Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


26 settembre 2008

IL TEMPO DELL'ARCHITETTURA

Pietro Pagliardini

ANTEFATTO
Cena dei sessanta anni di un amico. Ospite anche qualche architetto. Serata all’insegna dell’allegria, nonostante il tema della serata. Banditi i discorsi seri.
All’uscita, però, ognuno di noi ha ripreso il suo ruolo, la mente lievemente offuscata da qualche brindisi perché ad un collega più giovane, a me che obiettavo che la HAAS HAUS di Hollein a Vienna, davanti alla Cattedrale di Santo Stefano, è uno strappo, una inutile e brutta “cicatrice nel volto” di Vienna, è scappata una battuta il cui senso era, più o meno, questo: “E se fosse la Cattedrale di Santo Stefano lo strappo?”.
Ora dobbiamo tenere conto delle circostanze e quindi concedere le attenuanti generiche, né posso escludere che la mia affermazione possa essere stata formulata in modo altrettanto paradossale, tuttavia la battuta rappresenta la limpida estremizzazione di un concetto, espresso in forma assolutamente provocatoria che ribalta la realtà temporale e ipotizza un diverso, impossibile corso di eventi già avvenuti; è un modo di esprimere un pensiero ricorrendo ad una reductio ad absurdum imperfetta; è per me sintomatica di una diffusa mentalità che, nella tensione di giustificare l’architettura contemporanea, arriva a considerare o a ipotizzare sbagliata l’architettura antica e, di conseguenza, la storia.

Il significato di quella battuta, aldilà delle reali intenzioni, è che la città intera, così come ci è stata consegnata, deve, proprio essa, adeguarsi alle nostre forme, all’architettura contemporanea, ai nostri bisogni ma, direi, ai nostri capricci. Non si tratta più di limitare la tabula rasa al nuovo progetto ma di estenderlo anche al corpo e al cuore delle nostre città; ciò che conta è solo il qui, ora, il nostro immediato desiderio; tutto il resto è un impiccio che può essere tollerato fino al momento in cui l’arroganza del nuovo ha bisogno di spazio.

Se conta solo l’attimo, il qui-ora, senza relazione alcuna con la stratificazione della storia presente negli edifici, nelle strade, nelle piazze pre-esistenti, significa che la percezione del tempo, in architettura, si è ridotta alla durata del breve periodo che passa dall’ideazione del progetto alla sua realizzazione; poi segue subito un’altra fase temporale, altrettanto breve per il prossimo progetto e la prossima realizzazione, che trascurerà non solo l’architettura pre-esistente ma anche quella costruita un attimo prima, e così via.

Il tempo dell’architettura contemporanea diventa la somma di tanti istanti discontinui l’uno dall’altro.

TEMA
Quali le cause che determinano il ristretto orizzonte temporale dell'architettura contemporanea? Perché il tempo dell'architettura si è ridotto fin quasi a scomparire?

SVOLGIMENTO
Parlare di architettura non vuol dire solo parlare di progetti di edifici, di forme, di funzioni, di stile, di materiali, di linguaggio; l’architettura non si esaurisce e non si è mai esaurita nella produzione dell’oggetto fine a se stesso ma ha sempre avuto, più o meno consapevolmente, un forte legame con la società. L'architettura è espressione del proprio tempo.

Fino a quando il processo di crescita e sviluppo della città è avvenuto senza architetti, almeno nell’edilizia di base, seguendo regole dettate dalla “coscienza spontanea”, cioè senza la consapevolezza critica di chi “decide di fare un progetto di casa” ma semplicemente “decide di fare la casa” costruendola in base alle conoscenze tecniche disponibili, ai bisogni e all’idea diffusa e comune di casa che in quel determinato momento storico esiste, non c’era e non poteva esserci la consapevolezza di collocare quell’edificio come appartenente a quel determinato periodo storico e culturale e come sua specifica espressione artistica.

In un certo senso non c’era dunque la percezione del tempo nell’architettura, ma più propriamente direi nell’atto del costruire, perché senza la capacità critica di astrazione del progetto e del suo inserimento in una linea temporale di sviluppo dell’architettura, cioè senza una visione storicistica, la casa, quella casa, era per sempre, era cioè eterna. Chi costruiva lo faceva per sé e per la sua famiglia ma con lo scontato presupposto che il tempo di quella casa avrebbe coinciso con la durata dei materiali stessi e perciò praticamente infinita rispetto alla vita umana. L’edilizia, con la coscienza spontanea, ed anche l’architettura, quella più aulica degli edifici che costituivano “temi collettivi”, secondo la definizione di Marco Romano, erano certamente figlie della società, della sua cultura e della sua economia; in una società più chiusa, più organica e meno dinamica il tempo dell’architettura era necessariamente lungo; il cambiamento, il passaggio da una forma costruttiva all’altra, da uno “stile” all’altro, anche se qualitativamente apprezzabile, si riverberava nella città con un tempo molto lungo e la permanenza dei caratteri costruttivi e stilistici delle fasi precedenti era altrettanto lunga e, soprattutto, non in contrasto con il nuovo; o meglio il nuovo si omoegeneizzava al vecchio che, a sua volta, perpetuandosi anche in presenza del nuovo stile, non era però in opposizione al nuovo.

La città, cioè, era dotata di una grande inerzia, la quale diluendo nel tempo le modifiche, ha prodotto una sostanziale armonia, non priva delle “dissonanze” di cui parla Cacciari per Venezia.
E’ un fenomeno paragonabile allo scorrere di un fiume, che modifica e rimodella il proprio alveo di continuo, ad ogni piena erode una sponda e ingrossa l’altra, crea nuove anse, arrotonda le asperità delle pietre e le rende ciottoli, ma in un processo lento e continuo, raramente assumendo il carattere del cataclisma.

Si prenda ad esempio il Rinascimento. Questo è il momento storico in cui la figura dell’Architetto si afferma e si delinea come quella depositaria della conoscenza e della titolarità del progetto. Avviene dunque un fenomeno di specializzazione, anche se con caratteri affatto diversi da oggi, essendo questo un artista anche dedito a scultura e/o pittura. Fino ad allora aveva prevalso una visione più unitaria e condivisa del progetto, che era opera collettiva delle maestranze pur con la presenza di soggetti più propriamente dediti allo studio e alla concezione dell’insieme. I progetti urbanistici e architettonici assumono perciò, sotto la guida di un’unica figura, il carattere di unitarietà e sincronia, resa possibile anche dalla presenza del Principe, cioè di un unico committente; cambiano le concezioni spaziali, guidate e controllate dalla prospettiva; si afferma una concezione più autoritaria della trasformazione urbana, meno corale, meno “partecipata”, diremmo oggi.
Eppure la permanenza, anzi l’affermazione teorica di principi architettonici fondamentali, quali la triade Vitruviana, unita all’inerzia all’adattamento dell’edilizia di base, ha consentito la coesistenza ordinata del nuovo con il vecchio.
Si può affermare che il tempo dell’architettura, se pure ha subito una contrazione, conserva sempre un orizzonte molto ampio.

Quando è intervenuta la rottura di questo processo che definisco, in via sintetica e approssimativa, sufficientemente lento ma continuo e globalmente omogeneo?

Senza soffermarsi troppo su un’analisi storica precisa e dettagliata e dando perciò come acquisito il passaggio dell’illuminismo, dell’industrializzazione e delle grandi scoperte scientifiche, con le sue ricadute tecnologiche diffuse a livello di massa, credo che, almeno per l’Europa e per l’Italia, si possa segnare nel secondo dopoguerra.
In questo periodo vi è stata la coincidenza di due fattori: l’uno culturale, cioè l’applicazione generalizzata della rottura dei canoni architettonici elaborati nel trentennio precedente dal Movimento Moderno, l’altro economico, cioè la ricostruzione impetuosa e fuori dalle regole di controllo urbanistico sommata alla mancanza di regole architettoniche.

Questa fase contiene in sé il germe dell’attuale situazione: uno sviluppo edilizio elefantiaco, in città, con le grandi trasformazioni urbane soprattutto di aree dismesse dall’industria, in campagna, nei centri storici, soprattutto nelle grandi capitali e nelle metropoli, che costituisce la massa dell’impatto sul territorio, accompagnato dall’esistenza di un’architettura sfacciata e urlante, esclusivamente basata sull’immagine, sulla totale mancanza di riferimento alcuno alla triade Vitruviana, sull’uso di materiali sperimentali in un rapporto ambiguo tra causa ed effetto, non essendo ben chiaro il confine tra il materiale che accondiscende il progetto o l’inverso, cioè il materiale che crea il progetto.Queste nuove icone dell’architettura, quantitativamente non confrontabili con la massa edilizia diffusa, tuttavia ingombranti, invadenti e prevaricanti nel paesaggio urbano, diventano esempi, prototipi, campioni da ricopiare, imitare, riproporre, magari smembrandone e utilizzando alcune parti, su qualunque tipologia edilizia, contribuendo ancor di più a rendere la massa costruita informe, dissonante e chiassosa.
L’architettura contemporanea, che è inevitabilmente figlia anch’essa della società, è certo pienamente consapevole dello scorrere della storia e del ruolo di testimone che l’architettura ha del proprio tempo; però è incerta, confusa e spesso superficiale nell’elaborazione degli accadimenti della società stessa.
Compie analisi frettolose sulle tendenze, giustifica i progetti affidandosi a grandi narrazioni prive di alcun riscontro concreto, immagina un presente e un futuro improbabile, si affida ad una maldigerita filosofia e scienza dell’indeterminatezza utilizzandola come un principio fondante delle proprie opere prefigurando, paradossalmente, scenari che proprio quelle scienze negano possano essere prevedibili.

In sostanza segue mode estetiche e mode sociologiche: dopo l’inurbamento c’è il ritorno ai piccoli centri? Si prende come una tendenza stabile e si interviene con la “modernità” in questi. La tecnologia e l’informatica consentono alcune possibilità di lavoro decentrato e domestico? Si costruisce prima una teoria approssimativa sulle ricadute territoriali e dopo si “costruiscono” interventi edilizi “pilota”, naturalmente non privi del necessario cablaggio (che poi te lo immagini che colpo di genio) e soprattutto si costruiscono case, strade, ecc. La società è liquida? Anche la città lo deve essere (che cosa significhi francamente non so).

Ognuna di queste analisi della società possiede una parte di verità ma nessuna è vera del tutto e, soprattutto, nessuna è vera per un lasso di tempo superiore a quello della costruzione degli edifici costruiti in base ad essa. L’unica verità costante della società contemporanea è la complessità (e questo lo dicono proprio coloro che ne fanno un cavallo di battaglia per costruire follie architettoniche); da questo dato di fatto vi è chi ne ricava un’architettura il cui tempo è l’attimo, al pari di un normale prodotto di consumo, di un modello d’auto, di un abito alla moda. Un’architettura effimera, priva di tempo e destinata ad una obsolescenza d’immagine e di qualità quasi immediata.

Passata la moda resterà la noia e, soprattutto, resteranno gli oggetti sul territorio, come macerie (capita a proposito questo progetto di MVRDV vincitore di un concorso a Tirana, il cui banale simbolismo suona, a mio avviso, come un’offesa ad un paese che, uscito da poco dalle macerie del comunismo, ora si ritrova nelle macerie della globalizzazione culturale). Inevitabile l’associazione d’idee con la attuale crisi finanziaria americana e mondiale per la quale si dice che “è finito un mondo”: Tremonti dice su IL FOGLIO che era facilmente prevedibile, e lui l’aveva prevista da tempo, perché si viveva nell’illusione, scambiata per realtà presente e futura, che la finanza creativa e debitoria potesse essere svincolata dall’economia reale. Chi l’avrebbe detto, invece, che saremmo tornati a forme massicce di intervento statale sull’economia proprio da parte del paese più liberista del mondo? Chi può escludere, dopo il ritorno ad una agricoltura produttiva e ricca, anche il ritorno alla produzione dei beni, una volta non più conveniente la delocalizzazione causa giusto aumento dei salari anche nei paesi emergenti e in via di sviluppo?

CONCLUSIONE
E’ dunque doveroso diffidare da chi, soprattutto architetti, dà per sicuri scenari futuri della società che, al massimo possono essere considerati probabili. Ma sulla probabilità si può costruire un “mondo nuovo”, distruggendo quello che esiste? E' come decidere di investire giocando al Superenalotto.

Ritrovare almeno un tempo umano per l’architettura è l’imperativo, almeno come principio di precauzione; costruire edifici che possano durare l’arco di qualche generazione e non il battito d’ali di una farfalla che, tra l’altro, come predicano sempre i nostri architetti amanti del caos, può scatenare un ciclone a migliaia di chilometri di distanza.


RINGRAZIAMENTO:
Caro L.
ti ringrazio per avermi dato la possibilità, con la tua frase, di fare questo post. Tu forse non sai come sia difficile e faticoso trovare argomenti e, quando se ne presenta uno, anche piccino, come ci si debba buttare a capo fitto e sfruttarlo al massimo!
E' chiaro che non sei minimamente responsabile di tutto il castello di amenità che ho costruito io su quella tua frase occasionale di fine serata e quindi questo post non intende, né potrebbe, esprimere il tuo pensiero. Però, nel bene o nel male, quella frase è la tua.
Saluti
Piero

N.B. Le foto aeree sono tratte da Visual Earth di Microsoft

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25 settembre 2008

CAMILLO LANGONE: L'ANTICRISTO ABITA AL 53° PIANO

E' inevitabile: ogni articolo di Camillo Langone, su IL FOGLIO, che parla di architettura deve essere linkato.

http://www.ilfoglio.it/soloqui/1048

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24 settembre 2008

STRANI ABUSI E SUPERFLUE SPESE

di Francesco Gazzabin

.....strani abusi, le superflue spese......
Andrea Palladio
(dal Proemio al libro I dell’Architettura)

STRANI ABUSI....
Sembra un’espressione contemporanea, una riflessione fatta da quei cittadini che, di fronte ad una delle tante “trovate” architettoniche celebrative dell’estro e della capacità creativa dell’archistar di turno chiamata dalla solita amministrazione comunale per sponsorizzare nel mondo l'immagine di modernità della propria città,

non riescono a comprendere il perché di una simile scelta progettuale, il perché di forme e stranezze stilistiche, veri e propri abusi nei loro confronti, e che dovranno subire quotidianamente ed anche economicamente, visto che la maggior parte delle volte si scopre che il relativo costo di costruzione è andato lievitando nel passaggio dal preventivo al consuntivo.

....E SUPERFLUE SPESE

… e invece no, è un’espressione vecchia alcune centinaia di anni, di quel noto personaggio che al suo tempo era considerato un innovatore, nel metodo progettuale e soprattutto nella forma la quale nasce sempre dallo studio del passato, fonte inesauribile di stili ed elementi architettonici.

Al “Tagliapietre” Andrea Palladio, persona evidentemente dotata di grande senso pratico, attento conoscitore dei materiali da costruzione e del buon uso che se ne poteva fare, dovettero sembrare quanto meno “inconsueti” quegli edifici nei quali alcuni elementi architettonici erano costruiti con materiali non idonei all’uso e che costituivano perciò uno spreco di denaro; anche oggi spendere soldi per realizzare opere non idonee all’uso e facendo largo uso di prodotti “sperimentali”, ad alcuni potrebbe sembrare uno spreco, specie se i soldi sono pubblici.

Abusi?

Usando oggi il termine abuso, naturalmente in ambito edilizio, ci si riferisce a fabbricati o a qualsivoglia architettura realizzata in assenza o difformità da titoli autorizzativi rilasciati dalle autorità competenti in materia.
Anche al tempo di Palladio esistevano norme e statuti che, in vari modi, regolamentavano l’attività edilizia, ma certamente quando l’Architetto parlava di abusi si riferiva al cattivo uso degli elementi architettonici e non certo alla veranda del sig.Rossi.

Parliamo allora dei veri abusi edilizi cntemporanei, sicuramente lontani, non solo nel tempo, da quelli visti dal Palladio; parliamo di quelle mostruose “macchine”, estranee ad ogni contesto, oggetti inclassificabili dove la regola è la sregolatezza, dove il principio ispiratore è solo nella testa (o nella mano) di chi l’ha pensato, lo stesso principio che ispira un qualsiasi pittore dell’astratto che nei suoi quadri traduce le proprie emozioni in segni e colori non codificabili o meglio traducibili in parole soltanto da chi voglia dare ad ogni costo un significato alla sua fantasia.

Abusare!

Tutto ciò non significa forse abusare, nel senso di commettere abuso sul comune cittadino costretto a subire l’ingombrante presenza di oggetti realizzati in deroga ad ogni regola (del buon costruire) e regolamento (strumento edilizio/urbanistico)? Proprio quello stesso cittadino che forse una volta si è anche visto negare da una commissione edilizia o da una Soprintendenza l’autorizzazione ad aprire una finestra, piuttosto che cambiare un infisso, in nome del rispetto delle norme e del decoro degli edifici e dell'attenzione verso l'ambiente circostante?

Certo, anche un quadro o una scultura possono essere considerati abusi, se offendono la vista di alcuni, ma, dato il loro essere oggetti mobili, diversamente dagli immobili, essi possono essere accolti all’interno degli edifici ed essere “goduti” da chi ne ha voglia e soprattutto senza alcuna costrizione, come avviene invece con gli edifici che, pur privati, si rivolgono e parlano sempre (urlano talora) ad uno spazio pubblico.

Una torre sbilenca o contorta (al tempo del Palladio il termine grattacielo poteva forse essere appellativo di persona un po’ squilibrata) di decine e decine di metri, un ponte di acciaio e gradini di vetro la cui bellezza è pari soltanto alla sua inutilità, una pensilina, o forse sarebbe meglio chiamarla pensilona data la stazza, rimarranno invece lì, ingombranti testimoni della "grandezza" dei loro progettisti e ricordati soltanto con il nome del loro autore: la Torre di Caio, la Sfera di Sempronio e non come succede con la maggioranza delle architetture classiche di tutti i tempi che, nonostante siano state progettate da illustri architetti, vengono chiamate con il nome del loro committente o con quello del santo cui sono dedicate o ancora con il nome del luogo nel quale furono erette: Palazzo Farnese, Cappella Pazzi, Duomo di Santa Maria del Fiore, Castel del Monte.

La Basilica di Santa Croce a Lecce, mia città di origine, è stata realizzata su disegno del celebre architetto Giuseppe Zimbalo eppure non viene certo ricordata come la Basilica di Zimbalo, bensì come capolavoro del barocco; la chiesa di Santo Spirito a Firenze, come è noto, fu realizzata su disegno di Filippo Brunelleschi, ma non mi sembra che sia chiamata da qualcuno la chiesa del Brunelleschi. La cupola del Duomo di Firenze, quella sì è la "cupola del Brunelleschi" per la travagliata  storia con cui è nata, per la sua spregiudicatezza tecnica  e perché è la consacrazione del genio del suo autore. Ma quanti geni ci sono in architettura?

Ma in fondo è giusto così, è giusto che si ricordino le opere contemporanee moderniste col nome del loro artefice. Sarà utile infatti, non riuscendo a capirle o meglio a classificarle, associarle ad un nome, dal momento che tra 100 o 200 anni non credo si potrà associarle ad altro.

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21 settembre 2008

PREGHIERA DI CAMILLO LANGONE-IL PONTE DI CALATRAVA


Su il Foglio di domenica 21 settembre Camillo Langone ha dedicato la sua quotidiana Preghiera al Ponte di Calatrava a Venezia. Il link a questa vale un post, e anche più.

http://www.ilfoglio.it/preghiera/101

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20 settembre 2008

FACCE DI "MODERNITA'"

Pietro Pagliardini

Organizzata dal Circolo dei liberi, federato con la Fondazione Magna Carta, si è tenuta a Firenze una conferenza stampa di presentazione della relazione che Nikos Salìngaros ha redatto su richiesta dello stesso Circolo in ordine al progetto della nuova uscita dagli Uffizi, la cosiddetta pensilina di Arata Isozaki.
La relazione completa è disponibile nel sito Artonweb.
Salìngaros è entrato nel merito di quello che lui chiama “telaio monumentale”, svolgendo un’analisi degli elementi costruttivi e compositivi, sulla scorta delle immagini esistenti dello stesso, assai scarse e scarne, in verità, al pari dell’opera stessa che si caratterizza per un linguaggio che Salìngaros definisce “ di estetica industriale”:

La semplicistica geometria di questa struttura può funzionare soltanto per dare un’impressione monumentale, basata solo sull’impatto della scala dell’oggetto nel suo complesso. La sua mancanza di simmetria è disorientante e inquietante. Disegni più tradizionali (alcuni dei quali asimmetrici) che si ritrovano nei dintorni, operano molto bene nel relazionarsi tra loro attraverso l’uso di una gamma di scale e di simmetrie multiple, del tutto intenzionalmente assenti nell’estetica industriale di quest’ossatura strutturale.

La semplicistica geometria di cui il relatore scrive non è presente solo alla scala dei rapporti dimensionali del progetto ma anche alla scala più piccola dei singoli elementi costruttivi e nel modo in cui questi si raccordano tra loro:

I pilastri quadrati sostengono la griglia senza nessuna mediazione intermedia. Il fatto che essi siano quadrati potrebbe non essere un problema purché fosse presente la variante di un architrave, di una base e di un capitello quali elementi utili ad armonizzarsi con il linguaggio delle forme del centro storico. Chiaramente, questa non è l’intenzione del progetto.

Salìngaros rileva dunque in maniera precisa l’assoluta impossibilità per l’opera di armonizzarsi con il contesto storico fiorentino:

Le ondulazioni sulla griglia sono evocative dei tetti metallici ondulati, ma qui ingranditi di molte volte. Dato il gran rapporto di scala, questa esplicita “dichiarazione” decorativa di tipo industriale non ha alcuna relazione con la finezza dei tetti Rinascimentali né con le cupole delle costruzioni circostanti.
Omissis.
L’introduzione di un’estetica industriale della macchina in un luogo storico delicato come questo genera conflitti geometrici e, conseguentemente, psicologici. La microstruttura dei materiali industriali non riesce a dialogare in alcun modo con i materiali tradizionali delle strutture circostanti. Le colonne quadrate presentano un’impiallacciatura superficiale di pietra indifferenziata, mentre lo stesso telaio metallico incombe con una scala troppo grande e fuori contesto per riuscire a diventare intimamente parte dello spazio urbano che andrà ad occupare.


La pensilina è dunque un corpo estraneo alla città, è privo di qualsiasi intenzione di dialogare con gli edifici accanto e con la strada su cui affaccia; sotto l’apparenza della sua leggerezza, il suo gigantismo e la sua geometria elementare sono uno schiaffo a ciò che esiste che la vista fotografica del luogo non rende appieno. Recandosi sul posto ci si può rendere conto di ciò che potrebbe avvenire se fosse effettivamente realizzata l’opera.
C’è una volontà di potenza, di prepotenza, di arroganza e di prevaricazione su ciò che esiste in quel progetto che denuncia una volta di più, se ce ne fosse bisogno, il male di cui soffre l’architettura contemporanea basata sulle firme, sui nomi famosi dello star system e cioè il nichilismo, l’indifferenza, meglio, il disprezzo assoluto per tutto ciò che non sia realizzato da loro stessi che diventa addirittura grottesco e irridente quando si arriva a scrivere nella relazione al progetto, tratta da Casabella che è “stato assunto come modello la Loggia dei Lanzi”.

In effetti l’unica altra spiegazione possibile, oltre al superomismo architettonico, ad una affermazione come questa potrebbe essere l'ignoranza, che a me appare inverosimile perché non occorre essere architetti o storici dell’arte per capire ciò che qualsiasi persona che abbia frequentato la scuola dell’obbligo capisce e vede e cioè che non esiste alcuna relazione possibile tra le due cose se non il fatto che entrambe possiedono una copertura?

Un'affermazione come questa suona come offesa al senso comune, la dimostrazione che il progettista non ha, perlomeno, voluto comprendere il luogo in cui si trovava. E’ vero che ormai scrivere piacevolezze sui propri progetti è diventata una specie di cult per molti architetti, vedi le citazioni leonardesche per il grattacielo curvo di Libeskind a CityLife ma, insomma, qui si rischia di fare la parodia al Fuffas di Crozza.

Mi astengo del tutto dal giudicare gli amministratori e tutti coloro che hanno voluto, e insistono ancora, la realizzazione di questa opera, avendo già detto tutto, e anche di più, Vittorio Sgarbi, presente inaspettatamente alla conferenza stampa.

Il Sindaco di Firenze ha replicato in tv riaffermando la necessità di realizzare quell’opera e ha rilanciato dicendosi favorevole ad un’altra opera "importante" per Firenze presentata ieri di cui parla La Nazione: la cittadella viola, cioè 70-80 ettari di nuovo stadio con annesso museo, alberghi, fitness, commerciale, tanto verde, un’opera importante per la città, Massimiliano Fuksas progettista. 70-80 ettari in un comune che ha pochissimo territorio libero in pianura! Non voglio commentare oltre perché la mia capacità di giudizio è sicuramente offuscata dalla mia assoluta indifferenza, ma direi più sinceramente ostilità, per il calcio e il mondo che vi gira intorno ma certo affermare che una Eurodisney del calcio (la definizione non è mia ma dei giornali) sia un’opera importante per la città di Firenze mi sembra ….azzardato quasi come paragonare la pensilina di Isozaki alla Loggia dei Lanzi.

Ma su questo argomento consiglio vivamente di leggere tutto l’articolo con la spiegazione del progetto. Il riassunto ristretto delle motivazioni è che poiché la Fiorentina non è una squadra che gode di diritti televisivi, per diventare grande deve autofinanziarsi e quindi costruire su 70-80 ettari che, però, saranno progettati dai più grandi architetti, il che evidentemente, ci mette tutti al sicuro e ci fa stare tranquilli.

Il grande architetto (e il calcio, su cui ho già dichiarato la mia non serenità) è dunque la foglia di fico che nasconde le pudenda. Anche per questo, ma non solo, in questo blog si parla di Archistar.

C’è solo da augurarsi che anche le squadre di Pienza, Assisi, Camogli, Gubbio, Modica, San Gimignano, Noto, Portofino, Scicli, Porto Venere , ecc. non abbiano bisogno di autofinanziarsi altrimenti c’è il serio rischio di ritrovarsi quartieri rossi, gialli, verdi, azzurri, bianchi e di tutte le accoppiate accanto a queste città.

Questa parte del post può apparire come poco pertinente con la vicenda Uffizi ma in fondo è solo l’altra faccia della medaglia: da una parte le opere pubbliche, dall’altra quelle private.

A cosa è dedicata la medaglia? Fatevelo dire da Vittorio Sgarbi.

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18 settembre 2008

SALINGAROS A FIRENZE


Il Covile - FIRENZE - Presentazione della relazione di Nikos Salingaros sul "Progetto di Arata Isozaki per la pensilina degli Uffizi"

Conferenza stampa

Presentazione della
relazione di Nikos Salingaros sul
"Progetto di Arata Isozaki per la pensilina degli Uffizi"

partecipano

Nikos Salingaros
Peter Glidewell, storico dell'arte, Fondazione Magna Carta
Pietro Pagliardini, architetto
Leonardo Tirabassi, presidente Circolo dei Liberi

venerdì 19, ore 12, caffè Giubbe Rosse,
Piazza della Repubblica, Firenze 


Verrà ditribuita alla stampa copia della relazione

Il Circolo dei Liberi di Firenze - federato con la Fondazione Magna Carta - è un'associazione che ha come fine l'approfondimento culturale della politica e delle scelte pubbliche. Non può esimersi quindi dal partecipare al confronto di idee sulle proposte che hanno a che fare con la storia, la bellezza e l'identità della nostra città. Siamo preoccupati infatti per una serie di interventi apparentemente tecnici ma che porodurranno effetti rilevanti: stiamo parlando dei nuovi treni urbani e del telaio di Isozaki agli Uffizi.
Ebbene, se sul tema delle nuove linee in città si è già svolto, e continua, un grande dibattito arrivato anche a consolidarsi in un referendum, ci sembra invece che il progetto per gli Uffizi sia stato non sufficientemente discusso e compreso. Del resto quello che a Roma appare ormai a tutti gli osservatori non parziali come un grossolano errore, ci riferiamo all'intervento di Meyer sull'Ara Pacis, ancor più porta a ritenere che forse a Firenze, affascinati dalla moda degli archistar, sia stato messo in moto qualcosa di simile, con il progetto di Isozaki.
Per questo abbiamo pensato, in spirito di responsabilità e collaborazione con le autorità cittadine, di approfondire la questione chiedentdo al Dottor Nikos A. Salìngaros, un' analisi particolareggiata del progetto.

CONCLUSIONI DELL'ANALISI DI SALINGAROS
"La sua (della pensilina) intenzione dichiarata è quella di funzionare come uscita dalle gallerie, tuttavia questo telaio sembra essere un mero arredo — un oggetto scultoreo — che aggiunge poca funzionalità allo spazio attuale... C'è un malinteso sia nell'opinione pubblica che nei funzionari di governo che hanno promosso questo progetto, in ordine alla sua utilità e alla sua fondamentale disarmonia con il centro storico della città".


Nikos A. Salìngaros
Il dott. Salìngaros è autore, ricercatore e educatore internazionalmente apprezzato nel campo dell'architettura intelligente e del disegno urbano. È consulente in importanti progetti architettonici e negli sviluppi urbani sostenibili, tradizionali e quelli orientati sul pedone. Ha tenuto conferenze ed insegnato in ogni parte del mondo. È l'autore di tre libri: "Principi di Struttura Urbana" (2005), "Una Teoria d'Architettura" (2006) e "Antiarchitettura e Demolizione" (2007). I suoi progetti includono il centro commerciale a Doha, Qatar, progettato in collaborazione con Hadi Simaan e José Cornelio-da-Silva (2007-2008) che adesso è presente nella mostra "I Nuovi Palladiani" alla Fondazione del Principe Carlo a Londra, settembre 2008. In questo periodo sta lavorando allo sviluppo urbano di Pristina, Kosovo, ad una rete di piazze urbane in Querétaro, Messico, e ad un programma d'edilizia sociale a Florianópolis, Brasile. Il dott. Salìngaros è conosciuto per la sua forte opposizione alle nuove strutture in stile contemporaneo nei centri storici urbani.

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17 settembre 2008

GEHRY, L'ANTI-PALLADIO SECONDO CACCIARI

Pietro Pagliardini

Massimo Cacciari, Sindaco di Venezia non conosce mezze misure ed è sempre esagerato, nel bene e nel male. Non mi riferisco, ovviamente, al Cacciari filosofo, ma al Cacciari sindaco, politico, uomo pubblico.

Ecco arrivata la conferma sul Corriere della Sera del 14 settembre con un articolo di Pierluigi Panza: Cacciari celebra l’architetto Frank Gehry indicandolo come l’anti-Palladio e dice: spazio all' «anti-Palladio» a Venezia, «che non è una città palladiana ma di dissonanze, perché non è possibile concepire un ordine senza caos. Per questo l'architettura anticlassica di Gehry è consona a Venezia».

Cacciari, che sa essere spesso anticonformista e fuori dal coro nelle sue posizioni politiche, si è comportato, almeno questo è il messaggio che traspare dall’articolo, come un Rutelli e un Veltroni qualsiasi, entrambi “fatti” dall’idea che le nostre città d’arte abbiano bisogno di rinnovarsi mediante l’architettura moderna (Ara Pacis, Pincio, MAXXI). Un’idea, prima che sbagliata, banale.

Gli stessi che, in nome del rispetto dell’ambiente, e talora a ragione, criticano le grandi infrastrutture che potenzialmente sono un fattore di sviluppo e di ricchezza, non si rendono poi conto che il primo ambiente da salvaguardare è quello antropico, la città e in particolare quelle città che in tutto il mondo sono il simbolo assoluto della bellezza e del genio artistico italiano e che rappresentano in atto, e non in potenza, il nostro petrolio.

Ma occorre dare ampio credito a Cacciari e cercare di interpretare il significato delle sue parole.

Venezia non è palladiana ma è una città di dissonanze.

Certamente è vero perché pur accogliendo Venezia opere del Palladio ed anche opere che si ispirano alla classicità, cioè opere il cui segno distintivo è l’ordine, la città nel suo complesso non è classica, urbanisticamente ed architettonicamente, nel senso che non è il risultato di un disegno, di un progetto unitario che si sovrappone al territorio e alla geografia (in molti casi artificiale), non è un manifesto del classicismo che pone al centro della propria visione l’uomo che misura lo spazio e domina la natura con forme geometriche e simmetriche; non è certo la simmetria a caratterizzare i canali, le calli e i campielli di Venezia.

Ciò non significa che Venezia non rappresenti una vittoria dell’uomo sulla natura perché questa è stata piegata e adattata splendidamente alle necessità umane mediante un disegno partorito non da un progetto unitario simultaneo, o sincronico, e realizzato poi nel corso del tempo, ma da un processo secolare di crescita della città, dominato in gran parte dalla coscienza spontanea.

Venezia è dunque una città di dissonanze come dice il suo sindaco, ma non è città “dissonante”. Il termine dissonanza ha origini musicali ed è l’opposto di consonanza. Consonanze e dissonanze, in musica, dosate nel modo opportuno originano l’armonia. Le dissonanze sono asprezze musicali inserite nel brano per renderlo più ricco e meno monotono. La minore o maggiore presenza di dissonanze (insieme ad altre complesse regole musicali che non conosco) crea sonorità diverse che vanno dall’armonia tradizionale fino alla musica dodecafonica.

Volendo paragonare Venezia ad un brano musicale credo che bisognerebbe essere molto spericolati per assimilarla ad un’opera di Shoenberg piuttosto che ad una di Mozart.
Venezia è perciò una melodia che naturalmente presenta dissonanze, smorzate nel modo opportuno e nella misura necessaria a non renderla né uniforme né “dissonante”.

Non è possibile concepire l’ordine senza caos

Qui esce fuori il filosofo con il quale mi è assolutamente impossibile competere. Sommessamente e pacatamente non posso però non osservare che, parimenti alla coppia di opposti citati, non esiste il bene senza male, il che non obbliga però nessuno a fare del male per pareggiare i conti con il bene; come non è necessario fare la guerra perché in giro c’è troppa pace.
Una cosa è dare risposte metafisiche alla domanda sulla relazione tra "essere" e "nulla", altra cosa è trasferire queste categorie nella realtà e nella città.

Sulla relazione tra opposte categorie esiste una storiella, vera, di una mia conoscente insegnante alla quale un alunno, richiamato per il suo scarsissimo profitto, rispose: “Ma professoressa, a scuola mica tutti possono essere bravi, ci vogliono anche i somari!
Battuta brillantissima perché non solo rende (apparentemente) inevitabile il fatto che esistano studenti che non studiano, ma anche assegna (apparentemente) un ruolo di necessità allo scarso rendimento del ragazzo; sembra dare realtà al fatto che gli studenti bravi lo siano in virtù dell’esistenza dei vagabondi.
E così, secondo Cacciari, il caos (cioè l’opera di Gehry) sarebbe giustificato dalla esistenza dell’ordine a Venezia o meglio l'ordine di Venezia non potrebbe sussistere senza il caos.

Ma l'armonia con dissonanze e l'ordine di questa città sono largamente apprezzati anche nello stato di fatto in cui sono (glielo posso assicurare signor Sindaco) e non hanno bisogno di alcuna controprova o giustificazione per continuare ad esistere.
**************************************************

Questa intervista di Cacciari su Ghery e Venezia sembra, in verità, che non sia esattamente pertinente con l'opera da realizzare perché, se non sbaglio, l’Archistar americana ha progettato solo il Venice Gateway all'aeroporto di Tessera che con la città ha una relazione non proprio diretta ed immediata.

Se è così, la questione dell’architettura contemporanea dentro Venezia perderebbe consistenza, salvo quanto già realizzato; l’aeroporto è una tipologia che, per essere di origine novecentesca e, in genere, collocata ben lontano dai centri abitati, poco ha a che vedere con i centri storici, se non per relazioni di tipo territoriale, quanto con i luoghi in cui si va a collocare.

Ma allora, perché tutto questo discorso di Cacciari sulla contemporaneità dentro Venezia per non farla diventare un “arcaico museo”, come dice lui stesso? Difficile pensare che abbia detto parole di circostanza! Credo che tutto ciò rappresenti la sua filosofia di intervento per Venezia e per i centri storici in generale.

Trovo veramente difficile comprendere le ragioni profonde che spingono architetti o uomini di cultura come Cacciari a ritenere una sorta di obbligo morale quello di lasciare il segno dell’architettura contemporanea all’interno delle parti antiche e più pregevoli delle nostre città (diverso è il caso di un riuso dell’esistente per non farle morire). E’ certamente vero che quasi tutte le città sono il sedimento lasciato da ogni epoca storica e che non esiste epoca che non abbia lasciato traccia di sé ma come motivazione di una coazione a ripetere mi sembra, da sola, un po’ fiacca: è stato fatto prima, lo dobbiamo fare anche oggi. Tutto qui?

Ci sono molte differenze tra oggi e ieri che consigliano almeno maggior prudenza nei giudizi:

1) I canoni architettonici, dal ‘900 ad oggi, sono completamente rivoluzionati rispetto a prima, fino a determinare una rottura completa, un taglio netto tra un prima e un dopo, una assoluta diversità tra ciò che c’era e ciò che si fa oggi; non si tratta di modifiche formali limitate e circoscritte ma dell’azzeramento di ogni regola, di ogni criterio, sia morfologico che tipologico e, tra l’altro, aggravato dalla presenza di tanti linguaggi quanti sono gli architetti. E’ una babele di lingue dissonanti tra loro stesse il cui unico elemento comune è l’assoluto arbitrio progettuale e il ricorso ai materiali nuovi offerti dalla tecnologia. Niente di minimamente confrontabile con le evoluzioni e le rotture passate, del Barocco rispetto al Rinascimento, ad esempio o del Gotico rispetto al Romanico.

Sono incommensurabili le differenze dell’architettura moderna e contemporanea con tutto quanto c’era prima, nei confronti del passaggio da una fase all’altra nei periodi storici sopra citati: l’architettura è ormai indifferente al contesto, aldilà delle sciocchezze scritte nelle relazioni di accompagnamento ai progetti; ciascun progetto vive di vita propria, non dialoga volutamente con l’intorno, è un oggetto di design deposto nella città e nel territorio in modo casuale o determinato da esclusive scelte di mercato; la triade vitruviana è completamente abbandonata.

Perché, allora, si vuole andare a collocare questi oggetti proprio laddove la “dissonanza”, il contrasto appare più forte ed evidente, rispetto all’armonia delle nostre città storiche, amate nel mondo proprio per questa caratteristica? Perché si vogliono assimilare le città a Shoenberg quando è infinitamente più amato Mozart? Non è forse questa una volontà di danneggiare e dissipare un patrimonio culturale ed economico; non è come dare fuoco ai pozzi di petrolio per fotografarne le fiamme; non è un disastro ambientale almeno pari a quello di una petroliera che perde il suo liquido in mare?

2) La giustificazione corrente è che bisogna farlo in nome della modernità. Questa parola ha perso da tempo il suo significato positivo originario perché ormai svincolata da quella spinta e da quella fiducia al miglioramento della società che ha caratterizzato il nostro paese, e non solo, nell’immediato dopoguerra. Quella modernità che ha portato uno sviluppo impetuoso alla nostra società, nell’ansia e nella volontà di migliorare il proprio tenore di vita, ha avuto, tuttavia, come ricaduta, danni enormi al nostro patrimonio storico, artistico e architettonico: mura di città demolite per aprirsi, simbolicamente ed anche materialmente al mondo esterno e alle nuove infrastrutture stradali e ferroviarie, reperti archeologici fatti sparire per non intralciare la costruzione di palazzi, chiese abbattute per rinnovare parti di centri storici, ecc.

Questi che oggi verrebbero chiamati scempi, almeno avevano dietro una spinta della società, una motivazione, diciamo così, di ordine superiore che, nel bene o nel male, metteva al primo posto l’uomo, sotto forma di miglioramento delle sue condizioni di vita. C’era una corsa verso le città, viste come il luogo dell’emancipazione del benessere, a cui tutto il resto veniva sacrificato.

Oggi c'è bisogno di "un'altra modernità" che dovrebbe esprimersi con maggiore maturità e rispetto verso i segni del passato; oggi si manifesta un processo inverso di migrazione dalle città grandi a quelle piccole e alle campagne perché si ricerca la qualità della vita e dell'ambiente e, come è maturato il rispetto verso l’ambiente naturale, dovrebbe maturare quello verso l'ambiente costruito, cioè verso la città.
Invece vi è chi, inspiegabilmente, vuole ripercorrere gli stessi errori del passato recente con la sola differenza di un’architettura più scintillante, luminosa, high-tech, glamour.


N.B. Limmagine di Venezia è tratta da Virtual Earth di Microsoft

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12 settembre 2008

LE REGOLE ESISTONO: LEGGETEVI QUESTO LIBRO

Pietro Pagliardini

Ho ripreso in mano il libro “Composizione architettonica e tipologia edilizia. 1.Lettura dell’edilizia di base”, di Gianfranco Caniggia e Gian Luigi Maffei.
E’ un libro che risale al 1979, inizi della mia professione; Marsilio Editori (1) copertina rosso vivo con confuse macchie bianche, scritte nere, perfetta grafica anni di piombo post-sessantotto che trae in inganno rispetto al contenuto: poco spazio a fantasia e utopia, molto al rigore logico-scientifico.

Al tempo lo lessi in maniera superficiale e non lo apprezzai. La prosa è scontrosa e niente affatto piaciona, i contenuti, a me malato di architettura moderna, apparivano vecchi e noiosi. L’ho riletto molti anni dopo, su sollecitazione di alcuni colleghi; ho iniziato a capire e dico iniziato perché la teoria non è semplice e va studiata, più che letta.
Ne ho ricominciato la lettura un pò di tempo fa. La prosa è rimasta scontrosa, il tono severo, i caratteri tipografici non aiutano i miopi-presbiti ma questo è un testo che ogni architetto dovrebbe tenere non in biblioteca ad impolverarsi ma sul comodino, come The Holy Bible per gli evangelici, e nei momenti di esaltazione creativa, leggerselo per mettere a freno la fantasia ed essere certi che esiste ancora una teoria per l’abitare e per la città.
Nella prima parte gli autori illustrano le “Motivazioni e gli enunciati” (il libro è il risultato di un corso universitario) e scrivono:

La crisi dell’insegnamento della composizione architettonica è partecipe di una crisi ben più generalizzata, quella del modo di fare e di capire l’edilizia. Precisiamo subito che, per noi, mantiene tutta la sua validità la tradizionale separazione tra “edilizia” e “architettura”, sebbene la cultura ufficiale abbia da tempo superato tale distinzione, affermando che “tutto è architettura”. La distinzione c’è, e resta insuperabile: per noi va soltanto capovolta la tradizionale gerarchia di valori connessa a tali termini, in base alla quale l’architettura, anzi l’Architettura con la A maiuscola è degna di attenzione , di valutazione critica, di studio, e l’edilizia no.
La divisione un tempo usuale tra oggetti architettonici e oggetti edilizi, tra opere “maggiori” e “minori” sussiste, con l’avvertenza che col termine “edilizia” si deve intendere il contesto generale del costruito, che è certamente il maggior protagonista dell’ambiente antropico e della sua storia civile. Il termine “architettura” può restare riservato a quelle opere che dall’edilizia sono derivate, in seno al costruito, come “emergenze specialistiche”, da sempre legate a una meccanica di produzione connessa da presso con le classi dominanti e con le varie “culture ufficiali” impositive rispetto ai prodotti processualmente evoluti dalla base.
Omissis
E’ evidente che le nostre città non sono condizionate dalle poche opere accettate come “architettura”, ma dalle moltissime, confinate nell’anonimato dell’edilizia, la storia e i divenire della quale è sdegnata da molti dei cultori di “storia dell’architettura”, legati ai medesimi condizionamenti che fanno ancora dell’insegnamento della storia, più in generale, la storia dei personaggi, degli avvenimenti, delle guerre disinteressandosi della maggioranza dell’umanità che, pur vittima e campo dell’operatività di personaggi, avvenimenti e guerre, è l’autentica protagonista della storia dell’uomo nel suo variante e continuo produrre il proprio ambiente civile; è la storia dell’umanità che ci interessa di più, quella storia che comincia, non più sporadicamente, a comparire negli studi specializzati di storia economica e di storia sociale
”.

Questo mi sembra possa essere considerato il Manifesto di tutto il corso e di tutto il libro: tralasciando alcune considerazioni più strettamente “politiche” sulla storia in generale, a mio avviso legate al clima culturale del periodo, l’opera si pone come una sorta di contro-storia dell’architettura la cui cifra dominante è una forte impronta etica; non certo l’etica dell’architettura di cui si legge spesso nei titoli dei convegni odierni che si riduce a creativo slogan pubblicitario privo di contenuti, ma quella di chi si pone rispetto “all’ambiente antropico” con l’umiltà del ricercatore che vuole leggere e capire in base ad un progetto e per fare un progetto ma che ha però chiara la distinzione e la gerarchia tra “edilizia” e “architettura”, non potendosi comprendere l’una senza l’altra.

Il capitolo prosegue con l’enunciazione della crisi dell’architettura e dell’insegnamento della stessa e si conclude così:

Lo specchio di tali fenomeni è la personalizzazione della storia e della critica dell’architettura attuale. Non si riesce a capire più un’opera se non la si confronta con le altre del medesimo autore, all’interno della storia personale di questo, che sola riesce a “giustificare” un prodotto; né più né meno di quel che accade in pittura, dove un’opera, poniamo, di Capogrossi ha un senso solo se riferita ad altre opere dello stesso. Immensamente lontani da quel tipo di apprezzamento che possiamo ancora avere per un quadro, anonimo, del Trecento, quello che vale oggi è sempre più la firma, l’appartenenza di un’opera al mondo del suo autore.

Un edificio, come un quadro, se “anonimo”, non ha storia né possibilità di comprensione. Personalizzazione che ha ragioni antiche, certamente dal Rinascimento e prima ancora, ma al livello delle emergenze, degli edifici aulici della classe egemone, e come tale limitata a un ristretto numero di oggetti, per loro natura sopraffattivi rispetto a un panorama unitario quantitativamente dominante e attuato attraverso intenti linguistici collettivi. E’ soltanto il nostro tempo che ha diffuso il personalismo alla totalità degli oggetti edilizi, lasciando appena indenne l’edilizia dei diseredati, dei sottoproletari, della baracche. Quello che apparentemente possediamo è un coacervo di linguaggi non degni di essere definiti tali, mancando della funzione fondamentale del linguaggio che è quella di comunicare, di capire, di farsi capire
”.(2)

Se è vero che questo è il Manifesto di tutto il corso perché delinea bene lo spirito che anima gli autori, è altrettanto vero che qui non sono neanche abbozzati i contenuti del libro che è, quasi pedantemente, strutturato in un crescendo che va dalla piccola scala, il tipo edilizio, alla grande scala, il tipo territoriale e ad ogni scala vi è l’analisi e la descrizione del processo che ha guidato la nascita e lo sviluppo dell’ambiente antropico.

Cos’è che affascina di questo libro, pur così apparentemente arido come un trattato di logica matematica? Che esistono leggi nella costruzione del territorio, della città, dell’edilizia che qui vengono analizzate, espunte dalla lettura dei processi di formazione, spiegate e schematizzate in grafi, al pari, appunto, di un trattato scientifico, il cui scopo è quello di individuare le leggi generali della natura.

Nelle conclusioni sono proprio gli autori, consapevoli che tale metodo può suscitare perplessità, a spiegare (perché loro spiegano tutto e non lasciano discorsi sospesi) che:

Al confronto con altri comportamenti non antropici, nel campo della biologia o della struttura della materia, possono notarsi sorprendenti analogie. Riteniamo che ciò non debba stupire poiché l’uomo non è “altra cosa” dal mondo della natura, non ne sta al di fuori: il suo modo di organizzare l’ambiente è sostanzialmente fondato sui medesimi presupposti e sulle medesime leggi che governano i processi biologici unitamente ai processi di progressiva formazione e mutazione della materia. In sostanza , quando l’uomo agisce, si assume il carico di partecipare al sistema di globale divenire di tutta la struttura del reale, quindi è intrinsecamente “naturale” anche quando attua le sue strutturazioni dotate di un alto grado di “artificialità”: lavora sulla materia che esiste, e non può che aderire, anche se non lo sa e non lo vuole, alle leggi formative della natura. Omissis.
In sintesi la nostra lettura porta alla comprensione di una globale organicità del reale: come parte di questo la realtà edilizia, “spontanea” o “pianificata” che sia ……… è fittamente strutturata, non nasce né si modifica casualmente, ma deriva da una costante evoluzione guidata da un sistema unitario di leggi di formazione e mutazione che costituisce quel che chiamiamo “processo tipologico dell’ambiente”, in tutte le sue possibili e molteplici diramazioni.
Caratteristica intrinseca a ogni fase di tale processo è la presenza di un sistema di progressive modularità tra ciascuno dei termini scalari, dall’arredo al territorio: così che la partecipazione individuale dell’uomo al suo mondo strutturato è connessa alla molteplicità degli uomini e delle cose mediante una progressione di grandezze crescenti, ciascuna comprensiva e compresa dalle altre
”.

Ecco, qui c’è il fascino di quest’opera, di questo lavoro di ricerca che non appartiene solo ai due autori ma ad una scuola, il fascino di una teoria vera non delle chiacchiere che si leggono sulle riviste, non dell’architettura della soggettività, tutta basata sulla creatività dell’architetto.

Il libro ha trent’anni ma agli autori risultavano già chiarissime le cause della crisi dell’insegnamento dell’architettura e perciò dell’architettura stessa.
So di non dire niente di nuovo e soprattutto so che se questo post venisse letto da quegli architetti (non moltissimi) che applicano costantemente l’analisi del processo tipologico e i tanti docenti che continuano il loro lavoro con impegno e sacrificio probabilmente mi direbbero che questa non è materia da blog, qualche riga e un commento veloce, trattandosi di cosa troppo seria. Avrebbero ragione.
Ma proprio questo atteggiamento da (mi scusino la battuta) ultimo giapponese, è probabilmente non la sola e la più importante ma certamente una delle cause per cui la scuola muratoriana non è diffusa e, una volta studiata all’università, viene messa in soffitta.

Qualcuno potrebbe chiedersi: ma se la scuola dei cosiddetti tipologi è così preparata e la teoria così consistente perché è così poco diffusa?
Credo che le motivazioni siano diverse:
1. intanto non ha il glamour dell’ego-architettura, basandosi sulla lettura dei processi formativi e quindi sul progetto che deriva dalla lettura, ma che non implica alcun automatismo, quanto la consapevolezza di quello che si va a progettare; essendo priva di un facile appeal è assolutamente trascurata e negletta all’università, dove è molto più semplice raccontare la storia “per maestri” o “per ismi” e guidare gli studenti verso un processo creativo di tipo “artistico”;
2. inoltre non si può negare una parte di responsabilità ai tipologi stessi che, fermi delle loro convinzioni, forti delle loro conoscenze, tendono a chiudersi in circoli ristretti disdegnando ogni compromissione disciplinare con altre tendenze potenzialmente non da loro distanti.

Ma io credo che esista anche un'altra causa: se è vero che le loro analisi sono rigorose e condotte con metodo scientifico è altrettanto vero che la proposta progettuale manca di una analisi più aperta al mondo, più curiosa della realtà, almeno per ciò che riguarda il progetto architettonico.

Comunque lo scopo di questo post non è quello di “fare la predica” ai muratoriani ma di portare un piccolo contributo alla loro conoscenza.
Per questo allego di seguito il link ad un bel saggio dell’architetto Danilo Grifoni pubblicato sul bel sito IL COVILE curato da Stefano Borselli. Grifoni è un muratoriano “aperto”, non ideologico, attento al nuovo, quello serio, e che ha il dono non comune di farsi comprendere molto bene.

Un’avvertenza: il link porta ad una pagina unica che comincia con uno scritto di Nikos Salìngaros che parla della scuola italiana, quello di Danilo Grifoni è a seguire.
http://www.stefanoborselli.elios.net/news/archivio/00000452.html


Note:
1)L’edizione attuale è di Alinea
2)Non è questa la parte “scontrosa” della prosa (quella viene dopo) che anzi in questa parte traspare passione, a tratti quasi un senso di disprezzo per la personalizzazione esasperata dell’architettura.

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10 settembre 2008

ILVO DIAMANTI: GLI APOLIDI ABITANTI DELLA PERIFERIA

Pietro Pagliardini

Salvatore d’Agostino, autore del blog Wilfing Architecture, mi ha segnalato, in un suo commento, un articolo di Ilvo Diamanti su Repubblica. Diamanti viene definito un “politologo” che sembra un’offesa ma lui è molto migliore del mestiere che gli hanno appiccicato.

L’articolo parla di edilizia e di città. Descrive la crescita esponenziale delle costruzioni eseguite in Italia negli ultimi anni ma il suo approccio al problema non è punitivo nei confronti di chi vuole costruire la casa per sé e per i propri figli, pur con tutte le complicazioni che questo costume italiano si porta dietro: un sostanziale immobilismo sociale, perché la proprietà della casa lega la persona al proprio territorio, e questo è un problema per i giovani e per il dinamismo della società nel suo complesso.

Diamanti prende atto di questo fatto senza le consuete supponenze e demonizzazioni del costume tutto italiano del possesso della casa che affonda le proprie radici nella cultura e nel modo di essere di un popolo, opposta a quella americana che, giovane di tradizione e nata dal pionierismo, è (o forse era) assai mobile e poco stanziale; non a caso è diffusa la residenza in case-mobili. Negli Stati Uniti è forte l’orgoglio di appartenere alla nazione americana, in Italia è immenso l’orgoglio di appartenere, in ordine decrescente, ad un quartiere, ad un paese, ad una città, ad una regione, ad una nazione. Ad esempio, nella mia città, Arezzo, c’è una forte propensione a comprare casa nel quartiere in cui si è nati e vissuti, a prescindere dalle qualità dello stesso.

Di questa crescita delle costruzioni in ogni parte del territorio Diamanti rileva invece la pessima qualità dei modelli di aggregazione e osserva, con grande acume, che la domanda sociale di edilizia non è la sola molla della richiesta:

Ma per ragioni che solo in parte - limitata, peraltro - si possono ricondurre alla "domanda sociale". All'evoluzione demografica, ai cambiamenti negli stili e nell'organizzazione della vita delle persone. Semmai è vero il contrario: gli stili e l'organizzazione della vita delle persone hanno subito mutamenti significativi e profondi in seguito alla rivoluzione immobiliare del nostro territorio”.

Il politologo ribalta perciò il luogo comune che la brutta architettura è il prodotto di una brutta società e riconosce che è la grande e disordinata crescita immobiliare ad avere cambiato li modelli di vita delle persone, cioè il vero problema è il modo, più che la quantità, in cui questa crescita si è manifestata. In altre parole riconosce che l’ambiente costruito influenza gli stili di vita, le relazioni tra individui. E come si sono trasformate queste relazioni? Lo dice a fine articolo:

Tanti insediamenti grandi o piccoli, disseminati di palazzi, villette a schiera, appartamenti di varia metratura, garage interrati. Intorno: prati un po' esangui, strade e rotonde. Rotonde, rotonde e ancora rotonde. Magari una pista ciclabile. Al centro una piazza - veramente finta - attrezzata con panchine e magari un prato. Perlopiù ridotta a parcheggio, dove i bambini non giocano e gli adulti non si fermano a parlare. Accanto: altri quartieri e altri villaggi nuovi. Sorgono senza seri progetti di integrazione, socializzazione. Senza politiche finalizzate a costruire relazioni sociali, oltre agli immobili. Né ad alimentare la vita pubblica, oltre alla rendita privata. Località artificiali, dove confluiscono migliaia e migliaia di persone. Migliaia e migliaia di estranei. Di stranieri, immigrati: anche se sono veneti, lombardi, marchigiani. "Italiani veri": da generazioni e generazioni. Ma in realtà: apolidi. Abitanti del "villaggio Margherita" e del "condominio Europa".
È così che siamo diventati un paese di stranieri. Individui poveri di relazioni, sempre più soli e impauriti. Che passano la gran parte del loro tempo in casa. Con scarsi ed episodici contatti con il mondo circostante
”.

Un inciso linguistico: da notare l’espressione “varia metratura” usata per ironizzare sul gergo delle agenzie immobiliari e che dimostra quanto la cartellonistica pubblicitara immobiliare sia ormai diffusa e invasiva. Fine dell’inciso.
Diamanti non si sofferma troppo su questioni di economia, non fa moralismi tanto stucchevoli quanto inutili per trovare la soluzione al problema quantitativo ma si pone, in maniera lucida, il problema del disegno urbano e delle conseguenze che l’assoluta mancanza di questo ha sugli stili di vita degli individui e della società. Individua con precisione alcuni punti essenziali che caratterizzano la costruzione e i difetti delle nostre periferie, nutrite esclusivamente, se va bene, di quantità: il verde, la pista ciclabile, la piazza; è proprio quest’ultima, la piazza, la nuova parola d’ordine perchè viene considerata da amministratori, consiglieri di circoscrizione e, purtroppo, anche da molti architetti, al pari di un elemento costruttivo dotato di una propria individualità e di una assoluta autonomia da tutto il resto, al pari di una panchina, di un lampione, di una statua, completamente svincolato dalla trama delle strade e dai relativi fronti edilizi circostanti che invece sono proprio quelli che determinano non solo la forma della piazza ma anche la possibilità stessa che uno spiazzo diventi piazza.

La piazza è il risultato di una trama viaria specifica che, in determinate punti nodali crea una polarità, un punto di concentrazione di flussi e perciò di informazione.

Per fare un paragone con la rete e con il traffico aereo, la piazza è simile ad un hub, un luogo di incontro e di scambio particolarmente intenso e, come costruire un aereoporto grande è relativamente semplice (questione di denari), farlo diventare un hub richiede invece rotte, relazioni territoriali a livello continentale, interessi economici diffusi, flussi turistici: lo stesso vale per le piazze.

Diamanti l’ha capito benissimo, ha capito che le piazze sono quelle che conosciamo nei nostri centri storici, punto d’incontro di strade principali che conducono da un luogo all’altro e non dal poco al niente, devono essere racchiuse da fronti continui di edifici e, generalmente, comprendono edifici (o come dice Marco Romano) temi collettivi che una volta erano prevalentemente pubblici ma che nulla vieta siano privati basta assolvano ad un interesse generale. Una piazza non si "fa", nasce o da un processo storico o da un progetto complesso, certamente non da una pavimentazione di un luogo qualsiasi e dall'apposizione di una targa con il nome del politico defunto di moda al momento.

Nell’immaginario collettivo la piazza è un luogo popolato di cittadini che intessono relazioni sociali, è un luogo mitico che ricorda l’antica Agorà: in realtà, come osserva giustamente l’architetto Danilo Grifoni, attento osservatore e studioso della città, solo in rare occasioni questo avviene, mentre nella stragrande maggioranza del tempo le persone si collocano ai bordi della piazza, vicino agli edifici, laddove ci sono generalmente le strade che creano la piazza, segno della precedenza temporale e gerarchica delle strade sulle piazze, le quali dall’incontro di quelle hanno origine. Raro vedere nelle piazze storiche il centro di esse occupate da elementi d’arredo, come è d’uso attualmente, a parte le piazze ottocentesche che hanno più il carattere di giardini.

Quali conclusioni trarre dalle considerazioni di Diamanti? Vittorio Gregotti ha commentato su Repubblica questo articolo e ne ha tratto le conclusioni che:

L'insensato consumo del bene finito dei suoli, che quando sono rimasti liberi divengono solo resti in attesa di occupazione, è anche degli altissimi costi di infrastrutturazione a causa dei contraddittori indirizzi delle amministrazioni territoriali e della distruzione per inglobamento di quella straordinaria ricchezza (specie nel caso della tradizione europea), che è la fittezza dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana, saggiamente distanziati e che proprio le tecniche delle comunicazioni immateriali potrebbero rendere altamente produttivi nella rete delle loro singolarità.

Un linguaggio come al solito involuto ma anche, a mio avviso un po’ sfuggente: è vero che Gregotti parla della “straordinaria ricchezza…. dei piccoli insediamenti storicamente dotati di identità urbana” con ciò facendo una scelta di campo chiara ma, nella lettura di tutto l’articolo si coglie una diluizione di questo concetto in mezzo a molti altri quali la responsabilità della politica, la concertazione, ecc.

Io credo che per imboccare la giusta direzione sia necessario affermare il principio della centralità, almeno per gli architetti, del disegno urbano, della sua utilità nel progettare spazi che, se ben fatti, possono influenzare positivamente le relazioni tra individui, senza per questo avere nessuna pretesa di risolvere problematiche sociali che spettano ad altri soggetti, senza entrare in questioni procedurali e burocratiche che fuorviano e fanno il gioco di politici e funzionari.
Può sembrare un’affermazione scontata ma il fatto è che nei piani urbanistici il disegno è trascurato o assente del tutto a vantaggio di analisi, stime, uso del suolo, valutazioni integrate, coperture GIS, norme, vincoli, procedure, nell’attesa che il disegno possa nascere meccanicisticamente per “sottrazione”, una volta stabilito ciò che “non si può fare”. Il fondamento principale, ed anche unico, dell'urbanistica è diventata l'analisi mentre la sintesi è quasi completamente abbandonata.

Insomma il progetto della città, disegnato, va riportato al centro della pratica e della teoria degli architetti, tralasciando o mettendo in secondo piano questioni diverse, non deviare dal tema principale cercando di sminuirne la portata a vantaggio di altri: la speculazione, la rendita fondiaria, l’incapacità della politica, le responsabilità sociali dell’architetto, ecc., tutti temi vitali ma che, quand’anche fossero risolti (e dubito che gli architetti ne siano capaci) e mancasse il disegno, (e di questo gli architetti dovrebbero essere capaci) e tutto fosse lasciato al caso o al caos o alle mani di coloro i quali credono che la società sia “fluida” e l’organizzazione territoriale debba essere parimenti fluida, lascerebbe la situazione tal quale a quella descritta da Diamanti.

Con la differenza che avremmo una società regolata ma città brutte come quelle di adesso e individui ugualmente “apolidi”, cioè privi di cittadinanza perché privi di città.
Poi vi è il problema di quale sia il disegno giusto e su questo dobbiamo discutere, questa è la "mission" dell’architetto, per dirla con parole alla moda, la disciplina urbanistica, per dirla in italiano.

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7 settembre 2008

LE BUONE MANIERE URBANISTICHE

Pietro Pagliardini

Su il Foglio di oggi domenica 7 settembre c’è un editoriale con la notizia, e il relativo commento, del parere contrario del Sindaco Alemanno alla costruzione del parcheggio sotto il Pincio.Di seguito riporto integralmente il commento perché parla lo stesso linguaggio ed esprime gli stessi concetti, semplici da comprendere, che in questo blog vengono espressi continuamente ma che, sembra, non siano patrimonio comune:

Non rimane che cominciare a ragionare seriamente su come certe decisioni vadano sottratte alla logica del colpo di genio riformatore e interessato (nell’interesse di pochi a spese di tutti), allegramente indifferente al senso dello spazio pubblico, alla consapevolezza dei legami tra identità della città e luoghi, a quella merce sempre più rara nella gestione dello spazio urbano che si chiama - semplicemente e umilmente- buonsenso. Ecco, la lezione della pazza idea del mancato – speriamo – parcheggio sotto il Pincio con entrata dagli emicicli del Valadier, servirà davvero se sarà trasformata in una lezione di buone maniere urbanistiche, per tecnici, amministratori e politici.”

Meglio di così non poteva essere riassunta una vicenda ma direi un atteggiamento verso la città, con un forte richiamo a tutti i responsabili, compresi i tecnici.

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5 settembre 2008

ELOGIO DELLA CASALINGA DI VOGHERA

Pietro Pagliardini

Chi sono le “casalinghe di Voghera”, cosa si intende con questa espressione e perché le ho tirate in ballo?
Comincio dalla fine: le ho tirate in ballo perché c’è una persona di cui ho grande stima, Vilma Torselli, che le cita spesso nei commenti e, a forza di sentirle nominare, mi ha suggerito una riflessione un po’ scapigliata.
Wikipedia, che è appunto l’enciclopedia per le casalinghe di Voghera e da cui io attingo spesso, ne dà una definizione esatta:

"Casalinga di Voghera" è un'espressione popolare molto comune nel giornalismo che vuole rappresentare quella fascia della popolazione italiana dal basso livello di istruzione e che possiede un lavoro generalmente molto semplice o umile, tuttavia "rispettabile" per il suo senso pratico di stampo tradizionale. Di rado viene utilizzata in senso dispregiativo, altre volte è usata come sinonimo di saggezza popolare".

Da questa definizione risulta per me evidente che questo è il blog per le casalinghe di Voghera perché l’architettura che viene qui, malamente, sostenuta è proprio quella che, ne sono certo, sarebbe di loro gradimento.
Ho perciò finalmente inquadrato la “mission”, individuato non una platea, non esiste proprio, ma l’obbiettivo a cui io mi devo rivolgere e, inconsapevolmente, a cui mi sono spesso rivolto; o meglio, mi risulta più chiaro che l’ideologia portante di questo blog, il “linguaggio” architettonico di riferimento ha un nome che non è esattamente “antichismo” o “classicismo” ma “buon senso” inteso come sinonimo di “saggezza popolare”.

E’ vero che in questo blog appaiono, di tanto in tanto, post tanto cervellotici da apparire quasi una roba seria, ma è anche vero che questi sono specchietti per le allodole scritti a scopo dimostrativo per quegli architetti che amano i discorsi complicati altrimenti nondiciniente, per dimostrare loro che anche qui sappiamo fare uso di buone maniere che, insomma, sappiamo stare a tavola e, quando strettamente necessario, perfino sbucciare la frutta con coltello e forchetta (ma ci rifacciamo più al vecchio Galateo che a Lina Sotis); sono in fondo un mezzo per trovare un linguaggio che consenta di comunicare con l’architettese, che è spesso l’unico che molti architetti conoscano, essendo l’italiano ormai in disuso.Devo dire che, per quanto io ed altri ci sforziamo, non riusciamo quasi mai ad esprimerci al massimo di quel linguaggio, per cui non ci facciamo capire né dagli architetti architettesi né dalle casalinghe, le quali peraltro non mi vengono a trovare perché hanno poco tempo da perdere.

Sento il bisogno, tuttavia, di tranquillizzare l’amica Vilma: non intendo pascolare nel suo prato.
Voglio chiarire che il rapporto mio rispetto alle casalinghe è completamente ribaltato rispetto a quello che ha Vilma con loro: io più che spiegare alle casalinghe di Voghera, mi immedesimo in, mi metto nei panni di, "mi faccio" casalinga di Voghera, ritenendo presuntuosamente di interpretarne i gusti e le aspettative, per far capire a qualche collega architetto che cosa io, e perciò loro, le casalinghe, mi aspetti dall’architettura; dove a me, e perciò a loro, piacerebbe vivere ed abitare.

Ed è proprio per questo motivo che spesso abbandono ogni freno inibitore e dico delle bestemmie inimmaginabili per molti architetti: dico che Poundbury è un modello di convivenza civile, dico che se demoliranno i Robin Hood Gardens, e meglio ancora il Corviale e lo Zen, non sarò colto da sussulti di sdegno e dormirò tranquillo come sempre, che Londra poteva sopravvivere senza un grattacielo a forma di fallo (detto pudicamente cetriolo), che i grattacieli non sono affatto sostenibili come ci vogliono fare credere, che Dubai è molto peggio di Disneyland perché qui si sogna e ci si diverte, lì si muore di paura a pensare che fine fanno i soldi dei nostri pieni di benzina, che i progetti di Libeskind sono terrorizzanti, nel senso che mettono proprio un senso di paura, di ansia, di angoscia, di provvisorietà e che ti prospettano un presente e un futuro in bilico, che al Principe Carlo dovrebbe essere assegnato un premio Nobel, non so per cosa, ma se lo hanno dato a Dario Fo, per lui ne possono pure inventare un altro, che il Premio Pritzker per l’architettura dovrebbero darlo a Leon Krier per la tenacia con cui ha portato avanti le sue idee, contro tutto e tutti, invece che a Jean Nouvel, che sarà pure bravo ma non può venderci anche lui un grattacielo a forma di fallo per un omaggio a Gaudì, che Calatrava sarà bravo pure lui ma che ci è venuto a noia con i suoi scheletri di dinosauro ripetuti in tutto il mondo e in ogni tipo di edificio, che la sopraelevazione della Scala di Botta è un ferro da stiro messo sopra un tetto e Milano non è Voghera dove ci sono molte casalinghe e dei ferri da stiro ne possono fare a meno, che la chiesa di Meier non è fatta per pregare e non so, in verità, a cosa potrebbe servire, e via discorrendo.

Ora, io lo so che il problema Archistar neanche sfiora lontanamente le nostre amiche casalinghe perché è difficile che esse possano aspirare a vivere in una casa da queste progettate anche perché, fortunatamente, di case non ne fanno tante e quando le fanno non sembrano proprio case e le casalinghe neanche se ne accorgono. In campo edilizio il loro problema è che il più delle volte sono costrette a scegliere tra un ignobile condominio progettato direttamente dall’impresario, una casetta del geometra con quattro archetti in cemento armato faccia a vista e con 5 metri di giardino per lato, che non è un giardino ma per fare una grigliata con i parenti è sufficiente, e una casa a schiera senza tetto e con blocchi di c.l.s. bugnati faccia a vista dell’architetto. Praticamente non hanno scelta.

Ma il vero nemico delle casalinghe di Voghera, che sono abituate ad andare a piedi o in bicicletta in piazza del Duomo dove c’è il mercato attraversando le stradine del centro storico e incontrando amiche e conoscenti, è il progettista di Piani Regolatori. E’ questa figura la vera responsabile, sotto il profilo culturale, della dissoluzione di tutte le città, perché manda le casalinghe a vivere in periferie dove le strade non sono più strade perché non delimitate da cortine edilizie, dato che le case, singole o condominiali che siano, sono rigorosamente staccate di 10 metri le une dalle altre e arretrate rispetto al filo strada, per dare giardinetti inutili o inutili spazi condominiali.

Così le strade sono solo nastri di asfalto, territorio per sole auto, e il tragitto per il centro, privo com’è di negozi, botteghe e possibilità di incontri si declassa al livello di “movimento pendolare” o “mobilità urbana”, cioè uno stress, anche nei momenti fuori delle ore di lavoro.

E’ il progettista del Piano, che disegna la città come gli hanno insegnato all’università, (cioè con il criterio di Le Corbusier che sosteneva che Siena è disegnata con il percorso dell’asino e che ovunque andasse tentava di fare tabula rasa di ciò che trovava e di sostituirlo con i suoi sogni autoritari e allucinati di Ville Radieuse) che stimola e incoraggia, mediante norme edilizie coerenti con quell’idea, quel tipo di edilizia che non è urbana e non è rurale e che fa sembrare belle, alle confuse casalinghe di Voghera, perfino le villette con gli archetti in cemento armato faccia a vista, perché sono pur sempre un richiamo, ingenuo e igorante, alla loro città, a ciò che hanno imparato, anzi, sempre saputo essere l’archetipo di casa.Ecco, alle casalinghe di Voghera do un suggerimento: Alessandria non è molto lontano da Voghera e nella domenicale gita in auto facciano un salto a vedere Città Nuova, il quartiere residenziale progettato da Lèon Krier e Gabriele Tagliaventi; vi troveranno un esempio, uno dei pochi in Italia, che può ridare loro un po’ di speranza.

Se qualcuno leggendo questo post mi desse dell’ignorante sappia che l’offesa la girerò direttamente alle casalinghe di Voghera le quali invece possono vantare concittadini illustri quali: Alberto Arbasino (che sostiene di essere l’inventore dell’espressione “casalinghe di Voghera”), Alessandro Bolchi, regista Tv degli anni d’oro degli sceneggiati e non delle fiction, Pino Calvi, che non è il banchiere ma il musicista, Carolina Invernizio, che è, per me, la vera causa della nascita dell’espressione “casalinghe di Voghera”, Alfieri Maserati, fondatore della Maserati, quella delle macchine, e questo da solo basta a dare quarti di nobiltà alla città e, udite, udite, amici architetti, Eugenio Mollino, padre di Carlo Mollino che non è nato a Voghera ma che insomma vi ha ascendenze (tutte notizie prese dal sito del Comune di Voghera che, evidentemente, voleva sfatare il mito di Voghera città di casalinghe).


N.B. La foto di Voghera è tratta da Google Earth

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1 settembre 2008

ROBERT ADAM: IL MODERNISMO CONSERVA SE' STESSO

Pietro Pagliardini

TIMESONLINE, la versione on line del TIMES di Londra, che dà un grande spazio all’architettura, è molto critico con il Principe Carlo, sia per la sua passione per l’architettura tradizionale, che per i suoi comportamenti pubblici e privati, e pure per il suo ambientalismo, insomma, per tutto ciò che lo riguarda.
Tuttavia, ultimamente sono frequenti articoli e interviste che parlano di Poundbury, il villaggio voluto dal Principe e progettato da Lèon Krier, come un notevole successo di pubblico e che viene ora anche preso come esempio dal governo britannico per nuovi insediamenti rurali.
Ultimamente è stato pubblicato questo articolo-intervista a Robert Adam, un architetto classico che riporto di seguito integralmente tradotto.
La foto sotto non è nell'articolo ma è una mia aggiunta.

TIMESONLINE- 25 giugno 2008
Lo stile di guerra degli architetti
Robert Adam e Quinlan Terry danno inizio ad una battaglia di stile attaccando il Modernismo
di Lucy Alexander

Robert Adam è andato in prima pagina il mese scorso quando si è unito ad un altro architetto Classico, Quinlan Terry, progettista del nuovo ambulatorio presso l’Ospedale Reale a Chelsea, con un robusto attacco al Modernismo. I due hanno condannato ciò che essi considerano un pregiudizio da parte del Royal Institute of British Architect (RIBA) contro gli edifici tradizionali nell’assegnazione dei suoi premi annuali (la lista di quest’anno comprende il terminal 5 e lo Stadio di Wembley).

Adam, che è stato giudice del RIBA per 12 anni, ha descritto i premi dell’ultimo mese come una “truffa”, dicendo che “ il RIBA e la classe professionale degli architetti si stanno comportando con stile fascista. Questa è una battaglia tra il tipo di architettura che una cricca professionale pensa sia giusta e gli edifici che piacciono al pubblico.”

Lord Rogers di Riverside, il cui studio ha vinto diversi premi, compreso uno per Oxley Wood, uno sviluppo di residenze prefabbricate a Milton Keynes, ha risposto acido: “Il Modernismo è sempre stato uno shock e sembra che alcuni ci mettano molto tempo per guarire”.

Secondo Adam, il movimento per l’architettura Moderna, che cominciò negli anni ’20 come un rigetto iconoclasta delle forme storiche, si è calcificato in una nuova ortodossia, intollerante dei dissidenti.

“Gli edifici tradizionali non ottengo mai alcun credito da nessuno nel mondo professionale degli architetti. Per oltre 40 anni è accaduto che avresti potuto bocciare nel college di architettura se tu avessi disegnato un edificio tradizionale. Sei visto come se tu copiassi il passato. Ma il futuro deve inevitabilmente coinvolgere il passato a qualche livello”

Adam si spinge fino ad imputare un sottofondo sinistro all’ideologia Modernista in architettura: “E’ totalitaria. Richard Rogers disse una volta che Poundbury dovrebbe essere distrutta. Non si è accontentato di dire che a lui non piace, ma che avrebbe dovuto essere cancellata. Loro, i Modernisti, non possono tollerare nessuno che faccia qualcosa che non si adatti alla loro nozione di progresso accettata come vera”.

Questa è la stessa Poundbury che un’analisi del governo mercoledì ha raccomandato di prendere come copia per lo sviluppo di future comunità rurali di successo.

L’accusa di Adam che gli architetti sono indifferenti dell’opinione pubblica suona veritiera quando si considera che la recente campagna per salvare i Robin Hood Gardens, una lugubre e antiquata offesa alla vista in cemento degli anni ’60 che i residenti e il consiglio hanno convenuto di buttare giù.

La decisione all’inizio di questo mese di Margaret Hodge, il Ministro per l’Architettura, di non mettere nell’elenco del patrimonio (e perciò di proteggere dalla demolizione) con la motivazione che “esso ha fallito come luogo vivibile per gli esseri umani”, ha mostrato una disponibilità all’ascolto delle ragioni dei comuni residenti. Di contro un recente titolo nella rivista Building Design, che ha condotto la campagna per salvare i Robin Hood Gardens –“ Il rifiuto della Hodge di metterli in elenco è un affronto alla professione”- rivela che il consiglio dei residenti non rappresentava una priorità per gli architetti.

I Modernisti sono ora, almeno sembra, nella bizzarra posizione degli iconoclasti che si sono piegati a preservare le proprie tradizioni tramite il sistema degli elenchi dell’English Heritage (ente che protegge il patrimonio storico inglese). Che cosa sostituirà l’immobile demolito resta ancora da vedere. Colonne classiche appare improbabile.”


ULTIMISSIME: E'di oggi 1 settembre la notizia riportata su Building Magazine che il Governo Britannico rivedrà la decisione di non inserire i Robin Hood Gardens nell'elenco dell'English Heritage.

Dunque ha ragione Adam: il Modernismo è un movimento di conservazione di se stesso.

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Di seguito allego i links a due articoli su Pondbury, il primo che ne decreta il successo, il secondo in cui il Primo Ministro Gordon Brown ha deciso di prendere la cittadina come esempio per nuovi insediamenti commerciali e residenziali nelle zone rurali.

http://www.timesonline.co.uk/tol/life_and_style/article1126292.ece

http://www.timesonline.co.uk/tol/news/politics/article3649184.ece


N.B. Le immagini aree sono tratte da:
Poundbury: Google Earth
Robin Hood Gardens, Londra: Virtual Earth di Microsoft

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