Quando una città decide di dotarsi di un nuovo strumento urbanistico generale, il primo problema da affrontare non è il merito delle scelte da compiere ma le procedure da seguire. Non a caso, il primo atto da compiere si chiama: “avvio del procedimento” e non “avvio del progetto”.
Le leggi entro cui ci dobbiamo muovere hanno di gran lunga superato la soglia del pur difficile punto d’equilibrio tra volontà dell’agire e limite procedurale all’agire stesso, affinché la crescita avvenga a vantaggio della comunità dentro il quadro del rispetto della legge e della salvaguardia e conservazione del territorio e dell’ambiente.
Quella soglia si supera nel momento in cui, per la caoticità delle leggi e della loro pratica applicazione, una comunità si viene a trovare nella quasi impossibilità di poter andare avanti, paralizzata come è dall’alternativa tra il rischio di potenziali ricorsi per la non conformità a regole assurde e difficilmente interpretabili, e quella di doversi dotare di uno strumento che risponde alla Legge ma non ai bisogni e ai desideri della comunità stessa e ad un corretto disegno della città.
Oramai si è consolidata una regola generale in base alla quale le scelte di piano sono, lungo tutto l'iter, condizionate molto poco dai contenuti e moltissimo da leggi e procedure. Ma ben più gravi ancora sono gli effetti di questa regola sulla cultura di architetti e amministratori, tutta pervasa da termini giuridici e formali, dove le scelte di merito restano sullo sfondo, sopraffatte come sono da assurde e improbabili procedure formali.
Il piano è ridotto ad un groviglio inestricabile di termini e formule alchemiche dietro cui si nascondono due fatti:
• un declamato rispetto dell’ambiente e della partecipazione, salvo poi commettere le peggiori e più grosse operazioni immobiliari mediante altre formule alchemiche quali piani complessi, accordi di programma, accordi di pianificazione e così via, che avvengono in barba ad ogni principio partecipativo; cito, a titolo di esempio, la vicenda della Città Viola a Firenze (Della Valle-Fuksas), su cui un assessore che si azzardò a dissentire venne dimissionato in un giorno, massima espressione evidentemente della democrazia partecipativa;
• un modo di intendere la legge come se essa non avesse il compito di accompagnare e regolare la crescita e le necessità della società invece che precorrerla e indirizzarla, ponendola cioè a valore di fondo e faro della società stessa, in maniera esattamente corrispondente alle visioni politiche dell'integralismo religioso. Vorrei ricordare, però, che la nostra società occidentale, libera e democratica, è permeata, tra gli altri, dal rivoluzionario principio cristiano che “il sabato è fatto per l’uomo e non l’uomo per il sabato”. In altre parole la legge non è destinata a schiavizzare l’uomo ma, al contrario, è la legge che deve stare al servizio dell’uomo.
Le nostre leggi sono diventate un ostacolo da superare e la maggior parte delle energie vengono consumate proprio per questa corsa a ostacoli. Così facendo si alimenta certamente la voglia di scorciatoie e il principio che le leggi, e lo stato, sono comunque un problema. Se questo avviene non significa che la società è malata ma che le leggi sono sbagliate.
Quali ne siano le cause è difficile dirlo ma di certo, una volta tanto, i politici c’entrano poco, o meglio hanno solo la colpa di non aver capito in tempo che oggi il potere legislativo è quasi esclusivamente nelle mani dei funzionari e dei tecnici. La tecnica, una cattiva tecnica, prevale sulla politica.
Di sicuro l’urbanistica ha del tutto perso il suo scopo fondamentale, quello cioè di dare forma alla città. Le procedure dovrebbero essere solo il metodo per dare forma giuridica al disegno della città e invece avviene l’operazione inversa, e allora accade che le norme urbanistiche scritte – molto male in genere – prevalgono su tutto, segnando e disegnano le trasformazioni urbane: destinazioni di “zona”, destinazioni di singoli edifici, regole “casa per casa”, come avviene nella operazioni militari e ovviamente sbagliate, numeri che si accavallano, commi e sub commi con inestricabili rimandi dall’uno all’altro. Invece che la replicazione dei tessuti urbani abbiamo norme comunali che replicano il metodo delle leggi regionali di riferimento. Questa trasmutazione della regola, Caniggia non l’aveva prevista né la poteva prevedere, avendo egli studiato la città, non la Legge.
La realtà si perde e resta solo la norma astratta, autoreferenziale e fine a se stessa, la quale però qualcosa produce di reale: zonizzazione, edifici assurdi e sbagliati, sfiducia nella legge, ostacoli da superare.
Guardando il video di Léon Krier del post precedente e osservando le immagini proiettate sullo schermo, si vedono, invece, disegni, planimetrie, schemi simbolici che rimandano a concetti, in una parola: “sintesi di un'idea” resa in forma grafica, cioè il mestiere dell’architetto. Quei disegni dovrebbero essere la base del piano, con le norme a fungere da strumento di servizio per renderle attuabili.
Invece no: in urbanistica l’uomo è fatto per il sabato e poiché l’urbanistica è la politica, cioè l’arte di amministrare la città, ne deriva che la nostra, o almeno quella toscana, è una società autoritaria e anti-umana.
8 luglio 2010
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