Al momento della scelta dell'indirizzo di questo blog, dopo una serie di tentativi a vuoto alla ricerca di un nome semplice e pertinente, la sorpresa: "regola" era libero! L'architettura è oppressa da leggi e regolamenti, i termini più altisonanti della "creativa" cultura architettonica erano già occupati ma una parolina così semplice e antica e comprensibile da tutti, cioè "regola", era libera!
Questo blog parla appunto di "regole" contro la sregolatezza architettonica.


23 dicembre 2012

BUON NATALE A.....

A tutti i lettori di questo blog
a chi commenta
a chi non commenta per motivi suoi
a chi manda contributi
a chi non li manda perchè non li vuole mandare
a chi è d'accordo con me
a chi non è d'accordo con me e lo dichiara
a chi  non è d'accordo e se ne frega di dichiararlo
ai modernisti educati
ai modernisti moderatamente educati
anche a quelli maleducati perchè a Natale bisogna essere buoni
agli architetti che vivono un brutto momento
a molti dei quali augurerei di passarlo in tempi normali ma non in questo
ai giovani architetti per legge naturale presuntuosi
ai giovani architetti presuntuosi a causa dei loro Maestri
a tutti gli amici
ai miei familiari praticamente ignari dell'esistenza di questo blog
Auguro Buon Natale
Pietro Pagliardini

Andrea della Robbia: Natività - Basilica di San Francesco- La Verna, Chiusi della Verna  (AR)


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19 dicembre 2012

SULLA PRESUNTA "RIQUALIFICAZIONE ARCHITETTONICA E ARTISTICA"- PIAZZA VERDI A LA SPEZIA

Sulla presunta "Riqualificazione Architettonica e Artistica" Piazza Verdi a La Spezia
di
Ettore Maria Mazzola



Premessa

Nello sconfinato patrimonio artistico italiano non v’è manifestazione artistica che non risulti passata in rassegna. Dalle opere rupestri dei popoli preistorici a quelle delle popolazioni italiche preromane, dall’impressionante mole di opere lasciateci dai romani fino alle manifestazioni futuriste, il nostro Paese vanta un patrimonio che nessun altro luogo del pianeta può avvicinare!

… Ciò nonostante, un certo genere di artisti e architetti suppone che il nostro patrimonio necessiti di una riqualificazione!

Il motivo di questa supposizione risiede nel disastro accademico post bellico che, specie a partire dai primissimi anni ’60, ha portato l’insegnamento a divenire profondamente ideologico … nonostante le promesse libertarie, ergo profondamente ignorante. Ecco quindi che la storia, laddove sia stata insegnata, risulta esser stata vergognosamente manipolata a tutto vantaggio di una presunta élite colta che ha gradualmente acquistato un potere infinito in materia decisionale. In questo contesto, la gente comune è dunque stata costretta a subire ciò che quell’élite le imponeva dall’alto (o dal basso … fate un po’ voi) delle proprie conoscenze!

Tutto ciò ha gradualmente generato tre categorie di persone: 1) coloro i quali restano spaesati ma accettano passivamente; 2) coloro i quali – per snobismo – per non sentirsi estromessi da quell’élite, fingono di comprendere ciò che non ha alcun significato; 3) quelli che si ribellano a questi soprusi unendosi in comitati di quartiere, e/o in associazioni a difesa del patrimonio artistico e ambientale, scendendo in piazza per manifestare contro le violenze che si intendono infliggere al territorio.

Rendering del progetto per Piazza Verdi a La Spezia. Artista: Daniel Buren _ Architetti: Arch. Giannantonio Vannetti (Capogruppo) con Arch. Christian Baglioni, Arch. Elena Ciappi, Arch. Claudio Dini, Arch. Franca Cecilia Franchi. Collaboratore: Emiliano Lascialfari

Volendo dare una definizione a queste tre categorie potremmo definire la prima quella degli abulici i quali – con il loro immobilismo – consentono all’élite di fare i propri sporchi interessi; la seconda categoria è invece quella degli intellettualoidi che fingono di intendere ciò che non ha alcun significato; l’ultima è invece quella degli intellettualii quali, per ovvie ragioni culturali, rifiutano che una presunta élite, arrogante ed ignorante, possa sfregiare a proprio piacimento il patrimonio.

C’è da dire che molti architetti, specie quelli più giovani, agisce in totale buona fede! Essi infatti, si sono formati in Facoltà Universitarie dove l’omogeneità dei corsi ha praticato una sorta di lobotomia che impedisce loro di poter divergere dalla “cultura egemone”.

Per meglio comprendere il significato di questo concetto è utile, per analogia, rileggere un breve passaggio della lettera scritta nel 1885 da Giulio Magni a Raimondo D’Aronco: «[…] colui che deve lavorare si trova nel bivio difficilissimo se cioè fare come la ragione lo guida o come il generalizzato sentimento gli impone […] affrontare l’impopolarità è certo un eroismo e chi si sente forte nella battaglia da combattere, scenda in campo con quel coraggio che dà la sicurezza della vittoria. E noi giovani che coltiviamo questo ideale nella nostra mente, dobbiamo difenderlo e sostenerlo con tutte le nostre forze, studiando alacremente con la ferrea volontà di riuscire!»

… Peccato quindi che i giovani di oggi non abbiano alcuna voglia di combattere. A differenza dei tempi di Magni e D’Aronco infatti, la nostra società è permeata dal consumismo a tutti i livelli, sicché anche l’arte e l’architettura vengono intenzionalmente confusi con manufatti usa e getta che non richiedono alcuno sforzo intellettuale (anche se poi ci si costruisce intorno una spiegazione, pseudo-intellettuale, atta a far credere che sia bella e sostenibile un’opera orrenda e insostenibile). Niente regole, siamo artisti contemporanei! Se non ci capite non è colpa nostra … siete ignoranti!

In un clima del genere, va da sé che chi ami confrontarsi con le regole classiche e col rispetto dei luoghi dia fastidio e debba essere condannato al silenzio per evitare che la gente comune possa fare un confronto. Ma la gente comune è stufa di queste battaglie ideologiche!

L’intervento di La Spezia

La Spezia può, senza ombra di dubbio, definirsi una capitale dell’Italia Liberty e Decò, una splendida realtà dove gli ultimi grandi episodi dell’arte e dell’architettura che possano annoverarsi nei libri di storia hanno generato un incantevole unicum italiano. In questo unicum sorge anche la Piazza Verdi, un luogo che, a causa delle trasformazioni del 1933, risulta difficile poter ancora definire “piazza”. Tuttavia, data la forza del carattere, unitario ma non uniforme, degli edifici che la definiscono, è senz’altro un luogo che possiamo ritenere abbondantemente “qualificato”.

Di qui lo stupore, e la rabbia, dei tanti cittadini spezzini che hanno appreso della prossima realizzazione di un intervento di "Riqualificazione Architettonica e Artistica".

L’ipocrisia delle parole che hanno accompagnato il progetto, parole che meritano di essere discusse con la cittadinanza per comprenderne la veridicità, non ha fatto altro che ingigantire il senso di rifiuto da parte della cittadinanza rispetto a quest’opera inutile quanto brutta.

Sebbene nel testo si parli di “ridurre drasticamente il carico del traffico veicolare urbano” (unico argomento condivisibile), guardando il progetto si comprende che la “piazza” verrebbe a configurarsi come una lunga isola delimitata dal traffico veicolare: quantunque si possa supporre una limitazione al solo transito del trasporto pubblico, ci si troverebbe comunque davanti ad un’esplanade più che a una piazza, che non presenta alcuna protezione totale dai veicoli su almeno uno dei suoi lati; una spianata che non presenta alcun senso di contenimento dello spazio stesso, ovvero priva del senso ultimo della piazza italiana. Il progetto, più che ad una piazza italiana è assimilabile a quegli orribili spazi sconfinati che gli americani chiamano “plaza”.

La Spezia - due immagini storiche che ritraggono il Teatro Politeama di Pontremoli demolito nel 1933 quando fu realizzato l’edificio postale di Mazzoni. Il teatro, facendo da sfondo all’asse di via Chiodo, creava uno spazio concluso che definiva la piazza

Prima della demolizione del Politeama, teatro che faceva da fondale a via Chiodo, e nonostante le dimensioni della strada, lo spazio veniva a configurarsi come una piazza ottocentesca italiana, risultando perfettamente coerente con l’urbanistica e l’architettura del periodo. Perché quindi ignorare aprioristicamente il passato?

I progettisti, piuttosto che trincerarsi nella loro visione, personale e distorta, della modernità, e affermare di voler dare a quel luogo una “definizione di ordine spaziale non monumentale ma ludica”, oppure di sottolineare che “nella nuova immagine del progetto non vi è nostalgia del passato ma fiducia nel tempo che avanza rinnovandosi”, avrebbero potuto riflettere sul codice genetico delle piazze italiane … il che non equivale ad essere nostalgici del passato – se mai questo fosse un problema – ma realizzare uno spazio decoroso per quel luogo e riconoscibile come piazza!

La piazza dovrebbe essere un luogo accogliente e protetto, un luogo coerente con l’intorno, dove viene ad instaurarsi un rapporto privilegiato di relazione tra lo spazio aperto e uno o più edifici emergenti lungo il suo perimetro.

La decisione di non rispettare l’ordine spaziale esistente, creandone uno nuovo “ludico” (ove 14 discutibili portali verdi e rossi – all’interno dei quali ci saranno dei nebulizzatori d’acqua – e vasche allagate intransitabili se non con sistemi di guado), trasformerà questo simbolico luogo spezzino in un pessimo esempio di kitsch, degno dei peggiori outlet che infestano l’Italia … e menomale che i progettisti avevano voluto ribadire di non voler scadere nella falsificazione storica e nella “nostalgia”! Ma cos’è più falso?

Piuttosto che temere di essere “nostalgici”, i progettisti avrebbero potuto immaginare come rendere maggiormente fruibile e sicuro lo spazio pedonale, magari limitando lo stesso volume di traffico veicolare che intendono mantenere lungo il lato mare, proteggendo quindi la piazza lungo il lato dell’ufficio postale mazzoniano; soprattutto, se avessero studiato meglio lo spazio dotato di fondale prima del 1933, avrebbero potuto trovare l’ispirazione (non nostalgica) per comprendere come oggi risulti indispensabile frazionare quello spazio a monte e a valle, creando degli episodi costruiti che facciano da quinta scenica – ovviamente aperta per mantenere l’importanza dell’asse strutturante di via Chiodo/via Vittorio Veneto – alle tre piazze, delimitate dalle vie Niccolò Tommaseo, Pietro Micca e XX Settembre, tre piazze che risulterebbero relazionate agli edifici prospettanti su di esse.

La verità è che, nella totale incapacità di dialogare con il passato, certi progettisti preferiscono intraprendere delle battaglie – perse in partenza, agli occhi della stragrande maggioranza della gente – nelle quali giustificano, in maniera poco credibile, delle opere fini a se stesse come opere di “riqualificazione”. Nel caso in oggetto, la giustificazione vedrebbe La Spezia come “la rappresentazione di una profonda aspirazione alla modernità” … Ma la modernità è ben altra cosa che non il modernismo! … non è che questa aspirazione risulti solo appannaggio dei progettisti?

Nell’infinita serie di punti discutibili di questo progetto, c’è la scelta di coinvolgere Daniel Buren, un “artista” già resosi responsabile di numerosi scempi in giro per il mondo, primo tra tutti l’abominevole serie di rocchi di colonne scanalate bianche e nere, disposti nel cortile d’onore del Palais Royale di Parigi, un’opera orrenda che nessun parigino sano di mente ha mai compreso, né amato; una sorta di pista con paracarri per svolgere una gimkana con i go-kart all’interno di un luogo splendido della Ville Lumière. … Ma che in Italia non avevamo artisti disponibili?
Parigi – Il cortile d’onore del Palais Royale ormai inutilizzabile grazie all’orribile e costosa installazione di Daniel Buren

In pratica, come già accaduto per il Palais Royale, l’operato di questo artista, coadiuvato dagli esterofili progettisti nostrani, porterà Piazza Verdi a non essere più fruibile dagli esseri umani, perché ridotta ad una spianata utile solo alla mostra dei 14 portali – 7 prima e 7 dopo la “piazza scavata” davanti all’edificio postale.

Nella Piazza, i progettisti dicono di voler realizzare una “interpretazione dell’assenza come segno morbido scavato per un teatro centrale” … è arduo comprendere il senso di questa frase, ma è facilissimo capire due cose: 1) i progettisti non conoscono la differenza tra un teatro e un anfiteatro, visto che quello che propongono è un ambiente rettangolare gradonato su tutto il perimetro, ovvero non assimilabile né al primo, né al secondo, e che semmai potrebbe avvicinarsi all’idea di quest’ultimo; 2) un disabile non potrà mai più pensare di potersi avvicinare al centro dell’ambiente, a meno cha non intenda sfracellarsi cadendo dalle gradonate!

… Ma una “piazza” non dovrebbe essere accessibile a tutti?? … E dire che i progettisti hanno perfino affermato che “nel nostro progetto l’arte è intesa come utile, cioè non come pura immagine ma come strumento di realizzazione di spazi fruibili e contemporanei in grado di creare nuove percezioni e riconnessioni ambientali”.

Peccato che il progetto risulti esattamente l’opposto delle loro stesse parole! Ma, si sa, tra i progettisti autoreferenziali non c’è alcun bisogno che tra le parole e i fatti esista una corrispondenza, l’essenziale è poter dire di aver detto certe cose. Del resto loro, in quanto appartenenti all’élite colta, sono i depositari del motto cogito ergo sum, tutti gli altri devono solo assistere al loro essere!

Sempre in materia di mistificazione della realtà, un’ultima annotazione risulta indispensabile. Sebbene infatti sarebbe utile far notare l’assurda affermazione che vedrebbe la nuova Piazza Verdi possedere una “scala tagliata sull’uomo, i cui intenti sono quelli di ricreare un luogo stimolante e di cui riappropriarsi per l’abitare”, è preferibile soffermarci sull’assurda ed ipocrita sostenibilità del progetto.

Nel capitolo intitolato “Comfort Ambientale E Sostenibilità” i progettisti affermano: “Non si dà un progetto di uso se non si realizza allo stesso tempo un livello adeguato di comfort ambientale. L’uso degli elementi naturali: tappeti erbosi, specchi d’acqua e nuove alberature per l’aumento dell’ombreggiatura, contribuiscono al miglioramento del microclima estivo locale secondo i principi della bioclimatica applicata agli spazi esterni. Altri criteri di sostenibilità applicabili sono: - il risparmio idrico attraverso l’uso delle superfici pavimentate per la raccolta e il riuso delle acque piovane per le fontane e l’irrigazione del verde; - l’uso di materiali naturali e locali per le pavimentazioni; - il controllo dell’inquinamento luminoso e l’uso di fonti a basso consumo (led incassati nel pavimento); - progetto sonoro e riduzione dell’inquinamento acustico; - uso di tecniche attive per il raffrescamento estivo (nebulizzatori inseriti nel percorso d’arte)” … Tutto qui? Un po’ pochino per definire il progetto sostenibile!

Come potete comprendere, anche in questo caso, non v’è alcun motivo per cui tra le parole e i fatti debba esserci alcuna corrispondenza … del resto quello della “sostenibilità” è l’argomento più abusato tra i progettisti di oggi. Per un “depositario del verbo” (l’architetto dell’élite colta), ovvero uno abilitato a dire le cose in quanto appartenente alla categoria di “quelli che sanno”, basta usare un termine per farsi bello e fingersi rispettoso. Quando il tempo dimostrerà il fallimento del progetto sotto tutti i profili, come abbiamo visto con altre progettazioni ideologiche in giro per il Paese, la responsabilità non sarà mai del progettista, ma di chi ha realizzato l’opera, oppure degli abitanti ignoranti che non ne comprendono il significato, oppure dell’Italia più in generale!

Ciò di cui non ci si capacita è l’atteggiamento della classe politica … sull’ottusità intellettualoide delle Soprintendenze che danneggiano il patrimonio storico consentendo e incentivando le cosiddette “contaminazioni” siamo ormai rassegnati.

C’è da chiedersi infatti come possa un sindaco, che dovrebbe mirare al più ampio consenso di pubblico, consentire che una sparuta minoranza di persone, senza alcuna cultura ed amore per la città da lui amministrata, possa violentarla a proprio piacimento strafregandosene del malcontento generale.

Eppure anche in Italia, finalmente, sarebbe necessario che per i progetti urbanistici venisse adottato il processo partecipativo con la cittadinanza tutta: dov’è quindi il rispetto della vox populi nel caso di Piazza Verdi?

E non si venga a dire che c’è stata una regolare commissione che ha aggiudicato il vincitore di un concorso, perché i concorsi, chi fa questo mestiere lo sa bene, sono una truffa-culturale gestita dalla presunta élite colta che se li fa e se li canta in nome dell’ideologia egemone.

Oggi come oggi la gente è stufa dei soprusi di questa casta! Se si vuol dare credibilità e consenso ad un progetto del genere, che si faccia una esposizione pubblica di ogni genere di progetto per quel luogo, creando una commissione esaminatrice che rappresenti le volontà popolari, e non solo e soltanto quelle degli architetti e artisti (o presunti tali) … solo allora si potrà vedere chi risulterà il reale vincitore! È sarà con grande sorpresa di tutti scoprire che nessun comitato anti-progetto nascerà più dal nulla.

Italia Nostra, facendosi portavoce del malcontento tra gli spezzini, ha scritto al sindaco invitandolo a comprendere le ragioni del movimento anti-progetto, l’augurio è che il Primo Cittadino si ricordi di essere il Sindaco di tutti i cittadini.

Speriamo quindi che il Sindaco faccia sapere ai suoi cittadini a quale delle tre categorie elencate precedente ritiene di appartenere: Signor Sindaco, Lei è un abulico, un intellettualoide, o un intellettuale?

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9 dicembre 2012

MARIO FAZIO: PASSATO E FUTURO DELLE CITTA'

Il processo di trasformazione del Bel Paese è avvenuto e sta avvenendo in modo sostanzialmente autoritario. Architetti, ingegneri, geometri, progettano su ordinazione di amministratori pubblici e di privati proprietari di aree da sfruttare; i progetti vengono approvati in stanze più o meno segrete. Al cittadino, considerato un “utente” al quale non si devono troppe spiegazioni, non resta che brontolare. Ma la colpa è anche sua se accetta che le decisioni restino nelle mani di pochi.
Dal canto loro gli amministratori comunali non sembrano avvertire il dovere di illustrare piani e progetti in modo documentato e comprensibile, per stimolare la partecipazione democratica (sottolineo l’uso della parola, contro le tentazioni della deriva rinunciataria).

L’esposizione al pubblico di un piano regolatore è una presa in giro: tavole costellate di segni enigmatici, zone a colori diversi. Spesso l’interesse si riduce ad accertare se il proprio terreno sarà edificabile. Manca inoltre nella stragrande maggioranza dei cittadini la conoscenza della storia della città, indispensabile per valutare il rapporto delle nuove costruzioni con quelle del passato. Quanto alle architetture, alle scelte delle forme, il cittadino si sente disarmato e intimidito.


Eppure strutture e forme urbane sono gli stampi in cui si solidificano le vite degli uomini. La città brutta e disgregata è incubatrice di violenza, di conflitti, di sofferenze non valutabili soltanto dal traffico caotico e dagli inquinamenti. La collettività paga prezzi altissimi per il naufragio urbanistico.

Il circuito “autoreferenziale

Sull’architettura contemporanea si è diffusa un’opinione così negativa da provocare una  crescente rivalutazione del passato. Non perché il moderno sia considerato un disvalore in assoluto ma perché i valori della modernità restano soffocati quando gli edifici non riescono a comunicare, quando non rispondono alle esigenze umane.Però gli architetti e i critici di professione ne parlano quasi esclusivamente all’interno di un circuito chiuso. Quello delle riviste, delle mostre, delle Università, dei saggi che in certi casi sembrano “elucubrazioni di architettura verbale” come diceva Giancarlo De Carlo vent’anni fa denunciando il distacco dell’architettura dalla dimensione umana e affermando l’esigenza di “renderla comprensibile, utilizzabile da tutti per generare gioia e identità”.

Gli architetti di fama e quelli che inseguono la fama progettano pensando ai critici e i critici scrivono per gli architetti, usando il linguaggio della critica artistica, come se il progetto di un nuovo quartiere fosse una composizione astratta da appendere a una parete oppure il tema di un gioco intellettualistico. Ma nell’architettura destinata a durare generazioni, condizionando la vita di milioni di esseri umani, l’autore non può appagarsi di concetti e di poetiche personali, imponendo agli “utenti” senza voce stilemi canonizzati con la benedizione di critici e cattedratici. Tangentopoli e l’abusivismo non sono al’origine di ogni male urbano: pesano anche le responsabilità di chi progettava e di chi insegnava a progettare. Soltanto il 4% del costruito porterebbe la firma di un architetto. Il 96% sarebbe dovuto ad altri, prevalentemente geometri. Ma le grandi opere, i quartieri mostruosi, furono progettati da architetti. E per disegnare villette e palazzine i geometri hanno avuto maestri gli architetti, nelle scuole come nella professione.


Questo brano è tratta da Mario Fazio, Passato e futuro della città, Einaudi.
Un libro del 2000 di Fazio, giornalista de La Stampa, scomparso nel 2004. Un libro acquistato ieri al prezzo di L.24.000. Si, ancora c'è stampato il vecchio conio, segno che non vi sono state ristampe dall'introduzione dell'euro. Non ne conosco le ragioni, ma potrei immaginare che l'essere stato Fazio Presidente di Italia Nostra abbia costituito un freno all'acquisto da parte di coloro che vedono questa associazione come un elemento di conservazione. Il libro è invece di qualità, scritto da un giornalista molto documentato che certamente risente, in positivo, della sua esperienza in Italia Nostra e che si pone rispetto al problema città con un atteggiamento molto più avanzato e con maggiore sensibilità di quanto non sappiano fare molti urbanisti e architetti. Si pone il problema del livello decisionale dei cittadini sulle scelte urbane e denuncia l'autoreferenzialità della cultura urbanistica e della casta accademica. Lui stesso fa un richiamo al Tom Wolfe di Maledetti Architetti, ma riferendosi più alla città che all'architettura.
Denuncia il circuito vizioso architetti-critica-Università, anche se a distanza di 12 anni questo si è spostato dal mondo delle riviste, ormai marginali, alla rete, in nulla però cambiando il metodo, semmai essendo peggiorato.
C'è una parte, che ancora non ho letto, espressamente dedicata alle stelle dell'architettura e al fenomeno, ormai sgonfiato, del così detto "effetto Bilbao".

C'è poi la previsione di una città trasformata dal mondo digitale e da Internet, con alcune previsioni azzeccate ed altre meno, in cui si intravvedono i primi germi della smart city, il nuovo fenomeno che si annuncia come una nuova illusione di risoluzione dei problemi urbani.

Propongo alcuni brani di questa "profezia", tenendo conto conto che 12 anni in questo campo sono un secolo e che facebook, ad esempio, è nato nel 2004:

Se la città del “Capitalism rampant” è preoccupante, quello della “città dei bit” non è oggetto di pura curiosità. La rivoluzione elettronica porterà cambiamenti epocali nel modo di lavorare, di comunicare, di abitare, come nei comportamenti sociali. I seguaci della nuova fede, fondata sull’avvento di un mondo dominato dalla telematica, profetizzano ambienti digitali, città virtuali, rapporti umani in cui il software prevale sulla fisicità e il dialogo interpersonale avviene via cavo o via satellite. La “bitsfera” e il “cyberspazio” si sovrappongono alla biosfera e ai paesaggi naturali. L’area informatica cambierà la geografia; sarà sempre meno importante trovarsi in un dato luogo alla data ora. Sarà possibile persino la trasmissione dello spazio steso, secondo i profeti dell’era elettronica.
Non ci saranno più le code per raggiungere il posto di lavoro, essi dicono, perché si lavorerà a casa di fronte a un computer. I siti Internet sostituiranno le piazze, i caffè, i punti di ritrovo. Non si andrà più a scuola, a teatro, in chiesa, in banca, al mercato: tutto a casa con rappresentazioni virtuali non affidate alle sole immagini sullo schermo ma anche a sensazioni trasmesse al cervello da impulsi comandati da un tasto……
Le case dovranno essere ristrutturate, per dotare ogni abitante di una piccola nicchia elettronica da cui fare la spesa, seguire le lezioni, lavorare nell’ufficio virtuale, farsi curare con la telemedicina, nuotare nel mare scelto premendo un tasto. E si potrebbe continuare.

Gli stessi profeti ella nuova era si domandano quali siano i fini della rivoluzione annunciata, quali i pericoli per la società civile e l’umanità intera, chi potrebbe e chi dovrebbe controllare il tutto. Quel che sta avvenendo con la diffusione di Internet preoccupa non soltanto i pantofolai e e i moralisti d’occasione. La perdita di funzioni della città, sostituiti da luoghi virtuali, è una minaccia gravissima per le civiltà maturate nei secoli all’interno degli organismi urbani. Non meno grave del pericolo di un “ordine mondiale” a carattere tecnologico. Il presidente della Ecole Spéciale d’Architecture di Parigi, Paul Virilio, intravvede questo ordine mondiale nelle forme di un “nuovo fascismo tecnico e futurista che alla democrazia reale, fondata sull’incontro di individui nell’agorà (piazza, teatro, stadio ecc) sostituisce la democrazia virtuale staccata dalla presenza umana. La democrazia automatica, fatta di tecnica e di pura immagine, con sbocco totalitario”. Come negli incubi di Orwell….
Ancora Paul Virilio, intelligentemente, invita a organizzare la resistenza non perché contrario alle nuove tecnologie ma perché contrario alla virtualizzazione totale che renderebbe irreali le persone, le città, l’eredità storica, con la conseguente morte della cultura e della società. Un mondo privo di specificità locali dove tutto diventa noto in forma virtuale, ridurrebbe l’esistente a oggetto di contemplazione sullo schermo; il patrimonio culturale verrebbe condensato in un catalogo elettronico e omogeneizzato come i cibi della catena MacDonalds.

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