Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


22 giugno 2008

Emanuele Severino e Nikos Salingaros: Le due visioni dell'architettura

Pietro Pagliardini

In questo post riporto qualche stralcio del libro di Emanuele SeverinoTecnica e Architettura”, Raffaello Cortina Editore. In particolare mi riferisco al testo Raumgestaltung, scritto su richiesta di In/Arch.
Perché mi occupo di un libro scritto da un grande filosofo contemporaneo (il giudizio è degli esperti) che tra l’altro, pur essendo uno dei suoi più accessibili, presenta comunque qualche difficoltà e richiede, per una reale comprensione, la conoscenza del suo pensiero e della filosofia in generale?

Non certo per tirarlo strumentalmente per la giacchetta a dimostrare le tesi di questo blog, cioè la superiorità dell’architettura e dell’urbanistica tradizionale, perché, al contrario, i fautori del de-costruttivismo potranno trovarvi argomenti in abbondanza a loro favore; direi quasi che questo libro potrebbe essere adottato come una sorte di fondamento teorico dell’impossibilità di riproporre forme classiche, del predominio e dell’inevitabilità della tecnica in architettura. E allora?
Prima di tutto va detto che il pensiero di Severino, qualunque conclusioni egli ne tragga per l’architettura, è un pensiero alto che nulla ha a che fare con la partigianeria, l’approssimazione e talora l’interesse di alcuni addetti ai lavori (nella partigianeria è certamente compreso questo blog) e quindi è utile a conoscere le ragioni degli altri (altri da me), eventualmente per contestarle; poi perché, e sembra una contraddizione, l’analisi che egli fa dell’architettura tradizionale o antica o classica e anche di quella moderna e contemporanea coincide spesso con quella che generalmente fanno i critici della stessa.

Ma, principalmente, perché credo che dietro ogni opera dell’uomo si cela una visione del mondo, che può essere più o meno consapevole, più o meno strutturata ma c’è e a maggior ragione dietro l’architettura che, da quella minore a quella alta, lascia segni incancellabili, perciò ogni architetto dovrebbe almeno averne coscienza; e invece quando leggo le motivazioni date dagli architetti ai loro progetti non riesco ad andare oltre le tre righe perché, il più delle volte, non trovo pensiero, solo marketing, architettese militante e auto incensante, parole immaginifiche dietro cui si nasconde il nulla. Il progetto dovrebbe parlare da solo: ad un bel progetto non servono parole, ad uno brutto è inutile aggiungere sciocchezze.
Al pensiero di Emanuele Severino farà da contraltare quello di Nikos Salingaros, che non è un filosofo in senso stretto ma uno scienziato, matematico e fisico, che si occupa di urbanistica e di architettura e che, partendo dalla matematica, ha sviluppato una sua teoria dell’architettura, in parte autonomamente, in parte in collaborazione con Christopher Alexander. Purtroppo, sia di Salingaros che di Alexander sono pochi i testi tradotti e dobbiamo accontentarci dei saggi brevi reperibili in Internet e del libro Anti-architettura e demolizione, Libreria Editrice Fiorentina, di Salingaros.
Le due visioni sono agli antipodi nelle conclusioni e nelle previsioni per il futuro dell’uomo e dell’architettura, ma l’analisi che essi fanno dell’architettura antica e di quella classica e tradizionale è assolutamente coincidente.
Ma prima di fare queste considerazioni è meglio leggere il testo di Severino, con l’avvertenza che, per evidenti motivi, ho dovuto tagliare molto e aggiungere molti omissis, talché il pensiero dell’autore non può apparire nella sua compiutezza. Per questo, oltre a rimandare (e consigliare) alla lettura integrale del libro che offre molti altri spunti di grandissimo interesse, mi scuso con l’autore.
N.B.: la punteggiatura e i corsivi sono dell’autore, i grassetti sono miei.

"Nella tradizione dell’Occidente la città, la casa, il tempio, il teatro, lo stadio, la chiesa, il castello non vogliono esistere in eterno, e tuttavia vogliono rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo e quindi intendono essere il meno caduchi possibile e presentarsi essi stessi con una certa aura di eternità. Volendo rispecchiare l’Ordinamento eterno del mondo, vogliono esserne il simbolo. L’uomo trova un riparo nelle proprie abitazioni non perché riceva da esse certe prestazioni, ma perché è il loro essere simbolo dell’Eterno che egli, abitandole , si sente al riparo.
Omissis
E poiché nella cultura tradizionale la regola assoluta e immutabile coincide con la bellezza, nell’architettura moderna (e in ogni altra forma di arte) la bellezza della figura non appare più come valore assoluto, ma come la configurazione che le opere dell’uomo vengono ad assumere in rapporto ai suoi scopi.
Nell’architettura tradizionale la bellezza appartiene all’essenza dell’edificio e la decorazione all’essenza della bellezza, perché concentra in sé gran parte della forza simbolica con cui l’edificio mostra di essere rivolto e inscritto nell’Ordinamento eterno e divino del mondo. Per il Greci la decorazione è cosmesi: conferisce “ordine” (kosmos) ai materiali dell’arte e allo spazio in cui si dispongono. Il kosmein (“dare ordine”) è la Raumgestaltung dove la Gestaltung è regola assoluta e immutabile. Anche la parola latina decus (“fregio, ornamento, legiadria, bellezza, convenienza, decenza, dignità, splendore”), su cui si formano decor (“decoro”) e “decorazione”, e che proviene da deceo (“convenire, essere decoroso”), indica ciò che conviene e si addice alle cose, ossia indica, quando il linguaggio parla la lingua dell’episteme, l’ordinamento che conviene e si addice alle cose e dunque alle abitazioni, perché rispecchia ed è il simbolo dell’eterno Ordinamento divino.

Omissis
Ma quando l’episteme tramonta, la decorazione perde tutto questo imponente spessore semantico e si presenta come il superfluo e l’estrinseco da cui, a partire da Herman Muthesius e da Hratio Greenough, il “Movimento moderno” dell’architettura intende liberarsi totalmente in nome del principio che “la forma segue la funzione”. E’ il modo in cui si vuol vivere negli spazi interni degli edifici (la “funzione”) a determinare “l’involucro” (la “forma), il quale dunque diventa una configurazione che lascia liberi gli spazi interni. Nel “Movimento moderno”, dove la libertà spaziale è essenzialmente connessa alla libertà democratica e all’architettura popolare, la libertà della pianta, della sezione e della facciata è una delle caratteristiche architettoniche più visibili (come la libertà metrica e sintattica della poesia, la libertà dei rapporti cromatici-figurativi e dei rapporti melodico-tonali). Tale libertà esprime la liberazione dalle strutture immutabili dell’episteme e dunque dalla concezione epistemica della matematica e della geometria. E, insieme, tale libertà è resa possibile dalle nuove tecniche del ferro e del cemento armato, che si costituiscono all’interno della progressiva affermazione della tecnica guidata dalla scienza moderna, all’interno cioè della potenza che diventa predominante proprio perché si fa guidare da un sapere che si rende sempre più conto che la crescita della potenza sul mondo è direttamente proporzionale all’entità della libertà, ossia del rifiuto della concettualità epistemica.
Omissis
Il “Movimento moderno” dell’architettura esprime, sia pure entro i limiti della prassi e della riflessione architettonica, il passaggio dalla città chiusa alla città aperta. Nella città chiusa, recintata da mura, le mura, la casa, il tetto, le pareti, il tempio, il teatro riparano dall’annientamento solo se in essi si rispecchiano il divino e l’eterno, cioè solo se la città è “presidio degli dei”…….

Omissis.
La città terrena è l’immagine della città celeste. Nel greco antico, nell’avestico, nell’ebraico le parole che indicano il paradiso significano “recinto”, luogo chiuso e protetto, e appunto per questo “giardino di delizia”. Il paradiso è la rocca inaccessibile che ripara dal caos e dal nulla che la circondano e protegge dall’angoscia. La città chiusa dell’episteme è l’immagine del paradiso. La volta del cielo si abbassa e diventa volta architettonica e mura che proteggono e poi soffocano i mortali.Omissis
Le strutture in ferro e vetro della città aperta rendono invece possibile quella elevata permeabilità visiva tra interno ed esterno che esprime sul piano architettonico la necessità che il riparo non sia a priori chiuso in sé, ma quell’apertura all’esperienza, una delle cui forme più caratteristiche è data dal metodo sperimentale della scienza moderna – dal metodo che, aperto agli insegnamenti dell’esperienza, consente un dominio del mondo più reale di quello ottenuto dal sapere incontrovertibile e chiuso in sé dell’episteme. E il grattacielo, a sua volta, rompe la volta architettonica tradizionale e si protende nei liberi spazi del cielo per aggredirli e dominarli realmente e non per sottometterli alla onirica e dunque fallimentare configurazione epistemica dello spazio":

In questo testo non è difficile leggere un’estetica dell’architettura e della città. Dove affonda, secondo Severino, la bellezza di un edificio dell’architettura tradizionale? Nella decorazione che, egli dice, è l’essenza della bellezza perché la decorazione è il simbolo che l’edificio è inscritto nell’Ordinamento eterno e divino del mondo. La cosmesi è ordine e l’ordine è regola assoluta e immutabile perché “rispecchia ed è il simbolo dell’eterno”. La regola assoluta coincide con la bellezza ma quando cade la conoscenza incontrovertibile dell’Ordine, la decorazione diventa superflua ed ad essa si sostituisce la funzione, la quale determina la forma.

Severino chiarisce tuttavia che tutto ciò vale quando il linguaggio è quello dell’episteme, cioè “della conoscenza certa e incontrovertibile delle cause e degli effetti del divenire, ovvero quel sapere che si stabilisce su fondamenta certe, al di sopra di ogni possibilità di dubbio attorno alle ragioni degli accadimenti”.

Ma tutto il pensiero di Severino ruota intorno all’idea che il mito, prima, la fede in Dio dopo (qualunque Dio), sono una costruzione della mente umana per attenuare il dolore e l’angoscia dell’esistenza; la fede in Dio è però già stata superata dalla fiducia nella Tecnica la quale, con processo analogo a quello avvenuto nei confronti della Religione, si trasformerà da mezzo, per attenuare e curare il dolore e l’angoscia, a fine, determinando così, in maniera ineluttabile, il fatto che l’uomo sarà costretto ad essere dominato dalla Tecnica (i filosofi mi vorranno perdonare se ho banalizzato in tre righe il pensiero di Severino, sperando di non averne travisato del tutto il senso).

Anche l’architettura, al pari di ogni altra attività umana, si trasforma insieme all’evoluzione del pensiero della società e alla “cupola”, rappresentazione terrestre della volta celeste, si sostituisce il “grattacielo”, sfida tecnologica alla volta celeste, cioè all’ordine universale e, infine, a Dio; parimenti, alle mura della città, simbolo di una società chiusa, rappresentazione terrestre della città celeste, si sostituiscono le pareti di vetro che rappresenterebbero (uso il condizionale perché questo passaggio mi sembra un po’ troppo automatico) la consapevolezza che oltre le mura ci sono territori sconfinati di conoscenza.

Non voglio nemmeno accennare lontanamente ad argomentazioni a queste contrapposte, basate sul piano filosofico e logico, e mi limito ad osservare, in maniera perfino banale, che tutto l’impianto del pensiero di Severino si basa sulla mancanza di scelta e di libertà da parte dell’uomo. Tutto è prestabilito, tutto è ineluttabile. Quanto alle considerazioni sull’architettura, devo dire che alcuni concetti mi sembrano un po’ nebbiosi e forse non risolti. In particolare, mi sembra che nel rapporto tra antico e nuovo (capitolo: “La città e le idee – Sulla questione dei centri storici”) non sia affatto chiaro il fondamento del principio di “abbandonare conservando” che si attuerebbe mediante la “conservazione integrata” che è la costruzione della città nuova che coinvolge il centro storico senza distruggerlo e che darebbe “il senso del nostro tempo, che può veramente allontanare dal passato solo se continua a guardarne il volto e a sentirne il respiro”. L’impressione che ne colgo, ma posso sbagliare, è quella che nell’autore, rispetto ai suoi principi, prevalga una volontà di conservazione su una ineluttabilità della stessa.

Resta tuttavia il fatto che la fotografia che Severino fa dell’architettura tradizionale è perfettamente coincidente con quella di molti teorici di questa architettura, da Alexander a Salingaros, come specchio delle leggi matematiche di ordine dell’universo.
La differenza sta nelle premesse e nella conclusione che per Severino porta al dominio ineluttabile della Tecnica e al nichilismo assoluto, per Salingaros al valore universale delle leggi matematiche che regolano la natura, di cui l’uomo fa parte, e che trovano la loro espressione anche nell’architettura, dal dettaglio decorativo all’insieme, e nella città come organismo complesso che si comporta, analogamente al corpo umano, come una rete costituita da collegamenti e nodi.
Salingaros sviluppa la sua parte teorica nel libro A Theory of Architecture, che purtroppo non è tradotto in italiano ma di cui ci fornisce alcuni piccoli saggi nel libro Anti-architettura e Demolizione. Dice Salingaros:

“Per capire meglio la situazione, dobbiamo seguire la nascita e l’emersione storica degli stili tradizionali. Come si sono evoluti fino a rappresentare una tale complessità visuale e strutturale? L’ornamento non è necessario dal punto di vista strettamente utilitario, ma è necessario per definire un’architettura viva. Ovviamente l’uomo ha sviluppato tecniche e tipologie nel costruire il suo ambiente basate sulla sua neurofisiologia. Abbiamo sempre voluto costruire forme e superficie che ci facessero stare meglio, e non il contrario. Il nostro corpo e i nostri sensi riconoscono le strutture adatte, che dispongono di una similarità fondamentale con la nostra struttura. Il benessere fisiologico e psicologico ambientale è basato sulla consanguineità con l’ambiente. Tale affinità è possibile soltanto se l’ambiente è strutturato con una complessità molto speciale. Questa complessità è la qualità comune a tutti gli stili architettonici tradizionali e vernacolari.
Omissis
Soltanto nell’era dell’industrializzazione si sono aperte nuove direzioni, provocate dai prodotti e dai materiali industriali.”

Quindi secondo Salingaros è la complessità la caratteristica saliente dell’ambiente costruito tradizionale mentre l’architettura moderna e soprattutto quella de-costruttivista si caratterizza per la sua estrema povertà di segni, essenzialità di materiali, mancanza assoluta di decorazione. Anche Salingaros, al pari di Severino, riconosce nella decorazione l’essenza della bellezza, ma egli ritrova l’Ordine dell’universo nelle leggi matematiche, senza ricorrere necessariamente a Dio, pur non escludendolo affatto.
Per spiegare le leggi della complessi Salingaros utilizza la matematica dei frattali che è capace di rappresentare le forme della natura. Negli alberi, ad esempio, ogni ramo è simile all’intero albero e ogni rametto è simile è simile al ramo, e la foglia è simile al rametto, e così via. Lo stesso avviene per la geografia dove un golfo è simile ad un’insenatura molto più piccola del golfo stesso, e così via. Un frattale è un oggetto geometrico che si ripete nella sua struttura allo stesso modo su scale diverse.
Ancora dal libro di Salingaros:
Lo scienziato americano Edward Wilson va molto a fondo nella sua convinzione che l’essere umano è legato alle altre forme viventi tramite il materiale genetico. Wilson introduce il termine di biofilia per denotare il legame molto stretto tra noi e il nostro ambiente. Esaminando come si è formato il corpo umano nel passato presitorico, egli ritiene che il ricordo di quegli antichi luoghi si sia conservato nella memoria ereditaria e che noi cerchiamo in modo inconscio di riprodurli nel nostro ambiente contemporaneo.
La qualità del nostro ambiente primordiale originale, cioè una savana con alberi distanziati, è matematicamente complessa in modo molto preciso. E’ la stessa complessità frattale che si trova nella struttura biologica. Riconosciamo la stessa complessità, o la sua assenza, nelle strutture costruite. Dove c’è ci sentiamo bene, e dove non c’è ci sentiamo male”.


L’accostamento di queste due diverse strutture di pensiero consente alcune semplici considerazioni:

- L’architettura tradizionale affonda le radici della sua bellezza in una visione del mondo che presuppone un Ordine, divino o naturale;
- la scelta che gli architetti fanno a favore della tradizione o della modernità non può essere perciò esclusivamente basata cu criteri personali di “gusto” né su banali considerazioni sociologiche del tipo “alla civiltà delle macchine si confà un’architettura moderna” o, peggio, “la società è caotica e quindi anche l’architettura deve essere il suo specchio”. Ammesso che la realtà sia caotica non è affatto detto che lo debba essere per forza e il costruire edifici caotici comunque contribuisce solo ad aumentare il caos;
- il modernismo e talora anche il de-costruttivismo hanno coinvolto perfino l’architettura sacra; questo fatto è un vero paradosso perché la visione religiosa non può che basarsi su un universo ordinato e governato da leggi assolute e incontrovertibili e i luoghi di culto dovrebbero esserne la rappresentazione fisica più alta, come in effetti è sempre stato fino ad oggi, e non luoghi in cui più che altrove si avverte il contrasto tra l’architettura e il simbolo che dovrebbe esprimere, tra forma e funzione, ovviamente intesa in forma non utilitaristica.


P.S. PER UN APPROFONDIMENTO SUL TEMA SEGNALO QUESTO POST SU BIZBLOG

9 commenti:

Anonimo ha detto...

sebbene sia palese l'intento di un contradditorio mirato e puntuale con Emanuele Severino, mi sorprende comunque che nell'articolo non venga tirato in ballo il fu Jacques Derrida, padre adottivo dell'architettura cosiddetta decostruita, fautore, almeno nell'interpretazione dei decostruttivisti, della crisi di autorità della “metafora architettonica”.

Anonimo ha detto...

Mi pare che il nodo filosofico sia proprio questo, Pietro.
Non resisto, anche se è un po' stucchevole auto-citarsi, mettere qui un link ad un mio scritto, in cui riportavo, in nota, parte della citazione che hai trascritto di Severino.
http://bizblog.splinder.com/post/15813659/Riguardo+architettura+e+nichil
Ciao

Pietro Pagliardini ha detto...

Non si deve affatto meravigliare, per il semplice fatto che io faccio l'architetto e non il filosofo. Perchè allora Severino e non Derrida, chiederà lei? Perchè Severino l'ho letto per interessi del tutto diversi da quelli dell'architettura mentre di Derrida ne sono a venuto a conoscenza leggendo Salingaros. Mi spiace deluderla ma la realtà è (per quello che mi riguarda) molto semplice e in questo caso è: pura ignoranza. Però, a occhio e croce, in base a quanto ho letto su di lui, se io fossi un de-costruttivista mi sa che preferirei prendere come padre nobile Severino (ma certamente un'occhiatina la vorrei prima dare anche a Derrida).
Saluti
Pietro

Pietro Pagliardini ha detto...

a biz
il tuo post, che consiglio a tutti gli interessati, è straordinario e ne ho aggiunto il link in fondo al mio post.
L'ho sempre detto che siamo d'accordo su quasi tutto fuori che in politica...
Saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Sul pensiero di Severino, va segnalata la tragicommedia VEDERE SENZA VEDERE di Donato Sperduto, prefata dallo stesso E. Severino (Schena editore). Si capiscono meglio le implicazione del pensiero severiniano.

Pietro Pagliardini ha detto...

Ringrazio per la segnalazione e provvederò a procurarmi l'opera, anche se, per mia inadeguatezza, dubito che riuscirò mai a penetrare fino in fondo nella complessità del pensiero di Emanuele Severino.
Saluti
Pietro

giobc ha detto...

non sono un architetto, ma un appassionato lettore del filosofo bresciano. Per le implicazioni pratiche dell'ontologia severiniana invito a recuperare informazioni sull'architetto - e mio amico - giovanni leo Salvotti de Bindis, archittetto attivo in Trentino. Architettura viva gli ha dedicato un libricino dove lo si indica come eminente lettore di Severino. Salvotti me ne ha regalata una copia, difficile però trovarla sul suolo nazionale. A chi fosse interessato posso indicare come fare a guardarla su internet.

Giorgio de Cles
giorgio1943@gmail.com

Pietro Pagliardini ha detto...

Grazie. Penso però che sia più semplice lasciare un commento con le indicazioni per trovare la copia su Internet, così servirà a tutti.
saluti
Pietro

Anonimo ha detto...

Il libro di D. Sperduto, Vedere senza vedere (Schena), su Severino è davvero illuminante. E poi, l'idea del pensiero futile, geniale!

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