Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


Visualizzazione post con etichetta Centro storico. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Centro storico. Mostra tutti i post

21 maggio 2013

Arat_a Isozaki?

di Ettore Maria Mazzola

Dopo un piacevole silenzio durato qualche anno, nei giorni scorsi è stata tirata nuovamente in ballo l’abominevole tettoia di Arata Isozaki per gli Uffizi di Firenze, di qui il titolo ironico che nella mia città d’origine significherebbe “di nuovo Isozaki?
E già, ci eravamo finalmente quasi dimenticati dell’esistenza di questo problema assurdo, e invece qualche indomito ha pensato bene di riesumarlo!

In un articolo pubblicato da Repubblica il 18 u.s. si apprende che “gli architetti” avrebbero fatto un appello affinché la “loggia” di Isozaki venga realizzata.

Andiamo per punti ed iniziamo col chiarire che ci troviamo davanti ad un doppio abuso terminologico:
1. Non è stato l’intero consesso degli architetti fiorentini a firmare la protesta, bensì solo uno sparuto gruppo di architetti i quali, a detta di molti loro colleghi, non si sarebbero minimamente confrontati pubblicamente con l’intera categoria, presentando indebitamente presentato quell’appello a nome dell’intero Ordine Professionale;

2. La struttura di Isozaki non può definirsi come Loggia, cosa ben più nobile di questa struttura, semmai potrebbe definirsi, in nome del politically correct, una mega-pensilina o mega-tettoia, ma io preferisco essere onesto e diretto e chiamarla uno sgorbio informe. A certi signori chiedo solo come possa esser possibile semplicemente immaginare di poter fare un confronto tra la Loggia dei Lanzi o quella del Bigallo e questa orrenda copertura, degna di un orripilante ed ipertrofico autogrill del pianeta Urano?


Chiariamo:
Sul primo punto, abbiamo potuto apprendere da una polemica lanciata da un architetto fiorentino molto impegnato nelle politiche di riforma degli ordini professionali, che le cose non siano andate proprio come ci è stato raccontato dall’articolo.

Il commento al veleno che aveva scatenato il dibattito era stato il seguente:
«Ci risiamo!!! Ma chi ha mai delegato qualcuno dell'Ordine a incardinare la rinascita urbanistica del centro storico di Firenze, sul bandone da posto macchina di Isozaki? Ma è tanto difficile promuovere una politica professionale condivisa? In mezzo a tanta arroganza qualche Architetto comincia a muoversi su sé stesso, bruciando in piazza la delega in bianco».

Nell’articolo di Repubblica si leggeva:

«La Loggia di Isozaki potrebbe essere il simbolo del recupero del centro storico di Firenze. Ma bisognerebbe farla, altrimenti diventa, come ormai sta accadendo, il simbolo del mancato recupero. L'Ordine degli architetti di Firenze lancia un appello alle istituzioni: Che fine ha fatto la Loggia di Isozaki? Facciamola. Non possiamo più aspettare. Da lì parte la credibilità del recupero degli spazi vuoti della città, a cominciare dal tratto che va da San Firenze a piazza dei Giudici […] se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto».

E allora chiediamoci:
Ma davvero il centro storico di Firenze avrebbe bisogno di un recupero di questo tipo??
Arat_a (ci risiamo) con l’abuso terminologico tipico degli architetti.
Certi architetti dovrebbero concentrare la propria attenzione su come migliorare l’abominio che hanno creato intorno ai centri storici … invece continuano ad accanirsi nel tentativo di fare approvare uno scempio urbanistico che, come nel caso dell’Ara Pacis di Meier a Roma, spianerebbe la strada a future mostruosità tanto care ai professionisti diversamente incapaci di dialogare con il contesto in maniera rispettosa.

Una delle tante assurdità di questo appello/capriccio presentato da questi fantomatici rappresentanti dell’Ordine degli Architetti fiorentino è quella che emerge da questa frase:

«[…] Uno snodo che potrebbe invece connettere il più importante museo della città con il resto di Firenze. Recuperando un'area del centro ancora vissuta come un «retro» e affollata di ex: ex Capitol, ex tribunale. Troppi ex che invece potrebbero invertire una tendenza liberando verso la città l'enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo con i tempi»

… già, “un enorme potenziale attrattivo esercitabile da un museo al passo coi tempi” … evidentemente l’attuale Museo non sarebbe al passo coi tempi!

Guardando ai numeri del flusso turistico a me pare che gli Uffizi tirino parecchio … o sono diventato un pazzo visionario?

Sinceramente non penso affatto che questa orrenda “torta in faccia” dell’archistar giapponese possa generare un rilancio turistico di un qualcosa che non ha alcuna necessità d’esser rilanciata.
Ma, si sa, agli architetti il mondo piace sottosopra, così amano inventare soluzioni per trovarne i problemi!

Molti anni fa, in viaggio con i miei studenti e colleghi americani, all’interno degli Uffizi ci imbattemmo nell’esposizione di alcuni pannelli esplicativi del progetto che non conoscevamo. Restammo sconcertati, soprattutto restammo sconcertati da una frase che giustificava il progetto: “siccome Firenze e gli Uffizi ospitano ogni anno un gran numero di turisti giapponesi, siamo certi che la realizzazione della nuova entrata di Isozaki ne attirerà ancora di più”

… Un’idiozia che ci ha fatto sorridere per giorni al pensiero che si potesse anche solo immaginare che i giapponesi potessero essere così stupidi da affrontare un costosissimo viaggio transoceanico per venire a vedere questo orribile affronto sgrammaticato del loro compatriota nel cuore del Rinascimento italiano!

Suvvia, siamo seri!

Riflettiamo ora su alcune domande sulle quali, a causa del lavaggio del cervello patito nelle facoltà di architettura, troppo spesso gli architetti non riescono riflettere.

Ma dall’altro lato della barricata cosa pensa la gente di certi progetti?

E poi, se il problema che si pongono questi architetti fiorentini sarebbe quello della eventuale “figuraccia” e della “mancanza di credibilità” di Firenze e dell’Italia, chiediamoci: cosa pensano gli stranieri del progetto di Isozaki?

Ebbene, insegnando in una prestigiosissima università americana e collaborando con molti altri programmi internazionali, posso dire di avere centinaia di colleghi sparsi per il pianeta – non necessariamente “tradizionalisti” come qualcuno potrebbe malignare – i quali sono a dir poco indignati dall'approvazione di quel progetto ... e se questo è il parere di molti architetti e docenti di architettura, è facile immaginare quella che possa essere l’opinione dell'enorme massa di terrestri non appartenenti alla “specie contaminata” degli architetti. … signori colleghi fiorentini, ci avevate mai riflettuto?

Nell’articolo, come si è detto si rivendica: “se si lascia marcire il progetto vinto con regolare concorso ormai da 15 anni dall'archistar giapponese Arata Isozaki, non si dà nessuna fiducia quando si parla di qualsiasi altro progetto”

… Ma quale credibilità avrebbero certi concorsi dove i partecipanti sono a turno alterno i giudicanti ed i giudicati?

Vogliamo dare credibilità ad un concorso?

Vogliamo dare finalmente il giusto rispetto alla cittadinanza ormai da troppo tempo assoggettata alle imposizioni degli architetti?
Allora rifacciamo il concorso e facciamo in modo che la presenza degli architetti risulti del tutto marginale nella commissione giudicante e vediamo che succede. Peraltro Firenze è Patrimonio dell’Umanità … per quale motivo non dovrebbe essere il mondo intero a dover decidere cosa sia giusto premiare e realizzare all’interno di quello squarcio del tessuto urbano fiorentino?

Speriamo nel buon senso del Ministro ai Beni Culturali Massimo Bray, chiamato in causa dai presunti rappresentanti degli architetti fiorentini, ed ovviamente nel buon senso del sindaco e dell’intera cittadinanza fiorentina, così da non dover piangere un giorno per aver accontentato un ridicolo ed arrogante capriccio.

Leggi tutto...

5 novembre 2012

PALAZZO SULLA FONTE: NO AL FALSO STORICO

Pubblico il commento al post precedente inviatomi dall'amico Franco Lani, Progettista e Direttore dei Lavori della ricostruzione del Palazzo sulla Fonte, a nome anche degli altri progettisti prof. Arch. Andrea Branzi e Arch. Antonio Bigi.
A fine commento un elenco incompleto di post correlati al "falso storico"

A Giulio Rupi

Di solito evito di polemizzare sull’architettura e specialmente on-line, per tanti motivi ma principalmente perché credo che qualsiasi produzione artistica (com’è anche l’architettura) debba essere considerata “opera aperta” (Umberto Eco) e che quindi ognuno ha il diritto di dialogare con essa a suo piacimento e di fare le considerazioni secondo le proprie sensibilità …..

Andrea Branzi

Ho pensato però che Giulio meritasse una risposta (che egli stesso chiede), non solo perché è un carissimo amico che stimo profondamente, ma per fargli presente che, in questo caso, ha di gran lunga frainteso le nostre intenzioni. Se avesse visto forse il progetto completo e non si fosse soffermato esclusivamente sulla “risega”, non avrebbe espresso questo giudizio ed avrebbe compreso ( anche se magari non apprezzato) il nostro intendimento.

Brevemente: mai e da nessuno di noi progettisti è stata pensata questa piccola discontinuità (circa 6 cm) delle pareti della ricostruzione rispetto all’esistente per “dare ….dignità di fatto storico alla bomba…”, ma, insieme ad altri accorgimenti quali: un intonaco diverso da quello dell’edificio superstite, un sottotono di colore, la previsione d’infissi esterni ad un’anta-ribalta in bronzo, ecc…, si vuole sottolineare semplicemente che questa parte dell’isolato non è coeva all’esistente.
Invece di riproporre cioè una ricostruzione-copia perfetta dell’edificio distrutto (anche se lo potevamo fare perché in possesso di foto e disegni antecedenti il bombardamento) abbiamo optato per una soluzione che, com’è stata definita dalla Commissione d’esperti del Ministero della Cultura, “ denunciasse garbatamente l’avvenuta ricostruzione mediante un consapevole intervento moderno, dove l’identificazione con il passato resta essenzialmente legata alla volumetria , all’articolazione dei prospetti e al modo di trattare le superfici……”.

Non si tratta quindi di aver voluto storicizzare drammaticamente l’evento distruttivo (come invece è stato fatto nella ricostruzione dei palazzo dei Georgofili a Firenze) ma non abbiamo però voluto aggiungere al nostro centro storico un ulteriore falso architettonico come successo ampiamente nei primi decenni del ‘900 su buona parte di esso tant’è che oggi d’autentico medioevale ha ben poco. Ci siamo in sostanza avvalsi della metodologia corrente nel restauro e ricostruzione delle opere d’arte (vedi il restauro degli affreschi di Piero o il recupero di bassorilievi o la ricomposizione dei reperti di vasellame) laddove si ricostruiscono e definiscono i volumi, le superfici e i colori delle parti mancanti tralasciando la definizione dei dettagli anche se conosciuti.

Vorrei infine tranquillizzare il simpatico Ettore Maria, che non ho il piacere di conoscere, ricordandogli che l’età di noi progettisti è tale da rendere improbabili “riseghe” ancorché “mentali”.

Franco Lani


POST CORRELATI AL "FALSO STORICO"

Riflessioni sul Falso storico
Il tabù del falso in archittetura
Ma solo l'antico è falso?
Gli architetti con il falso sempre in bocca
Dov'era, com'era
De corrupta aedificandi ratione, ovvero come progettare falsi e vivere felici

Leggi tutto...

31 ottobre 2012

RICOSTRUZIONE NEL CENTRO STORICO DI AREZZO: UNA DOMANDA

Una breve premessa informativa a questo post di Giulio Rupi.
Il progetto di cui si parla ha avuto una lunga e travagliata storia brevemente riassunta in questo articolo su www.arezzonotizie.it, Al via la ricostruzione del Palazzo della Fonte, dal quale sono tratte le due immagini dei prospetti del progetto in costruzione.
Il primo progetto, di cui ho immagini troppo piccole per essere pubblicate, voleva "denunciare" in maniera evidente la sua "modernità".
I progettisti sono:
il Prof. Arch. Andrea Branzi (Politecnico di Milano), il Prof. Arch. Michele Paradiso (Università degli studi di Firenze), il Prof. Arch. Giacomo Tempesta e i professionisti Arch. Franco Lani, Arch. Antonio Bigi, Ing. Gianni Cinelli, coadiuvati dalla struttura tecnica di Banca Etruria.


RICOSTRUZIONE DEL PALAZZO DELLA FONTE NEL CENTRO STORICO DI AREZZO: UNA DOMANDA
di Giulio Rupi

Ad Arezzo, nel 1944, nel corso di un bombardamento degli Alleati, una bomba ebbe a colpire, in pieno Centro Storico, un palazzetto posto a pochi metri dalla splendida Pieve romanica, lasciando quest’ultima miracolosamente illesa.
Era questo un edificio di quattro piani, posto d’angolo all’incrocio di due strade, adiacente, su ognuno dei due fronti, a palazzi altrettanto alti. Con la bomba ne era rimasto in piedi un solo piano, creandosi una visibile stonatura, come di un dente rotto in mezzo a una fila di denti sani.

In città, da allora, si è discusso e discusso su come ripristinare l’armonia perduta, riportando quell’edificio alla sua altezza originaria. Si son presentate svariate proposte finché finalmente, dopo quasi settant’anni, ha da poco preso avvio il cantiere della ricostruzione.

A quanto si sa il progetto è passato attraverso successive versioni e da una precedente versione “modernista” e poco contestualizzata si è fortunatamente addivenuti a più miti consigli con una operazione quasi di “mimesi” che riprende le caratteristiche dell’edificio preesistente (anche se non si è mai nemmeno presa in considerazione l’idea di non progettare alcunché e rifarlo esattamente come era, ma sarebbe stato pretendere troppo!).

E tuttavia, per quanto mi ha riferito uno dei progettisti (non conosco nei dettagli il progetto) si è voluto sottolineare la storia del palazzo evidenziando il nuovo attraverso uno sfalsamento tra i piani delle facciate del vecchio e quelli del nuovo: una sorta di “risega” che mostrerà ai posteri le due fasi di formazione dell’edificio.
A questo punto si inserisce, brevissimo, il mio commento, anzi una domanda che vorrei porre ai progettisti.

C’è proprio bisogno di dare tutta questa dignità di fatto storico a un grosso barattolo appuntito di metallo, riempito di materiale esplosivo (la “bomba”) per farne un evento da evidenziare nei secoli? Che differenza con, che so, lo spigolo di un muro d’epoca demolito per sbaglio da un camion in retromarcia?
Troppo onore, amici progettisti, per una miserabile bomba della seconda guerra mondiale! Storicizziamo tutto, ma evitiamo di dare alle bombe la gloria immeritata di un segno perenne proprio in uno dei punti focali del nostro meraviglioso Centro Storico.

Leggi tutto...

14 giugno 2012

GABRIELE TAGLIAVENTI SULLA RICOSTRUZIONE IN EMILIA

Il Prof. Arch.Gabriele Tagliaventi, docente alla Facoltà di Architettura di Ferrara, ha scritto un articolo che qui linko sul dov'era e com'era, riferito al terremoto in Emilia.
Gabriele è certamente più colpito e più parte in causa di altri in quanto emiliano e quindi legato ai luoghi e alla sua gente.



Sullo stesso tema un mio recente post:

COM'ERA E DOV'ERA

Leggi tutto...

9 maggio 2012

CONSIDERAZIONI SUL MODERNO: SCAMBIO EPISTOLARE IN DUE PUNTATE - 2°

Questa è la mia risposta alla lettera dell'amico Arch. Mario Maschi, pubblicata IN QUESTO POST.
Questa corrispondenza è del febbraio 2006, e aveva tratto lo spunto dalla minacciata demolizione della sede della Camera di Commercio.
Ne è scaturito uno scherzoso e amichevole scontro di opinioni sull'antico e sul moderno. Per una pura coincidenza con l'attualità, in questa mail viene citato Papa Benedetto XVI, che domenica prossima sarà ad Arezzo e la cui visita ha suscitato, come sempre, aspettative e polemiche, e Beppe Grillo, che è il caso del giorno. Ma qui c'è il Grillo comico in un video sugli architetti.


Carissimo Mario
Ho ancora in bocca il retrogusto della tua garbata e divertente canzonatura a mio danno e ciò mi gratifica oltremodo, non tanto, come malignamente si potrebbe credere, perché io mi ritenga superiore e quindi inattaccabile dalle altrui ironie, quanto perché il trovare qualcuno che fa dell’ironia un linguaggio è piacevole e rassicurante scoperta, in un mondo che l’ironia pare aver completamente dimenticata.

Tanto lusinghiero quanto immeritato è il paragone con il nostro illustre concittadino cui tante doti ed esperienze ho da invidiare, senza menomamente reggere il confronto, avendo, ahimè, con lui in comune solo il nome.

Posso tuttavia fare l’auspicio che tu, emulo di Mons. Giberti, non armi la mano di un sicario, per imitare lo stesso scellerato gesto contro Pietro Aretino, documentato anche dalla sottostante rima di tale Francesco Berni il quale, evidentemente, non amava il nostro:

Tu ne dirai e farai tante e tante,
lingua fracida, marcia, senza sale,
che al fin si troverà pur un pugnale
meglior di quel d'Achille e più calzante.
Il papa è papa e tu sei un furfante,
nodrito del pan d'altri e del dir male;
hai un pie' in bordello e l'altro in ospitale,
storpiataccio, ignorante e arrogante.



Osservo anche che mi hai preso molto sul serio e ciò vieppiù mi onora, dato che non credevo di aver scritto cose di importanza così capitale né così strane da meritare una tua così ben argomentata replica. Ma l’aspetto più divertente della tua risposta è il fatto che, stando al giuoco tra modernisti e antichisti cui accenni, mi sembra che tu, modernista (se mi consenti di semplificare collocandoti in questa categoria), senta “il fiato sul collo” dell’onda antichista e, come dire, avverta il terreno delle tue convinzioni franare sotto i piedi, davanti all’assalto di una masnada di architetti e impresari che, succubi del mercato e proni alle richieste dei propri clienti, si lasciano “violentare” per vile denaro facendo, cioè, marchette con l’uso improprio e debordante di archetti sbilenchi su colonne con piano basamentale costituito da terrazze a sbalzo.

Tanto terrore da dove nasce? E’ così debole la tua fede nell’architettura come rappresentazione della modernità da farti temere perfino gli inconsapevoli, incolpevoli e sgangherati assalti di quattro elementi parodistici del repertorio antichista?
Non posso crederlo perché, conoscendoti, so che sai distinguere bene l’effetto dalla causa e il tuo timore deve essere ben più profondo e motivato e ha un nome: fallimento della città moderna, almeno di quella conosciuta, quella reale, costruita, non di quella che è ancora nella mente, nei rotoli di lucido e nelle speranze frustrate di noi architetti.
Le forme che tu tanto aborri e che (fammi credito di un minimo di capacità critica) neanche io accetto supinamente sono solo l’effetto e la reazione a lustri passati da noi architetti a dibattersi tra utopia e realtà, tra la nostra cultura auto-referenziale e i bisogni frustrati della “gente”.

So di essere obbligato, dall’incalzare delle tue argomentazioni e dalla necessaria brevitas, a ricorrere a grandi semplificazioni (quale l’affermazione pesante e impegnativa testè fatta), ma è dalla dialettica degli opposti che si può sprigionare una scintilla di verità, nella disincantata convinzione, tuttavia, che ognuno resterà abbarbicato alle proprie certezze e convinzioni sperando, al più, di convincere gli incerti (tanto per attingere al lessico elettorale di questi giorni).

Tra gli innumerevoli spunti che tu mi offri, ne scelgo due che proverò ad argomentare:

1) Mi sfugge fortemente il nesso esistente tra i nostri figli che navigano nella rete e la presunta necessità di stare al passo coi tempi in architettura. E’ come dire: siamo passati dalla penna d’oca al portatile dunque dobbiamo passare dal mattone al vetro. C’è un salto logico: la casa tradizionale funziona benissimo, basta introdurre i necessari adeguamenti, la penna d’oca non funziona affatto. E’ vera invece l’aspirazione ad una architettura che “sottilmente” interpreti il nostro tempo portando i segni della tradizione: purtroppo questa architettura è per pochi architetti capaci (non certo per me) e potrei citarne, a puro titolo di esempio, due: Gino Valle e Natalini. Ma il mio ragionamento è umile (anche qui nessuna affinità con l’Aretino Pietro) e parte dalla convinzione che a fronte di pochi bravi ve siano molti di meno bravi e che questi (me incluso, sia chiaro) si limitino ad “attingere” al lavoro altrui. Se questo è vero, ed è sicuramente vero, meglio, molto meglio “attingere” a ciò che la tradizione ci ha lasciato, piuttosto che replicare nelle città le stramberie modaiole.
Il mio ragionamento esclude la genialità, che è un dono di pochi, ma riguarda la normalità del nostro fare quotidiano che, guarda caso, è al servizio dei nostri clienti e, soprattutto, dei figli, nipoti e pronipoti. Per tornare alla genialità, cui molti architetti aspirano, vorrei darti del “genio” una bella definizione di un antropologo: “un genio è un catalizzatore della sua cultura, colui che riesce a cogliere nel fiume del continuum culturale tutti i segmenti, i temi che vi interagiscono e ne presenta una sintesi che li oggettiva e li rivela a se stessi”. Non c’è dubbio dunque che tendenzialmente l’interpretazione dell’architettura come sintesi di passato e presente e come prefigurazione del futuro sia quella giusta ma i geni, ripeto, sono merce molto rara.

2) Tu porti, spericolatamente, in architettura una categoria deprecata dal Cardinale Ratzinger e introduci l’espressione di “relativismo architettonico” appiccicandomelo come marchio d’infamia, quasi fossi una strega. Per me che dell’intelligenza di Ratzinger sono un sincero ammiratore (credo che Pietro Aretino propendesse più per le suore!!) è un invito a nozze. Premesso che quella parte del tuo scritto mi sembra lievemente confusa e quindi posso avere equivocato, proverò ad interpretare e immagino che tu volessi dire, usando la categoria di relativismo, che sarebbe grave errore attribuire pari dignità ad ogni tendenza architettonica, perchè l’una ha più dignità dell’altra (inutile spiegare a quale ti riferisci). Penso che il Papa mi perdonerebbe se avesse il piacere di leggere queste nostre facezie, e perciò dichiaro, stando al tuo gioco, di essere relativista in architettura (ma solo in architettura, eh, non scherziamo) con una propensione per l’architettura tradizionale. Il mio collega Giulio Rupi che, in uno dei suoi schizzi goliardici, ha diviso gli architetti aretini tra antichisti e modernisti tracciando una linea verticale in un foglio e collocando ognuno più o meno lontano dalla riga a seconda di quelle che lui ritiene essere il loro orientamento culturale, mi ha collocato tra gli antichisti sì ma vicino alla linea: sarei, cioè, un border line (se vuoi sapere dove ti ha collocato chiediglielo). Ritengo questa collocazione da un canto una debolezza, perché il marketing professionale richiede idee decise, dall’altro una forza perché gli architetti non lavorano per se stessi, come vogliono far credere le riviste, ma per gli altri cioè per il mercato e oggi il mercato chiede cose per te deprecabili (cioè io faccio marchette e tu le rifiuti). Non si tratta di atteggiamento spregiudicato, si tratta di non vivere in un perenne stato di frustrazione e alienazione a sentirsi dire no, no, no: quei no hanno pure un valore e credo sia “da architetti” ascoltarli per capire la realtà e interpretarla. Tutto torna in fondo: la prostituta e l’architetto sono i due più antichi mestieri al mondo e dunque non possono non avere qualche affinità (meno male che il Papa non avrà questa mia).

Concluderò non eludendo la tua curiosità sul perché io faccia un distinguo tra edilizia di base ed edifici specialistici. Potrei affermare, in maniera seriosa, che basta girare per il centro storico di Arezzo per trovare molte abitazioni che, salvo caratteri stilistici lievemente diversi, sono simili se non uguali (perdonami la semplificazione) e trovare invece la Cattedrale e la Santissima Annunziata che sono profondamente diverse tra loro come diverso è il tempo in cui sono state edificate ed entrambe molto diverse dalle abitazioni. Ma preferisco consigliarti (e lo consiglio a tutti) il DVD dello spettacolo di Beppe Grillo a Roma con un brano di 8 minuti dedicato agli architetti. Potrei raccontartelo ma la comicità non si racconta, si gode. Se ti fa piacere ne ho fatto un breve clip che non posso mandarti per e-mail perché troppo pesante, ma te lo farò avere su CD e lo farei avere anche all’Ordine se non temessi una denuncia per pirateria informatica.

8 minuti di spettacolo e ironia, come ironica è questa mia, augurandomi di essere stato all’altezza della tua.

Saluti
Piero



Leggi tutto...

19 novembre 2011

SI PUO' COSTRUIRE NEI CENTRI STORICI?

Giornata piena alla Giornata di studio su Giorgio Vasari Architetto organizzata dall’Ordine degli Architetti di Arezzo. Non è il momento di un resoconto completo, in attesa di scaricare qualche video, ma vorrei commentare uno dei tanti spunti che sono stati lanciati da Luigi Prestinenza Puglisi, coordinatore dell’incontro del pomeriggio .
Nel corso della mattinata Giorgio Vasari Architetto è stato degnamente celebrato dalle approfondite relazioni del Prof. Francesco Gurrieri, del Prof. Gabriele Morolli e dell'arch. Anna Pincelli. Nel pomeriggio invece Vasari è stato toccato solo tangenzialmente avendo presentato alcuni loro progetti Massimo Carmassi e i due giovani Stefano Pujatti e Giovanni Vaccarini. Su questi ultimi due mi riservo di approfondire con i video, anche se anticipo di avere assistito ad una fiera della vanità a mio avviso alquanto priva di contenuti; Massimo Carmassi, che avevo incrociato in altre occasioni, è stato invece una sorpresa.


Non per i progetti, che sono noti a tutti e non c’è stata alcuna novità, ma per le cose che ha detto durante il dibattito, dando segni di evidente insofferenza rispetto ad atteggiamenti professionali e a progetti che lui ha giudicato molto negativamente sotto ogni profilo. Se posso dirlo (tanto lui non usa internet), l’età l’ha cambiato molto e direi in meglio: disponibile al dialogo, disincantato, perfino autoironico, ha abbandonato del tutto quella certa aria da architetto di successo nei quartieri alti della cultura architettonica che deve tenere il punto sul proprio lavoro senza nulla concedere ad un momento di spontaneità. Ha distinto nel bagaglio dell’architetto la sovrastruttura fatta di parole, utilizzate per valorizzare la propria figura professionale, dalla struttura reale, cioè il proprio lavoro che è quello che resta; ha invitato gli architetti a tornare alla realtà, ha sottolineato l’aspetto artigianale del nostro lavoro, ha chiesto maggiore umiltà e ha auspicato il ritorno ad un minimo comun denominatore di grammatica architettonica. Ma di questo ne riparlerò insieme agli altri due giovani.

Prestinenza Puglisi, da cui mi divide praticamente tutto, è però un ottimo comunicatore e intrattenitore, sapiente nel cogliere i vari temi che emergono dalla discussione che lui risolve dando spazio a tutte le opinioni anche a quelle che certamente non condivide. Uno di questi spunti, che non c’è stato tempo di approfondire e che è anche in qualche modo suggerito dall’opera di Giorgio Vasari, è il solito, eterno tema della opportunità o meno di progettare nei centri storici.

Io sono convinto che, detta in questo modo, limitandosi cioè a considerare la parte antica di ogni città come a se stante, come una sorta di parco architettonico-urbanistico e scrigno di bellezza in mezzo al brutto della città moderna, effettuando cioè la divisione netta tra centro storico e periferia, la risposta più corretta, saggia e prudente sia quella di dire, come è stato detto in effetti nella gran parte del paese, semplicemente: no, non si devono fare nuovi progetti. Se buona parte dei nostri centri storici sono conservati questo è dovuto al niet delle Soprintendenze, talvolta odioso nei dettagli e nella forma, ma senza il quale credo ci sarebbe rimasto però ben poco di quella bellezza. Quali sono le ragioni di questa convinzione? Sono legate al modello culturale dell’architettura ed anche dell’urbanistica dominante:

L’architettura:
- Attualmente è orientata ad una creatività tutta tesa ad esaltare l’oggetto architettonico come evento a se stante, autonomo dal contesto di riferimento e ad una ricerca della “sorpresa” e della valorizzazione del suo autore piuttosto che nello sforzo di soddisfare tutti i soggetti interessati all’opera di architettura, cioè il committente e tutti i cittadini cui la città, nel suo complesso e nelle sue parti, appartiene. Quest’ultimo input pare essere ormai completamente estraneo alla cultura dell'architetto contemporaneo. L'architetto ha un approccio al progetto che è di tipo mistico, cioè di colui che entra in relazione con la verità per istinto e non per razionalità e che quindi non può essere, per definizione, comunicata; il che lo autorizza a sentirsi libero da ogni vincolo, dal giustificare il progetto agli altri ma anche a se stesso, salvo il fatto di fare uso massiccio di espressioni ed impressioni di tipo immaginifico ed emozionale assolutamente non verificabili e il più delle volte prive di riscontro con la realtà e del tutto incomprensibili ad una elementare analisi sintattica e lessicale. Basta leggersi qualsiasi relazione ai concorsi o ai progetti. Basta guardare qualche intervista. D’altronde è chiaro che mentre è possibile fare un’analisi grammaticale, come è stata fatta dal Prof. Morolli, dell’opera del Vasari, è viceversa impossibile farla per i progetti contemporanei che direi per scelta rifiutano qualsiasi grammatica, anzi si dichiara che ognuno ha la sua grammatica: la mistica appunto.
Questo per l’oggi.
Ieri invece per la nota prevalenza del movimento moderno che avendo azzerato tutto il patrimonio di conoscenze accumulato nei secoli ritenuto non idoneo all’espressione della modernità e, direi meglio, all’uomo moderno - considerato assurdamente diverso da quello antico - non può avere certo le carte in regola per intervenire al’interno di parti della città che invece sono cresciute e si sono trasformate, mattone dopo mattone, con un processo evolutivo di crescita con forti attinenze a quello della natura e senza sostanziali e violente cesure e traumi.

L’urbanistica:
- Qui prevale ancora la zonizzazione selvaggia, figlia sempre del movimento moderno, che ha dissolto l’unità della città, ha eliminato la strada dal suo orizzonte relegandola a mero supporto funzionale al traffico veicolare, creando, con la certificazione legislativa della zona A, il “centro storico”, oggetto di salvaguardia, e lasciando piena libertà di azione nella rimanente parte di territorio, con unico limite e criterio progettuale quello quantitativo del metro cubo e dei vari parametri edilizi. In questo modo è andata persa del tutto anche la memoria di come avviene la crescita della città, i suoi meccanismi di stratificazione successiva, una armonica e naturale modificazione urbana. Attualmente poi si tende a considerare la periferia sotto il profilo emozionale, soggettivo e psicologico, cercando di valorizzare presunte spinte ideali individuali di appartenenza a quel non-luogo riconoscendo una inesistente vitalità, ma di fatto condannandola invece allo status quo ed anzi aggravandone la situazione con l’aggiunta di oggetti singoli che amplificano ancora di più il disordine, il rumore e la parcellizzazione urbana e sociale.

Permanendo questo stato di cose il centro storico non può che continuare ad essere considerato off-limits, area da escludere da ogni possibile invenzione che lo renderebbe del tutto simile alla periferia.
C’è una rinuncia totale nella cultura dell’architetto contemporaneo ad un’azione che tenda invece a modificare il corso delle cose, un’acquiescenza passiva allo spazio-spazzatura che non viene considerato come uno stato di fatto negativo ma si tende ad elevarlo a valore, esaltando paesaggi urbani caratterizzati dal precario e dallo squallore e inventando una sorta di poetica del provvisorio, del brutto, dell’instabile al solo scopo di giustificare il proprio progetto, espressione della propria grammatica individuale. E’ la vittoria del relativismo assoluto in cui sembra non si debba giudicare niente (evidentissima contraddizione anti-relativa) ma che è utilissima ad evitare ogni giudizio sul proprio prodotto salvo quello che se riesco a produrlo vuol dire che va bene. Una trasposizione banale, strumentale e involontaria dell’essenza delle cose in base alla quale l’essere è, il non essere non è e l’essere non può non essere.

Dimentica l’architetto, e quando qualcuno glielo ricorda non capisce o non vuol capire, che la città è il luogo in cui si esprime la comunità come insieme di individui ognuno con la propria libertà ma nel rispetto di quella altrui. Non capisce che la città coincide con la società dalla quale, invece, tende a subire passivamente e talvolta con gioia una quantità di regole e leggi tanto elefantiaca quanto inutile e dannosa. Ma rinnega la possibilità di regole urbane considerate un ostacolo alla sua libera e licenziosa espressione di creatività. Riduce le nostre città e la nostra società, a Dubai, visto come il luogo della libertà assoluta, non sapendo leggere e distinguere le diversità e la peculiarità di ciascun luogo, ammesso e non concesso che Dubai sia un luogo e non piuttosto una cassaforte per capitali, sempre più scarsi, in cerca di reddito.

Invece è proprio l’idea di periferia che deve essere rifiutata tendendo a farla diventare essa stessa emanazione e riproduzione del centro storico, che dovrebbe essere chiamato centro antico, non banalmente come si tende a dire per colpevolizzare l’avversario dando per scontato che a questa visione corrisponda necessariamente una visione antichista in senso stilistico, ma come parte di un organismo unitario che deve proseguire nelle regole insediative che hanno prodotto la città antica, interpretandole e adattandole alle varie situazioni geografiche, morfologiche e funzionali.
Nel centro antico sarà lecito e opportuno intervenire solo previo avveramento di questa condizione di carattere urbanistico e solo dopo che, se mai potrà avvenire, l’architetto abbia rinunciato per scelta razionale e non per intenzione moralistica o di basso profilo all’egocentrismo creativo.
Insomma solo dopo che l’architetto potrà tornare ad essere portatore di una cultura urbana e quindi civile.

Leggi tutto...

13 ottobre 2011

L'INGANNO DELL'ARCHITETTURA COME TESTIMONE DEL TEMPO

Torno a casa e, in attesa di cena, sfoglio la rivista trimestrale della nostra cassa di previdenza e vedo un articolo dal titolo “Il nuovo e il vecchio. Riflessioni sul dibattito attuale per un possibile dialogo (tutto italiano)”, di Antonio Crobe. Grazie a Internet vedo che è un delegato della Cassa, ma questo non è importante.
Mi interessa il “possibile dialogo”, cioè la proposta, proprio oggi, il giorno dedicato, diciamo così, al rompighiaccio di Dresda.

Mi ha anche colpito il commento di biz, cioè Guido Aragona al post precedente perché ho la sensazione che quello che lui scrive abbia un fondamento logico più sottile di come appaia ad una prima lettura e so che non è certo un cieco adoratore di scriteriati progetti.

C’è prima un inquadramento generale dei termini del problema, qualche giudizio sbrigativo - ma non sono certo io titolato a far critiche del genere - e infine la parte propositiva.
La possibile soluzione consiste nella “conoscenza profonda del passato [da cui] si possono trarre i principi per la progettazione del nuovo che risulterà fortemente ancorato alla storia e che costituirà un valore aggiunto. Bisogna discernere sia da una conservazione assoluta, tesa alla musealizzazione dell’esistente, che dal criterio di intervento sul costruito inteso come sopraffazione del testo, al fine di aggiungervi la propria griffe. L’intera questione deve, forse, essere ricondotta nell’alveo del “progetto” (virgolettato nel testo), luogo dell’equilibrio di esigenze complesse”.


E poi continua con l’architetto che ha il “compito di amministrare il cambiamento in atto, un inserimento nuovo nel vecchio che deve essere soprattutto un innesto, che è rispetto della memoria, ma anche nuova proposta”. Alcune altre considerazioni dello stesso tenore per concludere che occorre “evitare così di cadere nell’immobilismo”.

Eccoci al dunque, evitare l’immobilismo attraverso il progetto. Ma cos’è l’immobilismo, a quali casi pensa l’autore, a quali situazioni fa riferimento? Immobilismo ha valenza negativa in molti campi ma in molti altri stare immobili può garantire la soluzione e la sopravvivenza. In politica non si può stare sempre immobili, ma in certi casi farlo può evitare disastri. Senza immobilismo la guerra fredda sarebbe stata anche troppo calda, ad esempio. Quindi cominciamo col ribaltare i termini del discorso perché è sempre lo stesso trucco: dare per scontato, attraverso l’uso di termini che hanno un consolidato quanto non sempre giustificato valore negativo, che certe condizioni sono sbagliate e vanno superate per aprire la strada al nuovo E’ una tecnica, in gran parte involontaria, ma molto subdola.

Invece che parlare di immobilismo, domandiamoci dove, perché e in quali casi si dovrebbe intervenire nei centri storici con nuove costruzioni. Domandiamoci perché “Caratteristica inconfondibile delle nostre città storiche è la stratificazione di epoche diverse, la capacità di cambiare aspetto adattandosi ai contesti sociali e culturali che si avvicendano nel tempo” e oggi, invece, questa caratteristica è fortemente e, secondo me, giustamente, contestata!
Non è difficile la risposta: il modernismo - è un dato oggettivo - ha voluto rompere con la storia e le tradizioni ma la memoria non è così facile da cancellare come sembra. Certo, si può distruggere e demolire ma la memoria resta ugualmente e, quanto più traumatica essa sarà, tanto più forte sarà il desiderio umanissimo di riavere ciò che è andato perduto.
Non è neppure una condizione culturale, piuttosto è antropologica. Si dà il caso che da una parte i nostri centri storici esistono, sono lì in piedi, nonostante il tempo, sopravvissuti ai terremoti - salvo i casi in cui è intervenuta malamente la modernità - e dall’altra c’è la città nuova, le cui case sembrano soddisfare meglio esigenze del vivere contemporaneo ma dove lo spazio pubblico è assente o sbagliato e dove l’insieme non appaga, non è appagante o almeno, a livello puramente emotivo e magari non perfettamente consapevole, se ne intuisce il differenziale di valore tra l’una e l’altra parte di città. Il dubbio, come minimo, dovrebbe essere, ed è, lecito per tutti perché ogni cambiamento, ogni trasformazione è da decenni un peggioramento.
Solo architetti e politici, nella loro smania di apparire, di cogliere una visibilità e un successo effimero, gli uni per vanità professionale, gli altri per consenso elettorale, sembrano convinti del contrario.

Ma c’è un paradosso straordinario in questa volontà di lasciare il segno con sulle spalle il bagaglio di una “conoscenza profonda del passato”, come è scritto nell’articolo: gli innovatori del passato non ragionavano in termici storicistici, operavano in continuità con il loro presente, talvolta a piccoli passi, talvolta con concezioni diverse e “dissonanti”, ma sempre e comunque nel solco di una evoluzione. La rottura avvenuta nei primi anni del ‘900 ha stravolto questo metodo, la specializzazione estrema del mestiere di architetto, la rigida periodizzazione degli “stili”, ciascuno dei quali visto come una necessaria e consapevole volontà di cambiamento, attribuendone uno per ciascun periodo, ha fatto perdere ogni legame effettivo, almeno a livello spontaneo, con il passato e con ciò che di esso è rimasto nella città.

Solo una logica intellettualistica e autoreferenziale del genere può far pensare che sia naturale e doveroso “lasciare il segno di un’epoca”. Non esiste motivo razionale che giustifichi questa condizione, siamo in presenza invece di un assioma e non di un teorema che prevede dimostrazione. Il trucco usato è quello di scambiare il progresso, inteso come miglioramento delle condizioni materiali di vita delle persone, con una sorta di destino che ci costringe a testimoniare a noi stessi e ai posteri ciò che è stato fatto in una certa frazione di tempo. E’come se la nostra vita dovesse essere scritta in una timeline in cui, ad ogni settore temporale “debba” corrispondere una traccia caratteristica di quel periodo e diversa dalle altre, a dimostrazione del “progresso fatto”.

Ebbene, coloro che credono in questa condizione assiomatica, non hanno altra possibilità di intervenire nei contesti storici che con progetti di rottura. Per assurdo, si può dire che il rompighiaccio di Dresda sia, in quella logica, la migliore espressione dell’assioma di lasciare testimonianze del nostro tempo.
Chi invece immagina di lasciare un segno “soft” è, ed estremizzo un concetto, afflitto da ingenuità perché qualunque tipo di diversità sarà comunque leggibile e non potrà essere evolutiva rispetto a ciò che c’è.

A meno che, come scrive Paolo Marconi, non si consideri l’architettura antica come viva e, conoscendone le tecniche e ricostruendone le possibilità di evoluzione, tipologicamente e morfologicamente, quindi con un atteggiamento che prevede anche la ricostruzione di parti completamente nuove e non documentate ma coerenti con quelle esistenti, si intervenga come su un corpo vivo ricostruendone o costruendone ex-novo nuovi “organi” e “tessuti” ma in armonia con quelli esistenti, esattamente come si farebbe, se fosse possibile, con un corpo umano.
Così facendo si produrrebbero quelli che molti chiamano il “falso storico” – storico perché pronunciato con l’idea storicistica che ogni epoca debba avere per legge la sua espressione – e che pochi invece chiamano l'“autentico contemporaneo”.

La terza via è, anche in questo campo, una illusione, una aspirazione “debole” perché lasciata al “progetto”, come scrive Crobe, vale a dire al progettista, al singolo, all’artista sensibile. E’ possibile che ne esistano, non lo si può certo escludere, ma come dato statistico e di semplice osservazione del reale si può dire che è altamente improbabile, mentre è quasi certo che il risultato sarà disastroso.

Anche perché si pone il dilemma: chi giudica l’artista?

Ho ragionato in maniera estrema ma solo in questo modo si può affrontare un tema del genere, non con il buonismo architettonico che nasconde spesso la medesima volontà, mascherata, di lasciare il segno di coloro che invece non hanno pudore. Forse biz pensava anche a questo.

Leggi tutto...

6 agosto 2011

PIAZZA SAN SILVESTRO: L'ATTACCO AL CENTRO STORICO CONTINUA

Ricevo dal Prof. Ettore Maria Mazzola questo testo sul progetto di "riqualificazione" di Piazza San Silvestro a Roma che pubblico con piacere.

****
Piazza San Silvestro: l’attacco al centro storico continua
di
Ettore Maria Mazzola

La cronaca romana di questi giorni ci ha mostrato la rivolta pacifica suscitata dall’avvio del progetto di “riqualificazione” di Piazza San Silvestro. Una rivolta più che prevedibile.
Intanto c’è da chiedersi se, con tutti i problemi di Roma, specie in periferia, la “riqualificazione” di piazza San Silvestro sia una priorità che giustifichi una spesa di circa € 2.500.000,00.
Poi chiediamoci se il progetto in corso possa realmente definirsi un progetto “riqualificante”, oppure se non si tratti dell’ennesimo abominio progettuale, figlio dell’ideologia modernista e del disinteresse per il contesto nel quale si interviene, che pone al centro di tutto l’affermazione dell’ego del progettista.
Il risultato di questa ennesima “gaffe urbanistica” dell’amministrazione capitolina, è stata l’ovvia rivolta dei cittadini che hanno manifestato il proprio disappunto bloccando il cantiere. Contemporaneamente sui blog si sono moltiplicati i messaggi che implorano la sospensione del progetto e chiedono un cambio di direzione nella gestione dell’urbanistica romana.

Per quanto mi riguarda non posso che unirmi al coro degli indignati; del resto, dopo la violenza all'Ara Pacis, e lo stupro dell’Unione Militare, questo intervento rappresenta il progredire delle metastasi, di un "tumore" che, originatosi con il Museo dell'Ara Pacis, si sta estendendo fino a Piazza San Silvestro in una direzione ... e Largo Perosi nell’altra. Del resto era prevedibile, se si dà a Meier e Fuksas il permesso di sfregiare il centro storico più bello del mondo, chiunque può sentirsi legittimato a fare altrettanto!

La realtà dei fatti è che non c'è più alcun amore per la nostra città, né da parte degli architetti (che in realtà pensano solo al loro ego), né tantomeno da parte dei politici, ai quali interessa solo la propaganda. Per questi ultimi, spesso profondamente ignoranti, l'importante è che il proprio nome sia sui giornali e, siccome la gente legge a stento i titoli e sempre meno i contenuti, che si parli bene o male non fa nulla, basta che si parli.
Eppure non è che ci vorrebbe molto a capire come fare una piazza: se facciamo il raffronto tra la mobilitazione in atto per bloccare l’esplanade di San Silvestro, con quella che fu la mobilitazione popolare per mantenere in pristino la finta fontana barocca istallata a Fontanella Borghese per il set cinematografico Disney 2 anni fa, ci accorgeremmo che la gente comune, ovvero i fruitori degli spazi urbani, non fa polemica per il gusto di farla, ma la fa per evitare di vedere violentati gli spazi che le appartengono. Nei due casi menzionati, infatti, si è “combattuto” per evitare uno scempio o per mantenere un qualcosa che, esteticamente, si riteneva apportasse una miglioria allo spazio preesistente.

A tal proposito sarebbe il caso di ricordare che il Codice Civile italiano tutela tutti coloro i quali rivendicano il possesso di un luogo che utilizzano, frequentano o guardano, e che come tali devono essere tenuti in considerazione prima di apportare delle modifiche; sarebbe quindi utile recuperare concetti come quello contenuto nel Piano per Bari Vecchia del 1930, (G. Giovannoni – C. Petrucci) che recitava «[…] Tra le attribuzioni del Comune e della commissione dovrà essere quella che fa capo al Diritto Architettonico, in quanto l’opera esterna non tanto appartiene al proprietario quanto alla città».
Ovviamente, nel coro di protesta contro il progetto di Piazza San Silvestro, c’è stato anche chi, dalla Facoltà di Architettura, ha suggerito di coinvolgere personaggi come Foster, Pei, Piano e l'Aulenti che, a suo avviso, potrebbero dare delle soluzioni più consone ad una piazza … da parte mia, se penso a ciò che Gae Aulenti ha fatto al Foro Carolino di Napoli mi viene la pelle d'oca!!

A tal proposito, penso che più che suggerire delle archistar, che mirano solo a mettere la loro firma sul territorio, sia necessario coinvolgere tutti coloro i quali vogliano mostrare ciò che vorrebbero venisse realizzato in Piazza San Silvestro; ma soprattutto, vorrei che ad esprimersi non debba essere una "commissione di esperti" (visto che si sono formati, o meglio che sono stati lobotomizzati, nelle facoltà di architettura e ingegneria italiane votate al modernismo), ma che debbano essere i cittadini ad esprimere le loro preferenze, mediante un processo partecipativo reale e non fasullo, come quello della recente presa in giro per Largo Perosi alla Moretta.
A mio avviso Roma, che è la città delle fontane, meriterebbe di avere una vera fontana in Piazza San Silvestro, (l’ultima degna di tale nome è quella realizzata da Attilio Selva nel 1928 in Piazza dei Quiriti!) meriterebbe di avere una pavimentazione non astrusa come quella del progetto in corso, ma legata alla geometria che la contiene, una pavimentazione che tenga in considerazione le gerarchie degli edifici che la circondano; Piazza San Silvestro meriterebbe dei lampioni degni di portare luce nel centro di Roma, e non brutti come quelli installati lungo via Veneto.
Il progetto in corso presenta una serie di orribili “panchine-bara”, prive di schienale e messe alla rinfusa: una soluzione che sembra più una disposizione casuale di oggetti, utile a riempire il vuoto della piazza, che non un tentativo di realizzare un luogo per la socializzazione ove riunirsi e chiacchierare … non ci vogliono le archistar per capirlo, ma una semplice analisi storico-tipologica degli spazi urbani di Roma.

Leggi tutto...

19 settembre 2010

SEQUENZE URBANE: UN ESEMPIO CONCRETO



Le immagini qui sopra mi sono state inviate dal Prof. E.M. Mazzola, sono disegni di sequenze urbane realizzate da alcuni suoi studenti della Notre Dame School of Architecture Rome Studies, utilizzate sia come rilievo che per il progetto.
Gli autori dei disegni sono, nell'ordine dall'alto verso il basso: Joshua Eckert, Kalinda Brown e Christal Olin .
Mi spiace per la notevole riduzione di qualità che ho dovuto effettuare, me ne scuso con i tre autori e ringrazio Ettore per la sua gentilezza.
Il post che segue è una divagazione, molto lieve, sul tema “sequenze urbane” proposto da Mazzola nel post precedente, a cui necessariamente rimando per una migliore comprensione dell’argomento.

*****
Domenica mattina, in città poca gente fino alle undici: giovani padri che portano a spasso figli piccoli, rari anziani, qualche single, per forza e non per scelta, uscito di casa per sfuggire la solitudine, alcuni turisti. Anche qualche architetto (siamo così tanti che statisticamente ne trovi sempre qualcuno).
Mi fermo a chiacchiera con uno che conosco. Niente di impegnativo, argomenti da giorno di festa, l'inevitabile mugugno, cosa fai oggi, poco più. Al momento di salutarci la classica domanda: dove vai? Non è curiosità, in genere, ma una formula di saluto rituale, come how do you do. Gli dico che sto andando al cimitero a piedi
Si meraviglia moltissimo, non della meta ma dell'andarci a piedi.
Gli faccio presente che non è poi così lontano come sembra, la città dei morti è sul versante opposto della collina, la zona meno abitata della città e quindi l'idea è che sia proprio da tutta un'altra parte.
Non l'ho convinto e credo pensi che io sia un gran camminatore. Purtroppo non è così. Approfitto della domenica mattina per recuperare quel deficit di passi mancati durante la settimana.
Salgo lungo il Corso Italia, la strada dello struscio serale, il salotto di Arezzo lungo quasi un chilometro, la più importante della città, quella che proviene dalla Val di Chiana e, superata la sella di Olmo, procede diritta per tre chilometri e mezzo, entra in città, anzi origina e ordina la città, e sale lassù fino alla sommità della collina, fino al Duomo.
A metà circa del Corso svolto a destra, lungo la via Garibaldi, già via Sacra, la strada dei conventi e delle Chiese. Al centro dell’incrocio il solito pakistano che vende palloncini. Mica è stupido lui, lo sa dov’è che la gente passa, lo sa dove sono i nodi urbani. Non va a vendere in una strada con il niente intorno. I commerci ci sono laddove c’è gente, e la gente va dove ci sono commerci. In quell'angolo è incredibilmente ancora possibile trovarvi qualche contadino che vende i frutti della stagione: funghi, mazzi di agretti, castagne. Almeno fino a che qualche norma europea non impedirà per legge ciò che già è naturalmente in crisi.
Entro in piazza Sant’Agostino che non è una vera piazza, ma uno slargo in salita, molto allungato e frammentato in spazi diversi tenuti insieme dalla Chiesa di Sant’Agostino, posta in alto, punto di vista su cui converge lo sguardo. Davanti alla Chiesa l’ampio e allungato sacrato, di forma trapezoidale, sopraelevato rispetto a tutto il resto della piazza, racchiuso sui tre lati da un muro – il quarto è la Chiesa. Un progetto sciagurato in corso di esecuzione ha deciso che l’unico spazio unitario e pianeggiante che c’era in questa anomala piazza - una grande terrazza sulla piazza stessa - dovesse essere interrotto da scale poste ad angolo tra la base minore del trapezio e uno dei lati. Il progettista ha visto evidentemente molti disegni di progetti con le immancabili scale piene di giovani felici e sorridenti e così ha trasformato un’immagine grafica in un progetto urbano, ottenendo però il risultato di distruggere lo spazio. Sono i danni delle riviste e soprattutto l’incapacità di leggere, non le riviste ma la città: si prende un adesivo che piace e lo si attacca in pianta; peccato che poi si trasformi in pietra.


La qualità degli edifici intorno, salvo la Chiesa, il convento e poco altro, è scadente, ma la piazza è la più viva della città: sede del mercato rionale, conserva il carattere popolare che ha ereditato dall’essere stata luogo di lavoro, di posta per le carrozze, di vasche per le lavandaie.
Proseguo a lato della Chiesa e, sempre in salita, mi immetto in via della Minerva, una sinuosa strada degli anni '30, che mi porta in Piazza Crucifera. Uno sguardo dall’alto alle mura a strapiombo, dalle quali sono appena uscito e che in quel lato sono di notevole altezza. Ai piedi di queste uno spazio sterrato detto “Il Gioco del Pallone”, dove una volta si giocava ad una specie di pelota.
Proseguo in Borgo Santa Croce, una bella strada extra-moenia, stretta e lievemente flessuosa, a seguire una curva di livello, con edifici abbastanza poveri, salvo qualche eccezione. Arrivo alla Chiesa di Santa Croce. Qui finisce la città antica e mi immetto in un viale che sale verso la Fortezza e il Cimitero. Un tratto diritto di circa duecento metri, in salita, e sono arrivato.
Ho controllato su Google earth, in tutto ho percorso 1250 metri circa, in circa 20 minuti. E’ tanto, è poco? Dipende.
Quei 1250 metri non pesano, anzi, sono un piacere. Il percorso che compio è un susseguirsi di quadri diversi, di sequenze urbane, come ha spiegato bene E.M.Mazzola nel post precedente, a cui rimando.

Gli stessi 1250 percorsi in un quartiere sub-urbano sarebbero stati una fatica, o meglio, una noia. L’incentivo a prendere l’auto è evidente. Con la stessa distanza si può andare dalla fine della città compatta ad un “vicino” supermercato o fare una visita ad un amico nel quartiere PEEP Tortaia.
Ma per farlo si deve percorrere una lunga strada (parallela al Corso) ma progettata per le auto: rare case ai margini e tra loro staccate, una somma di episodi. Si deve attraversare la tangenziale, ambiente ostile per il pedone, si continua a camminare nel vuoto e quei tratti di strada lunghi e monotoni appaiono distanze incolmabili. Infine si arriva al supermercato, progettato come una Chiesa, al centro di una piazza che però è un parcheggio, al centro di un quartiere PEEP.
Lo schematismo del percorso, disegnato con tratto minimalista e la mancanza di stimoli rendono il cammino faticoso e l’ambiente sfavorevole alle passeggiate. Sono del tutto assenti le sequenze urbane, prima di tutto perché è assente la città.
Come si può affrontare con leggerezza una camminata in una strada come questa, dove la meta è ben oltre ciò che si vede al fondo di questa foto?
La distanza e la durata degli spostamenti pedonali è certamente importante nel progetto della città, ma da sola non è condizione sufficiente a garantire una città user-friendly; questi quartieri hanno tenuto conto del raggio di influenza della scuola e dei servizi in genere, cioè degli standard, eppure il risultato è assolutamente insoddisfacente. La logica della quantità, il funzionalismo e la zonizzazione hanno fatto evaporare la città sostituendola con aggregati edilizi inadatti alla vita e alla convivenza umana. Sono stati costruiti molti edifici ma manca ciò che li tiene insieme per farne una città.
Un pensiero rozzo e schematico si è sostituito alla raffinatezza e alla complessità della città antica.
La razionalità da sola ha fallito il suo scopo e la fatica di abitare in città si è sostituita alla naturalezza di viverla.

Non appaia irriverente o troppo riduttivo utilizzare la suggestione del discorso di Benedetto XVI alla Westminster Hall, sostituendovi la parola “religione” con “tradizione”:
Senza il correttivo fornito dalla “tradizione” (religione nel testo originale), infatti, anche la ragione può cadere preda di distorsioni, come avviene quando essa è manipolata dall'ideologia, o applicata in un modo parziale, che non tiene conto pienamente della dignità della persona umana".

Leggi tutto...

22 luglio 2010

IPERMERCATO D'ESTATE

Pietro Pagliardini

21 luglio, ore 15,00: appuntamento di lavoro per un sopraluogo. Incontro fissato all’ingresso di un grande centro commerciale; unico motivo della scelta: la vicinanza all’oggetto del sopraluogo e l’aria condizionata, dato per scontato il consueto ritardo di qualcuno.
L’ora non è di punta, molti sono in vacanza, il parcheggio è deserto e nel bar-selfservice due sole coppie di anziani ai tavolini, con l’aria dei turisti. Per fortuna, un caffè senza coda.
Conosco quel luogo – o come si dice non-luogo – ma mai come oggi ne ho ricavato un’impressione di disagio, di degrado e di squallore. Con la folla, la sensazione prevalente era il fastidio claustrofobico, il desiderio di scappare; l’assenza di folla esalta la percezione del brutto e del grossolano


L’attesa e la scarsità di persone costringono a vedere i dettagli – polvere nelle cornici sopra i negozi, carte in terra, arredi del bar e del giornalaio di pessima fattura, materiali di rivestimento da sala d’attesa della stazione, ridondanza di segnali pubblicitari. La pensilina in ferro sopra l’ingresso mostra tracce di ruggine, nella pavimentazione esterna mancano molte piastrelle di gres, specie ai bordi, laddove vi sono i tagli, i buchi riempiti con cemento per non inciampare. Ma anche ad immaginarlo pulito e ben mantenuto e ordinato, è davvero impossibile scovarvi il bello.

Il centro commerciale non è un outlet finto-antico, ma un ipermercato finto-moderno: corridoio longitudinale, simulacro di un “corso urbano”, con negozi posti sul lato esterno - ma rigorosamente non visibili da fuori per costringere il consumatore ad entrare - supermercato sull’altro alto.
Nei due vertici del “corso” gli ingressi, con i servizi bar da una parte, grande negozio di elettronica dall’altro.
Nella zona centrale del “corso” c’è uno slargo e ci sono pure le panchine, patetica parodia di una “piazza”. Davanti a queste un grande banco del gelato, a mò di chiosco.

Dunque, anche il finto-moderno fa il verso alla città, proprio come il finto-antico.
Chissà perché questo viene disprezzato da molti architetti e quello no!

Il non-luogo, nella sua essenza profondamente anti-urbana e anti-sociale, isola scollegata dall’intorno, conserva nell’organizzazione del proprio interno una pur debolissima memoria della città, improbabile tributo a questa grande invenzione umana.

Possiamo dire che l’urbanistica del finto-moderno è di tipo funzionalista: strada dritta, servizi ai lati, ingresso di testa, tutto rigorosamente al chiuso in ambiente totalmente artificiale; quella del finto-antico, invece, è di tipo tradizionale: strade irregolari che convergono in “piazze” e, ai piani superiori, finte finestre di finte abitazioni, tutto, ad eccezione dei negozi ovviamente, rigorosamente all’aperto, con qualche porticato. Almeno l’aria è naturale.

Ma questo viene disprezzato e quello no! Chissà perché, dato che sono sostanzialmente la stessa cosa, due facce della stessa medaglia anti-urbana.

Senza folla, il non-luogo ricorda la scenografia di un film: edifici provvisori e di pessima fattura, tutta facciata, che con la confusione, sostituta della macchina da presa, crea l’inganno della realtà. Come nel Truman Show. Le luci, il rumore, la gente che si aggira con i carrelli e le borse piene, famiglie intere che vagano al riparo dal freddo o dal caldo, alimentano l’illusione di trovarsi in un luogo d’incontro e di scambio sociale; ma vuoto, appare in tutto il suo squallore di spettacolo, di messa in scena organizzata per favorire quell’unica funzione per cui esiste, il consumo.
Il centro commerciale è l’esaltazione dell’effimero che però provoca segni e danni profondi e incancellabili nella città, defraudandola della sua essenza di complesso luogo di scambio e di incontro e, alla lunga, trasformando le abitudini delle persone: abitare, lavorare, ecc. ecc. Sì, ancora lui, LC.

Anche i nuovi musei di cui molti vanno fieri, a prescindere dalle loro insensate forme, altro non sono che non-luoghi come i centri commerciali, dove si dispensa, se non si vende, l’immagine di un’arte assurda quanto il suo contenitore. Anche qui si concentra una funzione importante, quella della cultura - una pessima cultura in verità – che nel centro storico è invece diffusa e gratuitamente offerta in ogni angolo della città, e che i cittadini assimilano continuamente, senza doverla andare a cercare in un non-luogo.

Un corso vero di città, anche vuoto, anche alle 15,00 di un giorno di luglio, offre uno spettacolo di cultura, di bellezza e armonia. Manca solo l’aria condizionata, ma è il sacrificio di 15 giorni e neppure per tutto il giorno. Se poi si deve consumare, basta entrare in un bar, e il fresco è assicurato.

Leggi tutto...

17 febbraio 2010

AUGE' E IL FASCINO DELLA STORIA

L’articolo di Marc Augè su Modena scritto per il Corriere della Sera è un piccolo capolavoro.
E’ un testo esemplare per la passione umana e la poesia con cui è scritto; si presenta, a tratti, con il tono letterario degli appunti di viaggio dell’ottocento scritti durante il Gran Tour.
E’ un testo che trasuda “sensazioni”, tanto per citare lo stesso Augè, suscitate dal fascino irresistibile dei luoghi quotidianamente vissuti ma carichi di storia:
Gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della loro storia, in quello spazio si muovono e si ritrovano con una disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati, di modo che si può parlare al riguardo di un insieme di “luoghi”. Un luogo è un luogo nel senso pieno del termine se vi si può reperire un legame visibile con il passato e se tale legame è manifestamente presente alla coscienza di chi lo abita o lo frequenta. E’ così per un certo numero di città medie in Italia (per non parlare delle più grandi) e questo spiega il fascino durevole che esse esercitano sulla straniero di passaggio, che lo sente immediatamente, anche se non sempre ne percepisce tutte le ragioni”.


E ancora
A Modena, oltre quindi agli amici, ritrovo anche luoghi familiari e ricordi, un presente piacevole e un passato sempre più lontano. La bellezza della Piazza Grande e del Duomo mi restituisce quindi, al tempo stesso, la sensazione di una certa forma di permanenza – le cose sono sempre al loro posto, fedeli – e quella del tempo che fugge”.

Avendo la possibilità di un rapporto diretto con la città e i suoi abitanti, ci si sente vicini alla gente e alle cose…….E’ pienamente città, polis, realtà geografica, storica e architettonica, ma anche e soprattutto, realtà sociale”.

Augè affronta tutti i temi che costituiscono l’essenza della città, luogo artificiale costruito per permettere e favorire la naturale socialità degli uomini. Ed è significativo il fatto che egli riconosca che “gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della storia, i quello spazio si muovono e si ritrovano con disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati”, quasi che l'abitare nelle nostre città storiche facesse parte del nostro patrimonio genetico.
In nome di cosa rinunciarvi, in nome di quale falsa sfida di una presunta modernità rinunciare a tutto questo? ammesso che sia possibile farlo, ammesso che sia possibile perdere del tutto la memoria, nonostante gli allucinogeni che ci vengono propinati da 60, 80 anni a questa parte da parte di spacciatori di idee assurde che hanno ridotto le nostre città ad informi aggregati di edifici che non hanno alcun altro senso che quello di renderci soli ed estranei gli uni agli altri, di farci perdere la “familiarità” con i luoghi e con la realtà sociale.



Nella foto: Progetto di Pier Carlo Bontempi con Léon Krier per Piazza Matteotti a Modena

Leggi tutto...

8 novembre 2009

MURI CADUTI E MURI...CADENTI

Pietro Pagliardini

Durante la presentazione del libro di Nikos Salìngaros, No alle archistar, LEF, 2009, tenutasi a Firenze, si è svolto un dibattito che, dato il tema, non avrebbe potuto che essere alquanto radicalizzato.
Ma non è questo l’argomento, quanto la seguente affermazione del Prof. Arch. Gianfranco Di Pietro, che presentava il libro, detta a completamento di un suo punto vista sulla pensilina di Isozaki a Firenze:
Una cosa è sicura: nei centri storici non si deve più costruire architettura contemporanea”.



Prima un brevissimo profilo del Prof. Di Pietro: in Toscana è stato, per lungo tempo, tanto autorevole quanto temuto membro della C.R.T.A, in pratica la commissione urbanistica della regione presso la quale tutti i PRG e i piani attuativi dovevano necessariamente transitare, oggi abolita ma allora dotata di ampi poteri decisionali, di interdizione e di indirizzo (e di cui si comincia a rimpiangere la fine). Redattore di piani regolatori, piani paesistici, piani territoriali di coordinamento, tra cui quello delle Province di Arezzo e Siena, i suoi piani sono impostati su schedature dettagliatissime e su norme fortemente vincolistiche. Ha svolto attività di progettazione sia nel campo della nuova edilizia sociale che nel recupero di fabbricati storici. Già docente di urbanistica alla facoltà di Architettura di Firenze, ha pubblicato libri insieme ad Edoardo Detti.

Premetto che Di Pietro, pur condividendo la critica del libro al fenomeno archistar, non ha nascosto le sue perplessità in ordine all’analisi di Salìngaros, da me invece condivisa, che buona parte del disastro architettonico e urbanistico delle nostre città affonda le sue origini nelle avanguardie del novecento, ed ha anche detto di provare ammirazione, per la loro impronta etica, per diversi interventi di quel tempo, citando in particolare il Weisenhof e le Siedlungen di Bruno Taut.




Cosa c’è dunque dietro l’idea stessa di escludere ogni forma di architettura contemporanea dai centri storici da parte di chi non rifiuta affatto l’architettura moderna?
A quali conseguenze porta un scelta di questo tipo?
La più semplice ed immediata risposta è l’ovvia constatazione che tra il contrasto e il contesto è preferibile quest’ultimo. Non ha detto infatti: non bisogna intervenire nei centri storici ma: "non bisogna farlo con progetti che sono per loro natura dissonanti e contrastanti".

Dunque un architetto che apprezza l’architettura moderna esclude che questa possa armonizzarsi con l’architettura della storia. Ma il prof. Di Pietro non è solo amante dell’architettura moderna, è anche un tipologo e un appassionato custode dei centri storici e del paesaggio.
La contraddizione è tanto evidente quanto, per assurdo, apparente.

E’ evidente perché certifica il riconoscimento di una indiscussa superiorità dell’architettura del passato su quella presente. Se, infatti, così non fosse e dato che la città storicamente si è sempre trasformata ed evoluta con l’aggiunta e la sovrapposizione di edifici di epoche successive fino alla configurazione attuale che noi tanto apprezziamo, allora non si capirebbe il motivo per cui non dovrebbe continuare a crescere con edifici contemporanei.

La contraddizione è tuttavia apparente per il fatto che modernità fuori e conservazione dentro sono due facce della stessa medaglia, la conseguenza di quella rottura violenta con la tradizione e con la storia voluta dalle avanguardie che segna una linea di confine netta e invalicabile tra un prima e un dopo e perciò anche tra un centro e una periferia. In giorni di celebrazione del 9 novembre 1989, è fin troppo facile la metafora della costruzione di un “muro” che divide un passato superbo, ritenuto morto, da un futuro fatto di sperimentazione di nuove forme architettoniche e urbane di cui l’avanguardia rivendica la paternità e la guida.

Io credo che questa “doppia morale”, mi piace chiamarla così, ha sì il merito di salvare il centro storico ma condanna la città nel suo complesso.
Di Pietro ha detto, e c’è del vero, che la ricerca effettuata nella prima metà del secolo affondava le sue ragioni nei velocissimi cambiamenti sociali ed economici delle società occidentali e che occorreva perciò trovare risposte a nuovi fenomeni quali la mobilità individuale e collettiva, l’inurbamento e la formazione di nuove classi sociali, ecc. Tuttavia è altrettanto vero che la oleatissima macchina dell’avanguardia non è stata capace di accorgersi in tempo del fatto che le soluzioni date erano profondamente sbagliate sia nelle forme architettoniche, completamente prive di ogni radice con il passato e quindi non accettabili proprio da coloro verso cui diceva di orientarsi la ricerca, cioè gli esseri umani (ed esistono prove in tal senso divertentissime sulla trasformazione spontanea da parte dei residenti di nuovi quartieri funzionalisti), sia nella struttura della città, la quale ha dovuto subire la rozza ed elementare razionalizzazione di essere frammentata in zone diverse che tuttora viene insegnata e perpetrata e di cui la città tutta, compreso il centro storico (che ha assunto appunto questa sacrale funzione), sta pagando il prezzo.

L’avanguardia non ha saputo né voluto fermarsi ed ha cristallizzato il suo potere e la sua ideologia occupando tutti gli spazi possibili e anche di più. Da avanguardia che voleva essere si è trasformata nella peggiore accademia, con i relativi accademici, fondendosi con il potere economico dei media fino alla sua forma più evoluta nell’ambito della globalizzazione con il fenomeno delle archistar, i divi creatori di forme nuove per definizione, indifferenti ai luoghi e alle genti, ogni nuovo progetto delle quali “deve” diventare evento mediatico globale per vendere gli stessi oggetti edilizi a Dubai come a Ostia, a New York come a Savona.

Se dunque l’identità dei luoghi e dei popoli va perduta con l’architettura moderna e tanto più contemporanea, è opportuno conservare e congelare ciò che resta del patrimonio storico urbano e architettonico come un reperto archeologico.

Questa, credo, sia la molla che crea questa “doppia morale”. Fare i conti con la storia significa anche salvare quel poco di buono che può esserci stato e gettare a mare tutto il resto senza rimpianti; non significa, invece, perfezionare ciò che è sbagliato in origine, non significa arrampicarsi sugli specchi giustificando gli errori come “deviazioni”, significa riconoscere un fallimento e basta, al pari dell’abbattimento del muro di Berlino che è un gesto liberatorio di condanna totale di un passato sbagliato e disumano. Ma non è facile che avvenga, o almeno non dal di dentro, visto che insieme al muro cadrebbero anche i suoi fedeli Vopos.

A coloro che in questi giorni condannano e dileggiano i “frattali”, consiglio di fare i conti con ciò che esiste e che hanno davanti agli occhi ogni giorno, e di cui potrebbero essere in parte responsabili, invece di trastullarsi nel gioco autoreferenziale del critico che si scaglia contro ciò che potrebbe minare la sua personale posizione di potere.

Oggi riprendere il cammino interrotto vuol dire, prima di tutto, cercare di ricostituire un corpo disciplinare minimo condiviso tra gli architetti e soprattutto nelle università, dopo aver fatto i conti veri con la storia e mettendo da parte la folle idea primaria di creatività e artisticità e puntare sul mestiere.
E’ necessario tornare a fare della buona edilizia e riporre l’Architettura nella valigia dei sogni di ognuno di noi, pronta ad essere tirata fuori nei rari casi della vita in cui è lecito pensare di fare ricorso ad essa, e non scomodarla in ogni circostanza, come inculcato nelle aule universitarie e come mostrato nelle riviste, dal caminetto della signora Gina alla riqualificazione delle piazze del sindaco di turno. Questo significherebbe, parafrasando Di Pietro, dare una forte impronta etica al nostro mestiere.

Leggi tutto...

23 marzo 2009

Quando il centro storico non era Centro Storico

Pietro Pagliardini

Sembra impossibile ma il centro storico prima di diventare Centro Storico era una città. Anzi era la città. In campagna, quando c’era da andare al mercato, dicevano: oggi “vado in città”; e andavano nel centro storico. Questo, almeno dalle mie parti, accadeva fino a poco prima della seconda guerra e per un certo periodo anche dopo. Io non c’ero, in effetti, però me lo hanno raccontato e ho visto le foto.
Fino ad un certo momento il centro storico era semplicemente tutta, o quasi, la città. Non era una parte separata, una zona preziosa da salvaguardare, al pari di una riserva naturale, un pezzo di città alienata, nel senso di qualcosa di diverso da una città vera e propria, qualcosa che, per essere oggetto di particolari cure e attenzioni, deve necessariamente sentirsi come un malato grave e quindi estranea alla città stessa.

E’ diversa perché più bella, è diversa perché non ci si può andare in auto e perché ha un valore immobiliare più alto che altrove, perché è molto murata e molto densa senza essere opprimente, perché è omogenea eppur varia, perché vi si concentra l’arte e la storia di molte epoche, perché ci sono i migliori negozi, perché non è costruita con indici e standard fissati per legge ma con molte regole spontanee e per mille altri motivi.
Forse è troppo diversa dal resto di gran parte dell’insediamento urbano ma, dato che nella sua condizione di solitudine è essa ad essere diversa dal resto e non piuttosto il resto da essere diversa da lei (a proposito, ma il centro storico è maschile o femminile? a me piace s-grammaticalmente considerarla, in quanto città, femminile), il centro storico vive, in fondo, una condizione di isolamento. Ironia della sorte: il centro storico si colloca geograficamente ed idealmente al centro di un insediamento urbano ma è marginale e sola.

Ma prima non era così. Prima delle salvaguardie e della messa sotto tutela, la città (il centro storico) viveva la sua vita come la vivevano tutte le città che erano tutte centri storici, nel senso che stavano in luoghi nodali o centrali (di un territorio) ed erano tutte storiche (nel senso che non erano giovani). Ci abitavano e vi producevano persone, vi si scambiavano merci, c’era il mercato settimanale, ma non l’odierno circo commerciale itinerante da una città all’altra.

Le persone che vi abitavano avevano gli stessi bisogni reali di oggi: ampliare il fondo artigiano, aumentare sopra una stanza per farne una camera e specializzare o migliorare la propria casa, Quando si manifestava questo bisogno lo si soddisfaceva ampliando dietro, sul lotto di pertinenza. Lo stesso facevano i vicini e i dirimpettai. E, a poco a poco, in base ai bisogni, il lotto si intasava, e così il lotto accanto, e alla fine l’isolato intero. Restavano, talora, solo poche parti libere e scoperte: orti, corti, chiostrine.

E la città cresceva dentro e sopra sé stessa.

Osserviamo in alto la ricostruzione della pianta nel 1600 di San Giovanni Valdarno (AR) e confrontiamola con la situazione odierna tratta da Google Earth: San Giovanni è una città di fondazione su progetto di Arnolfo di Cambio, dunque la città di un architetto ma, una volta progettata è, in modo naturale e senza scandalo, sfuggita di mano al suo autore ed è cresciuta fino a coprire praticamente ogni spazio libero all’interno degli isolati.
Eppure la città di San Giovanni Valdarno è oggi salvaguardata come un bene prezioso ed è diventata il Centro Storico di San Giovanni Valdarno, con norme rigorose che la proteggono come un patrimonio collettivo da trasmettere ai posteri.
La città cresceva e si riproduceva come cresce e si riproduce un organismo, come cresce e si riproduce una vita. L’architettura e l’urbanistica tradizionale permette la modificazione, l’aggiunta e la crescita in maniera armoniosa in quanto è basata fin dalla sua origine sulla complessità delle parti e delle relazioni, contrariamente all’urbanistica e all’architettura moderna tutta imperniata sul rigore geometrico astratto, sulla pulizia e purezza delle linee accompagnate dalla purezza ed essenzialità dei materiali, e non tollera aggiunte e crescita se non con elementi che siano di forte contrasto con essa.
Invece l’edilizia tradizionale accetta proprio una crescita ad essa omogenea e respinge la dissonanza. E’ simile ad un albero che cresce e che riproduce nei rami giovani e nelle nuove foglie le stesse forme delle parti adulte; è, insomma, una crescita di tipo frattale.

Poi è successo qualcosa che ha interrotto bruscamente questo metodo di crescita. E’ accaduto che è intervenuta la modernità, cioè il progresso, quindi un fatto positivo per tutti i vantaggi che esso ha portato alla vita delle persone.
Nella corsa alla modernità sono intervenuti fattori nuovi ed anche i numeri in gioco sono cambiati.

E’ andata perduta la memoria di come cresceva la città e si è sostituita ad essa la teoria.

Il ragionamento era che cambiando la società dovesse cambiare anche la città, e questo aveva una sua razionalità, solo che si è ritenuto di poter fare a meno della memoria di come era avvenuta la crescita fino ad allora e di potere e dovere ricominciare tutto daccapo. Tutto avrebbe dovuto essere diverso, senza un ragionevole perché, solo in nome della modernità.

I fondamenti della scienza, che hanno permesso quel grande progresso, non sono stati accantonati, altrimenti non ci sarebbe stato nessun progresso ma i fondamenti di crescita della città, incredibilmente, consapevolmente e colpevolmente sì.

Si è ricominciato dall’inizio, si è inventata, tenendo conto solo dei nuovi elementi intervenuti ( la mobilità nelle sue varie forme, la grande industria, l’energia elettrica diffusa, ecc), una nuova teoria, immaginando e imponendo che anche l’uomo dovesse cambiare in base a quella teoria. Non ci si è limitati, cioè, a modificare e trasformare la città per accogliere e far funzionare al meglio quelle dirompenti novità ed integrarle nella crescita della città, si è voluto trascinarvi, reinventandolo, anche l’uomo, attribuendogli dall’alto bisogni diversi da quelli di prima.

Sull’onda delle varie teorie filosofiche e politiche dell’ottocento si è voluto creare “l’uomo nuovo”, parcellizzato nelle varie funzioni che qualcuno ha deciso di imporgli: lavorare, abitare, riposarsi.

E il ritmo della fabbrica è diventato il ritmo della città. La casa è diventata la macchina per abitare. La città è stata divisa in reparti come nel processo produttivo. La divisione del lavoro è diventata la divisione della città: c’è stata cioè coerenza ma una coerenza non giustificata e soprattutto sbagliata.

E’ possibile oggi ricostruire la memoria a livello generalizzato (che a livello specialistico e di nicchia ve ne sono di coloro che ne conoscono i “segreti”) e ricostituire un tessuto strappato per trasformare le nostre periferie in una espansione del centro storico in continuità con esso e cercare di fare del centro storico la città e viceversa?
Io credo che questa debba essere l’aspirazione, il principio guida, la stella polare nella redazione di piani e norme in modo che si possa dire: quel piano e quelle norme sono coerenti con quei principi? Se sì può darsi sia un buon piano, se no è quasi certo non lo sia.

Ad esempio: il Piano casa in discussione in questi giorni è un buon piano? Potenzialmente sì, perché i principi sono semplici ma coerenti con la crescita naturale della città dentro e sopra sé stessa.


N.B. La foto in testa è tratta dal sito: Arnolfo di Cambio, che accoglie le Celebrazioni nel VII centenario della sua morte.

Leggi tutto...

Etichette

Alemanno Alexander Andrés Duany Angelo Crespi Anti-architettura Ara Pacis Archistar Architettura sacra Archiwatch Asor Rosa Augé Aulenti Autosomiglianza Avanguardia Barocco Bauhaus Bauman Bellezza Benevolo Betksy Biennale Bilbao Bontempi Borromini Botta Brunelleschi Bruno Zevi CIAM Cacciari Calatrava Calthorpe Caniggia Carta di Atene Centro storico Cesare Brandi Christopher Alexander Cina Ciro Lomonte Città Città ideale CityLife David Fisher Deridda Diamanti Disegno urbano Dubai E.M. Mazzola EUR Eisenmann Expo2015 Frattali Fuksas Galli della Loggia Gehry Genius Loci Gerusalemme Giovannoni Gregotti Grifoni Gropius Guggenheim Hans Hollein Hassan Fathy Herzog Howard Il Covile Isozaki J.Jacobs Jean Nouvel Koolhaas L'Aquila L.B.Alberti La Cecla Langone Le Corbusier Leon krier Leonardo Ricci Les Halles Libeskind Los Léon Krier MVRDV Maffei Mancuso Marco Romano Meier Milano Modernismo Movimento Moderno Muratore Muratori Musica Natalini New Urbanism New York New York Times New towns Nikos Salìngaros Norman Foster Novoli Ouroussoff PEEP Pagano Palladio Paolo Marconi Petruccioli Piacentini Picasso Pincio Pittura Platone Popper Portoghesi Poundbury Prestinenza Puglisi Principe Carlo Purini Quinlan Terry Referendum Renzo Piano Ricciotti Robert Adam Rogers Ruskin S.Giedion Sagrada Familia Salingaros Salzano Salìngaros Sangallo Sant'Elia Scruton Severino Star system Stefano Boeri Strade Tagliaventi Tentori Terragni Tom Wolfe Tradizione Umberto Eco Valadier Valle Verdelli Vilma Torselli Viollet le Duc Vitruvio Wrigth Zaha Hadid antico appartenenza architettura vernacolare arezzo bio-architettura cervellati città-giardino civitas concorsi concorsi architettura contemporaneità cultura del progetto cupola densificazione falso storico globalizzazione grattacielo identità leonardo levatrice modernità moderno naturale new-town paesaggio periferie restauro riconoscibilità rinascimento risorse scienza sgarbi sostenibilità sprawl steil toscana università zonizzazione