie forme di cancro, deformazioni fetali, aborti e perfino il diabete!
Qui inizia la cosa più sconvolgente che il video ha mostrato. La troupe de “le Iene” e lo scienziato hanno fatto un prelievo dei gas di scarico prodotti in venti minuti da due auto, una di vecchia e una di nuova generazione. Il prelievo è poi stato esaminato in un laboratorio specializzato, e i risultati sono stati portati nei “Laboratori di Riferimento della Comunità Europea” e mostrati a quegli ingegneri che hanno convinto la Comunità stessa ad imporre, tramite leggi apposite, l’installazione sulle auto dei filtri antiparticolato!
I tre ingegneri intervistati da Pelazza hanno finto di non sapere ciò che succedesse al momento della “rigenerazione del filtro” per cui, una volta viste le immagini e i dati mostratigli da Pelazza, uno dei tre ha detto: “ben vengano i contributi, noi siamo qui per fare ricerca, nessuno ha mai detto che la ricerca è finita … anzi!

Anzi cosa?

Per il momento possiamo solo capire che la ricerca è stata avallata dai cialtroni della Comunità Europea come inconfutabile, tanto da imporre alle nazioni l’uso di auto e motorini Euro 3, 4, 5 ecc.
La sperimentazione è dunque stata fatta, e viene fatta, sugli esseri umani (e sugli altri animali) tutt’ora ignari dei rischi che stanno vivendo. Per l’ambiente non sembra esser stato provato alcun beneficio, gli unici benefici li ha ottenuti la lobby dei produttori di autoveicoli!
È assurdo che a far scoprire certe cose debbano essere i programmi televisivi satirici. Certe notizie dovrebbero essere riportate all’interno dei telegiornali nazionali, ma questi, purtroppo, preferiscono fare servizi record di ascolto del programma di Fiorello, o sull’ultima moda in materia di toeletta per cani o sulla presunta gravidanza della nuora del Principe Carlo!

Alla luce dell’evidenza di questa schifosa realtà, c’è da chiedersi perché dovremmo continuare accettare il blocco del traffico e le giornate a targhe alterne che ci vengono imposte? Perché dovremmo accettare queste misure il cui unico scopo è di incentivare la vendita di auto Euro “n” (il numero cambia sempre per obbligare ad acquistare l’ultima Euro che ci consente di circolare)?
Un sindaco meno cialtrone, una volta appresa questa situazione, dovrebbe sospendere le misure prese ed imporre solo il blocco delle auto di nuova generazione! … Ma ciò non avverrà mai, a meno che non ci si vuole suicidare politicamente, o “farsi suicidare” in circostanze misteriose!

Visto che a pensare male, come diceva Giulio Andreotti, “si fa peccato … ma spesso si ha ragione”, sono portato a pensare che, analogamente a ciò che accadde negli USA degli anni ’40-’50, quando l’intero sistema di trasporto pubblico venne acquistato e smantellato ad opera della più potente casa automobilistica con l’intento di imporre l’urbanistica a macchia d’olio e l’acquisto delle auto, il problema dei trasporti pubblici in Italia non verrà mai risolto: se questi funzionassero la gente eviterebbe molto volentieri di usare l’auto privata … la dimostrazione ci è stata fornita dalla totalità delle interviste telefoniche che la trasmissione Caterpillar AM su Radio Rai e su Rainews24 ha mandato in onda un paio di giorni fa.

Propongo quindi due cose:
1) indire un referendum che abroghi le leggi che impongono l’acquisto di auto di ultima generazione e, nel frattempo, sospendere la farsa dei blocchi delle auto, a meno che non si blocchino solo le auto di nuova generazione;
2)in sostituzione dello stanziamento di milioni e milioni di euro pubblici per progetti inutili e assurdi come il Ponte sullo Stretto e la TAV in Val di Susa, propongo lo “spostamento” di quei fondi per favorire i potenziamento del trasporto pubblico, sì da adeguarci agli standard di Paesi più civili del nostro in questo campo. Gli autobus non inquinanti, i tram, i filobus, le metropolitane, i treni ad alta frequentazione, devono esser garantiti con passaggi non superiori ai 5 minuti. In quest’ottica sono disposto ad accettare, come avviene a Londra, una supertassa per chi intenda utilizzare il proprio autoveicolo in centro città!

Per chi avesse perso la puntata delle Iene, eccovi il link
Le Jene

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31 maggio 2011

STANDARD, CITTA' E MOBILITA'

Prendo spunto da un commento di Giulio Paolo Calcaprina ad un post sul blog amate l'architettura in cui, molto opportunamente, afferma: “ … a lungo termine dovremmo rifondare anche il modo di pensare l’urbanistica trovando un criterio qualitativo alternativo agli standard urbanistici, che personalmente ritengo siano una delle maggiori cause della “disumanità” delle nostre periferie”. Tutto giusto, a parte quel “a lungo termine”. Io credo che sia necessario e possibile farlo “a breve termine” e cominciare subito.
Sul fatto che la cultura urbanistica basata sulla quantità abbia prodotto danni sono assolutamente d'accordo. Va detto, però, che stabilire minimi di verde, parcheggi, ecc. in un periodo di pieno boom economico ed edilizio e, in moltissimi casi, in assenza totale di piani, in specie al sud, visto storicamente è del tutto comprensibile. L'elemento dannoso non sta nell’avere imposto un minimo quantitativo per certe dotazioni ritenute indispensabili, dato che nel momento in cui l’urbanistica diventa disciplina è anche normale che abbia una sua “tecnica” e quindi un suo corpus di leggi con alcuni requisiti minimi omogenei.
Piuttosto il danno risiede nella logica puramente quantitativa assorbita dalla cultura urbanistica e dalla politica, che ha portato alla progettazione di quartieri dotati di ampi standard ma con pessime condizioni di vita e del tutto privi delle qualità urbane minime necessarie.


La lotta per il diritto alla casa degli anni ’70 è stata giocata infatti in chiave quantitativa e politica, come strumento per creare consenso presso certe fasce sociali, dandole in cambio case di qualità scadente in periferie di qualità ancora peggiore. Inutile ripetere il numero e il tipo di leggi prodotte in quella fase storico-politica. E’ stato allora che si è consolidato il blocco tra intellighenzia urbanistica e mondo accademico da una parte e politica dall’altro, intorno al sistema di pensiero del movimento moderno. Quell’idea e quel blocco sono stati vincenti e solo adesso, forse, si comincia a sfaldare a vantaggio, mi auguro, di una visione urbana più consapevole della storia e della grande tradizione urbana europea ed italiana.
Resta però l’onda lunga di quel periodo e lo si può verificare quotidianamente nei piani regolatori ancora basati sulla zonizzazione, sulla rigida distribuzione delle funzioni, sulla burocratizzazione selvaggia in quel voler decidere tutto per tutti, sulla mancanza di conoscenza di ogni corretta geometria urbana che sia capace di innescare il processo che rende vitale un insediamento umano, sulla assenza di un disegno urbano che non sia di pura geometria astratta, sulla prevalenza dell’urbanistica ad oggetti seminati senza relazione alcuna con lo spazio pubblico se non con strada per le auto, piuttosto che sulla continuità delle sequenze urbane e della forte relazione tra edifici e spazio urbano pubblico.

E' la logica che sta alla base della legge urbanistica 1150, e soprattutto dei successivi decreti con la divisione in zone omogenee, che deve essere eliminata, con il ritorno alla strada come elemento generatore della città, con la commistione delle funzioni, quindi con zone disomogenee, con la zonizzazione verticale, cioè attività al piano terra, e sopra residenze o uffici indistintamente. Insomma è il ritorno alla città tradizionale, l'unica in grado di garantire una vita urbana soddisfacente, l'integrazione sociale, la molteplicità, la prossimità, la permeabilità e l’accessibilità della città, la libera scelta del cittadino.

Unica variante rispetto alla città tradizionale europea, su cui esistono punti di vista diversi e su cui vanno ricercate soluzioni che forse avrebbero potuto essere già state trovate e testate se non ci fosse stata la cesura dovuta alla caparbia tirannia culturale di 60 anni di movimento moderno, è quello della presenza dell’auto, che esiste, fa parte della nostra vita e non può essere rimossa confinandola ideologicamente in un ghetto, pena un nuovo, ulteriore fallimento. E credo non sia utile ventilare lo spettro della fine delle risorse energetiche naturali (ricordo il Club di Roma che decretò l’esaurimento del petrolio alla fine dello scorso millennio, e non pare che la profezia si sia avverata, dato che gli alti costi sono determinati da condizioni geopolitiche) quanto la necessità di ridurre fortemente i consumi per motivi di inquinamento, di alti costi dovuti all’espansione del mercato globale, di sostenibilità ambientale nel lungo periodo e non semplicisticamente a breve, piuttosto che alimentare toni apocalittici da day after.

Preferisco di gran lunga affidarmi al principio di precauzione che alle profezie di sventure prossime future, sempre regolarmente smentite e che alla fine del percorso, manifestano sempre l’imposizione forzosa di uno stile di vita e la nascita dell'“uomo nuovo”.
Io credo che la mobilità individuale, come la comunicazione individuale (internet, cellulari, ecc) sia una conquista di libertà cui nessuno è realmente disposto a rinunciare e che non può e non deve essere eliminata per decreto. Certo vanno trovate limitazioni, va incrementata ove possibile la mobilità pubblica o collettiva (e questo è possibile solo in città compatte, non in conurbazioni disperse), ma niente può sostituire "l’appeal" e la libertà di montare nel proprio mezzo e andare dove si vuole.

Quindi il disegno della città tradizionale dovrà tenere conto di questo fatto e non trascurarlo, perché se fosse anche possibile risolverlo nell'ambito di un singolo insediamento in qualsiasi modo, anche con il divieto assoluto, il problema si sposterebbe in ambito urbano, dato che la città è un organismo unitario le cui parti interagiscono tra loro, per cui quello che accade in una zona ha ripercussioni sull’altra. La città deve essere policentrica ma non potrà essere una semplice somma di villaggi perché avrà comunque una gerarchia di livello superiore, e una somma di quartieri senza traffico d'auto al proprio interno produce, sotto il profilo della mobilità, lo stesso effetto della zonizzazione, vale a dire la necessità di autostrade urbane che collegano i vari centri e su queste si concentrerà in maniera abnorme tutto il traffico della città, così che quello che è uscito dalla porta rientrerebbe dalla finestra.

Le Corbusier ha impostato il suo ideale di città sull’auto, basandosi su una “profezia” e una scommessa. La profezia della meccanizzazione individuale si è avverata forse oltre ogni previsione, ma quel modello di città ha dichiarato fallimento perché ha distrutto la città senza risolvere i problemi della mobilità. Se LC ha la sua quota di responsabilità, il mondo della cultura urbanistica è doppiamente colpevole perché ha avuto tutti gli elementi per capire l’errore e cambiare, e non l’ha fatto.
Oggi è necessario non commettere specularmente lo stesso errore di LC, non essere cioè radicali nella negazione del mezzo auto. Oggi abbiamo il dovere di cercare soluzioni realistiche e non utopiche che mettano al primo posto la qualità della vita urbana, progetti che favoriscano, attraverso il disegno del sistema insediativo, la massima pedonalità possibile e disincentivino naturalmente l’uso dell’auto per ogni minima esigenza personale, familiare o lavorativa. La prima risposta sta nella città densa e compatta, con limiti definiti tra questa e la campagna, affinché gli spostamenti siano quanto più possibile contenuti in un’area circoscritta in cui sia possibile la scelta tra mezzi diversi.
La mia personale convinzione, che so essere contro corrente, è che si possa convivere con l’auto a condizione che la rete delle connessioni stradali sia ricca, continua, con pochi divieti, perché la circolazione delle auto è come quella dei fluidi: se si chiude un canale il liquido esonda da un’altra parte.
Dunque la sfida che si pone a tutti coloro che come me auspicano un ritorno alla città tradizionale, è proprio quella della soluzione della mobilità. Risolta questa in maniera realistica e condivisa, non ci potranno essere più scuse.

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2 febbraio 2011

L'ERESIA DELLA TRADIZIONE

Pietro Pagliardini

Il termine, fuori dall'ambito religioso, viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli”. Questa è una definizione incollata da Wikipedia. E’ una delle tante possibili, essendo le più riferite all’ambito religioso. Avrei potuto anche utilizzare una di queste ultime, ma avrei corso di rischio di aprire la strada alla facile, ma fuorviante, obiezione di due “dottrine religiose" contrapposte. Ho preferito rimanere nel campo delle scienze umane perché in effetti l’eresia cui mi riferisco si inserisce in un contesto “filosofico,politico, scientifico e persino artistico” in cui sono, sì, presenti anche forme e ingredienti di tipo religioso, con i dogmi (modernità), gli integralismi (fuck the contest), i sacerdoti (Maestri e/o archistar, cioè i nuovi Maestri a livello di massa), gli adepti (praticamente tutti gli architetti) e i tribunali speciali, cioè l’Inquisizione (docenti, metre a penser, commissioni di concorso), ma la verità è più complicata e pervasiva e non è costituita da qualche conventicola segreta (come dimostra il numero degli adepti) ma da ampi settori della cultura ufficiale “generalmente accettata come autorevole” (docenti, metre a penser, commissioni di concorso).
Non c’è dubbio che l’urbanistica e l’architettura che riscopre il valore della tradizione sia trattata al pari di un’eresia. Lo si è visto bene nel caso del piano di Tor Bella Monaca di Léon Krier.


Questi viene chiamato dal Sindaco di Roma, suppongo, per studiare una proposta urbanistica capace di ridare dignità urbana ad un quartiere romano dei primi anni 80, un PEEP, uno dei tanti di quel periodo, sorti in Italia sulla spinta delle nuove leggi, la 865/71 soprattutto e la 457/78.
Due leggi dalla forte impronta ideologica nei confronti del rapporto Stato-cittadini, in cui la proprietà privata viene posta sotto tutela, assoggettata com’è ad una serie di vincoli assurdi e complicati quali convenzioni ventennali per la cessione del bene a prezzi imposti, proprietà indivisa, diritto di superficie ecc. che hanno prodotto, per districarvisi, situazioni di semi-illegalità, come sempre avviene quando le leggi sono assurde, burocratiche e liberticide, le quali tuttavia sono state utili per creare una dipendenza del cittadino-elettore nei confronti del proprio amministratore-eletto, il quale non solo favoriva l’accesso alla casa, con il contributo dello Stato, ma anche favoriva questa o quella cooperativa, questa o quella impresa, anzi, addirittura creava questa o quella impresa o “consorzi di imprese”, e trovava il modo di pilotare i così detti “bandi”, inserendovi criteri ad hoc per questa o quella cooperativa o impresa e perfino rari soggetti singoli, a garanzia formale di una legge liberale.

Il processo edilizio era quindi a circuito chiuso e copriva ogni fase del ciclo, da quello pianificatorio, a quello gestionale, a quello della produzione del bene, imperniato sulla “filosofia” della “industrializzazione edilizia”, a quello politico che ne costituiva la cornice che tutto comprendeva. Un meccanismo perfetto ed oleato, che indubbiamente è stato utile a dare una casa a molti cittadini i quali diversamente avrebbero trovato difficoltà ad averla (in molti casi è più corretto parlare “di un tetto”, in senso metaforico), ma la contropartita è stata la rinuncia ad una quota di libertà, molti compromessi con il diritto e, soprattutto, pessimi risultati per la città e il territorio.
Già, perché il sistema prevedeva anche l’offerta progettuale, la cui dottrina di riferimento accettata come autorevole era quella rigorosamente modernista caratterizzata dalla “industrializzazione edilizia”, esasperata da rigidi parametri dimensionali previsti dalla legge 457/78, il rispetto dei quali produceva automaticamente una tipologia da Existenzminimum, cui per fortuna alcuni comuni più ragionevoli ovviavano con norme interpretative più ampie che allentavano un po’ le rigide maglie ideologico-progettuali. Insomma la matematica, in questo caso la geometria, diventava fortunatamente un’opinione, come i risultati elettorali commentati a caldo; in questi casi l’italico buon senso utilizzava il bizantinismo leguleio, mettendo qualche pezza ai guasti dell’ideologia, perché le leggi basate sull’utopia non possono che produrre quella che viene chiamata illegalità.

Tor Bella Monaca è uno dei prodotti di questo mix cultural-politico: quartieri disegnati al tecnigrafo dove un ordine geometrico astratto regna sovrano, casermoni prefabbricati o semi-prefabbricati che rispettavano, con eccessi di zelo, la regola del calcolo dell’altezza virtuale (che non spiego per carità di patria e che non deve creare sensi di colpa a chi ne ignorasse l’esistenza), edifici senza nessuna relazione con le strade se non per l’ingresso ai parcheggi delle auto (dove si dimostra che l’auto è veramente nemica dell’uomo in periferia più che in centro), enormi spazi aperti secondo il dogma lecorbusieriano, ovviamente deserti in quanto ostili, pericolosi e destinati a rapido degrado e a luoghi del malaffare. Se si confronta questo insediamento con quello più “spontaneo” a ovest, oltre la strada, quest’ultimo appare come un capolavoro da libro di storia.

Ebbene questo quartiere non è recuperabile urbanisticamente per una normale vita sociale. Né giova gridare alla solita mancanza di servizi: i servizi, se ci fossero, darebbero solo un “servizio”, appunto: se in una zona come questa si costruisce una scuola significa che è stato garantito agli abitanti il loro diritto di cittadini e contribuenti di avere una scuola senza doversi sottomettere a lunghi viaggi giornalieri. Dal punto di vista urbanistico e dell’organizzazione dello spazio urbano si è semplicemente rispettato il criterio del Manuale dell’Architetto, CNR, ma la periferia è rimasta periferia e non per questo e diventata città.

Arriviamo dunque al piano di Léon Krier e alla sua eresia.
Il piano è eretico perché demolisce non solo fabbricati ma un’idea, o meglio, un’ideologia, costruita con sapienza nel corso dei decenni, secondo la logica precedentemente spiegata. Demolisce perché non può fare altro, perché quel quartiere non è recuperabile né urbanisticamente né architettonicamente. Demolisce e al suo posto sostituisce un’altra idea, ad essa opposta, la quale tuttavia, a differenza di quella attuale, non è un nuovo esperimento socio-urbanistico ma è presente, da sempre, nel DNA della città europea. Una città di strade e isolati, di piazze e non di spiazzi, di zonizzazione verticale e non orizzontale, di edifici di altezza massima di 3-4 piani e non di casermoni, con una forte densità come è denso il centro storico, e perciò eco-sostenibile, cioè moderna, in quanto, a parità di densità occupa meno territorio.
Non entro nel merito del progetto, cioè nella correttezza delle scelte fatte rispetto al luogo e alle relazioni con l’edificato esistente e con le infrastrutture, perché non conosco il luogo se non fotograficamente. Altri dovrebbero farlo. Purtroppo, salvo rari casi, tra cui un post abbastanza equilibrato sul blog amatelarchitettura, che pure lascia trasparire sotto traccia un certo snobismo per la scelta di Krier, si discute di quel progetto ideologicamente, si ritiene quel progetto un’eresia, una bestemmia gridata contro lo status quo.
Se ne critica, come con il progetto Corviale di Ettore Maria Mazzola, la scelta della demolizione, guarda caso.
Vorrei portare all’attenzione di costoro il seguente comma della legge 865/71, proprio quella di cui parlavo a inizio post:
Possono essere comprese nei piani anche le aree sulle quali insistono immobili la cui demolizione o trasformazione sia richiesta da ragioni igienico-sanitarie ovvero sia ritenuta necessaria per la realizzazione del piano”.
Ecco, qui esistono ragioni igienico-sanitarie.
Concludo con questo post tratto da Archiwatch, riferito proprio a Tor Bella Monaca:
Volete Voi una città bella pulita e seducente? …
Oppure una città di merda, piena di monnezza e fatta di oribbili casermoni? …
Inopinatamente … pare … che in molti …
abbiano optato per la prima soluzione …
La sinistra … incredula …
La destra … esulta …


Ognuno lo interpreti come vuole, ma c'è del vero.

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9 gennaio 2011

INTERVISTA A JULIUS CESAR PEREZ

Julio César Pérez: "La città deve essere sognata, progettata e concepita per il futuro" Intervista apparsa in due parti in Cuban Art News, il 6 gennaio 2011. Il mese scorso, il 16 dicembre, l'architetto e urbanista cubano Julio César Pérez (nata a San Antonio, 1957) ha aperto una mostra di architettura e pianificazione presso la Eduardo Abela Provincial Gallery, nella città di San Antonio de los Baños.
Pérez, che si è laureato alla scuola di architettura dell'Avana nel 1982, ha insegnato e tenuto conferenze presso la Harvard University, il Boston Architectural Center, e l'Università di Toronto. E 'autore di Inside Cuba (Taschen, 2006), L'isola: Visioni di Cuba (Editoriale Samper, 2009).
Altre notizie su Pérez sono reperibili qui.
La versione originale in lingua inglese dell’intervista è consultabile qui.

Le mostre di architettura e urbanistica non sono comuni a Cuba. Cosa ti spinge a presentare un decennio di progetti?
Davvero non ricordo nessun mostra collettiva di architettura, ad eccezione di quelle fatte dagli allora giovani laureati degli anni '80 - ed io stesso tra loro, nel 1987 (presso il Centro di sviluppo per le Arti Visive, e nel 1991 (a La Cabaña).

La mia ultima mostra personale ha avuto luogo nel 2002 presso la School of Design alla Harvard University . Lì, ho presentato una selezione di 20 opere e progetti realizzati tra il 1989 e il 1999. In precedenza, con gli architetti Céspedes Milvia e Esteban Martinez, ho fatto una mostra a San Antonio de los Baños durante la 6° Biennale de L'Avana nel 1997. In tutti i casi, l'intenzione era di mantenere in vita l'architettura come una vocazione, e di proiettare una visione di questa professione che continua la tradizione e il savoir faire che ha caratterizzato la sua pratica nel nostro paese nel corso degli ultimi quattro secoli.
Adesso 
mi ha spinto di nuovo questa necessità. E'utile anche per analizzare un periodo di lavoro, per confrontarsi con idee e approcci e, soprattutto, per dimostrare che l'architettura rimane una delle belle arti, se ci si avvicina ad essa con una prospettiva artistica rigorosa.

La vostra mostra copre una vasta gamma di argomenti: residenze personali, paesaggi urbani, ristrutturazione di edifici storici, pianificazione urbana. Corrispondono ad una vasta gamma di interessi in architettura?
Per me, la pratica dell'architettura inizia con il rapporto tra l'ambiente naturale e quello culturale, che è un tutto indivisibile, e l'essere umano. La città è l'elemento più importante, in quanto è espressione di rapporti umani e l'archetipo culturale essenziale. I miei interessi sono ampi, e io rinuncio alla visione riduzionista e alla specializzazione che hanno fatto molto male a questa professione in tutto il mondo. L'architetto deve sempre essere un uomo del Rinascimento che agisce in modo responsabile nel suo tempo; egli deve fare i conti sia con gli eterni problemi che con i conflitti contemporanei derivanti dalla sua situazione concreta. Questo richiede uno studio costante, soprattutto per coloro che si dedicano all'insegnamento.

Quando si avvicina alla casa - un tema "tradizionale" e un laboratorio per gli architetti cubani - sembra che lei usi tecniche di costruzione e competenze già ben consolidate nel repertorio popolare.
La casa è il punto di partenza, il soggetto più vicino agli esseri umani, per l'architetto. Io credo che gli studenti dovrebbero imparare a progettare una casa prima di ogni altra cosa. Molti giovani architetti non si sa come, e questo è deplorevole, non hanno nemmeno un'idea precisa di quello che sia una casa, di che cosa sia la loro casa. E' un esercizio di buon insegnamento. La scala consente di iniziare da un'idea generale e di passare ai dettagli, di partire da una situazione specifica in termini di localizzazione, relazioni spaziali, requisiti funzionali, programma, contesto, scopo, per poi arrivare ai dettagli.
Si tratta di un processo che permette l'apprendimento. E'indispensabile per progettare bene, per costruire bene - si tratta di una lezione antica e tuttora valida. La tradizione fornisce le istruzioni necessarie da cui gli architetti possono esplorare e innovare, e trovare la propria lingua oltre la moda e le tendenze.
D'altra parte, a Cuba non ci sono molte opzioni per quanto riguarda l'utilizzo di tecniche di costruzione non tradizionali e materiali - soprattutto nelle abitazioni. Il fallimento totale e ripetuto della prefabbricazione è stato il fattore più eloquente a favore di un ritorno alle tecniche di costruzione tradizionali. La perdita di questo lavoro (progettare case) è, inoltre, uno dei fattori che hanno intaccato il prestigio della professione. Questo è triste, dato che l'industria delle costruzioni in questo Paese è stata caratterizzata da un alto livello di abilità, che ha raggiunto il suo apice nel corso del 1950. Ho imparato il rigore, la disciplina, e il mestiere del lavoro con mio padre, un eccellente muratore e capomastro.

Nel vostro piano per la crescita e la sviluppo futuro dell'Avana, quali giudichi che siano gli elementi chiave?
Il piano è basato su un decalogo, un programma in dieci punti che riassume una serie di idee interconnesse e integrate. Tutti i punti devono essere considerati insieme, sulla base della loro ovvia relazione e la necessità di affrontarli tutti con la massima economia di tempo e risorse.
1. Valorizzazione del Waterfront. Questo darà alla città una nuova immagine e ci permetterà di cogliere il maggior vantaggio del suo litorale. Sono previsti edifici ad uso misto: usi culturali e commerciali al piano terra e l'uso residenziale ai piani superiori. Ciò stabilisce una continuità con le tradizioni della città e offre un modello in linea con le tradizioni europee basandosi su caffè all'aperto, gallerie d'arte e ristoranti, bar, negozi e bazar. D'altra parte, c'è il settore del porto di L'Avana, la cui rigenerazione è un modello per l'intera città. Abbiamo intenzione di trasformare questa zona in un moderno centro commerciale e sportivo che contribuirà ad una nuova immagine della città e consentira la ri-creazione della sua storia, il riciclaggio delle sue funzioni economiche, ed aumenterà l'attrattiva della capitale in generale.
2. Un Approccio Maggiormente Policentrico. Questo è essenziale. Esso comprende la creazione di nuovi centri urbani nella proposta di sviluppo di impianti a ovest (sito del vecchio campo d'aviazione Columbia) e ad est. Questo approccio riduce l'espansione della città verso le sue periferie, limitando la necessità di eccessivo traffico e di viaggio.
3. Un Nuovo Sistema di Trasporto Pubblico. Ciò permetterà un uso efficiente e razionale delle infrastrutture stradali esistenti e proposte, e permette di disporre di vari e moderni mezzi di trasporto (treno, autobus, automobili) che non inquinano l'ambiente. Il piano prevede il trasporto di superficie e sotterraneo, e uno dei suoi rami prevede la costruzione di un tunnel parallelo alla linea di costa, che creerà una "promenade" lungo la costa da Jaimanitas a Cojimar.
4. Rinnovamento delle Infrastrutture. Attualmente, le infrastruttura della città sono obsolete, del tutto inadeguate e insufficienti. Questo rinnovamento migliorerà l'Avana e amplierà i servizi dell'acqua, dell'elettricità, delle fognature, del telefono, di internet ad alta velocità, e di altri servizi. E' pianificato un incremento dello spazio pubblico per rispondere alle idiosincrasie di Cuba, dei suoi costumi e delle sue tradizioni. Nella zona costiera e nella baia sarà istituita una zona cuscinetto che conterrà un possibile aumento del livello del mare dovute ai cambiamenti climatici derivanti dal riscaldamento globale.
5. Integrazione Sociale e Culturale. Il punto di arrivo di un pieno utilizzo della città, dei suoi quartieri e dei suoi spazi da parte di tutte le persone, con libero accesso a tutte le strutture ed edifici.
6. Sicurezza Ambientale e Aumento delle Aree Verdi.
7. Una Nuova Immagine della Città. Con questo si intende trasformazione della città e vitalità come risultato di azioni urbane e civili.
8. La Rivitalizzazione delle Strade e delle Altre Vie a Livello Cittadino.
9. Uso misto. Questo è parte della tradizione della città. Esso prevede la vitalità e la varietà necessaria per la vita urbana, combinando varie funzioni che indirizzino i diversi gruppi sociali.
10. Una Visione Ampia Combinata con un Dettagliato Disegno Urbano. La città deve essere sognata, progettata e concepita per un futuro che trascenda il segno di un'epoca particolare, e la cui costruzione sia la risultante degli sforzi e dell'intervento di diverse generazioni. Il piano urbanistico dovrà proporre progetti di diversa scala che potrebbero essere costruiti in diversi momenti nel tempo, e la cui flessibilità accetta le trasformazioni richieste dalle circostanze.

Che cosa rende questo progetto diverso dagli altri che l'hanno preceduto?
Proponiamo una visione olistica e integrata. I piani precedenti non ha considerato l'Avana per quello che è: un insieme, un territorio con un ecosistema particolare che deriva dalla sua condizione geografica, dalle sue idiosincrasi e dalla sua cultura. Per la prima volta nella storia, e questo è forse il suo più grande merito, questo Master Plan inventa e sviluppa idee per trasformare la capitale nel breve, medio e lungo termine, e di trasformarlo in una città moderna che fa onore alla sua lunga storia ed esprime il suo continuo processo di cambiamento. A differenza dei piani delineati nel periodo coloniale, che erano di natura militare, quelli della Repubblica, che sono stati frammentati e limitati solo ad alcune zone, e quelle formulate dal Dipartimento di Urbanistica durante il periodo rivoluzionario, che sono stati dettati dal governo e dale sue priorità, il Piano per L'Avana del 21° secolo cerca di preservare i valori della città esistente pur sottolineando la necessità di creare nuovi valori economici e urbani.
Inoltre, questo piano non segue alcun dettame o ordine governativo. Si tratta di un lavoro di amore per la città, fatto senza compenso. E' un dono, un contributo personale.

Come si caratterizza lo stato attuale dell'architettura a Cuba? Dove si trovano le sue principali contraddizioni?
Lo stato attuale dell'architettura è pietoso. Nessuna attenzione viene data alla qualità dei progetti o di ciò che è costruito, il che si traduce in un grande spreco: di terre, di risorse, di talenti e di tempo. Questo dimostra l'ignoranza e l'apatia. Non esiste un sistema di valori che differenzia l'architettura dalla costruzione semplice. Le contraddizioni iniziano nelle scuole: gli insegnanti non hanno l'indispensabile prestigio e l'autorità professionale, in quanto non hanno organi del lavoro che convalidino le loro carriere. L'insegnante dovrebbe essere un esempio. Quando l'insegnamento è necessario per conoscere e imparare, per avere un esperienza di lavoro, una solida cultura. Per questo motivo, un neolaureato non può insegnare, poiché non hanno alcuna esperienza professionale e nessuna capacità di insegnamento. Questo è un grave errore.
La mancanza di una guida, con comprovate credenziali e una solida reputazione basata su meriti accademici e professionali - essenziali per occupare posizioni di leadership nella scuola e reparti livelli - ha contribuito alla formazione inadeguata di diverse generazioni di architetti.
La professione dell'architetto richiede sacrificio e dedizione al di là del necessario e l'indispensabile chiamata o il senso della vocazione. La successiva motivazione è parte del compito dei docenti la cui condotta e il cui lavoro dovrebbe servire da modello per i futuri architetti. Un altro fattore è la mancanza di una pratica professionale che contribuisce ad una graduale, progressiva formazione, che insegna a correggere gli errori.
Un altro elemento è l'assimilazione acritica di progetti stranieri e il rifiuto di architetti cubani a favore di professionisti stranieri di dubbia reputazione. Il processo di investimento è pieno di opinioni negative e di grande corruzione. Ciò ha contribuito alla perdita di autorità e di prestigio degli architetti locali, abbandonati da istituzioni create per garantire i loro interessi, e una perdita di autostima e di dignità personale e professionale.
L'assegnazione dei progetti e dei posti di lavoro a soggetti stranieri senza gara formale non comporta solo costi eccessivi, ma favorisce i pericoli ideologici della globalizzazione, che ignora la cultura, la storia e la stessa professione. Altri modelli e schemi sono già stati implementati.
Gli esempi abbondano, tutti negativi. Si va dagli hotel costruiti dalla catena alberghiera spagnola Meliá (L'Avana, Cohiba, Varadero) a quelli fatti per altre catene alberghiere: Novotel o LTC a Monte Barreto, per il Gran Dutch Tulip (Central Park), le costruzioni immobiliari (per gli investitori a Monaco), al 5° Avenue, o quelli costruiti a Monte Barreto (come il Miramar Trade Center). In questa zona, l'ignoranza del disegno urbano tradizionale sembra essere stato raccolta e sintetizzata, incapace di assimilare o i valori del contesto, naturale e costruito, o l'uso misto. Questi progetti falliscono perfino nel corretto orientamento degli edifici e delle loro relazioni spaziali, portando alla svalutazione di una delle poche aree verdi a L'Avana.
Sul piano della pura architettura, gli edifici mancano della qualità di base del progetto e dimostrano la mancanza di padronanza della scala e dell'uso dei materiali. Sembra che gli alberghi abbiano istituito un concorso a premi per emulare il peggior edificio costruito dai loro predecessori. Tra loro ci sono l'ambasciata Russa e disfunzionali hotel Tritone e Nettuno.

Insieme ai vostri progetti, voi conducete anche workshop intensivi con studenti di architettura. Qual è la sfida più grande: la creazione di una "scuola intorno a un insegnante" o intorno alla realtà concreta?
Entrambe le cose. Preferisco descrivere un'esperienza nel processo di creazione della Scuola Nazionale di Pianificazione e Architettura, che ha scommesso sulla città, i suoi monumenti, ma anche sui suoi edifici sensibili integrati nell'ambiente circostante. A L'Avana, ci sono molti esempi di tutte le epoche, che vanno dal Castello di Morro, dove lo scoglio e l'edificio si fondono armoniosamente, ai palazzi del tardo 18° secolo - un'architettura urbana di straordinario valore.
I seminari già accennati come pure L'Avana Charette uniscono, incoraggiano, propongono ed esprimono la volontà di invitare tutti senza escludere nessuno. Essi cercano di instaurare una tradizione (e ci sono stati quattro workshop consecutivi) di consultazione: per mostrare quanto è stato fatto, senza pregiudizi. La cosa importante è trasmettere agli studenti l'amore per la città e i suoi dintorni, oltre che una responsabilità verso essa e il suo futuro, se vogliamo rimanere a L'Avana, la città magica, poetica e magnetica che cattura tutti con il suo fascino, illumina il cammino con la sua progettazione, e ispira con la sua architettura. La realtà impone sfide, ma dobbiamo distinguere le sfide temporanee e dettate dalle circostanze e temporanee da quelle reali, veramente critiche.

Credi in una architettura d’"autore" - nota negli Stati Uniti come "starchitecture"?
L'architettura d'"autore" è un inganno, un'architettura orientata verso l'oggetto, non verso la città. Generalmente, le opere create da architetti che sono famosi per essere iconoclasti non resistono al tempo. O molto poche sopravvivono al passare del tempo o alla giudiziosa, obiettiva critica quando sono analizzate nel loro contesto e non in riviste e libri gestiti da fotografi qualificati.
Il fatto è che solo un piccolo gruppo di architetti sopravvive alla critica obiettiva, e questo è vero ovunque. Penso che tra loro ci sono Frank Lloyd Wright e Louis Kahn, di quelli del passato. Tra quelli attuali c'è Renzo Piano, il cui rigore nella progettazione e costruzione supera il resto. E forse il giapponese Tadao Ando. C'è un sacco di spazzatura costruita in nome della "architettura dell'autore."
Il più grande problema causato da questo modo di fare è il danno alla mentalità e alla formazione di studenti, perché introduce modelli di imitazione favorita da insegnanti ignoranti, che sono privi di cultura visiva e in grado di sviluppare il proprio personale lavoro. La maturità di un architetto, io credo, è quella di imparare in modo che il loro lavoro non sia appesantito dall'architettura di "un altro autore". E' la più grande sfida e una grande prova di onestà intellettuale.

Recentemente, hai avuto un percorso lungo e intenso come docente di scuole e università americani. Come descriveresti l'approccio degli Stati Uniti nei confronti del patrimonio architettonico di Cuba e delle sue trasformazioni future?
C'è grande ammirazione e grande apprezzamento per il patrimonio architettonico di Cuba e dei valori di L'Avana. Un grande rispetto. Mi sento molto orgoglioso, molto felice quando parlo di L'Avana, la sua architettura, la sua urbanistica, che è intatta fino ad ora, nonostante tali edifici perduti. Ecco perché è così importante conservare la città al di là di qualsiasi edificio o gruppo di edifici.
La gente mi incoraggia nel mio lavoro. Essa lo riconosce. Parlo di L'Avana con amore e grande ammirazione. Tutti vogliono vedere L'Avana, vogliono venire a L'Avana. Coloro che sono stati qui vogliono tornare. Questo deriva anche dal fatto che la nostra nazione è più vecchia, ha le sue radici europee, e ricordiamo che le città di Cuba sono state fondate dagli europei - che è senza dubbio di enorme valore. La pianificazione urbana spagnola era di qualità elevata e questo, combinato con il necessario adattamento al nostro clima, la nostra geografia, e altre caratteristiche (come la disponibilità dei materiali) ha prodotto un'architettura vernacolare di grande valore. Nella sua essenza, "vernacolare" significa creatori anonimi - l'antitesi del concetto di "architettura d'autore".
Inoltre in Nord America ci sono solo poche città storiche, e la gente riconosce i valori storici che sono custoditi a L'Avana, insieme con i valori architettonici e urbanistici. Molti professionisti dell'architettura, e la gente in generale, hanno espresso la loro preoccupazione per la futura evoluzione della città, attraverso l'emergere della sensibilità del mercato e la possibilità di perdere L'Avana, cambiando la sua immagine seducente e romantica. Quando ne parlo dico sempre che questo è il concetto del Master Plan per il 21 ° secolo all'Avana.

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19 settembre 2010

SEQUENZE URBANE: UN ESEMPIO CONCRETO



Le immagini qui sopra mi sono state inviate dal Prof. E.M. Mazzola, sono disegni di sequenze urbane realizzate da alcuni suoi studenti della Notre Dame School of Architecture Rome Studies, utilizzate sia come rilievo che per il progetto.
Gli autori dei disegni sono, nell'ordine dall'alto verso il basso: Joshua Eckert, Kalinda Brown e Christal Olin .
Mi spiace per la notevole riduzione di qualità che ho dovuto effettuare, me ne scuso con i tre autori e ringrazio Ettore per la sua gentilezza.
Il post che segue è una divagazione, molto lieve, sul tema “sequenze urbane” proposto da Mazzola nel post precedente, a cui necessariamente rimando per una migliore comprensione dell’argomento.

*****
Domenica mattina, in città poca gente fino alle undici: giovani padri che portano a spasso figli piccoli, rari anziani, qualche single, per forza e non per scelta, uscito di casa per sfuggire la solitudine, alcuni turisti. Anche qualche architetto (siamo così tanti che statisticamente ne trovi sempre qualcuno).
Mi fermo a chiacchiera con uno che conosco. Niente di impegnativo, argomenti da giorno di festa, l'inevitabile mugugno, cosa fai oggi, poco più. Al momento di salutarci la classica domanda: dove vai? Non è curiosità, in genere, ma una formula di saluto rituale, come how do you do. Gli dico che sto andando al cimitero a piedi
Si meraviglia moltissimo, non della meta ma dell'andarci a piedi.
Gli faccio presente che non è poi così lontano come sembra, la città dei morti è sul versante opposto della collina, la zona meno abitata della città e quindi l'idea è che sia proprio da tutta un'altra parte.
Non l'ho convinto e credo pensi che io sia un gran camminatore. Purtroppo non è così. Approfitto della domenica mattina per recuperare quel deficit di passi mancati durante la settimana.
Salgo lungo il Corso Italia, la strada dello struscio serale, il salotto di Arezzo lungo quasi un chilometro, la più importante della città, quella che proviene dalla Val di Chiana e, superata la sella di Olmo, procede diritta per tre chilometri e mezzo, entra in città, anzi origina e ordina la città, e sale lassù fino alla sommità della collina, fino al Duomo.
A metà circa del Corso svolto a destra, lungo la via Garibaldi, già via Sacra, la strada dei conventi e delle Chiese. Al centro dell’incrocio il solito pakistano che vende palloncini. Mica è stupido lui, lo sa dov’è che la gente passa, lo sa dove sono i nodi urbani. Non va a vendere in una strada con il niente intorno. I commerci ci sono laddove c’è gente, e la gente va dove ci sono commerci. In quell'angolo è incredibilmente ancora possibile trovarvi qualche contadino che vende i frutti della stagione: funghi, mazzi di agretti, castagne. Almeno fino a che qualche norma europea non impedirà per legge ciò che già è naturalmente in crisi.
Entro in piazza Sant’Agostino che non è una vera piazza, ma uno slargo in salita, molto allungato e frammentato in spazi diversi tenuti insieme dalla Chiesa di Sant’Agostino, posta in alto, punto di vista su cui converge lo sguardo. Davanti alla Chiesa l’ampio e allungato sacrato, di forma trapezoidale, sopraelevato rispetto a tutto il resto della piazza, racchiuso sui tre lati da un muro – il quarto è la Chiesa. Un progetto sciagurato in corso di esecuzione ha deciso che l’unico spazio unitario e pianeggiante che c’era in questa anomala piazza - una grande terrazza sulla piazza stessa - dovesse essere interrotto da scale poste ad angolo tra la base minore del trapezio e uno dei lati. Il progettista ha visto evidentemente molti disegni di progetti con le immancabili scale piene di giovani felici e sorridenti e così ha trasformato un’immagine grafica in un progetto urbano, ottenendo però il risultato di distruggere lo spazio. Sono i danni delle riviste e soprattutto l’incapacità di leggere, non le riviste ma la città: si prende un adesivo che piace e lo si attacca in pianta; peccato che poi si trasformi in pietra.


La qualità degli edifici intorno, salvo la Chiesa, il convento e poco altro, è scadente, ma la piazza è la più viva della città: sede del mercato rionale, conserva il carattere popolare che ha ereditato dall’essere stata luogo di lavoro, di posta per le carrozze, di vasche per le lavandaie.
Proseguo a lato della Chiesa e, sempre in salita, mi immetto in via della Minerva, una sinuosa strada degli anni '30, che mi porta in Piazza Crucifera. Uno sguardo dall’alto alle mura a strapiombo, dalle quali sono appena uscito e che in quel lato sono di notevole altezza. Ai piedi di queste uno spazio sterrato detto “Il Gioco del Pallone”, dove una volta si giocava ad una specie di pelota.
Proseguo in Borgo Santa Croce, una bella strada extra-moenia, stretta e lievemente flessuosa, a seguire una curva di livello, con edifici abbastanza poveri, salvo qualche eccezione. Arrivo alla Chiesa di Santa Croce. Qui finisce la città antica e mi immetto in un viale che sale verso la Fortezza e il Cimitero. Un tratto diritto di circa duecento metri, in salita, e sono arrivato.
Ho controllato su Google earth, in tutto ho percorso 1250 metri circa, in circa 20 minuti. E’ tanto, è poco? Dipende.
Quei 1250 metri non pesano, anzi, sono un piacere. Il percorso che compio è un susseguirsi di quadri diversi, di sequenze urbane, come ha spiegato bene E.M.Mazzola nel post precedente, a cui rimando.

Gli stessi 1250 percorsi in un quartiere sub-urbano sarebbero stati una fatica, o meglio, una noia. L’incentivo a prendere l’auto è evidente. Con la stessa distanza si può andare dalla fine della città compatta ad un “vicino” supermercato o fare una visita ad un amico nel quartiere PEEP Tortaia.
Ma per farlo si deve percorrere una lunga strada (parallela al Corso) ma progettata per le auto: rare case ai margini e tra loro staccate, una somma di episodi. Si deve attraversare la tangenziale, ambiente ostile per il pedone, si continua a camminare nel vuoto e quei tratti di strada lunghi e monotoni appaiono distanze incolmabili. Infine si arriva al supermercato, progettato come una Chiesa, al centro di una piazza che però è un parcheggio, al centro di un quartiere PEEP.
Lo schematismo del percorso, disegnato con tratto minimalista e la mancanza di stimoli rendono il cammino faticoso e l’ambiente sfavorevole alle passeggiate. Sono del tutto assenti le sequenze urbane, prima di tutto perché è assente la città.
Come si può affrontare con leggerezza una camminata in una strada come questa, dove la meta è ben oltre ciò che si vede al fondo di questa foto?
La distanza e la durata degli spostamenti pedonali è certamente importante nel progetto della città, ma da sola non è condizione sufficiente a garantire una città user-friendly; questi quartieri hanno tenuto conto del raggio di influenza della scuola e dei servizi in genere, cioè degli standard, eppure il risultato è assolutamente insoddisfacente. La logica della quantità, il funzionalismo e la zonizzazione hanno fatto evaporare la città sostituendola con aggregati edilizi inadatti alla vita e alla convivenza umana. Sono stati costruiti molti edifici ma manca ciò che li tiene insieme per farne una città.
Un pensiero rozzo e schematico si è sostituito alla raffinatezza e alla complessità della città antica.
La razionalità da sola ha fallito il suo scopo e la fatica di abitare in città si è sostituita alla naturalezza di viverla.

Non appaia irriverente o troppo riduttivo utilizzare la suggestione del discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, sostituendovi la parola “religione” con “tradizione”:
Senza il correttivo fornito dalla “tradizione” (religione nel testo originale), infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana".

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15 agosto 2010

PARMIGIANO E IDENTITA'

Pietro Pagliardini

Con un ironico e brillante articolo sulla globalizzazione, anzi sulla “grobalizzazione” (per sapere cos’è leggere l’articolo), Vilma Torselli è tornata a scrivere di architettura su Artonweb.
Lo fa parlando di Parmigiano e Coca Cola, il primo, prodotto fortemente legato al territorio, il secondo, da sempre la quintessenza del prodotto globale. E l’architettura cosa c’entra con la Coca Cola? Come sopra, leggere l’articolo.

La globalizzazione è un fenomeno davvero complicato, che ha origine prevalentemente economica, ma che ha ricadute profonde nella società sotto il profilo politico, sociale, culturale ed anche sociologico, perché cambia la percezione che un popolo e i singoli individui che vi appartengono hanno di se stessi all’interno della comunità umana globale.

Globalizzare non è la semplice imposizione dei prodotti di un paese nel mondo; se fosse questo ci troveremmo in una logica “imperialistica” in cui una potenza economica riesce a dominare vaste aree del pianeta utilizzandole come mercato per i propri prodotti. A questo livello si crea una cultura dominante sulle altre, che la subiscono passivamente. Globalizzare significa invece, tra le molte altre cose, che la produzione si sposta là dove esistono convenienze economiche e condizioni politiche favorevoli. Questo comporta un trasferimento di risorse da un paese all’altro, da un’area geo-politica (l’occidente) ad un’altra (l’oriente) e quindi un riequilibrio o un interscambio tra paesi avanzati e paesi (ex)sottosviluppati del mondo. La globalizzazione è un sistema de-regolamentato che, piaccia o no (e a noi occidentali può non piacere) re-distribuisce reddito migliorando le condizioni di vita di popoli fino a poco tempo classificati come terzo mondo.
La globalizzazione credo sia abbastanza indifferente al sistema politico entro cui essa opera, l’importante è che vi sia stabilità, ma non richiede necessariamente un regime democratico. La Cina ne è l’esempio più vistoso.

Ma quali sono i prodotti che si prestano a questo sistema economico? Certamente il parmigiano, prodotto legato al territorio, che ha una storia e una tradizione, che richiede non solo lavoro ma anche materie prime del luogo ed esperienza maturata nel corso del tempo, ha un costo elevato ma de-localizzarne la produzione è, per definizione, impossibile, a parte le contraffazioni che esulano dalla regole del gioco. Non è il prezzo basso la sua caratteristica, quanto la qualità specifica, che deriva dalla sua origine, dalla sua identità geografica. Il parmigiano è identitario, come tutti i prodotti (realmente) tipici. Almeno in questo caso credo sia condivisibile da tutti il fatto che l’identità è “cosa buona”.

La Coca Cola invece è un prodotto economico, con un sapore uguale ovunque, dato che lo “sciroppo”, cioè la base che necessita solo di aggiunta di acqua e bollicine per diventare Coca Cola, viene prodotta in un unico luogo e poi “spedita” nel mondo. La Coca Cola è identitaria oppure no? Tutto sommato, anche questo prodotto è identitario, a prescindere dal luogo di produzione finale, perché è il simbolo di un paese, di una cultura del consumo, anche di un genere grafico e artistico, esportato in tutto il mondo e diventato patrimonio comune a molti popoli, forse a tutti. Forse conserva la sua originaria identità di tipo “imperialista”.
Se è vero che la globalizzazione comporta una certa uniformità di prodotti, proprio per creare un mercato globale capace di assorbirli ovunque, è anche vero che, diversamente da una logica imperialistica, tutti i paesi che ne sono interessati possono raggiungere, alla lunga, autonomia economica, cioè hanno l’opportunità di uscire dalla miseria e possono crescere fino a diventare protagonisti della scena mondiale. Non devono subire i prodotti, ma possono indirizzare i consumi, al pari dei paesi di maggiore “esperienza”.

Questo vuol dire che se la Cina, ad esempio, segue un modello di trasformazione delle città che è mutuato dall’occidente ricco, costruendo grattacieli di acciaio e vetro, lo fa per offrire un’immagine di sé al mondo fatta di simboli capaci di rappresentare quel tipo di “modernità” che tanto piace all’occidente, rinunciando volontariamente a cercare altre strade dato che nessuno glielo impone. E’ dunque una precisa scelta politica e culturale, comprensibile in una fase iniziale di crescita impetuosa. Ma nulla vieta che, una volta assestata la crescita, quei paesi acquistino consapevolezza della loro forza e vogliano affermare una cultura autonoma, sfruttando perciò al meglio i vantaggi della globalizzazione.

Voglio dire, insomma, che siamo alle solite: l’economia è certamente il motore che spinge la macchina della società, che la crea o la annienta, che influisce sulle abitudini di vita e sui costumi delle persone, ma l'autista, una volta partito, può scegliere tutte le strade che vuole: può andare in una corsa pazza verso il nulla o può viaggiare lungo strade sicure e già battute. Una volta raggiunta una certa soglia di benessere può avvenire il ripensamento e i popoli possono comprendere la ricchezza della diversità, dell’identità culturale, dell’orgoglio, direi della bellezza, di appartenere ad un mondo diverso da un altro, e che questa diversità convive e si integra benissimo con l’uniformità dei generi di consumo globalizzati. Di qui la valorizzazione dei prodotti del territorio (non solo alimentari) che coprono settori di mercato diversi.

In questo senso, la scoperta dei valori della città e dell’architettura tradizionale non significa solo conservazione di un patrimonio, ma è una scelta naturale di “mercato”, perché non ha alcun senso andare in Cina per trovarsi nella parodia di Manhattan, né venire a Milano per credere di essere a Londra. Dubai e Las Vegas non sono, invece, esempi da prendere in considerazione, dato che non si tratta di città in senso stretto, ma due maxi o macro (MAXXI o MACRO?) non-luoghi nati con questa specifica vocazione, al pari di un ipermercato o un aeroporto.
Anche nel mondo globale, anzi proprio nel mondo globale, è assolutamente possibile e necessario riscoprire il valore della tradizione, non come affermazione identitaria contro un’egemonia economica e culturale esterna (come nel caso dell’imperialismo) ma come libera scelta all’interno di una comunità di popoli che hanno pari dignità e che si confrontano sul piano economico ed anche su quello della propria cultura e della propria storia.

Peter Eisenmann, invece, in una intervista rilasciata alla Fondazione CAESAR, alla domanda “Ritiene che l’identità sia ancora una categoria valida?”, risponde:
No, io non ritengo l’identità un concetto in cui credere. Certo, ci sono persone che credono che l’architettura sia un problema di identità e lo sia sempre stata, ma personalmente trovo narcisistico e riduttivo un principio d’identità in base al quale un individuo ritiene che l’ambiente esterno debba essere il riflesso di se medesimo e fungere da specchio del suo ego. E’ un’idea figlia della cultura imperialista , o, comunque, della cultura autoritaria in genere. Ma il nostro intento di “demotivare” il significato del/dal segno trova anche una legittimazione nei più recenti sviluppi teorici della linguistica e della semiotica che illustrano l’assenza di una relazione binaria , di corrispondenza diretta ed esclusiva, tra significato e segno, e mostrano che la relazione è, come la definiva Jacques Derrida, “undecideable”. L’architetura non è mai stata al servizio dell’identità”.

A parte l’involuto discorso su Derrida, tirato in ballo per nobilitare il niente, la risposta sull’identità è del tutto privo di senso per questi motivi:
-Il narcisismo non c’entra un bel niente, dato che non è l’ambiente che deve essere lo specchio dell’individuo ma, del caso, esattamente l’opposto. Leggere, riconoscere il carattere dei luoghi ed assecondarlo per dare agli individui un senso di sicurezza e farli appartenere e farli appropriare dei luoghi: questa è l’identità in architettura. Eisenmann attribuisce all’identità i caratteri negativi che invece sono propri della sua personale e narcisistica concezione di architettura, cioè l’egocentrismo dell’architetto che impone la propria visione del mondo ad ogni luogo e ad ogni popolo. Se proprio si vuole parlare di imperialismo, esso è presente nella sua visione che, tra l’altro, mi pare sia alquanto vecchia e non tenga conto delle diversa situazione venutasi a creare con la globalizzazione. Possiamo dunque parlare di una cultura architettonica di pochi che si impongono su molti, e dunque di una cultura “imperialistica”.
-L’affermazione che “l’architettura non è mai stata identitaria” è assolutamente insignificante, dato che l’identità ha valore nell’ambito di una coscienza critica, cioè almeno da due secoli a questa parte, mentre, nell’ambito di una cultura dotata di coscienza spontanea, l’adattamento ai luoghi è accettato e condiviso senza che ve ne sia consapevolezza e il concetto di “identità” non esiste perché essa corrisponde al “comune sentire”(1).

Ma immagino che anche Eisenmann, la cui architettura globalizzata è ideologicamente analoga alla Coca Cola anche se, diversamente da questa, pagata salatissima, sappia apprezzare la bontà del parmigiano, specie sulla pastasciutta, italiana, ovviamente. Farebbe bene a trarne le conseguenze anche per l’architettura. Per la sua e per quella degli altri.

1)Questo non significa, tuttavia, che non vi fosse chi aveva coscienza che fosse opportuno costruire seguendo i caratteri geografici e climatici del luogo. Riporto ad esempio un breve brano di Vitruvio dal De Architectura, Libro VI: “Se dunque, come son diverse le regioni a seconda della diversità della latitudine, così anche la natura delle genti presenta animi differenti e differenti qualità e figure di corpi, non dovremo esitare ad attribuire alle specifiche proprietà delle varie nazioni e genti anche i vari tipi e le varie disposizioni degli edifici: dal momento che troviamo in natura la dimostrazione più chiara e spedita.
Ho esposto colla somma precisione possibile come di debban tenere presenti le naturali caratteristiche dei vari luoghi, e ho detto come si debbano stabilire le qualità degli edifici secondo l’aspetto e le esigenze degli abitanti, in relazione al corso del sole e alla latitudine; ora spiegherò brevemente per ogni genere di edificio il computo della simmetria nell’insieme e nei particolari
”.

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12 aprile 2010

LUOGHI, NON-LUOGHI E...PADANIA

Pietro Pagliardini

Vilma Torselli ha scritto un bell’articolo su Artonweb: La fine dei luoghi, che mi ha procurato una strana suggestione, probabilmente figlia della lunga e noiosa campagna elettorale e della consueta lunga e noiosa fase post-elettorale: un accostamento tra luoghi, non-luoghi e Lega. Sì, proprio quella, proprio il partito italiano più “legato” al territorio, più “legato” ai luoghi.

Mi rendo conto che coinvolgere l’ansia di comprensione di Vilma in un argomento così quotidiano, inflazionato e molto spesso sciatto come la nostra politica può sembrare irriverente e “fuori luogo” ma forse qualche relazione c’è e può aggiungere un tassello alla comprensione del rapporto tra luoghi e non-luoghi, soprattutto nella percezione del rapporto tra modernità e tradizione.

La Lega è un fenomeno, da tre decenni, assolutamente unico e straordinario per la molteplicità di temi diversi e apparentemente contrastanti che è capace di tenere insieme e sintetizzare in un amalgama fortissimo e vincente.
Dovendo indicare le parole d’ordine che caratterizzano questo partito/movimento culturale (aldilà dei noti slogan propagandistici) direi: localismo-globalità, identità-accoglienza, tradizione-modernità.
I termini di ciascun binomio vengono normalmente utilizzati dalla politica e dal mondo culturale, come opposti e anzi, come bandiere delle diverse “identità” politiche per distinguersi dagli avversari, ma nella Lega si coniugano, invece, miracolosamente bene.

In una logica europea in cui l’idea di nazione si depotenzia a vantaggio di un potere sovranazionale, le grandi ideologie al lumicino, la Lega ha compreso da subito, unico partito fra i tanti, che le radici sono necessarie e che queste andavano ritrovate in ambito locale. Evidentemente devono aver previsto che l’Europa non avrebbe avuto anima, se non finanziaria.
Infatti il nord è senza dubbio l’area economicamente più globalizzata d’Italia, ma allo stesso tempo quella che di buon grado accetta non tanto il bizzarro e pagano rito dell’ampolla delle sorgenti del Po (senza trascurarne tuttavia il forte valore simbolico di unità geografico-antropologica da ovest a est, dalle Alpi agli Appennini), quanto la valorizzazione delle tradizioni locali del dialetto, dei prodotti della terra, dei prodotti industriali, della laboriosità sempre in chiave antropologica, del paese, del campanile, dei luoghi insomma.
Paese e metropoli, così come la intende Vilma nel suo articolo, unite allo stesso tempo e non opposte. Luogo, non-luogo e anche super-luogo che convivono senza creare turbamenti o contraddizioni.

Fantasie o slogan propagandistici? Niente di tutto questo, ma il frutto di una lettura e di una analisi molto precisa di una realtà economica e sociale che caratterizza la “Padania”, e la riprova sta nel fatto che alla Lega non riesce, e forse non le interessa nemmeno, se non in termini di puro mercato politico, varcare gli Appennini, perché in quest’area geografica l’ambiente economico, sociale e culturale è completamente diverso: c’è vivacità d’iniziativa, c’è legame con il territorio ma tutto è molto più istituzionalizzato, tutto è più lento e burocratizzato e ogni attività è regolata più dal ritmo delle leggi, dal pubblico, piuttosto che da quello della società civile. La Toscana è terra di esportazione non solo di vini, di lardo di Colonnata, di prosciutto di cinta senese, di paesaggi da cartolina, ma anche di leggi, che le regioni del nord mutuano ma che poi sanno applicare con efficienza e senso di realtà, mentre qui diventano camicie di forza dalle quali non riusciamo a liberarci più, se non con nuove e peggiori leggi. Se c’è un luogo dove acquista pregnanza di significato il termine società civile, questo è la Padania, grazie alla Lega.
Non è, evidentemente, solo un fatto politico ma una “diversità” etnico-antropologica se le stesse leggi producono effetti totalmente diversi in luoghi diversi anche a parità di colore politico delle amministrazioni. Ma non la superiorità antropologica imposta e voluta dall'alto dalla sinistra, quanto una reale diversità di approccio alla realtà.

Ma ho divagato troppo. Colpa della Lega e della sua spesso ruvida ma coinvolgente anomalia. Unico partito che afferma con fierezza e convinzione la propria appartenenza ai luoghi ed anche alla comune religione cattolica, intesa più in senso di tradizione che di fede, e guai a chi tenta di minacciarla, ma che allo stesso tempo accoglie, con decoro, altri popoli con altre fedi, dando ad essi un lavoro e una casa ed esigendo, in cambio, conoscenza e rispetto dei luoghi e delle loro tradizioni. Unico partito capace di esprimere una vera e nuova cultura della modernità, non del modernismo, con l’operosità e l’efficienza dei suoi amministratori ma soprattutto del suo popolo aperto ai mercati globali e alla delocalizzazione, e della tradizione dei luoghi, in una miscela in cui è difficile capire quale sia l’ingrediente più importante, tanto l’uno è necessario all’altro. Un partito che risolve nella prassi il problema della multiculturalità e della convivenza.

La domanda che si impone, e che in altro modo anche Vilma si pone, è: sarà la Lega ad aver creato il mercato dell’identità locale intriso di globalità oppure c’è una esigenza profonda di radici, di appartenenza, di identità che non confligge affatto con la globalità economica e di cui la Lega si è fatta espressione politica, amplificandola?
Naturalmente io propendo per quest’ultima risposta, pur con tutte le incognite e i distinguo del caso. Propendo per questa ipotesi non solo per convinzione personale ma perché il legame tra la Lega e il suo capo, da una parte, e il suo popolo, dall’altra, è profondo e viscerale e non dettato da immediato interesse politico, almeno nella sua base stabile.

Se questo fosse vero ci dovrebbe essere una ricaduta in ambito urbano e architettonico, dato che la città è il luogo deputato ad accogliere le istanze prime di una comunità di persone e non può restarne indifferente. Quali possano essere le forme in cui queste istanze locali e globali si dovranno esprimere è tutto da scoprire.


POST SCRIPTUM
Ho parlato di noiosa campagna elettorale, ma non mi riferivo certo a quella della Lega. Ascoltando la rassegna stampa alla radio ho verificato che la Padania, il quotidiano di quel partito, ha ignorato quasi del tutto le notizie sulla par condicio, sui fatti giudiziari, sulle intercettazioni, su Santoro, ecc. ma ha sempre affrontato temi legati al territorio, ai suoi problemi, alle soluzioni possibili. Sembrava il giornale di un altro mondo. Quello vero.


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