Pietro Pagliardini
Sembra impossibile ma il centro storico prima di diventare Centro Storico era una città. Anzi era la città. In campagna, quando c’era da andare al mercato, dicevano: oggi “vado in città”; e andavano nel centro storico. Questo, almeno dalle mie parti, accadeva fino a poco prima della seconda guerra e per un certo periodo anche dopo. Io non c’ero, in effetti, però me lo hanno raccontato e ho visto le foto.
Fino ad un certo momento il centro storico era semplicemente tutta, o quasi, la città. Non era una parte separata, una zona preziosa da salvaguardare, al pari di una riserva naturale, un pezzo di città alienata, nel senso di qualcosa di diverso da una città vera e propria, qualcosa che, per essere oggetto di particolari cure e attenzioni, deve necessariamente sentirsi come un malato grave e quindi estranea alla città stessa.
E’ diversa perché più bella, è diversa perché non ci si può andare in auto e perché ha un valore immobiliare più alto che altrove, perché è molto murata e molto densa senza essere opprimente, perché è omogenea eppur varia, perché vi si concentra l’arte e la storia di molte epoche, perché ci sono i migliori negozi, perché non è costruita con indici e standard fissati per legge ma con molte regole spontanee e per mille altri motivi.
Forse è troppo diversa dal resto di gran parte dell’insediamento urbano ma, dato che nella sua condizione di solitudine è essa ad essere diversa dal resto e non piuttosto il resto da essere diversa da lei (a proposito, ma il centro storico è maschile o femminile? a me piace s-grammaticalmente considerarla, in quanto città, femminile), il centro storico vive, in fondo, una condizione di isolamento. Ironia della sorte: il centro storico si colloca geograficamente ed idealmente al centro di un insediamento urbano ma è marginale e sola.
Ma prima non era così. Prima delle salvaguardie e della messa sotto tutela, la città (il centro storico) viveva la sua vita come la vivevano tutte le città che erano tutte centri storici, nel senso che stavano in luoghi nodali o centrali (di un territorio) ed erano tutte storiche (nel senso che non erano giovani). Ci abitavano e vi producevano persone, vi si scambiavano merci, c’era il mercato settimanale, ma non l’odierno circo commerciale itinerante da una città all’altra.
Le persone che vi abitavano avevano gli stessi bisogni reali di oggi: ampliare il fondo artigiano, aumentare sopra una stanza per farne una camera e specializzare o migliorare la propria casa, Quando si manifestava questo bisogno lo si soddisfaceva ampliando dietro, sul lotto di pertinenza. Lo stesso facevano i vicini e i dirimpettai. E, a poco a poco, in base ai bisogni, il lotto si intasava, e così il lotto accanto, e alla fine l’isolato intero. Restavano, talora, solo poche parti libere e scoperte: orti, corti, chiostrine.
E la città cresceva dentro e sopra sé stessa.
Osserviamo in alto la ricostruzione della pianta nel 1600 di San Giovanni Valdarno (AR) e confrontiamola con la situazione odierna tratta da Google Earth: San Giovanni è una città di fondazione su progetto di Arnolfo di Cambio, dunque la città di un architetto ma, una volta progettata è, in modo naturale e senza scandalo, sfuggita di mano al suo autore ed è cresciuta fino a coprire praticamente ogni spazio libero all’interno degli isolati.
Eppure la città di San Giovanni Valdarno è oggi salvaguardata come un bene prezioso ed è diventata il Centro Storico di San Giovanni Valdarno, con norme rigorose che la proteggono come un patrimonio collettivo da trasmettere ai posteri.
La città cresceva e si riproduceva come cresce e si riproduce un organismo, come cresce e si riproduce una vita. L’architettura e l’urbanistica tradizionale permette la modificazione, l’aggiunta e la crescita in maniera armoniosa in quanto è basata fin dalla sua origine sulla complessità delle parti e delle relazioni, contrariamente all’urbanistica e all’architettura moderna tutta imperniata sul rigore geometrico astratto, sulla pulizia e purezza delle linee accompagnate dalla purezza ed essenzialità dei materiali, e non tollera aggiunte e crescita se non con elementi che siano di forte contrasto con essa.
Invece l’edilizia tradizionale accetta proprio una crescita ad essa omogenea e respinge la dissonanza. E’ simile ad un albero che cresce e che riproduce nei rami giovani e nelle nuove foglie le stesse forme delle parti adulte; è, insomma, una crescita di tipo frattale.
Poi è successo qualcosa che ha interrotto bruscamente questo metodo di crescita. E’ accaduto che è intervenuta la modernità, cioè il progresso, quindi un fatto positivo per tutti i vantaggi che esso ha portato alla vita delle persone.
Nella corsa alla modernità sono intervenuti fattori nuovi ed anche i numeri in gioco sono cambiati.
E’ andata perduta la memoria di come cresceva la città e si è sostituita ad essa la teoria.
Il ragionamento era che cambiando la società dovesse cambiare anche la città, e questo aveva una sua razionalità, solo che si è ritenuto di poter fare a meno della memoria di come era avvenuta la crescita fino ad allora e di potere e dovere ricominciare tutto daccapo. Tutto avrebbe dovuto essere diverso, senza un ragionevole perché, solo in nome della modernità.
I fondamenti della scienza, che hanno permesso quel grande progresso, non sono stati accantonati, altrimenti non ci sarebbe stato nessun progresso ma i fondamenti di crescita della città, incredibilmente, consapevolmente e colpevolmente sì.
Si è ricominciato dall’inizio, si è inventata, tenendo conto solo dei nuovi elementi intervenuti ( la mobilità nelle sue varie forme, la grande industria, l’energia elettrica diffusa, ecc), una nuova teoria, immaginando e imponendo che anche l’uomo dovesse cambiare in base a quella teoria. Non ci si è limitati, cioè, a modificare e trasformare la città per accogliere e far funzionare al meglio quelle dirompenti novità ed integrarle nella crescita della città, si è voluto trascinarvi, reinventandolo, anche l’uomo, attribuendogli dall’alto bisogni diversi da quelli di prima.
Sull’onda delle varie teorie filosofiche e politiche dell’ottocento si è voluto creare “l’uomo nuovo”, parcellizzato nelle varie funzioni che qualcuno ha deciso di imporgli: lavorare, abitare, riposarsi.
E il ritmo della fabbrica è diventato il ritmo della città. La casa è diventata la macchina per abitare. La città è stata divisa in reparti come nel processo produttivo. La divisione del lavoro è diventata la divisione della città: c’è stata cioè coerenza ma una coerenza non giustificata e soprattutto sbagliata.
E’ possibile oggi ricostruire la memoria a livello generalizzato (che a livello specialistico e di nicchia ve ne sono di coloro che ne conoscono i “segreti”) e ricostituire un tessuto strappato per trasformare le nostre periferie in una espansione del centro storico in continuità con esso e cercare di fare del centro storico la città e viceversa?
Io credo che questa debba essere l’aspirazione, il principio guida, la stella polare nella redazione di piani e norme in modo che si possa dire: quel piano e quelle norme sono coerenti con quei principi? Se sì può darsi sia un buon piano, se no è quasi certo non lo sia.
Ad esempio: il Piano casa in discussione in questi giorni è un buon piano? Potenzialmente sì, perché i principi sono semplici ma coerenti con la crescita naturale della città dentro e sopra sé stessa.
N.B. La foto in testa è tratta dal sito: Arnolfo di Cambio, che accoglie le Celebrazioni nel VII centenario della sua morte.
23 marzo 2009
Quando il centro storico non era Centro Storico
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