Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


Visualizzazione post con etichetta Léon Krier. Mostra tutti i post
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4 marzo 2012

DIVERSE MODERNITA'

"Un'altra modernità è possibile", Lèon Krier


CONTINUA....








Vilma Torselli, a corredo del suo commento, mi manda le due foto che seguono, Ronchamp di Le Corbusier, che presentano analogie negli effetti di luce con le due foto della Pieve di Arezzo e con la chiesa di Foligno di Fuksas.
Emanuele ha colto ironia nel mio post fotografico. Una certa ironia c'è senz'altro ma è probabilmente involontaria.
In verità il post nasce da una passeggiata della domenica mattina nella parte alta della città, quando non c'è quasi anima viva, da qualche scatto con il cellulare e dalla ovvia constatazione che molti elementi architettonici vengono riproposti nel tempo in forme e all'interno di architetture e contesti completamente diversi.
Anche per questa ovvietà ho evitato di scrivere perchè mi sembrava, e mi sembra, superfluo, visto che le foto sono già abbastanza eloquenti. Ho lasciato che ognuno giudicasse in base alle proprie convinzioni, avendo io espresso la mia attraverso il titolo e la famosa frase di Léon Krier.
Il confronto più intrigante è quello della prima foto dove è la luce a farla apparentemente da padrona. Dico apparentemente perchè la luce è il prodotto e il risultato dell'architettura, non dell'illuminazione artificiale. La luce con la sua suggestione è ingannevole nel senso che può produrre effetti diversi in funzione dello spazio entro cui si colloca: in una chiesa la si giudica, o forse la si percepisce, come elemento fortemente legato al sacro con un richiamo evidente al cielo, all'infinito, all'atto della creazione; in uno spazio museale o dedicato all'arte esalta e valorizza le opere esposte e l'architettura stessa. Per certo la luce di Foligno, almeno giudicando quel solo scatto, non ha alcunchè di sacro, provenendo da una serie di aperture leziose, manieriste e banalotte, più adatte all'arredo di una discoteca, impressione prima che ho avuto anche dall'insieme del progetto. Quella di LC fornisce indubbiamente una suggestione più intensa, ma la composizione delle aperture, ancorchè su una parete dotata di una notevole massa muraria, unita alla consueta purezza della superficie intonacata bianca, restituisce un senso di astrattezza compositiva geometrica molto formalista.
La facciata interna della Pieve, con l'ordine regolare delle bucature a contorno del rosone, inserite in un muro di cui è ben visibile la trama delle pietre da costruzione, che svolge, come dice Salìngaros, la necessaria funzione di elemento di passaggio tra la piccola e la grande scala percettiva, restituisce allo stesso tempo suggestione e ne connota in maniera evidente il suo essere parte di una chiesa, oltre che contribuire all'illuminazione di fondo dello spazio. Eppure anche questa facciata ha elementi puristi, con il taglio netto delle finestre su una parete liscia priva di decori. Da qui la sua modernità.






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26 febbraio 2012

RIFLESSIONE SUL METODO

Questa è una riflessione sul metodo, suscitata da diversi giorni di intenso dibattito e scontro su questioni urbanistiche cittadine, ma che sono estendibili anche al dibattito urbanistico e architettonico. Non scopro niente di nuovo, ovviamente, ma una rinfrescatina alla memoria è utile.

Nella vita pubblica degli individui e dei gruppi di individui riuniti in forme di qualsiasi tipo (associazioni, partiti, sindacati, mondo del lavoro, aziende private, ecc.), e quindi nella politica intesa in senso ampio, esistono due livelli di comportamento che devono guidare l’azione utile a conseguire un determinato fine: quello strategico e quello tattico.

La strategia è l’insieme dei principi generali che rappresentano l’obiettivo da raggiungere, il fine, il cui tempo è variabile in base al soggetto che se lo pone e in base alle condizioni che ne determinano la possibilità o meno di poterlo raggiungere. Alcuni principi, infatti, non hanno tempo, sono o possono essere assoluti e addirittura eterni, è il caso della libertà e della religione, altri sono più  limitati nel tempo, quali ad esempio quelli di un partito politico che deve conseguire il risultato di riuscire a rendere vincente la propria visione di società nell’arco di un certo numero di anni. Determinate dottrine politiche invece durano da e per secoli.


La strategia fissa gli obiettivi nobili, che sono la carta di identità di ciascuno individuo o gruppo. Gli obiettivi possono perciò subire aggiustamenti e modificazioni in base alle mutate condizioni ma, in linea di principio, alcuni punti debbono rimanere fissi e immutabili. Per fare qualche esempio, perfino la religione è soggetta a interpretazioni diverse, e la teologia esiste apposta, l’importante è che la base fondante di ognuna non si stravolga, altrimenti diventa una religione diversa e si va nell’eresia. Per quanto riguarda la politica, esiste la dottrina filosofica e politica cui ispirarsi e che avrà certi punti cardine non “negoziabili” e se si considera il liberalismo, ad esempio, esso non potrà trasformarsi mai nella prevaricazione dello Stato sull’individuo, pena la morte della dottrina stessa.

La tattica, invece, è il metodo che permette di conseguire gli obiettivi, di raggiungere il fine; è l’azione che consente, nel tempo, l’avveramento della strategia finale.
La tattica dunque è e deve essere necessariamente variabile in funzione delle condizioni al contorno in quel determinato momento. La tattica è flessibile. La tattica non deve esprimere verità che chiamiamo assolute per comodità, ma verità relative ad un particolare caso o momento, tenendo sempre a mente però la strategia finale.
Dunque possiamo dire, semplificando, che la strategia è assoluta, la tattica è relativa. La strategia richiede una maggiore elaborazione del pensiero astratto ma la tattica richiede una grande capacità e intelligenza nel saper valutare una serie numerosa di variabili in gioco perché richiede scelte veloci e in sequenza continua. La lotta politica ne è l’esempio più conosciuto da tutti.

Veniamo ora al caso, anzi ai casi.
In questi giorni, dicevo, ad Arezzo è in corso un ampio dibattito sul vigente PRG approvato da pochi mesi e, come ampiamente previsto dai più, inutilizzabile. Senza parlare dei contenuti, che sono del tutto assenti, è proprio la lettura e l’interpretazione ad essere difficile, astrusa e contraddittoria. L’obiettivo è dunque cambiarlo per ottenere un primo scopo: poterlo utilizzare con relativa semplicità.
Poi esiste un altro scopo, quello strategico, cioè avere un PRG che risponda ad una idea di città, attualmente assente. Per fare questo non è sufficiente rifare tutto il PRG, anche se sarebbe già un gran risultato che oggi, per una serie di fattori, è però difficilmente perseguibile, ma è necessario cambiare il modello culturale di riferimento che è la legge urbanistica regionale. Arezzo è una città in emergenza, tutto è paralizzato dalla crisi economica ma, quelle poche iniziative che ci sono, anche piccole da parte dei cittadini per la propria casa, vengono frustrate da norme inesplicabili.

Cosa è opportuno fare dunque in una situazione come questa? Immaginare di trasformare radicalmente la legge regionale, che richiede il concorso non di una sola città, tra l’altro marginale rispetto alle altre della Toscana, oppure prendere atto che la legge esiste e intervenire laddove è possibile, vale a dire sullo strumento di “governo del territorio” che è nelle attribuzioni proprie del Comune?
Mi pare evidente la risposta. E invece, in questi giorni in cui si è fatta insistente la richiesta dal basso di modificare il PRG (o meglio quella parte di PRG che si chiama Regolamento Urbanistico, ecco una complicazione della legge regionale) spuntano coloro che si rifanno alla strategia: la responsabilità è della legge regionale, bisogna cambiare quella. E’ chiaro che parlare in termini strategici significa parlare in termini di lustri se non di decenni, visti i tempi della politica e di quella regionale in particolare. Se si scegliesse questa direzione, tutto rimarrebbe com’è e, quando accadesse il miracolo della nascita della meravigliosa nuova legge urbanistica questa troverebbe una città morta e sepolta.
Quindi coloro che oggi privilegiano la visione strategica, di fatto difendono la conservazione dello status quo perché mancano di visione tattica. Il richiamo al “ci vuole ben altro”, tipico della cultura italiana, è un modo per non cambiare niente passando però da persone colte e intelligenti oppure per politici capaci.
La soluzione semmai, sta nel doppio binario, che non è affatto impedito, vale a dire nella doppia azione di modifica dello strumento che non funziona e in quella parallela, e del tutto coerente con la prima, di agire per la revisione profonda della legge regionale, basata sull’urbanistica e non sulla somma di astratte procedure urbanistiche.

In campo architettonico e urbanistico avviene la medesima cosa. Nello scontro tra i così detti antichisti e i modernisti (questi non sono così detti, sono e basta), spunta sempre quello bravo che fa riferimento alla strategia, cioè all’architettura tout court, senza se e senza ma, all’esistenza di principi che prescindono dagli opposti ismi e da valori fondanti che devono essere applicati. Ebbene, affermando questo si favorisce, nei fatti, la tendenza dominante, cioè il modernismo nelle sue varie manifestazioni di moda, la creatività, l’architettura-spettacolo, la città zonizzata ed esplosa. La tattica invece prevede l’opposizione forte ad un pensiero forte perché consolidato nella prassi, nella mente degli architetti perché dominante ormai per abitudine e, sempre per abitudine condita da opportunismo, trasmesso dalle università.
Stare a disquisire quanto sia fuori della storia Tor Bella Monaca di Lèon Krier significa, willy nilly, apprezzare la squallide Tor bella Monaca attuale. Tor Bella Monaca di Lèon Krier non sarà l'obiettivo strategico da raggiungere, ma senza "questa" Tor Bella Monaca tutto rimarrebbe come oggi.

Architettura ed urbanistica sono arti civiche, cioè sociali, i cui soggetti preminenti non sono gli architetti, se non nella fase di soluzione tecnica del problema alle risposte della società e degli individui, hanno a che fare con la politica, sono politica nel senso che la politica ne è il brodo di coltura perché interessa tutti indistintamente i cittadini, quindi le modalità di azione sono esattamente le stesse di qualsiasi azione politica. Il luogo di scontro non sono le accademie o le riviste di critica, ovviamente necessarie e importanti se non sono solo luoghi di potere, il luogo di scontro e di decisione è la città.
Solo con un corretto rapporto conflittuale si può giungere ad una sintesi, non essendo l’architettura arte o scienza, le quali invece possono essere per una buona parte demandate ai soli esperti.
Perché il conflitto? Perché non esiste armonia nella società democratica, esiste affermazione delle proprie idee con metodi specifici della democrazia. L’armonia esiste solo nelle società non democratiche. In Cina, ad esempio, c’è molta armonia, ma la democrazia è assente. Il metodo occidentale è altro.

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2 dicembre 2011

PILLOLE DI MODERNITA'

Post senza pretese, solo una raccolta alquanto casuale di frasi raccolte qua e là in rete, nei commenti di questo blog e su facebook sull’idea della modernità e delle sue conseguenze in architettura.
Non tutti i “pensieri” hanno un autore, non per scelta ma perché alcuni non l’avevano proprio e altri li ho letteralmente persi per strada. Nel caso eccezionale che qualcuno lo riconoscesse come suo, basta scrivere e io lo inserisco.


- La contemporaneità non é una qualità, non é uno stile, non é una religione, non é una saggezza, non é un'abilità, non é una estetica, non é una promessa, non é un ideale e neanche una delusione!
Quello che é semplicemente la contemporaneità, é il fatto di essere qui, adesso!
La contemporaneità qualifica soltanto il momento nel quale viviamo...Ne possiamo essere entusiastici o no, e purtroppo rimaniamo tutti contemporanei! Lucien Steil

- "Intanto tutta la grande architettura é contemporanea al suo tempo, rilevante alla sua situazione nello spazio, nel tempo, nella società umana - ma anche eterna. Senza quest’essere eterna - quest'essere in armonia con il cosmos e l'evoluzione della vita - nessun'architettura può essere chiamata contemporanea." Hassan Fathy

- E poi mi piace guidare una macchina con navigatore satellitare e lo preferisco ad andare in carrozza, soprattutto per le lunghe distanze. Se potessi muovermi in elicottero sarebbe meglio ( anche se questo non vuol dire che non mi piaccia anche camminare o andare in bicicletta). Luigi Prestinenza Puglisi su facebook

- Nooo, la carrozza paragonata alla macchina noooo. Questa non me la dovevi tirare fuori. Pietro Pagliardini (risposta a LPP su facebook)

- L'evoluzione non si può certo fermare.

- Il dubbio che ho riguardo a questi argomenti è: il cosiddetto "moderno" in architettura, ha una sua autonomia reale, un suo sistema, oppure i suoi criteri, in realtà, si fondano per differenza su una negazione di criteri classici? (di cui avrebbe dunque sempre bisogno per riproporre la negazione?)
Sono sempre più convinto che è "la seconda che ho detto". Biz (Guido Aragona)


- «Confesso che non mi piace molto la parola modernità preferisco il verbo equivalente, modernizzare. Perché indica la creazione, quell' azione reale e concreta che ci porta a trasformare in continuazione ogni nostra forma di espressione. Modernizzare è, d' altra parte, una sfida continua». Una sfida che, in architettura, si può tradurre in... «Ad esempio nella ricerca di nuovi materiali. Come lo sponge, un "ibrido di aria e materia" che abbiamo sperimentato per questo nuovo spazio. Un "ibrido" messo a punto per l' occasione ma che va comunque ad aggiungersi agli altri materiali tradizionali che abbiamo utilizzato: l' alluminio, il legno e il vetro, anche se si tratta di un vetro che può cambiare trasparenza a secondo delle esigenze. Ma modernizzare è anche usare le nuove tecnologie digitali»- Rem Koolhaas intervistato da Stefano Bucci sul Corriere in occasione del nuovo spazio Prada a Los Angeles

- so anch'io che un tetto a due falde con una capriata "tradizionale" utilizzata come pensilina in una piazza volta è più comprensibile di un'altra struttura... MA è BELLA??????????????????????????????????????????????????????????? ...sarà pardaossale ma e o.....a!!!!!!! Ve lo assicuro io se non ve la detto ancora nessuno è proprio b....a, non si può g.....e! Il tempo è cambiato siete ancora fermi a qualche secolo fa... s.....a!!!! Luca Donazzolo da facebook

- La tanto vituperata modernità nasce dall’implicito confronto con ciò che è stato, nasce dall’elaborazione del passato, quand’anche negato, ineludibile nucleo promotore del cambiamento e della presa di coscienza di una moderna autonomia intellettuale, senza disconoscere i debiti di carattere formale o contenutistico verso chi ci ha preceduti. Ed in questi termini il passato non è un bagaglio inutile, è un elemento di confronto necessario e indispensabile che tuttavia non deve obbligatoriamente concretizzarsi in ripescaggi stilistici o imitazioni morfologiche anticheggianti, il che significherebbe solo mummificazione di linguaggi in un repertorio formale senza tempo, vecchio prima ancora di nascere.
Non è una scusa assolutoria dire che un architetto di oggi che progetti "in stile" “non ha nessuna intenzione di far credere che la sua opera sia stata realizzata in un’altra epoca”, può essere che non ci sia falsificazione, almeno nelle intenzioni, ma c’è senz’altro l’incapacità di parlare un linguaggio autonomo e innovativo, sapendo che la modernità non va copiata (da presunti “grandi modernisti”), va inventata. Vilma Torselli


- Modernità non consiste nell'adottare quattro mobili quadrati. Leon Krier

-Potremmo risalire anche ai saggi degli anni Settanta di Charles Jenks sulla fine della modernità, da cui sono derivati i riflussi reazionari di Léon Krier, non solo contro la modernità ma contro il progetto in generale. Andrea Branzi

- C'è probabilmente una tendenza più generale che tende a porre il singolo individuo in contrapposizione alla società nel suo complesso, laddove invece l'individuo può trovare una sua dimensione (anche in quanto individuo) solo in un contesto sociale, sia pure con tutte le tensioni che questo comporta. Il "contesto sociale", come l'ho chiamato, richiama la necessità del "linguaggio" inteso come terreno comune, entro cui l'individuo può esplicarsi ma in questo "contesto", contro la destrutturazione del linguaggio che invece è conseguente alla frattura fra individui singoli e società.
Si potrebbe anche dire che questa "destrutturazione" linguistica, sociale, è opera del nichilismo.biz (Guido Aragona)


- Quelli che danno tanta importanza alla questione della modernità, non é che si impegnano in un mondo artificiale di valori relativi e di frivolità, in un mondo dove il senso comune non fa più senso, e dove la ragione ha perso il lume della ragione? Lucien Steil

- Pensare che "il mondo era meglio una volta" è un discorso da "vecchi al bar", senza offesa ovviamente, ma lascia il tempo che trova. Non mi sembra neanche tanto deontologico e di sicuro non da professionisti che hanno l'obbligo morale di rimanere al passo coi tempi per dare al proprio committente sempre un prodotto all'avanguardia delle ultime conoscenze tecniche e tecnologiche. Master

- Gli italiani sono a proprio agio con lo spazio della loro storia, in quello spazio si muovono e si ritrovano con una disinvoltura e una familiarità ereditate dai secoli passati, di modo che si può parlare al riguardo di un insieme di “luoghi”. Un luogo è un luogo nel senso pieno del termine se vi si può reperire un legame visibile con il passato e se tale legame è manifestamente presente alla coscienza di chi lo abita o lo frequenta. Marc Augè

- La modernità non è presunta, è un modo di essere (è inutile che ricordi che Augé è il filosofo della surmodernité), l'antropologia studia ciò che accade, ne indaga gli sviluppi e le ragioni, cercando di capire perché Milano costruisce Citylife, perché Fuksas progetta, perché Gehry sia ancora a piede libero.
E' determinante per aiutarci a capire il mondo in cui viviamo, non per cambiarlo. Vilma Torselli


- la pensilina di Isozaki, che De Carlo, non Krier, ha chiamato "tettoia", viene rifiutata per tutti i motivi possibili e quelli che non esistono dovrebbero essere inventati, pur di non farla. In quella pensilina lo stile E' il merito, e viceversa. Pietro Pagliardini

- Nessuno, pare incredibile a dirsi, s’era reso conto che il contesto civile, la cultura ed infine l’architettura, avevano origine ed esistevano al di là ed al di sopra delle sovrastrutture politiche ed economiche del momento, legati indissolubilmente allo spazio fisico, al territorio, alla geografia, anche minuta, dei luoghi, al linguaggio parlato ed infine anche a quello architettonico.
Nessuno parve ( e pare tuttora) rendersi conto che l’uomo è animale sociale che si aggrega per aree geografiche, culturali, linguistiche precise ed ha bisogno di sistemi comunicativi (…architettura inclusa… ) che lo mettano in relazione fattiva con i suoi simili ed i suoi “prodotti” passati presenti e futuri.
Un piccolo dettaglio secondario, sfuggito al quadro generale insomma : ciò che conta nella situazione presente sembrerebbe invece l’individuo, il demiurgo che rende “chiaro” ed inventa (…senza nemmeno conoscere bene significato ed etimologia…), cambia la storia, sogna e si batte contro la massa banale ed ignorante ; ripetitiva infine (.. peggiore incubo.!..) che vorrebbe ridurlo a se; senza, peraltro, sospettare che quella massa deprecata “è” lui. Memmo54


- già che ci siamo, Pietro, allora diciamocelo: il progetto di Pier Carlo e Léon è allucinante (progetto a Modena).
L'accusa di falso storico è infondata? Ma sì, è del tutto normale fare oggi palazzetti in stile rinascimentale, a patto che poi ci si mettano anche dei figuranti con mantelli, gamurre, giornee, cotte, naturalmente non solo a carnevale! Vilma Torselli


- Il pensiero "unico" è proprio quello di Marconi e di quelli che la pensano come lui, non ci sono progetti contemporanei e progetti non contemporanei, ci possono essere soltanto Progetti con la P maiuscola fatti da architetti e ricostruzioni filologiche per cui non c'è bisogno di architetti ma di storici.

- Perché vi ostinate a pensare che oggi, per la prima volta nella storia, non è mai successo nel corso degli ultimi 3000 anni, non si può esprimere la contemporaneità e bisogna soltanto copiare il passato ? Antonio Marco Alcaro

La lentissima, a volte impercettibile, evoluzione permette comunque di mantenere un rapporto costante e ricucire un’epoca con l’altra. La Maison Carrè parla ancora alle casine basse e modeste d’intorno; dialogava con il teatro antistante, inferiore ma non indegno. L’edificio di Foster, per altri versi ben fatto, ben costruito, ben realizzato, bello in fine, non dialoga affatto: è un estraneo e muto, quanto indecifrabile, segnale giunto per caso. Memmo54

- «Io sono per la legittimità del nuovo anche all'interno di un manufatto antico. Scarpa diceva che non c'è restauro senza trasformazione. Ma ci vuole qualità. La cosa certa è che deve essere autenticamente nuovo per rispettare la dignità del nostro tempo» Mario Botta in una intervista a Pierluigi Panza

- Caro Ettore (Ettore Maria Mazzola), hai ragione a dire che antichisti non è appropriato ma è un semplice problema di comunicazione: se io dico "sono un architetto moderno", dopo devo anche spiegare che moderno è diverso da modernista e quando sono arrivato in fondo non mi legge più nessuno. Pietro Pagliardini

- In questa polarizzazione tra modernisti e tradizionalisti (diciamo così per comodità schematizzante ben sapendo che esistono infinite sfumature) la mia simpatia va ai primi per il semplice fatto che giudicare un opera contemporanea, cercare di capire e interpretare se si é di fronte ad una bufala o ad un autentico capolavoro é estremamente più difficile e rischioso, mentre ricorrere a modelli storici consolidati ci si mette maggiormente al riparo da eventuali errori, proteggendoci in maniera consolatoria dalla frammentazione contemporanea, conducendoci peróinesorabilmente ad un mondo culturalmente chiuso, cristallizzato e privo di possibilità. Giulio Pascali

- Chiedo: se Leonardo avesse avuto a disposizione i programmi di grafica-architettonica, avrebbe continuato a progettare con il "carboncino"? Maurizio Zappalà

- Tu ritieni che il movimento moderno nasce per strappare l'architettura ad una elite e io credo che sia esattamente l'opposto, cioè il MM, come le avanguardie artistiche, è elite, e direi anche in modo assolutamente consapevole e non ritengo che l'architettura attuale sia una degenerazione del MM ma la sua naturale evoluzione. Pietro Pagliardini

- scusate se continuo a dire la mia, senza avere alcuna competenza specifica.
A Bologna, tra fine '800 e inizio '900 è nato un bel po' di architettura "medioevale" per spinta del Rubbiani. Anche il palazzo di Re Enzo, praticamente in piazza maggiore è, secondo un certo punto di vista, un falso. Ma è gradevole, si sposa bene al contesto..... enrico delfini


- i pseudo-cloni siccuramente sono un atto di pessima architettura senza personalita...
come i pseudo-cloni di le corbusier che inquinano le periferie moderne
o i pseudo-cloni classicisti o post-modernisti che vanno molto di moda in italia mentre per fortuna nel resto d'europa sono superati.
una pessima archiettura è una pessima archiettura sia che sia moderna , classicista , rinascimentale , gotica o romana. Anonimo (e meno male che è anonimo…)


Aggiungo un po' alla volta, quasi a pro-memoria per me, alcuni link preziosi sulla modernità:

Tradizione e Modernità nella pratica contemporanea, di Lucien Steil su Il Covile
L'illusione della modernità, di Stefano Borselli su Il Covile
Armando Ermini commenta L'illusione della modernità su Il Colvile

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9 settembre 2011

QUALE DENSIFICAZIONE?

Densificazione: parola brutta e anche vagamente sinistra: utilizziamola per comodità di linguaggio e di comuncazione. Vorrei rispondere più compiutamente ai commenti lasciati da robert al post precedente e premetto che: non sarò breve e se robert volesse replicare può non limitarsi ad un commento ma inviarmi un post da pubblicare.
robert afferma, e io non ne dubito, che l’idea di densificazione urbana è presente da almeno una decina d’anni in alcune università, e nel suo ultimo commento porta una serie di dati che lo confermano.
Con questa premessa giunge alla conclusione che noi che facciamo riferimento a Nikos Salìngaros non abbiamo inventato niente e che quanto affermato da Gabriele Tagliaventi nel suo articolo ha il merito, al massimo, di essere entrato nella notizia al momento giusto e che tutto sommato lui e noi del gruppo avremmo colto il vento e ci saremmo aggregati. Insomma, avremmo avuto fiuto.
Se anche si trattasse di fiuto lo riterrei già un merito: perché altri non l’hanno avuto, a maggior ragione se di questi argomenti vi è chi ne parla da almeno dieci anni e oltre e che adesso i tempi sembrano maturi?
Potremmo dire che chi ha introdotto questo principio nella legge urbanistica toscana ha avuto fiuto? Io direi più correttamente che è stato intelligente e lungimirante perché ha dato gambe ad una idea.
Ma robert sbaglia sul fiuto, perché si ferma solo alla superficie della densificazione urbana.

Cosa si intende per densificazione urbana?


Letteralmente è semplice: aumento della densità edilizia delle aree urbane, ottenuta andando a riempire vuoti di aree marginali ma urbanizzate, oppure demolendo e ricostruendo, oppure ristrutturando, con incentivi volumetrici per ottenere il doppio obiettivo di non “consumare “ nuovo suolo agricolo e di razionalizzare la vita all’interno della città in termini di servizi pubblici, di ogni genere, a partire dai trasporti.

Cercando nei vari documenti reperibili in rete, ho trovato molteplici varianti di significato, dalle più fantasiose, a quelle che trovano il sistema di infilarci i pannelli fotovoltaici o l'agricoltura urbana, a quelle che ritengono che sia l’altezza, cioè i grattacieli, l’elemento risolutore. Non v’è dubbio che il modello Manhattan sia molto denso. Il modello italiano invece si declina con grattacieli in mezzo al verde. Una novità già scoperta da un signore svizzero molto ordinato. L’ordine, comunque, diventa un merito rispetto alle proposte attuali che, prevalentemente, mettono insieme qualche birillo e, a posteriori, per giustificarne la presunta utilità ci appiccicano, tra le altre, l’idea di densificazione.

Ho trovato poi questo studio targato INU. Si osservi il risultato progettuale finale: qui non è cambiato niente rispetto a prima, il modello urbano è lo stesso, stecche perpendicolari alla strada, strada solo per le auto, mancanza di ogni caratteristica urbana, semplice ripetizione di modelli periferici, solo molto più densi. La chiamano densificazione insediativa. Già il termine insediativo, più ampio e generico di urbano, più burocratico, a mio avviso connota una certa indifferenza alla forma della città privilegiando l’azione dell’occupazione dello spazio e l’aspetto quantitativo. La proposta progettuale ne è una riprova.

Il punto è proprio questo: densificazione come mero dato numerico e funzionale è “vecchia” di qualche anno, come afferma robert, ma cosa c’è di nuovo, di utile, di positivo se la città resta qualitativamente come prima, e anzi replica e moltiplica i suoi difetti ma con molti metri cubi in più? Una densificazione urbanisticamente sbagliata diventa un’aggravante non un vantaggio.
Anche la speculazione edilizia più bieca è “densificazione”, e in questo caso si può affermare che per ritrovare l’origine dell’idea si può andare molto indietro nel tempo, direi alle insulae romane, che nonostante i divieti imperiali crescevano in altezza. Il condono consisteva nella tolleranza. Anche in questa densificazione, dunque, nihil sub sole novi.

In questo blog, invece, con il contributo dei vari amici, è stata sostenuta un’idea di densificazione urbana ben precisa, la cui necessità è giustificata al contempo dai due fattori fondamentali:
- quello economico-ecologico, cui fa riferimento robert, nel senso che più la città è compatta, minore è la necessità dell’utilizzo dell’auto, maggiore è la possibilità della pedonalizzazione e quindi il risparmio di risorse energetiche, migliore è l’organizzazione del trasporto pubblico;
- quello della forma della città, da perseguire mediante il disegno urbano, sul modello della città tradizionale europea: strade, isolati, cortine edilizie, piazze, pluralità di funzioni, zonizzazione verticale e quant’altro adesso non è il caso di ripetere.

Non è dato un lato della medaglia senza l’altro e direi che l’elemento prevalente è il secondo, la forma urbana, quella che consente, aldilà della situazione contingente di crisi economica, scelte economicamente virtuose, come scrive Tagliaventi nel suo articolo. La situazione di crisi è uno stimolo, direi un’occasione e una necessità in più per spingere in quella direzione, ma la forma compatta della città tradizionale ha un valore indipendente da quella e non ad essa subordinata.

Per restare a Tagliaventi, che sostiene quest’idea da sempre, portando spesso ad esempio il caso dello sprawl americano ed il retrofitting dei centri commerciali a veri quartieri urbani, mai ha egli tenuto separati i due aspetti del problema.
Ma vogliamo ampliare il discorso? Lèon e Rob Krier non hanno fatto altro che progettare e scrivere di città tradizionali, cioè dense, compatte, in cui il margine con la campagna è nettamente definito. Siamo agli antipodi dello sprawl. Altro che dieci anni, e altro che calcoli numerici!

City Pizza, di Léon Krier - La pizza completa (città tradizionale), la pizza per ingredienti (città dello zoning)
Il fatto è che, ragionando per assurdo, se non vi fosse stato quel taglio netto nella storia, quel grado zero dell’urbanistica teorizzato dall’avanguardia, se non fosse stata inventata, diffusa e propagandata fino a far credere che fosse impossibile immaginare una città moderna senza la zonizzazione, se non fosse stato abbandonato il disegno della città a vantaggio dei retini che indicano le varie funzioni parcellizzate, se l’unica forma di disegno, a scala di piani attuativi, non fosse stato quello della astratta geometria di tipo pittorico senza alcuna relazione con l’abitare dell’uomo nello spazio urbano, se non fosse stata vituperata e abbandonata la strada come elemento generatore della città, per sostituirla con edifici staccati e separati (ma dicevano tenuti assieme) da un improbabile verde comune, se non fosse stata abbandonata la città europea, ma solo adeguata ai nuovi standard di vita degli individui e della società, oggi non ci sarebbe stato bisogno di coniare questo brutto termine di densificazione, più adatto ad una confettura di marmellata industriale che ad un insediamento umano.

E’ un discorso per assurdo, l’ho già detto, perché con i se non si fa la storia, ma serve a far comprendere a robert la diversità esistente tra i 10 anni di studi sulla densificazione e quanto da noi sostenuto. E serve per sottolineare che c’è un uso buono ed un uso sbagliato di questo termine.
E noi ne abbiamo fatto un uso buono e lo abbiamo sostenuto con un’azione efficace, tenace e sfidando spesso anche il ludibrio di molti. Niente di eroico, per carità, specialmente per chi come me svolge la libera professione in ambito privato, ma chi è vissuto o ha provato a vivere nell’ambiente accademico credo ne abbia dovuto ingollare di rospi.

Quindi il fatto che vi sia chi l’ha studiato da dieci anni, e magari dal punto di vista sbagliato, e l’abbia tenuto in un cassetto da aprire per qualche convegno da mettere nel cv e presto dimenticato e non l’abbia diffuso presso gli studenti, non abbia insomma fatto scuola, loro che avrebbero potuto farla, per me ha valore "zero".
Lo studio della città non è lo studio delle particelle elementari della fisica, riservato al mondo accademico e della ricerca. Lo studio della città è destinato agli architetti, agli urbanisti e agli amministratori che devono diffonderlo e comunicarlo ai cittadini per renderlo operativo, a vantaggio di tutti.

La città è bene comune, cioè appartiene a tutti, la città è il luogo della politica (e tutti gli architetti lo sanno bene perché tutti i giorni si confrontano o si scontrano con la politica, cioè con l’arte di amministrare la polis, volenti o nolenti) e l’architettura è arte civica e le se le idee non si diffondono e si sostengono, specie in momenti in cui le città sono così in difficoltà, è come non averle prodotte.
Teoria e prassi in urbanistica camminano a braccetto e non possiamo immaginare l’una senza altra proprio per la specificità e direi unicità dell’urbanistica e dell’architettura rispetto ad altre discipline.
Una riprova elementare: qualsiasi quotidiano o foglio locale, oltre che di calcio, tratta sempre di urbanistica, lavori pubblici, traffico. Perché?

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27 maggio 2011

TOR BELLA MONACA DI L. KRIER...ESISTE GIA'

Progetto fortemente Krieriano con accenti razionalisti e un sapore da Roma imperiale.
Sicuramente un grande virtuosismo nella realtà virtuale:


P.S. Un collega architetto mi ha fatto acutamente notare che una passeggiata virtuale come questa è possibile solo in un progetto di città tradizionale. Come potrebbe essere infatti una passeggiata a CityLife intorno a tre birilli?
Il bello è, in effetti, che anche una passeggiata vera è possibile solo in una città tradizionale.
Dunque passeggiata virtuale ma non troppo.

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17 aprile 2011

PRESTINENZA PUGLISI SDOGANA LA "GENTE"

Luigi Prestinenza Puglisi, nel supplemento a Il Fatto Quotidiano del 15 aprile, nella sua recensione alla mostra Le città di Roma all’Ara Pacis, scopre che le periferie romane, fotografate senza alcuna presenza umana, come fossero cioè “natura morta” (parole sue), appaiono “devastanti”. Per la precisione scrive:
Il risultato per chi non è appassionato di immagini potrebbe essere devastante”. (1)
C’è da immaginare quanto possano apparire gratificanti a chi ci abita! E infatti anche LPP si pone questo problema e domanda, prestando la sua voce all’abitante:
Ma al Corviale o a Vigne Nuove potrei andarci ad abitare proprio io?”.
Il punto di vista della gente (sì proprio della gente), insieme a quello del critico, fa capolino nella critica architettonica: è uno scoop!


Ma non finisce qui. LPP continua affermando che la mostra è un boomerang per gli organizzatori (2) ma ammette che:
Il compito era disperato: si trattava di mettere insieme i costruttori romani, un’amministrazione di destra e la cultura di sinistra”.
Altro scoop: la cultura di sinistra è responsabile di quelle insane periferie. Chi l’avrebbe detto! Anche se non capisco perché dovrebbe essere un boomerang per il Comune che, almeno teoricamente, dovrebbe avere tutto l’interesse a prendere le distanze da quei progetti posto che l’attuale giunta non può certamente essere ritenuta responsabile di opere realizzate negli anni 70/80. Ma forse bisogna essere dentro le cose romane per capirlo. Lo scoop però resta.

Da ultimo, dopo i fuochi artificiali, il botto finale: l’unico progetto che “spicca in absentia” è la Tor Bella Monaca di Léon Krier, “strapaese dineylandiano” che “invece che acquietarsi con nature morte, si confronta almeno con un bisogno della gente”.
Inverosimile, inimmaginabile: si comincia a leggere e interpretare la gente con i suoi bisogni. Ci si avvicina, con nonchalance, con una frase buttata lì come fosse normale in questo mondo del tutto a-normale dell’architettura, a dire che la gente ha dei bisogni legittimi.
La diversità antropologica tra architetti e cittadini si attenua. Si dà per scontato, finalmente, che l’architettura “disneylandiana” non va giudicata solo per quello che appare superficialmente ma in quanto proiezione di un desiderio di tradizione e/o di classicità, di valori sicuri e condivisi che si è potuto fino ad oggi esprimere solo entro le proprie mura domestiche con la cucina rustica, i mobili in stile, gli archetti di forati nei corridoi, il camino in pietra o mattoni, la trave finto legno e tutto l’analogo, ingenuo repertorio ai più ben noto, e all’esterno negli archi in c.a. parossisticamente ribassati tanto da sembrare stretchati per errore con Photoshop.
Si dà per scontato che esista anche una cultura popolare e che ha una sua dignità degna di attenzione.

Qualunque cosa pensi realmente LPP - che in questo scritto breve lascia sempre, e molto abilmente, uno spiraglio ad una doppia lettura - non è dato sapere con certezza, tuttavia non c’è dubbio che ha fatto entrare in scena ufficialmente, tra l’architetto e il progetto, il terzo incomodo, il convitato di pietra, il grande assente, cioè il negletto uomo comune, il committente anonimo, l’abitante sconosciuto, colui che è costretto a subire il progetto della città, del quartiere, della casa e, non avendo altra scelta, in quanto relegato in stato di minorità culturale dall’Architetto, dalle riviste, dai magazine, dalle collane Grandi Architetti distribuite a prezzi popolari in edicola, esprime i suoi desideri, i suoi gusti estetici, le sue fantasie nel privato o nell’outlet village toscano o romano o ticinese.

Vale la pena seguire LPP per capire meglio e trovare ulteriori conferme.
Noi(3) che abbiamo sempre considerato la gente l’attore principale della commedia, più spesso della tragedia urbana, registriamo questa piacevole novità.


Note:
1) Da notare la sottigliezza: non ha scritto l’architetto, ma l’appassionato di immagini!
2) Promotore dell’iniziativa: ACER, associazione dei costruttori romani – Padrone di casa: Comune di Roma – Curatori: Piero Ostilio Rossi, Francesca Romana Castelli – Allestitore e critico: Pippo Ciorra
3) Noi non è pluralis maiestatis ma sta per tutto quell’ampio movimento culturale che viene banalizzato e divulgato con il nome di antichisti, in opposizione a modernisti. Non è un bel nome nelle intenzioni di chi lo usa, ma a me piace.

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2 febbraio 2011

L'ERESIA DELLA TRADIZIONE

Pietro Pagliardini

Il termine, fuori dall'ambito religioso, viene utilizzato in senso figurato per indicare un'opinione o una dottrina filosofica, politica, scientifica o persino artistica in disaccordo con quelle generalmente accettate come autorevoli”. Questa è una definizione incollata da Wikipedia. E’ una delle tante possibili, essendo le più riferite all’ambito religioso. Avrei potuto anche utilizzare una di queste ultime, ma avrei corso di rischio di aprire la strada alla facile, ma fuorviante, obiezione di due “dottrine religiose" contrapposte. Ho preferito rimanere nel campo delle scienze umane perché in effetti l’eresia cui mi riferisco si inserisce in un contesto “filosofico,politico, scientifico e persino artistico” in cui sono, sì, presenti anche forme e ingredienti di tipo religioso, con i dogmi (modernità), gli integralismi (fuck the contest), i sacerdoti (Maestri e/o archistar, cioè i nuovi Maestri a livello di massa), gli adepti (praticamente tutti gli architetti) e i tribunali speciali, cioè l’Inquisizione (docenti, metre a penser, commissioni di concorso), ma la verità è più complicata e pervasiva e non è costituita da qualche conventicola segreta (come dimostra il numero degli adepti) ma da ampi settori della cultura ufficiale “generalmente accettata come autorevole” (docenti, metre a penser, commissioni di concorso).
Non c’è dubbio che l’urbanistica e l’architettura che riscopre il valore della tradizione sia trattata al pari di un’eresia. Lo si è visto bene nel caso del piano di Tor Bella Monaca di Léon Krier.


Questi viene chiamato dal Sindaco di Roma, suppongo, per studiare una proposta urbanistica capace di ridare dignità urbana ad un quartiere romano dei primi anni 80, un PEEP, uno dei tanti di quel periodo, sorti in Italia sulla spinta delle nuove leggi, la 865/71 soprattutto e la 457/78.
Due leggi dalla forte impronta ideologica nei confronti del rapporto Stato-cittadini, in cui la proprietà privata viene posta sotto tutela, assoggettata com’è ad una serie di vincoli assurdi e complicati quali convenzioni ventennali per la cessione del bene a prezzi imposti, proprietà indivisa, diritto di superficie ecc. che hanno prodotto, per districarvisi, situazioni di semi-illegalità, come sempre avviene quando le leggi sono assurde, burocratiche e liberticide, le quali tuttavia sono state utili per creare una dipendenza del cittadino-elettore nei confronti del proprio amministratore-eletto, il quale non solo favoriva l’accesso alla casa, con il contributo dello Stato, ma anche favoriva questa o quella cooperativa, questa o quella impresa, anzi, addirittura creava questa o quella impresa o “consorzi di imprese”, e trovava il modo di pilotare i così detti “bandi”, inserendovi criteri ad hoc per questa o quella cooperativa o impresa e perfino rari soggetti singoli, a garanzia formale di una legge liberale.

Il processo edilizio era quindi a circuito chiuso e copriva ogni fase del ciclo, da quello pianificatorio, a quello gestionale, a quello della produzione del bene, imperniato sulla “filosofia” della “industrializzazione edilizia”, a quello politico che ne costituiva la cornice che tutto comprendeva. Un meccanismo perfetto ed oleato, che indubbiamente è stato utile a dare una casa a molti cittadini i quali diversamente avrebbero trovato difficoltà ad averla (in molti casi è più corretto parlare “di un tetto”, in senso metaforico), ma la contropartita è stata la rinuncia ad una quota di libertà, molti compromessi con il diritto e, soprattutto, pessimi risultati per la città e il territorio.
Già, perché il sistema prevedeva anche l’offerta progettuale, la cui dottrina di riferimento accettata come autorevole era quella rigorosamente modernista caratterizzata dalla “industrializzazione edilizia”, esasperata da rigidi parametri dimensionali previsti dalla legge 457/78, il rispetto dei quali produceva automaticamente una tipologia da Existenzminimum, cui per fortuna alcuni comuni più ragionevoli ovviavano con norme interpretative più ampie che allentavano un po’ le rigide maglie ideologico-progettuali. Insomma la matematica, in questo caso la geometria, diventava fortunatamente un’opinione, come i risultati elettorali commentati a caldo; in questi casi l’italico buon senso utilizzava il bizantinismo leguleio, mettendo qualche pezza ai guasti dell’ideologia, perché le leggi basate sull’utopia non possono che produrre quella che viene chiamata illegalità.

Tor Bella Monaca è uno dei prodotti di questo mix cultural-politico: quartieri disegnati al tecnigrafo dove un ordine geometrico astratto regna sovrano, casermoni prefabbricati o semi-prefabbricati che rispettavano, con eccessi di zelo, la regola del calcolo dell’altezza virtuale (che non spiego per carità di patria e che non deve creare sensi di colpa a chi ne ignorasse l’esistenza), edifici senza nessuna relazione con le strade se non per l’ingresso ai parcheggi delle auto (dove si dimostra che l’auto è veramente nemica dell’uomo in periferia più che in centro), enormi spazi aperti secondo il dogma lecorbusieriano, ovviamente deserti in quanto ostili, pericolosi e destinati a rapido degrado e a luoghi del malaffare. Se si confronta questo insediamento con quello più “spontaneo” a ovest, oltre la strada, quest’ultimo appare come un capolavoro da libro di storia.

Ebbene questo quartiere non è recuperabile urbanisticamente per una normale vita sociale. Né giova gridare alla solita mancanza di servizi: i servizi, se ci fossero, darebbero solo un “servizio”, appunto: se in una zona come questa si costruisce una scuola significa che è stato garantito agli abitanti il loro diritto di cittadini e contribuenti di avere una scuola senza doversi sottomettere a lunghi viaggi giornalieri. Dal punto di vista urbanistico e dell’organizzazione dello spazio urbano si è semplicemente rispettato il criterio del Manuale dell’Architetto, CNR, ma la periferia è rimasta periferia e non per questo e diventata città.

Arriviamo dunque al piano di Léon Krier e alla sua eresia.
Il piano è eretico perché demolisce non solo fabbricati ma un’idea, o meglio, un’ideologia, costruita con sapienza nel corso dei decenni, secondo la logica precedentemente spiegata. Demolisce perché non può fare altro, perché quel quartiere non è recuperabile né urbanisticamente né architettonicamente. Demolisce e al suo posto sostituisce un’altra idea, ad essa opposta, la quale tuttavia, a differenza di quella attuale, non è un nuovo esperimento socio-urbanistico ma è presente, da sempre, nel DNA della città europea. Una città di strade e isolati, di piazze e non di spiazzi, di zonizzazione verticale e non orizzontale, di edifici di altezza massima di 3-4 piani e non di casermoni, con una forte densità come è denso il centro storico, e perciò eco-sostenibile, cioè moderna, in quanto, a parità di densità occupa meno territorio.
Non entro nel merito del progetto, cioè nella correttezza delle scelte fatte rispetto al luogo e alle relazioni con l’edificato esistente e con le infrastrutture, perché non conosco il luogo se non fotograficamente. Altri dovrebbero farlo. Purtroppo, salvo rari casi, tra cui un post abbastanza equilibrato sul blog amatelarchitettura, che pure lascia trasparire sotto traccia un certo snobismo per la scelta di Krier, si discute di quel progetto ideologicamente, si ritiene quel progetto un’eresia, una bestemmia gridata contro lo status quo.
Se ne critica, come con il progetto Corviale di Ettore Maria Mazzola, la scelta della demolizione, guarda caso.
Vorrei portare all’attenzione di costoro il seguente comma della legge 865/71, proprio quella di cui parlavo a inizio post:
Possono essere comprese nei piani anche le aree sulle quali insistono immobili la cui demolizione o trasformazione sia richiesta da ragioni igienico-sanitarie ovvero sia ritenuta necessaria per la realizzazione del piano”.
Ecco, qui esistono ragioni igienico-sanitarie.
Concludo con questo post tratto da Archiwatch, riferito proprio a Tor Bella Monaca:
Volete Voi una città bella pulita e seducente? …
Oppure una città di merda, piena di monnezza e fatta di oribbili casermoni? …
Inopinatamente … pare … che in molti …
abbiano optato per la prima soluzione …
La sinistra … incredula …
La destra … esulta …


Ognuno lo interpreti come vuole, ma c'è del vero.

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2 dicembre 2010

ROMA WORKSHOP: PRIME IMPRESSIONI

Di ritorno dal workshop sulle periferie romane “Ritorno alla città”, organizzato dal Comune di Roma, una prima impressione, rimandando considerazioni più articolate a dopo la conclusione dell’incontro del 2 dicembre.
Oggi, sotto la guida del responsabile del Dipartimento del Dipartimento per la riqualificazione delle periferie di Roma, prof. arch. Francesco Coccia, sono intervenuti, Lèon Krier, Paolo Portoghesi, Marco Romano, Franco Purini, Galina Tachieva, Cristiano Rosponi e Nikos Salìngaros, chi presentando lo studio di una o più aree, chi, come Galina Tachieva, dello studo DPZ (Duany, Plater-Zyberk) illustrando il suo libro, Sprawl Repair Manual, una sorta di “libretto d’istruzioni” su come intervenire per riparare ai guasti dello sprawl negli USA, con una casistica ampia e varia di situazioni e soluzioni.

Le parole chiave, i tags, si direbbe nel gergo di Internet, dettate dagli organizzatori erano: densificazione, microchirurgia urbanistica, pedonalità, centralità alle periferie, e sono state espresse in maniera molto diversa da ciascuno degli intervenuti, sia come livello di approfondimento, sia come qualità delle presentazioni, sia come scelta della scala di intervento; da Lèon Krier che ha affrontato tutta la gamma possibile, da quella territoriale della rete infrastrutturale fino allo studio abbastanza dettagliato degli isolati e delle tipologie edilizie, a quello quasi esclusivamente architettonico di Portoghesi e Purini; ma in tutti, ad eccezione di Purini, almeno così a me è sembrato, c’è stata la consapevolezza che una pagina sembra essersi finalmente chiusa, quella del gesto architettonico totalmente estraneo al contesto e al tessuto esistente, della zonizzazione selvaggia, della segregazione della periferia, e un’altra se ne sta aprendo, quella in cui la città deve essere interpretata come un unico organismo e, in quanto tale, non possono esservi parti sane e parti malate.
I tags che escono invece dalle varie soluzioni sono: la strada, come protagonista assoluta del processo di risanamento, intesa come vera e propria arteria vitale che consenta il massimo di permeabilità, di relazioni e di comunicazione tra le varie parti; e poi l’isolato, studiato in modi diversi e con diversi rapporti tra pubblico e privato; le piazze come luoghi speciali e nodali risultanti dalle connessioni stradali e non come spazi astratti collocati casualmente secondo la volontà del progettista piuttosto che seguendo la “vena” della rete stradale.
Esprimendo un giudizio sintetico e necessariamente affrettato, oggi ho colto molto realismo e un atteggiamento di grande attenzione alla lettura di tutte le aree già fortemente urbanizzate oggetto di studio.
Una volta tanto l’abusato termine riqualificazione ha trovato un riscontro nei progetti e, guarda caso, proprio l’unica volta che non compare mai nei manifesti dell’incontro.
Una volta tanto non c’è stata la rappresentazione logora del pensiero unico, ma posizioni diverse si sono potute confrontare.
E oggi sarà la volta di Peter Calthorpe, Lucien Kroll, Francesco Cellini e altri.
A margine una nota sul luogo dell’incontro, l’Ara Pacis. Mi domando chi abbia avuto la geniale idea di realizzare quella barriera bianca che separa completamente chiese e Mausoleo di Augusto dal fiume per quattro stanzette in più.
Possibile che a Roma non ci fosse un altro posto dove fare una sala conferenze e uno spazio mostra?


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14 ottobre 2010

STRADE- 8°: LÉON KRIER

É la volta di Lèon Krier con due brani tratti da altrettanti suoi libri: Architettura. Scelta e fatalità, Laterza, 1995 e L'armonia architettonica degli insediamenti, LEF, 1995.
Personaggio carismatico per la forza e la tenacia delle sue idee, rispettato anche dai suoi avversari, negli ultimi ha ottenuto molti riconoscimenti e molti successi. In Italia, invece, e non è un caso, trova ostacoli insormontabili all'approvazione dei suoi progetti.
Nei due brani che seguono è assolutamente singolare il fatto che Krier consideri le auto come parte integrante del paesaggio urbano e prescriva precise regole per parcheggi e mobilità, tentando di rendere possibile una civile convivenza tra auto e pedoni. Tentativo difficile ma, secondo me giusto e coraggioso.

LÉON KRIER
Architettura. Scelta o fatalità
Laterza, 1995

....- Bisognerebbe evitare, se è possibile, di spianare le colline, colmare le valli, addolcire le pendenze. Gli elementi distintivi di un sito devono, al contrario, essere valorizzati; il disegno della pianta e del profilo urbano deve mettere in rilievo le specificità del luogo.
- Le strade senza uscita, i sensi unici, dovrebbero essere evitati a ogni costo, salvo per situazioni topografiche eccezionali: promontori, penisole, ecc.

Le forme degli spazi urbani
La forma della città e degli spazi pubblici non può essere l'oggetto di sperimentazioni personali. Gli spazi pubblici possono costruirsi solo sotto forma di strade (spazi lineari) e di piazze (spazi nodali). Gli spazi pubblici, che siano proporzionali alle dimensioni di una grande metropoli o che posseggano l'intimità di uno spazio locale, devono in ogni caso offrire un carattere permanente e familiare, poiché le loro dimensioni e proporzioni si fondano su una cultura millenaria di strade e di piazze. Un'insufficiente quantità e di spazi pubblici è una falsa economia, ma un'eccessiva quantità è un falso lusso.
Gli spazi pubblici non dovrebbero occupare, nel loro insieme, più del 35% e meno del 25% della superficie totale di un quartiere.
Gli spazi pubblici sono articolati in strade, piazze, cortili, passaggi.
I houlevards, i viali, le grandi piazze, i recinti, i giardini pubblici, gli spazi pubblici, i campi per le fiere, i campi da golf, non si trovano all'interno dei quartieri urbani, ma ne costituiscono i chiari limiti.
- La superficie degli isolati diminuisce verso il centro e aumenta verso il perimetro di un quartiere.
- Il limite di un'agglomerazione deve, in genere, essere una passeggiata collegata ai sentieri e alle piste, consentendo così passeggiate circolari nella campagna circostante senza dover usare le strade e l'automobile.

Traffico e spazi pubblici
- Il traffico più intenso non deve attraversare i quartieri, ma essere tangente a questi e alle circoscrizioni; deve essere canalizzato sui grandi boulevards, sui viali, sui parkways, che ne costituiscono i limiti fisici.
- Gli spostamenti veicolari e pedonali richiedono spazi a scale e geometrie differenziate.
- Il controllo della velocità dei veicoli non deve essere regolato unicamente dalla segnaletica (gobbe, coppe rotatorie, semafori, guard-rail, ecc...), ma anche articolando il carattere civile e urbano delle strade e delle piazze mediante la loro pavimentazione, il verde, le luci, l'arredo, l'architettura, la configurazione geometrica, ecc...
- Gli spazi pubblici all'interno del quartiere (le piazze così come le strade) devono presentare un elevato grado di intimità urbana. Gli edifici simbolici devono occupare i luoghi privilegiati, i punti di convergenza delle prospettive urbane. Le differenze di scala, di materiali e di volumi devono essere giustificate dal tipo e dallo statuto civico degli edifici e non devono dipendere unicamente dal capriccio dell'architetto o del proprietario.
- La piazza centrale è riservata ai pedoni.
- Alcune parti della strada principale saranno chiuse al traffico solo per alcune ore.
Il parcheggio degli autoveicoli, parallelo al marciapiede, è raccomandato almeno su di un lato nella maggior parte delle strade.
- I viali pedonali stretti passeranno attraverso gli isolati e saranno collegati tra loro in modo da creare un tessuto coerente all'interno del quartiere, non intralciato dal traffico.
I parcheggi sotterranei devono essere incoraggiati al di sotto degli isolati centrali. I parcheggi multipiani saranno piccoli e dispersi; non avranno fron¬ti su strada o saranno .mascherati da un edificio di 5 metri di profondità contenente uffici o ateliers.
Il parcheggio a corte sarà riservato agli isolati periferici del quartiere.

Zonizzazione policentrica delle funzioni
Le funzioni saranno disposte a scacchiera. Le funzioni residenziali e altre saranno congiuntamente distribuite in ogni isolato, per parcella o per piano. Lungo la strada principale e sulla piazza centrale, le funzioni commerciali saranno situate esclusivamente al piano terra; non saranno permesse al di so¬pra del piano ammezzato e al di sotto del piano terra.
Le piccole e medie imprese e altre funzioni non residenziali e non inqui¬nanti vanno localizzate all'interno del quartiere....

LÉON KRIER
L'armonia architettonica degli insediamenti
LEF, Libreria Editrice Fiorentina, 2009

Io propongo di introdurre i termini di classico e vernacolare in urbanistica e nella progettazione urbana per dare un nome alle diverse geometrie della rete urbana geografica, degli spazi pubblici e della disposizione degli edifici. E’ noto che Le Corbusier contrastò la geometria a meandro della “strada dell’asino” con la rettilineità Euclidea della “strada dell’uomo”. Allo stesso modo, la lingua francese distingue fra “insiemi spontanei” e “insiemi ordinati”. Proprio come se ciò che è spontaneo fosse un fattore di disordine: e che, al contrario, la retta e la squadra appartenessero assolutamente ad una categoria superiore, fossero la razionalità stessa.
Gli insiemi spontanei non sono più “medioevali” di quanto i piani a griglia di ferro siano “moderni”. L’andamento curvilineo non è necessariamente Romantico e quello rettangolare non è automaticamente razionale e privo di arte. L’uso consapevole dei modi dell’architettura vernacolare e classica e la loro combinazione con adeguate geometri di rete, ci permette di creare nuovi insediamenti che competono con i migliori insiemi del passato.
L’armonia architettonica degli insediamenti” concettualizza l’analisi e la manipolazione delle realtà architettoniche e urbane che fino ad adesso sono considerate il sottoprodotto di contingenze socio-politiche piuttosto che una consapevole volontà estetica.


Quadro 2

I tre quadri (esempi storici; prospettive urbane; piani urbani) illustrano le nove possibili combinazioni dell’urbanistica e dell’architettura vernacolare-classica. In realtà, raramente si incontrano esempi puri ma quasi sempre combinazioni delle nove categorie. L’ultimo quadro aiuta a meglio comprendere ed apprezzare i luoghi storici; essi consentono anche di progettare in maniera più consapevole gli ingredienti della grande scala urbana o dei complessi edilizi, armonizzano i nuovi edifici con le posizioni esistenti. In base alle circostanze ci sono giustificazioni razionali  per progettare brevi meandri o aperte vedute rettilinee.
Quadro 2
Ciò che è egualmente certo è che queste richiedono forme architettoniche estremamente differenti. Potete giudicare meglio le varie combinazioni, i dosaggi e l’armonizzazione visitando i luoghi storici e lasciar decidere alle vostre sensazioni. La “qualità del dosaggio” schedata illustra il mio personale impulso e la mia esperienza. Io trovo che generalmente gli spazi pubblici dotati di regolarità geometrica e di parallelismi richiedono un alto grado di ordine architettonico. In generale, l’architettura modesta non è appropriata agli spazi dotati di grande formalità.....

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8 luglio 2010

LEGGI CONTRO LA CITTA'

Quando una città decide di dotarsi di un nuovo strumento urbanistico generale, il primo problema da affrontare non è il merito delle scelte da compiere ma le procedure da seguire. Non a caso, il primo atto da compiere si chiama: “avvio del procedimento” e non “avvio del progetto”.
Le leggi entro cui ci dobbiamo muovere hanno di gran lunga superato la soglia del pur difficile punto d’equilibrio tra volontà dell’agire e limite procedurale all’agire stesso, affinché la crescita avvenga a vantaggio della comunità dentro il quadro del rispetto della legge e della salvaguardia e conservazione del territorio e dell’ambiente.
Quella soglia si supera nel momento in cui, per la caoticità delle leggi e della loro pratica applicazione, una comunità si viene a trovare nella quasi impossibilità di poter andare avanti, paralizzata come è dall’alternativa tra il rischio di potenziali ricorsi per la non conformità a regole assurde e difficilmente interpretabili, e quella di doversi dotare di uno strumento che risponde alla Legge ma non ai bisogni e ai desideri della comunità stessa e ad un corretto disegno della città.

Oramai si è consolidata una regola generale in base alla quale le scelte di piano sono, lungo tutto l'iter, condizionate molto poco dai contenuti e moltissimo da leggi e procedure. Ma ben più gravi ancora sono gli effetti di questa regola sulla cultura di architetti e amministratori, tutta pervasa da termini giuridici e formali, dove le scelte di merito restano sullo sfondo, sopraffatte come sono da assurde e improbabili procedure formali.

Il piano è ridotto ad un groviglio inestricabile di termini e formule alchemiche dietro cui si nascondono due fatti:
• un declamato rispetto dell’ambiente e della partecipazione, salvo poi commettere le peggiori e più grosse operazioni immobiliari mediante altre formule alchemiche quali piani complessi, accordi di programma, accordi di pianificazione e così via, che avvengono in barba ad ogni principio partecipativo; cito, a titolo di esempio, la vicenda della Città Viola a Firenze (Della Valle-Fuksas), su cui un assessore che si azzardò a dissentire venne dimissionato in un giorno, massima espressione evidentemente della democrazia partecipativa;

• un modo di intendere la legge come se essa non avesse il compito di accompagnare e regolare la crescita e le necessità della società invece che precorrerla e indirizzarla, ponendola cioè a valore di fondo e faro della società stessa, in maniera esattamente corrispondente alle visioni politiche dell'integralismo religioso. Vorrei ricordare, però, che la nostra società occidentale, libera e democratica, è permeata, tra gli altri, dal rivoluzionario principio cristiano che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. In altre parole la legge non è destinata a schiavizzare l’uomo ma, al contrario, è la legge che deve stare al servizio dell’uomo.

Le nostre leggi sono diventate un ostacolo da superare e la maggior parte delle energie vengono consumate proprio per questa corsa a ostacoli. Così facendo si alimenta certamente la voglia di scorciatoie e il principio che le leggi, e lo stato, sono comunque un problema. Se questo avviene non significa che la società è malata ma che le leggi sono sbagliate.
Quali ne siano le cause è difficile dirlo ma di certo, una volta tanto, i politici c’entrano poco, o meglio hanno solo la colpa di non aver capito in tempo che oggi il potere legislativo è quasi esclusivamente nelle mani dei funzionari e dei tecnici. La tecnica, una cattiva tecnica, prevale sulla politica.

Di sicuro l’urbanistica ha del tutto perso il suo scopo fondamentale, quello cioè di dare forma alla città. Le procedure dovrebbero essere solo il metodo per dare forma giuridica al disegno della città e invece avviene l’operazione inversa, e allora accade che le norme urbanistiche scritte – molto male in genere – prevalgono su tutto, segnando e disegnano le trasformazioni urbane: destinazioni di “zona”, destinazioni di singoli edifici, regole “casa per casa”, come avviene nella operazioni militari e ovviamente sbagliate, numeri che si accavallano, commi e sub commi con inestricabili rimandi dall’uno all’altro. Invece che la replicazione dei tessuti urbani abbiamo norme comunali che replicano il metodo delle leggi regionali di riferimento. Questa trasmutazione della regola, Caniggia non l’aveva prevista né la poteva prevedere, avendo egli studiato la città, non la Legge.
La realtà si perde e resta solo la norma astratta, autoreferenziale e fine a se stessa, la quale però qualcosa produce di reale: zonizzazione, edifici assurdi e sbagliati, sfiducia nella legge, ostacoli da superare.

Guardando il video di Léon Krier del post precedente e osservando le immagini proiettate sullo schermo, si vedono, invece, disegni, planimetrie, schemi simbolici che rimandano a concetti, in una parola: “sintesi di un'idea” resa in forma grafica, cioè il mestiere dell’architetto. Quei disegni dovrebbero essere la base del piano, con le norme a fungere da strumento di servizio per renderle attuabili.

Invece no: in urbanistica l’uomo è fatto per il sabato e poiché l’urbanistica è la politica, cioè l’arte di amministrare la città, ne deriva che la nostra, o almeno quella toscana, è una società autoritaria e anti-umana.

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4 luglio 2010

LEON KRIER A ROMA: LA FORZA DELLE IDEE

Mi era completamente sfuggito questo video girato a Roma durante il convegno Trasformazione Urbana tenutosi ad aprile, quello delle archistar, per capirsi.

Impossibile non subire il fascino che Lèon Krier promana, dovuto senza dubbio alla capacità di esprimere concetti semplici e allo stesso tempo forti e scandalosi. La semplicità dà scandalo nel mondo dell'architettura, per il fatto che semplicità significa chiarezza e forza di idee, almeno nel caso di Krier. L'architettese non gli appartiene, perché spesso dietro questo assurdo gergo si cela il vuoto di idee. Provate a leggere un'intervista qualsiasi a Peter Eisenmann e poi cercate di decifrarla e spiegarla con parole semplici ai vostri figli. Oppure a Renzo Piano che, viceversa, parla in maniera semplice, ma è come scrivere sull'acqua.
Gli applausi scroscianti in sala ne sono una prova evidente. Una sola piazza italiana in un quartiere pedonale, l'assurdità di tre sale di musica insieme, la monumentalità che non è altezza ma gerarchia tra i piani, l'urbanistica che prevale sull'architettura, la trama urbana che prevale sull'oggetto.
C'è poco da fare: i suoi progetti potranno anche non piacere, ma le sue idee sono forti, chiare, semplici. Più difficile ne è l'applicazione rigorosa in una società democratica, ma almeno lui ne è consapevole e lo dice chiaramente.

Tanto che ci sono, questo è link di un'altra conferenza di Lèon Krier a Rotterdam, Istituto Berlage, che consiglio di guardare:
The compact city


Credits:
Il video di Léon Krier è tratto da UNIROMA TV

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16 giugno 2010

IL FUTURO TORNA ALL'ANTICO

Pietro Pagliardini

L’architettura che verrà avrà sempre meno tecnologia. La parte di tecnologia presente, lo sarà in maniera meno evidente: sarà più legata la materia e meno alla pompa, useremo dei materiali che faranno un uso selettivo dei raggi solari, dei materiali assorbono l’umidità, che trattengono l’energia.
Andremo verso l’opacizzazione dell’involucro edilizio e l’architettura non sarà più prigioniera della tecnologia.

In campo urbanistico lo spazio pubblico non è uno spazio libero, è uno spazio controllato che gli abitanti della città prediligono rispetto allo spazio aperto naturale.
Chi ha pronunciato queste “profetiche” frasi? Lèon Krier? Ettore Maria Mazzola? Nikos Salìngaros? Carlo d’Inghilterra? Un esponente del New Urbanism?


No, Mario Cucinella, il guru italiano della tecnologia “verde” in architettura. Ho tratto queste frasi da un articolo su Italia Oggi. Anche Kipar, che onestamente non conosco, è in sintonia con quanto affermato da Cucinella.
Una inversione a U, un ripensamento totale. Anche se ancora resta un margine di “modernità”, una scoria, o una via di fuga, in quel sottolineare l’aspetto tecnologico dei materiali.
E’ inevitabile chiedersi il perché di tale svolta, da accogliere senz’altro con favore e soddisfazione.
Tralascio le ipotesi più maliziose, quali una pur legittima operazione di marketing per coprire una fascia di mercato evidentemente in espansione, oppure uno studio più accurato di un po’ di fisica tecnica, scienza niente affatto nuova che attribuisce alla massa e alla sua inerzia termica una buona parte della capacità di isolamento termico, sia in estate che in inverno, oppure l’inverno freddo e piovoso e le ultime notizie sul global-warming di origine antropica con l'uscita di scena di Al Gore, che contribuiscono a creare un clima meno ideologico e un approccio più razionale al problema ambientale, più che climatico, che pure esiste.

Non sarò certo io a condannare chi cambia idea, specie se l’ultima è quella più vicino al vero (non ci si può appellare alla scienza e poi smentirla progettando edifici di vetro e facendoci pure fortuna). L’augurio è che la svolta sia autentica, e non ci sono motivi per dubitarne, data anche l’occasione in cui è stata annunciata (Milano. Festival dell’Ambiente).

Di particolare interesse poi sono le affermazioni sulla città e sui “gusti” dei cittadini, sulle loro predilezioni. Pur essendo i toni, almeno nel resoconto giornalistico, alquanto sfumati e il linguaggio immaginifico, da guru appunto, il senso è abbastanza intuibile: la città di cui si parla assomiglia molto a quella tradizionale, fatta di pieni e non di vuoti, di costruzioni e non di solo verde. Manca molto ancora per definire una città, ma quel poco che viene detto è già qualcosa: niente case in mezzo al vuoto ma una sequenza di spazi continui costruiti ma anche ricchi di verde non indistinto. Una svolta dunque piuttosto coerente con una visione fortemente unitaria tra urbanistica e architettura. Perché l’ha fatta? Davvero mi auguro, ma è sempre in agguato la smentita, che vi sia un clima culturale e ambientale favorevole a queste idee, tanto più importante nel mondo ambientalista che spesso, anche a causa delle semplificazioni giornalistiche, è presentato più come un insieme di slogan e parole d’ordine che non con idee chiare e definite nel campo urbano. Invece ambientalismo e tradizione devono andare di concerto, perché c’è accordo nei fatti.
Temi come quello della densificazione e del contenimento della crescita urbana devono diventare patrimonio comune, inseriti però in una visione in cui la città deve essere considerata una grande risorsa, l’ambiente di vita dell’uomo e il luogo delle relazioni sociali, rifuggendo errori quali i grattacieli più o meno (molto meno) ecologici ma riscoprendo che i nostri centri storici sono densi, vitali e ambientalmente sostenibili.

Una conseguenza collaterale ma per me intrigante è che d’ora in poi, quando verrò accusato di antichismo, reazione, conservazione e tutte le altre contumelie possibili, potrò citare, per coloro che necessitano della certificazione di qualche guru (Maestro, archistar, ecc) senza i quali, evidentemente, non riescono a pensare, potrò citare anche Mario Cucinella nel mio personale albero genealogico, e la cosa davvero mi fa presagire future soddisfazioni.
Come dice il proverbio cinese, mi siederò sulla riva del fiume ad aspettare che passi anche Stefano Boeri, non cadavere, evidentemente, ma convertito dal futuro di agricoltura urbana e di boschi verticali al futuro che affonda le sue radici nel passato.

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3 febbraio 2010

GRATTACIELI

Ho ricevuto questo disegno di Lèon Krier. I disegni di Krier sono parte integrante, e talvolta esaustiva, del suo pensiero. Questo fa parte della lotta che lui conduce al grattacielo come arrogante espressione del rifiuto della natura della città.
E’ un disegno provocatorio e anche urticante, che rievoca un fatto che ha segnato e segnerà ancora per molto tempo la storia di questo inizio del secolo, ma è chiaramente la metafora della fragilità intrinseca di questa tipo edilizio portato oggi alle estreme conseguenze. Ci sono aerei che attaccano, ma potrebbe esserci un incendio, un terremoto, un black-out; situazioni estreme, ma niente affatto improbabili, che in un grattacielo si trasformano in tragedia.



Links:

Sul concetto di Insurance Liability vedi il post Qualche numero interessante sui grattacieli.

Il futuro delle città: l'assurdità del Modernismo - Nikos Salìngaros intervista Léon Krier

Nikos Salìngaros: Grattacieli, un'epidemia mondiale

Ettore Maria Mazzola: Attualità di Giovannoni sui grattacieli

Lucien Steil: La ricostruzione di Manhattan senza grattacieli!

Camillo Langone: L'ANTICRISTO ABITA AL 53° PIANO

De Architectura: Grattacieli sostenibili e sostenuti

De Architectura: Il grattacielo famelico

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6 dicembre 2009

UNA CITTA' DIVERSA E' POSSIBILE: LEON KRIER E PIER CARLO BONTEMPI (2)

Pietro Pagliardini

Continuo la pubblicazione di alcuni documenti e progetti del workshop del 2002 su Arezzo redatti dall’Arch. Pier Carlo Bontempi. Inizio con un estratto dalla relazione di presentazione del progetto.
Pier Carlo Bontempi racconta di una sua visita privata, con famiglia, ad Arezzo e descrive il panorama che si vede dalla sommità della città:

Bene, guardando il panorama verso nord i miei figli hanno commentato dicendo: “ma qui è bellissimo, non si vede la città moderna”.
Questo mi ha fatto riflettere su una grande opportunità che Arezzo ha, forse unica fra le città di una certa dimensione in Italia, di aver potuto mantenere almeno in una sua parte il fantastico rapporto che doveva esistere in tutte le città italiane fra la città murata e il paesaggio della campagna
.



Questo grande valore che avete il dovere di tramandare ai vostri figli così che possa continuare la piacevole sorpresa, che c’è stata per i miei, di vedere ancora tra cento, duecento o trecento anni questa porzione di campagna , che arriva fin sotto le mura della città e che costituisce uno spettacolo straordinario. Mi perdoni il sindaco che ha citato personaggi illustrissimi che hanno lavorato ad Arezzo, ma è forse la cosa più unica che avete ad Arezzo; affreschi bellissimi ci sono in altre città, Cimabue ha fatto qualche altro crocefisso altrettanto straordinario, ma una porzione di paesaggio quasi incontaminato, o che può tornare ad esserlo, fin sotto le mura di una città di grandi dimensioni come la vostra, forse non esiste in nessun altro luogo in questo straordinario paese.






Sono stato anche abbastanza fortunato quando Calthorpe ha deciso, discutendo insieme a noi, quale dovesse essere il tema che toccava a me sviluppare in questa settimana di lavoro, di assegnarmi questa porzione di città che guarda a nord verso la campagna.

L’idea che mi è venuta affrontando questo tipo di tema è stata quella di non trattare questa zona come un quartiere urbano, ma di considerare quella zona, la Catona, piuttosto come l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica.
Per questo il disegno credo sia abbastanza rappresentativo della idea che ha guidato il mio lavoro, cioè quella di circoscrivere l’abitato esistente all’interno di una cintura verde e arrivare ad una sua definizione per dargli maggiore qualità, perché se andiamo a vederlo dall’alto delle mura ci appare bello, se andiamo a percorrerlo per le strade, ci appare ancora con qualche problema da risolvere.







Allora il mio tema è stato quello di definire in maniera precisa l’insediamento come un paese di campagna, che si accosta vicinissimo città ma il cui linguaggio rimane separato dalla città. (Omissis)
Credo che l’immagine possa servire a suggerire il tipo di architettura che mi permetto di indicare come proposta per gli sviluppi edilizi nuovi all’interno di questo, che deve mantenere il carattere di un paese. E’ una edilizia che riprende il patrimonio straordinario che avete nelle vostre campagne, che lo adatta in funzione delle necessità contemporanee ma che cerca di dare una risposta in sintonia con il paesaggio straordinario che deve accoglierlo”.






L’aspetto che Bontempi coglie del rapporto stretto tra la città e la campagna nel lato nord di Arezzo è una costante in tutte le osservazioni e le descrizioni che i viaggiatori hanno lasciato della città fin dall’800. La forma a ventaglio di Arezzo il cui lato nord è segnato dalle mura che marcano ancora il confine reale e visibile tra città e campagna è stata colta sempre anche dai redattori dei piani urbanistici. Il vigente piano di Gregotti e Cagnardi aveva chiamato questa parte nord “I giardini di Arezzo”, lasciando un cono libero che partiva dalle mura fino alla corona di colline che racchiudono la piana di Arezzo a nord, proprio per mantenere e conservare questo carattere unico e distintivo della città che non si è espansa in quella direzione per motivi geografici, climatici e di rapporti territoriali.

Anche il consulente del Piano strutturale, Peter Calthorpe, ha individuato subito questa caratteristica peculiare e straordinaria, descrivendola, con l’entusiasmo tipico del viaggiatore americano, come la possibilità, dalle case del centro storico, di sentire ancora il canto del gallo (citazione a memoria).

E’ davvero una percezione immediata e istintiva che non necessita nemmeno di essere razionalizzata in chissà quali ragionamenti per essere dimostrata vera: è l’essenza stessa della città di Arezzo, orientata a sud, aperta ad est e ad ovest, ma chiusa a nord.

Ma non c’è niente da fare, nonostante questa evidenza c’è una scuola di pensiero, chiamiamola così, che ritorna ciclicamente ed è convinta che quel vuoto a nord sia una mancanza invece che una risorsa e che la città debba essere “richiusa a nord, come tutte le altre città”. Eppure questa espressione dovrebbe far venire il dubbio che forse sarebbe meglio conservare questo carattere distintivo della città. Questa scuola di pensiero ha evidentemente lavorato bene, tanto da fare accettare allo stesso Calthorpe il fatto di costruire in quella direzione.

Pier Carlo Bontempi si inserisce in questo dibattito con un compito ben preciso che è quello di dare forma al nuovo insediamento e lo fa in maniera egregia, cogliendo questa contraddizione e tentando di risolverla con un progetto che è “l’ultimo paese della campagna che si avvicina alla città, anziché un nuovo quartiere urbano che si espande e che chiude la cintura moderna intorno alla città storica”. Evidentemente ha capito che quell’insediamento è una scelta sbagliata, e come lui Calthorpe, e lucidamente tenta di limitare il danno.
Purtroppo la forte vicinanza alle propaggini della città, a quella fascia di edificato disordinato che lui garbatamente descrive come un’area che “ci appare ancora con qualche problema da risolvere” impedirebbe comunque di leggerlo come l’ultimo paese prima della città, non essendo nemmeno orientato lungo la direttrice d’ingresso.
Il vero problema è che non si sarebbe mai dovuto costruire in quel luogo, tantomeno incrementare l’insediamento.

Ma, restando all’interno di questo equivoco, il progetto è comunque significativo per la capacità di integrare l’esistente con il nuovo e di creare un villaggio che ha una sua autonomia urbanistica, un centro, una rete di strade continua e gerarchizzata e orientata in modo da lasciare visuali libere verso il paesaggio e verso le mura. Il problema è che dubito che sarà realizzato con questo impianto o con uno simile, tenuto conto delle inclinazioni culturali del redattore del piano, subentrato a Calthorpe che è stato ritenuto evidentemente un ostacolo, di genere del tutto diverso, altrimenti questi progetti sarebbero stati tirati fuori e mostrati.

L'assoluta casualità ha determinato il fatto che ad Arezzo si concentrasse il meglio del New Urbanism e di quel movimento europeo che punta alla riscoperta dell’urbanistica e dell’architettura tradizionale -Calthorpe, Lèon Krier, Per Carlo Bontempi- la volontà comune ad amministrazioni di diverso colore che si sono succedute ha voluto che quell’anomalia fosse cancellata a vantaggio di un’urbanistica burocratica senz’anima e senza altro scopo che non sia il controllo totale sui cittadini e sui processi naturali che regolano la crescita della città.


CREDITI:

La foto aerea è tratta da Google Earth. Le immagini dei progetti di Léon Krier e Pier Carlo Bontempi sono fotografie da me eseguite durante l'esposizione al workshop. Gli stralci delle relazioni sono state ottenute sbobinando registrazioni da me fatte durante la presentazione.

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